ANTICHI SPLENDORI -Il labirinto di Porsenna e altri labirinti-(prima parte)

Trattando della leggenda della chioccia e dei pulcini d’oro abbiamo accennato al sepolcro del re etrusco Porsenna, entro il quale si diceva essere contenuta questa meraviglia (che tradizioni diverse segnalano presente in svariati altri luoghi), e crediamo sia ora opportuno, -e possa riscuotere l’interesse dei lettori-, descrivere questo monumento tanto celebrato quanto misterioso, che sarebbe stato sede di uno dei labirinti più famosi dell’antichità. Sarà nostra guida Plinio il Vecchio, il quale introduce l’argomento a proposito dei labirinti conosciuti dagli antichi (Naturalis Historia, XXXVI, 19, 7-9); l’erudito latino elenca nella sua opera quattro di codeste singolari ed enigmatiche costruzioni: il labirinto di Creta, -il più noto-; il labirinto egiziano, -del quale abbiamo parlato anche nella seconda parte di “L’asino e il bue nel presepe” del 4 gennaio 2016-; quello dell’isola greca di Lemno, -di cui rimanevano al tempo dello scrittore esigue vestigia-; e infine quello di Chiusi in Etruria, fatto costruire da Porsenna. Plinio riferisce che sotto il mausoleao del re etrusco fosse celato un labirinto di cunicoli più intricato di quello di Creta; tale monumento era però del tutto scomparso al tempo dell’autore latino, il quale nella sua opera non espone osservazioni personali o testimonianze recenti, ma si rifà espressamente alla descrizione datane da Marco Varrone nel decimo libro della sua opera “Antiquitates rerum humanarum de Italiae regionibus”, -opera andata perduta, della quale sono giunti ai nostri tempi solo citazioni e frammenti-: “Namque et italicum dici convenit, quem fecit sibi Porsina, rex Etruriae, sepulchri causa, simul ut externorum regum vanitas quoque Italis superetur. Sed cum excedat omnia fabulositas, utemur ipsius M. Varronis in expositione ea verbis: -Sepulto sub urbe Clusio, in quo loc monimentum reliquit lapide quadrato quadratum, singula latera pedum tricenum, alta quinquagenum, in qua basi quadrata intus labyrinthum inextricabile, quo si quis introierit sine glomere rlini, exitum invenire nequeat. Supra id quadratum pyramides stant quinque, quattuor in angulis et in medio una, imae latae pedum quinque septuagenum, altae centenum quinquagenum, ita fastigatae, ut in summo orbis aeneus et petasus unus omnibus sit impositus, ex quo pendeant exacta catenis tintinnabula, quae vento agitata longe sonitus referant., ut Dodonae olim factum. Supra quem orbem quattuor pyramides insuper singulae stant altae pedum centenum, supra quas uno solo quinque pyramides, quarum altitudinem Varronem puduit adicere; fabulae etruscae tradunt eandem fuisse quam totius operis ad eas, vesana dementia, quaesisse gloriam impendio nulli profuturo, praetera fatigasse regni vires, ut tame laus maior artifici esset” (E’ ora il momento di dare alcuni ragguagli sull’italico [labirinto], che Porsenna, re dell’Etruria, costruì per se quale monumento per la sua sepoltura ma pure affinchè la vanagloria dei re stranieri fosse superata da quelli italici. Poichè tale opera è circondata da un’aura leggendaria, ci varremo nella nostra descrizione delle medesime parole usate da Marco Varrone: -Dopo che [Porsenna] fu sepolto sotto la città di Chiusi, rimase in quel luogo a sua memoria un edificio quadrangolare di pietra squadrata, del quale ciascun lato era largo 300 piedi [circa 89 metri] e alto 50 (circa 15 metri), al cui interno, sotto il perimetro esterno, si snoda un labirinto inestricabile, ove se qualcuno fosse entrato senza portare seco un gomitolo di lino, non sarebbe in grado di trovare l’uscita. Sopra quella costruzione quadrata si ergono cinque piramidi, quattro agli angoli e una al centro, i cui lati sono larghi 75 piedi [poco più di 22 metri], mentre l’altezza è di 150 piedi [44,5 metri], così appuntite che alla loro sommità è infilato un cerchio di bronzo e un pètaso [copricapo a larghe tese, con il quale era spesso raffigurato Mercurio, essendo tale copricapo tipico dei viaggiatori che se ne servivano per ripararsi del sole e dalle intemperie] al quale sono sospesi per mezzo di catene dei campanelli, che quando siano mossi dal vento, trasportano lontano il loro suono argentino, come un tempo avveniva a Dodona (1). Sostenute da questo cerchio [o disco], stanno altre quattro piramidi, alte ciascuna cento piedi [29,6 metri], al di sopra delle quali si trovano ancora cinque piramidi, la cui altezza Varrone ebbe ritegno a menzionare. Ma le leggende etrusche tramandano che fosse la medesima dell’intera costruzione: quale riprovevole stoltezza aver ricercato la gloria con una spesa in nulla giovevole ad alcuno, scialaquando inoltre le risorse del regno, per un’opera il cui maggior vanto va all’artefice!”.

