ANTICHI SPLENDORI -il labirinto di Creta e il labirinto di Lemno-

Il labirinto egiziano era ancora conosciuto e visitato ai tempi di Plinio il Vecchio (I secolo); nella vita dell’imperatore Settimio Severo, -regnante dal 193 al 211-, contenuta nell'”HIstoria Augusta” (vita di Settimio Severo, XVII), si accenna ad una visita del sovrano all’enigmatica costruzione durante il soggiorno di questi in Egitto. Cadde poi nell’oblio e di esso si persero le tracce, tanto che sopra di esso sorse un piccolo villaggio. Nel 1670 l’erudito tedesco Athanasius Kircher, grande appassionato e studioso delle antichità egizie, sulla base delle descrizioni riportate dagli autori antichi che abbiamo visto nella parte precedente, tentò una fedele ricostruzione del labirinto che riprodusse in alcuni disegni, pur non avendo mai potuto recarsi nel luogo ove l’edificio doveva trovarsi, disegni riportati nel secondo tomo di “La torre di babele, o Archontologia”, pubblicata nel 1672.

La prima testimonianza diretta su di esso nei tempi moderni è quella dell’esploratore italiano Giovanni Francesco Gemelli Careri (1648-1724) il quale nel “Giro del mondo”, relazione dei viaggi avventurosi da lui compiuti in vari paesi (dal Vicino Oriente, alla Persia, all’India, alla Cina e alle Americhe), pubblicata nel 1699, riferisce di un labirinto sotterraneo che ebbe modo di visitare in Egitto, non lungi dal Cairo. “Usciti dal pozzo [una tomba dove trovavansi sarcofaghi e mummie], gli Arabi ci condussero a vedere un laberinto [sic], dove l’antichità dava sepoltura agli uccelli [questi uccelli sono probabilmente gli Ibis, i sacri volatili egiziani, forse anche i Falchi, nelle spoglie dei quali si immaginavano Horo, Ra ed altri]. Per uno stretto spiraglio calammo in una camera, dalla quale per un buco, con la pancia per terra, passammo in certe strade, in cui si può camminare all’impiedi comodamente: da amendue i lati di queste si veggono urne, dove furono sepolti gli uccelli, nelle quali non si trova altro che poca polvere. Queste strade sono tagliate in una pietra nitrosa e si stendono più miglia, come una città sotto terra, ciò che chiamano “Laberinto”.

Altri viaggiatori che visitarono l’Egitto nel XVIII e XIX secolo accennano nelle loro memorie a rovine di costruzioni dedaliche nei pressi del lago Meride nelle quali credettero di poter riconoscere quanto rimaneva del labirinto descritto da Erodoto; ma fu solo nel 1888 che l’egittologo inglese William M. Flinders Petrie (1853-1942) mentre stava eseguendo scavi ad Hawara nei pressi della celebre piramide rivenne le reliquie di una complessa struttura ipogea che, soprattutto per il numero e la disposizione degli ambienti, sembrava corrispondere alla descrizione fatta da Erodoto. L’illustre archeologo continuò e approfondì poi le sue ricerche sul labirinto nel 1911, scoprendo i frammenti di due colossali statue del faraone Amenemhet III e altri reperti che recavano i nomi del sovrano e della figlia di lui Sobeknefru. I plinti che sostevano le statue di Amenemhet furono riconosciuti come le costruzioni emergenti dal lago di Meride che Erodoto aveva erroneamente creduto piramidi (Storie, II, 149).

Da allora per molti decenni nessun altro ricercatore mise in dubbio che il labirinto descritto dagi autori greci e latini non fosse quello portato alla luce da Flinders Petrie. Fino a che, nel 1996, lo scrittore svizzero tedesco Erich von Daniken, noto per le sue discusse, e discutibili,teorie sugli alieni, in un suo libro intitolato “Gli occhi della Sfinge”, contestò le conclusioni alle quali era giunto l’egittologo inglese, sostenendo che quello da lui scoperto non fosse l’antico labirinto, soprattutto per il fatto che la piramide alta 40 orge sulla quale erano scolpite figure di grandi dimensioni non sarebbe da identificare con la piramide di Hawara, nè il basamento delle statue del faraone con le “piramidi” viste da Erodoto, il quale le avrebbe viste emergere dalle acque del lago a causa di una inondazione e non perchè fossero normalmente sommerse. Von Daniken riteneva inoltre che il lago nei cui pressi si trovava il labirinto non fosse l’attuale Birket Qarun, o quanto meno che quest’ultimo fosse assai più vasto nell’età faraonica. Questo fatto è peraltro assodato, poichè in età tolemaica e romana l’antico lago di Meride fu in buona parte prosciugato.