Stando alla descrizione datane da Varrone e da Plinio, il mausoleo di Porsenna doveva apparire come un costruzione alquanto fantastica, della quale, per quanto si sa fino ad ora, non esiste il simigliante in tutta l’architettura funeraria, -e non solo funeraria-, etrusca ed italica, ed anzi per trovare qualche edificio che ne possa vagamente ricordare la struttura dobbiamo andare in India o in Cina. Le piramidi in apparenza sembrerebbero richiamare l’Egitto, ma come risulta dalle loro misure, che indicano un notevole sviluppo in altezza, esse erano ben diverse da quelle egiziane e in particolare da quelle celebri di Ghiza; meno lontane sono dalle piramidi funerarie che furono in uso per qualche tempo presso i sovrani di Nubia, le quali, benchè di imitazione egiziana, hanno una base più ristretta e una struttura più verticale dei loro modelli.

Sebbene ne siano riportate con esattezza le dimensioni, risulta piuttosto difficile farsi un’idea attendibile di questo edificio, anche perchè alcuni punti sono di non chiara interpretazione: Plinio, o meglio Varrone, afferma che “orbis aeneus et petasus unus omnibus sit impositis”: le cinque piramidi sarebbero dunque sovrastate sia da un “orbis aeneus” sia da un “petasus”: con “orbis” si può intendere sia un cerchio sia un disco, mentre il “petasus”, -termine che indica propriamente un copricapo a larga tesa, ma qui di certo usato in senso traslato-, designa una superficie larga, sottile e rotonda, quindi in pratica anch’esso un disco. L’ipotesi più plausibile è che le cinque cuspidi fuoriuscissero ciascuna da un anello e  poi tutte insieme da un unico grande disco (il “petasus”) che le sovrastava e le congiungeva alla sommità, e sul quale si ergevano le altre piramidi. Improbabile che ciascuna piramide sostenesse un disco dal quale si innalzavano a loro volta altre cinque piramidi, poichè una simile struttura sarebbe stata oltremodo instabile; senza contare il fatto che Plinio dice chiaramente “petasus UNUS omnibus [pyramidibus]… impositus”, “un solo petaso sovrapposto a tutte le piramidi”. In ogni modo nella struttura e nell’aspetto attribuiti al sepolcro del sovrano etrusco si riscontra un simbolismo abbastanza evidente, pur se incerta è la sua interpetazione esatta: in primo luogo il labirinto, luogo e simbolo iniziatico per eccellenza; le piramidi, legate anch’esse a un misticismo matematico e catalizzatrici di energie cosmiche, delle quali le quattro agli angoli richiamano i quattro elementi, mentre la quinta al centro dovrebbe rappresentare la “quintessenza”; i campanelli, oltre creare un’atmosfera mistica, avevano probabilmente una funzione oracolare, come afferma in modo implicito lo stesso Plinio, accostando i suoni da essi prodotti al fruscio delle sacre querce di Dodona. Tutto l’insieme richiama senza dubbio la “montagna cosmica”, che in diverse cosmologie mitiche sta al centro dell’Universo,come il monte Meru per gli Indù e i Giainisti. Nelle immagini a lato riportiamo comunque a beneficio del lettore alcune ricostruzioni moderne del sepolcro di Porsenna.

Secondo Plinio il labirinto più antico era quello egiziano dal quale sarebbero derivati quello di Creta e in età posteriore i labirinti di Lemno e di  Chiusi. Di certo il “labirinto” quale forma architettonica fu preceduto dal labirinto come segno grafico, forse variante della spirale e della serpentina, del quale vi sono documenti e testimonianze sparse in vari luoghi, specie in Europa e in Asia Minore. Nelle prime testimonianze di quello che a tutti gli effetti si può considerare un “simbolo” (cioè un oggetto o un immagine sensibile che vuole esprimere un’idea, una realtà superiore o interiore)(2), il labirinto appare di forma circolare, con un’unica entrata e con un numero limitato di circonvoluzione (in genere sette od otto): gli mancano quindi la presenza di ramificazioni cieche e l’inestricabilità che ne diverranno il tratto caratteristico specie dall’età ellenistica in poi. Sebbene sia controversa l’origine e l’età dei primi labirinti graffiti, sembra che i più antichi siano quelli incisi su alcune rocce nei pressi di Pontevedra, nella Galizia spagnola, che risalgono verosimilmente alla media età del Bronzo (1800-1500 a. C. circa).

Nei secoli seguenti però è soprattutto nell’ambito delle civilità minoica e micenea che il simbolo, -o il segno-, del labirinto compare con maggiore frequenza, assumendo indubbia rilevanza sacrale, non solo nelle rappresentazioni grafiche, ma anche nel mito, ove la sua enigmatica forma non è più solo un mero grafismo, ma viene applicata per la prima volta ad una struttura architettonica, ossia l’edificio adibito a dimora del Minotauro, e a tal fine espressamente costruito. Plinio, -come abbiamo sopra accennato-, afferma che per la costruzione del labirinto di Creta Dedalo si ispirò al labrinto egiziano: “Si ammira tuttora nel nomo di Heracleopoli un labirinto, il primo in ordine di tempo, edificato, a quanto si tramanda, 4.300 anni fa dal faraone Petesuchi, oppure da Tithoe (3), sebbene Erodoto affermi che fu opera di dodici re, e per ultimo da Psammetico. Sulla ragione per la quale il labirinto fu fatto costruire i pareri sono discordi: a detta di Demotele era la reggia di Moteride; per Licea è invece il sepolcro di Meride (4); ma l’opinione prevalente vuole che sia un monumento consacrato al Sole. Non v’è alcun dubbio che da qui Dedalo abbia tratto il modello del labirinto da lui innalzato a Creta, ma non ne riprodusse che la centesima parte, ossia quella che contiene l’intrico di tortuosi percorsi”. Quello cretese per il dotto scrittore latino fu il secondo labirinto edificato dopo la stupefacente costruzione dei faraoni d’Egitto, il terzo è quello dell’isola di Lemno, mentre il quarto si trova in Italia (quello di Chiusi del quale abbiamo avanti parlato). “Tutti i labirinti sono ricoperti da fornici in pietra levigata; in quello egiziano il vano di entrata e le colonne sono in marmo pario, mentre il rimanente dell’edificio è costituito da blocchi incastrati e compatti di pietra sienite, tali da resistere all’ingiuria dei secoli, -sempre lo consentano gli Heracleopolitani, i quali videro di malocchio l’erezione di quest’opera-“. Plinio aggiunge poi che la strana struttura è suddivisa in ventuno vaste aule chiamate “nomi”, corrispondenti alle omonime circoscrizioni amministrative dell’Egitto, ciascuna delle quali contiene templi dedicati a ciascuno degli dei d’Egitto, nonchè parecchie piramidi di 40 braccia [o cubiti] di lato, la cui base ricopre un’estensione di sei “arure” (5). “Già stanchi per il lungo tragitto percorso, i visitatori giungono infine a quell’inestricabile groviglio di corridoi [il labirinto vero e proprio], ove trovano anche delle sale sopraelevate, dei portici che scendono con novanta gradini e, addentrandosi ancor più all’interno, colonne di porfido, immagini di divinità, statue di sovrani, figure di mostruose creature. L’ubicazione di certune di codeste stanze è disposta in modo che quando se aprano i battenti sembrano essere scosse da un tuono fragoroso. Per la maggior parte questi ambienti misteriosi si attraversano stando immersi nelle tenebre. All’esterno del perimetro del labirinto si eleva un gruppo di strutture murarie chiamate “Pteron”, dalle quali passando per cunicoli sotterranei scavati nel terreno si giunge ad un’altra dimora ipogea. Questo vasto complesso fu in parte restaurato da Cheremone, eunuco del re Necthebis, 500 anni prima della venuta di Alessandro Magno, il quale, poichè le lastre di pietra tendevano a sollevarsi dalla volta, le rafforzò con travi di legno di acacia [precisamente di Spina arabica o Acacia nilotica, il cui legno è immarcescibile] impregante di olio caldo (6)”.