Per gettare nuova luce sul mistero del labirinto e del luogo ove fosse effettivamente collocato, all’inizio del XXI secolo si decise di riprendere le ricerche nel Fayyum e nel 2008 una spedizione archeologica belga-egiziana guidata da Louis de Cordier, denominata “Mataha Expedition” (poichè in araba egiziano “mataha” signfica “labirinto”), eseguì una completa scansione dell’area posta sotto la piramide di Hawara e nelle sue vicinanze, nella zona sud, rilevando la presenza di numerose paretie strutture murarie poste a circa 2,5 metri di profondità sotto la superficie. Questi muri si rivelarono i ruderi di abitazioni di mattoni crudi risalenti alle età tolemaica e romana. Proseguendo però nella scansione del sottosuolo i ricercatori scoprirono un enorme blocco di pietra che già gli scavi di Petrie avevano in parte portato alla luce. Ma quello che l’archeologo inglese aveva creduto trattarsi del pavimento del labirinto apparve essere in realtà il soffitto dell’enigmatica costruzione, al di sotto del quale si trovano numerosissime stanze, forse migliaia, a conferma di quanto aveva scritto Erodoto nella sua descrizione.

I risultati di tale scoperta furono pubblicati nel 2008 sulla rivista del “National Reserch Institute of Astronomy and Geophisics” ed illustrati poi in una conferenza tenutasi all’Università di Gand; ma poco dopo il dottor Zahi Hawass, -ben noto anche in Italia per le sue numerose apparizioni in trasmissioni televisive di carattere culturale-, allora segretario del Consiglio Supremo delle Antichità d’Egitto, chiese, e ottenne, che la diffusione dei risultati delle ricerche compiute da Hawara fosse sospesa, adducendo motivi legati alla “sicurezza nazionale”.

Codesto intervento dell’autorità politica, invero non nuovo (si vedano al riguardo le resistenze opposte dallo stesso Zahi Hawass a che fossero compiuti scavi sotto e nei pressi della sfinge di Ghiza, di cui abbiamo riferito nella quarta parte di “L’enigma della Sfinge” del 1° settembre 2013), ha impedito che fossero effettuate ulteriori ricerche onde riportare completamente e definitivamente alla luce il complesso del labirinto. Le motivazioni reali dell’ostracismo delle autorità egiziane al proseguimento degli studi sull’affascinate argomento sono tuttora ignote, non si sa se dettate dal timore di uscire dal solco della consolidata tradizione storiografica sull’antico Egitto; dalla volontà di non eseguire scavi che avrebbero comportato costi enormi, -tali che non si potrebbero accollare nè lo stato egiziano, nè, -data l’attuale situazione politico-economica- qualche stato europeo, come avveniva nell’800 e nella prima metà del 900-; oppure dal timore di scoperte imbarazzanti che avrebbero potuto modificare l’idea dell’antico Egitto quale si è tramandata nell’immaginario collettivo.

Mosaico del II secolo da Zeugma, in Asia Minore, che rappresenta Pasifae, Dedalo e Icaro.

Sul labirinto più noto, quello di Creta, Plinio non si dilunga molto, forse perchè era indubbiamente il più familiare ai Romani, riprodotto in un cospicuo numero di mosaici pavimentali dei quali molti giunti ai giorni nostri riscoperti dagli scavi archeologici, nonchè in alcuni giochi infantili. Il naturalista latino si limita a dire che esso era assai meno esteso di quello egizio, che pure era stato di modello alla sua costruzione ad opera di Dedalo, e che, come quello etrusco, ai suoi tempi non ne rimaneva più alcuna traccia. Il labirinto cretese è strettamente legato al mito del Minotauro, il crudele mostro per metà uomo e per metà toro (ma che nella più comune iconografia è raffigurato come un uomo dalla testa di toro) nato dall’innaturale connubio tra Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta, e il toro mandato da Poseidone a quest’ultimo per essere sacrificato al dio delle distese marine. Poichè Minosse non aveva tenuto fede alla promessa di sacrificargli il toro, Poseidone chiese ad Afrodite di suscitare nell’animo di Pasifae l’insana passione per l’animale, per soddisfare la quale la donna si fece fabbricare da Dedalo, famoso artefice ateniese giunto in esilio a Creta dalla città natia, -ove era stato accusato, sembra a ragione, dell’assassinio di suo nipote Talo-, una mucca finta ove ella potè consumare la sua perversa libidine. Dopo la nascita del Minotauro fu costruito il labirinto, un edificio dal quale si pensava che il mostro non avrebbe potuto evadere, costituito da un insieme di corridoi e di circonvoluzioni (1)(2); si noti che, sebbene non venga detto espressamente nelle fonti, dalle descrizioni e soprattutto dal fatto che poi Dedalo e Icaro, quando vi furono a loro volta rinchiusi, riuscirono a fuggire da esso dall’alto è assodato che il labirinto non avesse un soffitto o un altro tipo di copertura.