Ricostruzione moderna del labirinto egiziano.

Anche Erodoto, -citato come abbiamo visto da Plinio-, ci ha lasciato, -in Storie, II, 148-, una notevole testimonianza del labirinto egiziano: “Costoro [i dodici re che avevano posto fine a un periodo di disordine e anarchia della storia egiziana, a cui si deve secondo lo storico greco l’ideazione del labirinto] decisero di lasciare un monumento comune e fecero costruire un labirinto poco sopra il lago di Meride, all’altezza della città detta “dei coccodrilli”. Avendola veduta con i propri occhi, Erodoto afferma che tale edificio supera ogni immaginazione, tanto che gli appare impossibile da descrivere con accettabile approssimazione e non confrontabile neppure con le piramidi: “Esso si compone di dodici cortili coperti e contigui, con le porte opposte tra di esse, sei rivolte a nord e sei verso sud, circondati da un unico muro perimetrale. All’interno intorno ai cortili si trova un doppio ordine di stanze, alcune sotterranee, altre sopraelevate, per un numero complessivo di tremila, 1.500 su ciascun piano. Le stanze superiori le ho visitate di persona e quindi ne posso parlare per diretta conoscenza, mentre quelle sotterranee me le hanno solo descritte, poichè i custodi egiziani si rifiutarono categoricamente di mostrarmele, affermando che lì si trovano le tombe dei re che primi per edificarono questo labirinto e dei coccodrilli sacri”. Erodoto assicura però che la parte superiore, da lui visitata di persona, l’ha lasciato sbalordito e i corridoi che collegano le diverse stanze e i tortuosi percorsi tra i cortili suscitano l’indicibile stupore di coloro che entrati nel labirinto passano dalle sale ai porticati, dai porticati ad altri vani e da questi a nuovi cortili; e così continua: “Il soffitto di tutte tali costruzioni è di pietra al pari delle pareti che sono piene di figure scolpite [ossia di bassorilievi, tra i quali è probabile l’autore annoveri pure i geroglifici che verosimilmente ricoprivano le pareti di tutto l’edificio].Ciascun cortile è circondato da un colonnato di pietra bianca perfettamente omogeneo nel colore. Accanto all’angolo terminale del labirinto si innalza una piramide con il lato di 40 orge (7), nella quale sono scolpite grandi figure e la cui via di accesso è scavata sotto terra”.