Per saziare la sanguinaria fame del Minotauro rinchiuso nel labirinto a intervalli di nove anni erano offerti sette fanciulle e sette giovanetti ateniesi, -o addirittura in alcune versioni a scadenza annuale-; questo disumano tributo era stato imposto da Minosse alla città greca per vendicarsi della morte di Androgeo, figlio del re cretese, il quale aveva perso la vita ad Atene mentre partecipava ai giochi atletici, o perchè ucciso volontariamente, o a causa di un incidente, -del quale però Minosse aveva dato la colpa ai cittadini ateniesi-. Già due volte gli ateniesi avevano dovuto piegarsi all’atroce tributo; ma quando si stava appressando il tempo in cui per la terza volta avrebbe dovuto essere consumato tale scempio, il prode e generoso Teseo, figlio del re Egeo, volle unirsi alla triste spedizione per far cessare l’orribile gravame che da troppi anni funestava la sua patria, e con l’aiuto di Arianna, la figlia di Minosse, che gli aveva consegnato un gomitolo grazie al quale, dopo aver compiuto la sua missione, avrebbe potuto ritrovare l’uscita del labirinto, riuscì a scovare il Minotauro e ad ucciderlo. Tuttavia stando ad altre fonti, in particolare il poeta e filosofo cretese Epimenide (VII secolo a. C.), il quale, secondo Diogene Laerzio (“Vite dei filosofi”, I, 109-112), avrebbe scritto tra molte altre opere, -tutte perdute-, un libro su Minosse e Radamanto, Teseo sarebbe stato guidato nella sua uscita dal labirnto dai bagliori di una corona aurea datagli da Arianna, alla quale il prezioso oggetto era stato a sua volta donato da Dioniso (3).

Secondo la versione più conosciuta, quella riportata anche nella “Bibliotheca” dello Pseudo-Apollodoro (Epitome, 1), dopo l’uccisione del Minotauro il re cretese rinchiuse Dedalo e suo figlio Icaro nel labirinto, rimasto privo del suo feroce inquilino, ritenendo l’artefice ateniese responsabile dell’evento, poichè aveva rivelato ad Arianna l’entrata, -e uscita- del labirinto; da lì Icaro e suo padre riuscirono a fuggire per mezzo delle ali fatte con penne e cera -o colla-, da Dedalo (come mai si trovassero nel labirinto delle piume e della cera non viene specificato; per quanto riguarda le penne, si potrebbe ipotizzare che appartenessero a qualche uccello divorato dal Minotauro, il quale evidentemente non poteva nutrirsi solo una volta ogni nove anni quando gli venivano offerti gli sfortunati fanciulli ateniesi). Com’ è risaputo, Icaro, disattendendo le raccomandazioni paterne, volò troppo vicino al Sole, il quale col suo calore sciolse la cera che teneva insieme le ali, così che il fanciullo precipitò in mare ove annegò.

Di questo celebre mito però esistono altre versioni, che vale la pena di ricordare. Ad esempio secondo Diodoro Siculo (Bibliotheca Historica, IV, 76-77), Dedalo sarebbe fuggito da Creta con il figlio per sottrarsi alla vendetta di Minosse, adirato con lui perchè aveva assecondato la consorte Pasifae fabbricando per lei la mucca artificiale con cui la donna aveva appagato il suo turpe desiderio (motivazione questa certo più valida e comprensibile). E la fuga sarebbe avvenuta non per mezzo di artificiosi espedienti, ma più semplicemente con un naviglio; approdati ad un isola dell’Egeo, mentre Icaro si apprestava a scendere, cadde in mare e affogò (e dal suo nome l’isola venna da allora chiamata Icaria). In una variante, riportata anch’essa da Diodoro, sarebbe stata la stessa Pasifae a tenere celati in un luogo segreto Dedalo e suo figlio, i quali in seguito sarebbero fuggiti dall’isola con le ali costruite nel modo sopraddetto. Quest’ultima è la versione alla quale si attiene pure Igino, il mitografo latino del I secolo, in una delle sue “Fabulae” (“Pasifae”), mentre nelle “Metamorfosi” di Ovidio (VIII, 182-235), pur se non viene detto espressamente che Dedalo fosse prigioniero di Minosse, sembra che l’astuto inventore sia stato trattenuto a forza dal sovrano nell’isola, dalla quale evase insieme al figlio per mezzo delle famose ali. Ovidio aggiunge alla sua narrazione poetica il particolare che la morte di Icaro sia stata salutata con soddisfazione da una pernice (Met., VIII, 236-259): infatti in tale uccello era stato trasformato da Atena il nipote di Dedalo, figlio di sua sorella, il cui nome era Talo, o Perdice (nome poi rimasto all’uccello), che lo zio, invidioso del precoce ingegno che il fanciulletto appena dodicenne dimostrava, aveva tentato di uccidere gettandolo dall’acropoli di Atene (sull’argomento si veda quanto abbiamo scritto nella quarta parte di “Le Amazzoni, guerriere della Luna” del 17 ottobre 2015).

Un’interpretazione razionalistica del mito del Minotauro fu avanzata già da Aristotele in una sua opera perduta -“La repubblica dei Bottiei”-(4), e poi seguita dal suo discepolo Palefato in “Le storie incredibili”, opera paradossografica in cui l’autore fornisce una spiegazione storica di alquanti miti dell’antica Grecia. Secondo tale versione il toro di cui si sarebbe invaghita Pasifae non sarebbe stato un animale ma un baldo giovanotto di nome Tauros; Minosse non volle sopprimere il figlio nato da quell’adulterio (che si era consumato mentre egli era affetto da una malattia, per cui sapeva non essere progenie del suo sangue), poichè lo considerava fratello degli altri suoi figli e pertanto lo relegò in campagna alle dipendenze dei pastori al suo servizio. Ma poichè il giovincello si dimostrava tutt’altro che docile, Minosse comandò di farlo rinchiudere. Avuto sentore di questo, Asterione fuggì sui monti ed iniziò a fare la vita del brigante e del ladro di bestiame. Per evitare di essere catturato dalle guardie di Minosse, scavò un sorta di rifugio sotterraneo -e dunque sarebbe questo il “labirinto”-, dove non poteva essere scoperto. Allora il suo patrigno pensò bene di approfittare della ferocia del figliastro mandandogli i suoi nemici o comunque coloro che voleva fossero puniti. E così avvenne anche per Teseo, il quale però con l’aiuto di Arianna, che gli aveva procurato un’arma invincibile, riuscì a sopraffare Asterione. Anche Filòcoro, storico ateniese del III secolo a. C., nella sua “Attide”, storia di Atene e dell’Attica dai tempi mitici ai suoi giorni, -opera della quale rimangono solo frammenti-, sostiene che il labirinto di Creta altro non fosse che una prigione sotterranea ove Minosse rinchiudeva i giovani ateneniesi fino a quando essi non venivano dati in premio come schiavi ai vincitori dei giochi ginnici che era solito indire in memoria di suo figlio Androgeo; e che il loro crudele carceriere, a motivo sia del nome, Tauro, sia della durezza da lui dimostrata, avesse dato origine al mito del mostro Minotauro. Questa versione razionalistica del mito è sostenuta anche da Plutarco, il quale, rifacendosi espressamente a Filocoro e ad Aristotele, afferma (“Vite parallele”, Teseo, XVI) che Minosse aveva istituito dei giochi atletici in memoria di suo figlio Androgeo e ai vincitori di essi donava come schiavi i giovani ateniesi, i quali venivano nel frattempo tenuti prigionieri nel labirinto sotto la custodia un uomo duro e feroce di nome Tauros. Giorgio Cedreno, cronografo bizantino vissuto tra l’XI e il XII secolo, autore della “Sinopsis Historiarum” (“Riassunto di storie”), afferma che quando il Minotauro, ossia l’uomo così chiamato, seppe che Teseo lo stava cercando per ucciderlo andò a nascondersi in una grotta di un luogo detto “Labirinto”.

In effetti queste interpretazioni del mito del Minotauro sono certamente assai più verosimili e, almeno in parte, rispondono probabilmente al vero.