Un altro autore antico che fa menzione del labirinto egiziano è Diodoro Siculo, il quale nella sua Bibliotheca Historica (I, 61) si esprime su di esso nei seguenti termini: “Alla morte di Attisane [re dell’Etiopia che aveva conquistato l’Egitto], gli Egiziani recuperarono la sovranità sul loro paese ed elessero re Mendes, -che alcuni designano con il nome di Marrus-. Questi non condusse alcuna azione guerresca, ma fece costruire per sè un enorme sepolcro chiamato “labirinto”, degno di ammirazione non tanto per le sue dimensioni, quanto per l’inimitabile maestria tecnica della sua struttura: infatti chi sia entrato in esso, non ne potrà facilmente trovare l’uscita, se non con l’aiuto di una guida esperta. V’è chi sostiene che Dedalo, essendo approdato in Egitto e avendo ammirato la complessità e l’arte consumata di tale opera, abbia eseguito per il monarca di Creta, Minosse, un labirinto simile a quello egiziano, nel quale si favoleggia vivesse il famoso  Minotauro. Ma il labirinto di Creta è del tutto scomparso, vuoi perchè demolito da qualche dinasta, vuoi per l’ingiuria del tempo, mentre quello d’Egitto si è conservato integro fino all’età nostra”. Lo scrittore in un passo seguente della sua opera, -il cui primo libro è tutto dedicato alla storia e alla civiltà egiziana- (I, 66) descrive un edificio sepolcrale fatto erigere da dodici re, -e che dunque sembra corrispondere al labirinto descritto da Erodoto, pur se Diodoro non lo designa con tale nome: “Dopo aver regnato per 15 anni, osservando con scrupolo quanto avevano giurato, e nella vicendevolo concordia, [i dodici re], decisero di costruire una tomba comune, affinchè, come durante la loro vita si erano reciprocamete tributati eguali onori, così anche dopo l’estrema dipartita le spoglie dei loro corpi fossero riunite in un solo luogo e un unico sepolcro celebrasse la loro gloria. […]. Scelto dunque il luogo idoneo, presso il canale immissario del lago Meride, vi eressero un sepolcro utilizzando le pietre migliori, al quale diedero forma quadrata, con lato della lunghezza di uno stadio (m 177,6 se trattasi dello stadio attico, m 210 se di quello egiziano), la cui ricchezza in ornamenti e opere d’arte avrebbe dovuto renderlo insuperabile ai posteri. Chi avesse oltrepassato il muro perimetrale avrebbe trovato un’ampia sala contornata da 40 colonne per lato e il soffitto costituito da un’unica pietra, adorna di molte sculture alle quali erano alternate figure dipinte di vario genere. Nella sala erano presenti anche dei ricordi della città natale di ciscuno dei sovrani ed artefatti che rappresentavano con bellissime immagini i templi di dette città e le cerimonie che vi si celebravano. Con un progetto tanto grandioso e così ingente spesa avevano codesti sovrani dato inizio al loro monumento funebre, che, se il venir meno della loro alleanza non ne avesse impedito il compimento, nessuno avrebbe potuto sopravanzare in magnificenza”. Infatti, come spiega indi lo storico, Psammetico di Sais, uno dei dodici re, citato anche da Plinio, che si era grandemente arricchito con i traffici con Greci e Fenici aveva suscitato la gelosia e l’invidia dei suoi colleghi regnanti, i quali gli dichiararono guerra. Poichè un oracolo, stando a quanto affermano alcuni antichi scrittori, aveva profetizzato che colui dei re che avesse libato per primo in onore del dio di Menfi (Ptah) avrebbe ottenuto il potere su tutto l’Egitto, Psammetico ricorse a uno stratagemma: quando il sacerdote portò dodici tazze per compiere la libazione (delle quali si deve dedurre una fosse di bronzo), egli, prevenendo gli altri principi, si servì del suo elmo di bronzo. Questo gesto non piacque affatto ai suoi rivali, i quali lo esiliarono nelle paludi del delta del Nilo. Ma Psammetico non si rassegnò all’esilio e fatte venire truppe mercenarie dalla Caria e dalla Ionia, riuscì a sconfiggere i suoi competitori rimanendo così unico sovrano d’Egitto. Com’è noto, nell’antico Egitto regnarono tre sovrani di nome Psammetico, tutti della XXVI dinastia “saitica”, ma quello a cui Diodoro fa riferimento è senza dubbio Psammetico primo che regnò dal 664 al 610 a. C., poichè gli altri due erano indicati dagli autori antichi con altri nomi, simili, ma non uguali a Psammetico. Inoltre tale faraone che all’inizio del suo periodo di regno era confinato nella città di Sais, nel delta del Nilo, riuscì ad assoggettare buona parte (ma non tutti) dei dinasti locali che dominavano in altre zone del paese.

Da Diodoro passiamo al geografo Strabone, vissuto tra il I secolo a. C. e il I sec. d. C., il quale nella sua “Geographia” (XVII, 37), così descrive il celebre sacrario egiziano: “Oltre a queste cose [il lago Meride e le opere di canalizzazione che regolavano l’afflusso d’acqua nel bacino lacustre], si trova l’edificio del labirinto, opera che eguaglia per maestosità le piramidi e lì presso il sepolcro del re che lo fece costruire. Dopo aver superato la prima delle bocche del canale e percorso 30 o 40 stadi (8), appare un terreno spianati come una tavola, sopra il quale si erge un borgo ed un grande palazzo reale, costituito da molti edifici minori, tanti quanto erano un tempo i “nomi” d’Egitto. Essi comprendono altrettante sale circondate da colonne, tutte contigue tra di loro, collocate lungo una stessa linea e cinte dal medesimo muro, come se fossero concamerazioni di un unico corridoio. Le porte di entrata che conducono a queste stanze sono di fronte al muro, ma sono precedute da numerose e ampie cripte, congiunte l’una all’altra da cunicoli tortuosi, talchè a nessun forestiero sarebbe possibile senza una guida giungere ad esse od uscirne. E’ poi cosa assai mirabile che il soffitto di ciascuna sala sia costitito da un unico pezzo di pietra ed anche i vani di passaggio sono ricoperti nel senso della larghezza da monoliti di rilevanti dimensioni, senza che vi sia alcuna parte in legno o di qualsivoglia altra materia. A chi salga sopra il tetto, che non è di ragguardevole altezza, essendo tale costruzione di un solo piano, è dato vedere una superficie lastricata con pietre simili a quelle già descritte; da lì scendendo di nuovo alle stanze sottostanti se osservano altre disposte in sequenza, addossate a 27 colonne pure monolite. Ed anche le pietre di cui sono formati i muri sono di dimensioni non minori. All’estremità di questo complesso, che si allarga per più di uno stadio, trovasi la tomba del re, che ha aspetto di piramide tetragona, di quattro pletri di lato e altrettanti di altezza. IMANDES è il nome di colui che vi è sepolto. Si crede che le sale siano state costruite in numero pari a quello dei “nomi” perchè usavano congregarsi in quel luogo tutte le deputazioni di ciscuno di essi, con i propri sacerdoti e sacerdotesse, per celebrarvi i riti e trattare le più importanti questioni, così che ciascuno dei “nomi” si radunava nell’aula ad esso assegnata”.

Più stringata la descrizione del labirinto egiziano contenuta nel primo libro del “De Chorographia” di Pomponio Mela (I, 56), con la quale concludiamo la rassegna delle descrizioni degli autori antichi di questa perduta opera architettonica, ormai caduta nell’oblio anche nella memoria dei popoli: “Il labirinto è una grande costruzione, opera di Psammetico, le cui pareti e i soffitti sono interamente di marmo, che comprende entro una ininterrotta cerchia di mura mille dimore e dodici aule regali. E’ dotato di una sola entrata, ma contiene al suo interno innumerevoli corridoi le cui tortuosità conducono il visitatore ora in un punto ora in un altro, con continui cambi di direzione, in un intrico di porticati che si interrompono in un senso per proseguire in un altro, così che in quel percorso circolare capita di retrocedere tanto quanto si era in precedenza avanzato. E tuttavia in quel girare a vuoto è possibile, se pure a fatica, venire a capo dell’intrico di corridoi [e trovare quindi l’uscita]”.

La piramide di Hawara.

Nelle descrizioni piuttosto sommarie che ci sono state lasciate dagli autori antichi testè riportate, pure se esse concordano nelle linee generali, non possiamo fare a meno di notare alcune discordanze, riguardanti soprattutto il numero dei vani di cui si componeva il misterioso edificio e le loro misure. Ad esempio mentre in Erodoto la base della piramide che custodisce il sepolcro del re ha il lato di 40 orge, ossia di 84 metri, -considerando che l’autore abbia intesso l’orgia egiziana filetera (e non quella attica)-, per Strabone il lato della piramide era di 4 pletri, equivalenti a 140 metri (sempre stando alle misure egiziane). Erodoto parla di 3.000 sale, mentre Pomponio Mela il loro numero è di 1000; in effetti il primo parla di “oikèmata” (grandi sale) e il secondo di “domus”, ma i vani a cui alludono sono certamente da indentificare e sono quelli che circondavano i dodici cortili interni., che dovevano essere la struttura centrale del labirinto; questi dodici cortili sono a loro volta probabilmente da identificare con gli ambienti che per Plinio corrispondevano ai “nomi” d’Egitto pur se il naturalista latino li quantifica in 21 anzichè in 12. I distretti amministrativi egiziani erano però ben più di 12, poichè dopo alcune variazioni si stabilizzarono nel numero di 42, -20 nel Basso Egitto e 22 nell’Alto Egitto-, per cui è difficile pensare che le aule in cui i rappresentanti di essi si riunivano fossero solo dodici, atteso che, secondo quanto afferma Strabone, a ciascun nomo era assegnata un’aula.