Si tenga presente però che in ogni caso il toro, data la sua rilevanza nei miti legati a Creta, appare un protagonista della civiltà minoica, come è stato confermato dai ritrovamenti archeologici: Zeus rapisce Europa, figlia di Agenore, re di Tiro in Fenicia, e di Telefassa, trasformandosi in bianco toro; un toro è inviato da Poseidone a Minosse, animale che poi diviene la causa involontaria della nascita del Monotauro; e il Minotauro stesso appare come la versione degradata di un antico dio bovino. In effetti si conosce ben poco dell’antica religione cretese antecedente l’invasione dei Micenei e poi dei Dori; sembra che la divinità più venerata fosse la “Signora degli animali” (“Potnia Theron”), conosciuta anche come “Signora dei serpenti” (poichè in alcune raffigurazioni plastiche tiene in mano dei serpenti), che dovrebbe rientrare nel novero delle “dee madri”, che si ritrovano come simbolo sacro della maternità in molti luoghi ed epoche e che sarebbe poi stata identificata con la Rea ellenica, madre di Zeus. Per altri questa figura divina avrebbe dato origine anche all’Atena della religione ellenica, oppure da essa sarebbero derivate sia Pasifae sia Arianna nella mitologia classica. Il “dio-toro” dovrebbe essere invece un’incarnazione del Baal semitico, dio del cielo atmosferico, il quale come gli equivalenti Hadad aramaico e Adad mesopotamico, era associato al toro, ed aveva una carica ambivalente positiva (quando portava le piogge benefiche) e negativa (quando mandava tempeste e fulmini distruttori), che fu poi identificato con lo Zeus greco, -anche se ufficialmente in età romana il Baal Hammon cartaginese fu identificato con Saturno-Cronos, divoratore dei suoi figli-. Per lui come è noto venivano celebrati sacrifici umani, nei famigerati “tophet”, ed anche in alcune località cretesi, tra cui un ambiente del palazzo di Cnosso sono state individuate tracce di culti similari: pertanto l’offerta di vittime umane alla ferocia del Minotauro, -forma degradata a mostro di Baal-, sarebbe del tutto calzante.

Dopo che gli scavi e le ricerche compiuti a Creta da Arthur J. Evans (1851-1941) dal 1900 in poi, che riportarono alla luce le imponenti testimonianze dell’antica civlità minoica nei centri di Cnosso, Festo ed altri minori, si credette di identificare il labirinto nell’intricato palazzo reale di Cnosso, che si sviluppava in centinaia di stanze e corridoi e che dovette suscitare di certo la meraviglia dei conquistatori micenei succeduti ai minoici a partire dl 1400 a. C. e si suppose che da esso fosse nata la leggenda del labirinto cretese. Tuttavia alcune voci discordi nell’età antica volevano trovarsi il labirinto non già a Cnosso, bensì a Gortina, e tra queste ricordiamo Catullo (Carme, 64, “Per le nozze di Peleo e Teti”, v. 75) e Claudiano  (“De raptu Proserpinae”, II, 33).

Una descrizione abbastanza esauriente del presunto labrinto di Creta è stata lasciata da un botanico ed erudito francese vissuto nel XVII secolo, Joseph Pitton de Tournefort (1656-1708) nella relazione di un viaggio di studio da lui compiuto tra il 1700 e il 1702 a Creta, nelle altre isole greche, a Costantinopoli e in alcune terre affacciantisi sul mar Nero, nel corso del quale ebbe l’occasione di vistarlo. Il Tournefort riferisce che il labirinto consiste in un lungo cunicolo sotterraneo che attraverso una miriade di anse e di circonvoluzioni, susseguentisi in modo in apparenza caotico, si snoda nelle viscere di una collina posta a sud del monte Ida, a tre miglia dalle rovine della città di Gortina. “Vi si entra per mezzo di un’apertura naturale, larga circa 7 o 8 passi, ma così infima che a stento un uomo di mediocre statura potrebbe transitarvi senza doversi chinare. Il pavimento è assai scabro e diseguale, mentre il soffitto è liscio e regolare e termina con diversi strati di roccia posti uno sull’altro. Segue poi una sorta di caverna disadorna, posta in lieve pendenza, entro la quale non si trova nulla di interessante. A mano a mano che si procede il luogo si rivela sempre più sorprendente e misterioso. Durante il percorso si incontrano di continuo svolte e deviazioni, ma il corridoio principale, che è il meno contorto, conduce con un cammino di circa 1200 passi fino al fondo del labirinto, dove si aprono due ampie e belle sale, ove i visitatori possono sostare per riposarsi. Sebbene questo corridoio si biforchi alla sua estremità, esso non è tuttavia il punto più pericoloso del labirinto; quest’ultimo (la parte più pericolosa del labirinto) si trova piuttosto vicino all’entrata, a circa 30 passi dalla caverna, dirigendosi verso sinistra. Chi avesse l’ardire di avventurarsi in qualche altro percorso, rischierebbe di perdersi in una infinità di recessi e vicoli ciechi, dai quali sarebbe ben difficile uscire. Le nostre guide seguirono dunque la via principale, dove contammo di aver percorso per l’esattezza 1160 passi, senza deviare nè a destra, nè a sinistra. Questo cunicolo è alto dai 7 agli 8 piedi, e la sua superficie è rivestita da uno strato di viva roccia […]. Vi si trovano anche dei tratti ove occorre abbassare la testa, ed anzi circa alla metà del percorso si incontra un passaggio così stretto che lo si deve percorrere a quattro zampe. Il corridoio principale è per lo più abbastanza largo da consentire il transito contemporaneo di due o tre persone affiancate: la superficie del pavimento è uniforme e non è d’uopo nel procedere nè la salita nè la discesa. Le pareti sono state ottenute tagliando a piombo le pietre che sporgenti dalla roccia avrebbero altrimenti ostacolato il cammino, disposte in modo alquanto capriccioso e innaturale, con tante curve e rientranze, sia da un lato che dall’altro, che riuscirebbe oltremodo difficile uscirne senza molte precauzioni”. Le precauzioni adottate dal Tournefort e dai suoi compagni sono: una torcia accesa che ciascun membro della spedizione tiene in mano; attaccare a tutte le svolte alle pareti alla destra dei foglietti numerati, mentre alla sinistra lasciavano dei fagottini di spine e una manciata di paglia traendola da un sacco che una delle guide si era premurata di portare. “In tal guisa giungemmo senza difficoltà alcuna all’uscita del labirinto, dove la via principale si biforca, terminando nelle due sale, larghe circa quattro tese [poco meno di otto metri] e di forma pressochè rotonda, scavate nella viva roccia”.

L’esploratore riferisce che in quel luogo si possono vedere numerose scritte fatte con carboncino, in latino e in italiano, con indicazione delle date di composizione, che andavano dal 1444 al 1699 (ossia l’anno precedente quello in cui egli aveva visitato il labirinto), delle quali alcune sono riportate nella sua relazione. Il Tournefort, il cui principale interesse era per la botanica, osserva la presenza di piante che gli sembrano confermare la sua teoria sulla vegetazione che si sviluppa negli ambienti pietrosi e ipogei; nota altresì che le incisioni o le tracce praticate dai visitatori per imprimere le loro scritte si sono riempite di secrezioni calcaree bianche, contrastanti con la pietra circostante, creando così una sorta di bassorilievo.

Lo studioso giunge comunque alla conclusione che quel labirinto doveva essere di origine naturale, pur se poi modificato dall’opera umana, e comunque che non potevasi identificare con il luogo ove era stato rinchiuso il Minotauro, -che, come abbiamo detto sopra, non era ricoperto da tetti o soffitti e tanto meno scavato nella roccia-, almeno stando alle fonti mitologiche più accreditate (escludendo quindi quelle che interpretavano il mito in chiave razionalistica, o simbolica, come abbiamo visto sopra); conclusione avvalorata dalla circostanza che intorno a Gortina esistevano dverse altre caverne più o meno lunghe.

Il terzo labirinto citato da Plinio è quello di Lemno, nella cui descrizione l’autore non si dilunga affatto, limitandosi a riferire che esso era simile a quello di Creta dal quale si differenziava per uno spettacolare peristilio che comprendeva 150 colonne, nell’esecuzione delle quali i torni ad essa deputati erano posti in così mirabile equilibrio che anche un fanciullo sarebbe stato in grado di azionarli contemporaneamente girando loro intorno. Plinio ci fa sapere che questo labirinto fu progettato e costruito da tre architetti nativi del luogo, i cui nomi erano Smilide (Zmilis), Reco (Rhoecus) e Teodoro.

Teodoro è menzionato altre due volte nella “Naturalis Historia”: nel capitolo 56 del libro VII, -ove sono trattate le scoperte e invenzioni umane che hanno contribuito al progresso della civiltà-, l’erudito latino lo cita quale inventore della squadra, della livella, del tornio e della serratura; mentre nel capitolo 83 del libro XXXIV, dedicato alla metallurgia e alla toreutica, Teodoro viene nominato come autore di un labirinto a Samo e non già a Lemno (“Theodorus, qui labyrinthum fecit Sami”), oltre che di una statua in bronzo di sè stesso. I nomi di Reco e Teodoro compaiono anche in un elenco di opere architettoniche con i loro autori che si legge nella prefazione al VII libro del “De Architectura” di Vitruvio, ove sono indicati quali architetti del grande tempio ionico di Giunone (Hera) a Samo. Da Erodoto apprendiamo che Teodoro aveva creato per Policrate, tiranno di Samo (574-522 a. C.), un prezioso anello d’oro nel quale era incastonato un grosso smeraldo; a tale riguardo lo storico di Alicarnasso riferisce una singolare vicenda (Storie, III, 40-43): avendo constatato che la sorte di Policrate era stata fino a quel momento troppo florida, -il che lasciava presagire che presto o tardi gli sarebbe rivoltata contro-, il faraone d’Egitto Amasi, regnante dal 570 al 526 a. C., -penultimo sovrano della XXVI dinastia “saitica”- consigliò a Policrate, del quale era in quel periodo alleato contro i Persiani, di rinunciare a qualche cosa che avesse assai caro, onde scongiurare in tal modo il cangiamento della fortuna che su di lui incombeva. Seppure a malincuore, il tiranno seguì il consiglio dell’alleato e gettò in mare quell’anello a cui teneva molto. Non molto tempo dopo però un pescatore catturò un grosso pesce, che volle recare in dono al suo signore. Ma quando il pesce fu sventrato per essere cucinato, vi si rinvenne l’anello che Policrate aveva gettato in mare. Il tiranno comprese allora che non avrebbe potuto sfuggire al suo destino, mentre il faraone Amasi, quando venne a conoscenza del fatto, non volendo essere coinvolto nella rovina che incombeva su Policrate, ruppe l’alleanza con lui. E il fato avverso colpì il tiranno di Samo quando Orete, satrapo persiano della Lidia, nel 522 a. C. lo convocò a Magnesia con una finta proposta d’amicizia: anzichè elargire i benefici promessi, il satrapo comandò che Policrate venisse messo a morte per crocifissione, mentre l’isola sulla quale aveva governato cadeva in potere dei Persiani (Erodoto, Storie, III, 120-127).