Ma la discrepanza più notevole è quella che si osserva nel testo di Diodoro Siculo, il quale sembrerebbe riferirsi a due diversi edifici, di cui uno, quello costruito da Mendes, l’unico che lo storico chiami espressamente “labirinto”, esisteva ancora alla sua epoca e fu da lui visitato, mentre il secondo, -il monumento funerario dei dodici re-, sembrerebbe essere non più esistente, dato che ne parla al passato; nelle due costruzioni si riscontrano elementi diversi che gli altri autori constatano presenti in un medesimo complesso; ma d’altro canto è indubbio che il sepolcro dei dodici re è lo stesso definito e descritto da Erodoto in tal modo.

Quanto al sovrano, o ai sovrani, ai quali si debba attribuire la costruzione del labirinto, Erodoto e Diodoro affermano che sarebbe stato opera dei dodici re che avevano restaurato la potenza dell’Egitto dopo un periodo di decadenza e disordine, e in particolare del più ricco e potente di essi, Psammetico, -con la riserva che per Diodoro, come abbiamo sopra osservato, labirinto e sepolcro dei dodici re sembrano non coincidere-; Pomponio Mela, semplificando, cita il nome del solo Psammetico; Plinio propone quali autori del labirinto Petesuchis, o Petesuchos, o Tithoe, dei quali ben poco si sa e che non risultano affatto nelle liste delle dinastie faraoniche compilate da Manetone, mentre esclude espressamente i 12 re, adottando evidentemente la tesi di qualcuna delle sue fonti che egli reputava più attendibile di Erodoto; il famoso naturalista adduce poi la tesi di un certo Demotele, di incerta identificazione, ma a cui egli accordava a quanto appare notevole credito, che dichiarava il labirinto la reggia di Moteride, -faraone di cui non sono riuscito a trovare altre notizie, nè tanto meno a identificare con uno noto-; mentre secondo Licea, altro autore semisconosciuto che risulta tra le fonti consultate dal nostro, sarebbe stato il sepolcro del faraone Meride, -il Moìros di Erodoto-, quello che aveva creato il lago omonimo (9). Poichè, come abbiamo rilevato nella nota n. 3, gli autori greci e latini confondevano il nome del lago con quello del faraone, credendo che quest’ultimo avesse dato il nome al bacino lacustre al quale aveva apportato modifiche, -mentre in realtà la denominazione del lago nulla aveva a che fare con lui-, questa è l’ipotesi che più convince gli autori moderni, i quali identificano Moiros-Moeris con Amenemhet III, sovrano della XII dinastia, regnante dal 1843 al 1797 a. C., che è pure il dinasta sepolto nella piramide di Hawara, congiunta al labirinto stesso. Infine Strabone asserisce che il faraone sepolto nella piramide contigua al labirinto sarebbe un certo Imandes, che forse equivale al Mendes citato da Diodoro, il quale a sua volta si potrebbe identificare in Amenemhet.

In effetti si ha l’impressione che gli autori antichi, ad eccezione di Diodoro, accomunino nel labirinto due edifici di epoche divese, o che comunque furono ingranditi e restaurati in età successive, dei quali uno è di certo il sepolcro di un faraone, l’altro, per quanto considerato erronenamente un monumento funerario, avrebbe avuto in effetti una destinazione tutt’affatto diversa; questo secondo edificio sarebbe stato a sua volta diviso in una parte, costituita da una serie di aule e di spazi di disimpegno, adibita a sede di adunanze di carattere religioso e amministrativo, che voleva essere una riproduzione su scala ridotta dei monumenti e delle bellezze d’Egitto (un po’ come l'”Italia in miniatura”); ed un’altra parte, il “labirinto” in senso stretto, consistente in una successione, apparentemente caotica, di corridoi, di cunicoli e di porticati, di cui non è ben chiara la ragione, ma che dovrebbe aver avuto un significato mistico-iniziatico forse una riproduzione del mondo ultra-terreno; interpretazione questa avvalorata anche da quanto afferma Plinio a proposito delle figure “mostruose”, -probabilmente quelle dei molti esseri semidivini dall’aspetto orrorifico e serpentiforme che popolavano l’al di là egizio e che rendevano arduo il cammino dell’anima (oltre che quello del Sole nel suo percorso notturno prima della rinascita mattutina)-; dell’oscurità in cui erano immersi tali ambienti; e del cupo rimbombo provocato dall’aprirsi e dal chiudersi delle porte che consentivano l’accesso da una sala o da corridoio all’altro. Di tali costruzioni l’una risalirebbe all’età della XII dinastia, intorno al 1800 a.C., l’altra sarebbe alquanto più recente, dovendosi attribuire al periodo saitico, intono al VII secolo a. C.: in tal modo è possibile conciliare le affermazioni in apparenza contrastanti degli antichi scrittori, non solo tra l’uno e l’altro, ma anche all’interno di una medesima descrizione.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) Dodona, centro collocato tra la Molossia e la Tesprozia nella regione greca dell’Epiro. Vi aveva sede un famoso oracolo di Zeus che esprimeva i suoi responsi con lo stormire delle foglie di una quercia sacra e di sonagli appesi ai suoi rami. Su tale oracolo si veda quanto abbiano scritto nella quinta parte di “L’AFFASCINANTE STORIA DELL’ALBERO DI NATALE”, del 13 gennaio 2019.