Erodoto riferisce pure (Storie, I, 51) che Teodoro sarebbe stato l’autore di un grande cratere d’argento della capacità di 600 anfore donato da Creso, re di Lidia, all’oracolo di Delfi, ancora usato ai tempi dello storico durante la festa delle Teofanie.

Reco (Rhoikos) fu celebrato insieme a Teodoro quale inventore della fusione in bronzo, oltre che come architetto del santuario di Hera a Samo. Dalle notizie tramadate su di lui da Erodoto (Storie, III, 60) apprendiamo che era  figlio dello scultore Phileos; secondo Diodoro Siculo (Bibl, Historica, I, 98) sarebbe stato padre di Teodoro e di Telecle, mentre Pausania (“Periegesi della Grecia”, VIII, 14, 8) afferma che Teodoro fosse figlio di Telecle. In ogni caso sembra che Reco e Teodoro fossero legati, oltre che dalla collaborazione artistica, pure da un vincolo di sangue. Ai due scultori sono attribuite opere assai famose nell’antichità, quali un grande cratere di bronzo nel tempio di Apollo a Pàtara in Licia e la statua di Atena ad Anfissa, mentre il solo Reco sarebbe stato autore della statua della Notte che faceva parte della decorazione dell’altare di Athena Protothronia ad Efeso. Dell’opera di architetto di Reco era celebrato soprattutto il tempio di Hera a Samo (“Heraion”), di cui rimangono solo alcuni rocchi di colonna e capitelli appartenenti però alla ricostruzione dell’edificio compiuta nel IV sec. a. C., dopo che il precedente era stato distrutto da un incendio.

Rilievo da Samotracia che raffigura i Cabiri.

Di Smilide, -altro scultore del VI secolo a. C.-, sappiamo invece, da Pausania, scrittore greco del II secolo, nella sua “Periegesi della Grecia, VII, 4,4-, che fu autore della statua in legno di Hera che si trovava nel tempio di Samo.

Quanto alle finalità e all’utilizzo del labirinto di Lemno, -il quale, essendo il meno conosciuto, è anche il più enigmatico e misterioso dei labirinti di cui l’antichità ci ha lasciato memoria-, sebbene Plinio o altri autori non si esprimano chiaramente in merito, si può supporre che fosse legato ai culti dei Cabiri, la cui sede principale era la vicina isola di Samotracia, dei quali abbiamo trattato nella quarta parte di “Le Amazzoni, guerriere della Luna”, che prende in considerazione Coribanti, Cureti e Cabiri, pubblicato il 17 ottobre 2015. Il fatto che i Cabiri fossero stati identificati con i Cureti, che nascosero i vagiti del piccolo Zeus con il loro strepito per proteggerlo dall’insidia di Crono, sono indizio di un legame tra Creta, dove la somma divinità ellenica nacque e fu allevata, e Lemno; così come un altro indizio di una relazione tra le due isole è la figura di Dedalo, il quale deriva dall’antico dio cretese Talo, le cui prerogative riguardavano la perizia nelle arti, nelle scienze e nella tecnologia. In quest’ultimo si deve probabilmente ravvisare un’incarnazione del fenicio  Kotar wa Khassis (“Abile e Accorto”), dio della metallurgia e dell’achitettura, a sua volta identificato con lo Ptah egizio. Tutte queste divinità legate alla metallurgia e alla tecnica confluirono nell’Efesto greco, il quale era considerato il padre o l’avo dei Cabiri: secondo la versione prevalente del mito, riportata da Strabone (Geografia, X, 3, 21), -il quale adduce a sostegno della sua tesi la testimonianza di autori più arcaici, come Acusilao di Argo-, Efesto dalla ninfa Cabiro avrebbe avuto un figlio, Kadmilos -che nella successiva esegesi mitologica fu assimilato a Hermes-; quest’ultimo avrebbe generato a sua volta tre figli -i Cabiri in senso stretto- e tre figlie -le Cabiridi-, -della cui madre Strabone non riferisce il nome. Ma altre fonti, come Mnasea di Pàtara (III sec. a. C.), citato in uno scolio alle “Argonautiche” di Apollonio Rodio (I, 917), affermano che i Cabiri erano una triade di divinità i cui nomi erano Axieros, Axiokersos e Axiokersa, i quali furono identificati, o assimilati, rispettivamente con Demetra, Ade e Persefone, così che i misteri dei Cabiri furono in qualche modo accostati a quelli eleusini. In effetti possiamo osservare che mentre questi ultimi esprimevano una religiosità legata alla Terra quale datrice delle messi e quindi del nutrimento per gli uomini, prima materiale, e poi spirituale, nei misteri dei Cabiri la Terra è vista soprattutto come custode del mondo ipoctonio e delle ricchezze (metalli, gemme) che vi si celano e che sono materia per le opere tecniche e artistiche dell’umanità (e che pertanto si esaltano nella figura di Efesto-Dedalo-Talo).

Presunte rovine del labirinto di Lemno.

Non possiamo fare a meno di osservare che Plinio, nel libro XXXIV della sua opera monumentale (capitolo 83), ove tratta dei metalli, della loro fusione, della toreutica e della scultura in bronzo, aveva menzionato Teodoro quale autore di un labirinto a Samo, e non già a Lemno (“Theodorus, qui labyrinthum fecit Sami”), oltre che come autore di una statua in bronzo di sè stesso. Samo era nota soprattutto per un famoso e grande santuario dedicato ad Hera, che abbiamo già nominato, e che faceva concoerrenza a quello di Artemide ad Efeso. Possibile che Plinio, di solito così scrupoloso e diligente nell’esporre i risultati delle sue ricerche (compiute in gran parte sulla base delle opere di autori precedenti, che egli con precisione elenca all’inizio di ciascun libro, e in minima misura di esperienze personali) abbia confuso il tempio di Hera a Samo con il labirinto di Lemno? Di certo, anche ammettendo che egli abbia attribuito per errore a quest’ultimo l’imponente colonnato del tempio di Samo, il labirinto di Lemno doveva essere esistito e probabilmente vi si celebravano misteriosi riti simili a quelli con i quali si onoravano i Cabiri nella vicina isola di Samotracia, di cui doveva costituire una sorta di “succursale”. L’illustre studioso latino afferma inoltre che ai suoi tempi esistevano ancora alcune parti dell’edificio, -pur se essendo in rovina non vi si tenevano più le cerimonie iniziatiche dei “misteri dei Cabiri”-, mentre dei labirinti di Creta e di Chiusi nulla rimaneva.

Note

1) all’essere metà uomo e metà bovino partorito da Pasifae fu imposto il nome proprio di Asterione (poichè “minotauro” significa soltanto “toro di Minosse”); tale nome riprendeva significativamente quello di Asterio, il re di Creta che aveva sposato Europa adottandone i figli Minosse (che gli succedette al trono), Sarpedonte e Radamanto.

2) non contento della punizione inflitta al sovrano cretese, Poseidone fece impazzire il toro che non gli era stato sacrificato e per renderlo ancora più furioso e pericoloso gli conferì la poco desiderabile dote di soffiare fiamme dalle narici. Il toro che vagava per l’isola seminando disastri fu poi catturato da Eracle (cattura che costituì la settima fatica dell’eroe) che lo portò ad Euristeo, re di Tirinto e suo cugino, -per ordine del quale dovette compiere le famose dodici fatiche-, ma l’animale fuggì nella pianura di Maratona, dove continuò a provocare danni fino a che non venne preso da Teseo e finalmente sacrificato agli dei.

3) questa tradizione si distacca da quella più comune secondo la quale Dioniso avrebbe donato la corona ad Arianna allorchè decise di farne la sua sposa. Il prezioso gioiello fu poi lanciato in cielo da Dioniso (o da Efesto), divenendo la costellazione della “Corona Boreale”.

4) I Bottiei erano un’antica popolazione stanziata nella penisola Calcidica. Secondo Aristotele sarebbero stati discendenti dei giovani ateniesi tenuti prigionieri nel labirinto e poi liberati da Teseo e di altri emigrati ateniesi. La loro regione fu annessa alla Macedonia da Filippo II nel 348 a. C.

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