2) non si confonda il simbolo con l’emblema e l’allegoria. Il simbolo è un segno grafico, che può essere anche la rappresentazione stilizzata di un oggetto o di un essere vivente, attraverso i quali si vuole esprimere in modo intuitivo un’idea, una realtà soprasensibile o astratta, un’entità mentale, un processo scientifico (l’etimologia del termine greco “symbolon”, -“qualcosa che si getta insieme” è quello di “contromarca”, “tessera”, parte di un oggetto che acquista il suo valore riunito ad un’altra parte; “symbolon” aveva inoltre il significato di “colletta”, “raccolta di denaro” per un determinato scopo; si veda al riguardo la nota n. 1 della sesta parte di ENIGMI, MISTERI E PARADOSSI, del 6 febbraio 2017). “Emblema”,- dal greco “en” + “ballo, -ein” = gettare-, indicava in origine una figura a rilievo composta di più elementi, una sorta di mosaico a tessere molto larghe; poi passò a designare un’immagine convenzionale o un attributo che, per associazione, esprime o un ente astratto o una determinata categoria di elementi: si potrebbero considerare gli emblemi un tipo di simboli, ma di significato più semplice e comprensibile, sebbene legati a schemi culturali. Il simbolo vero e proprio richiede una chiave intepretativa e non è immediatamente intelligibile: simboli sono ad esempio la croce, l'”8″ orizzontale simbolo dell’infinito, i grafismi dei pianeti, ecc.; gli emblemi sono invece figure di animali, piante, oggetti, convenzionalmente associati ad altri enti: ad es., la colomba è l’emblema della pace; tra gli emblemi rientrano pure le insegne di sodalizi e confraternite, gli stemmi araledici, ecc. L’allegoria è invece propriamente una figura retorica che consiste nel personificare idee astratte e categorie morali, una sorta di “metafora continuata”, che però non è limitata all’oratoria e alla poesie, ma è impiegata anche nelle arti figurative: per fare un esempio celebre potremo citare l’allegoria della giustizia, rappresentata da una donna bendata che brandisce una blinacia in una mano e una spada nell’altro, oppure l'”Italia turrita”.

3) di faraoni che portassero tali nomi non si hanno altre notizie all’infuori di quanto riportato da Plinio. E’ probabile che il nostro abbia attribuito ad un sovrano egizio l’appellativo “Petesouchos” con il quale i Greci avevano denominato il dio Sobek, rappresentato come coccodrillo o più di frequente come uomo con testa di coccodrillo che era la principale divinità venerata nell’area del Fayyum e intorno al lago Meride.

4) Plinio, o per meglio dire le sue fonti, tra le quali sono da annoverare Erodoto e Strabone, confonde il nome del lago Meride (Moeris), che deriva dall’egiziano “Mer -ur” = “il Grande Stagno”, con quello del faraone che l’avrebbe fatto scavare. In realtà il lago è naturale e non artificiale, ma fu in parte prosciugato dal faraone Amenemhet (o Amenemhat) III (regnante dal 1843 al 1797 a. C.), che regolò anche con opportune opere di canalizzazione l’afflusso nel bacino delle acque del Nilo. A questo faraone, che Erodoto chiama “Moìrios”, è quasi unanimemente attribuita la costruzione sia del libirinto, sia della piramide di Hawara, sebbene alcune testimonianze antiche, come avremo modo di vedere oltre, considerassero i due edifici opera di due distinti sovrani.

5) l'”arura” era una misura di superficie egiziana corrispondente a 100 cubiti reali quadrati e quindi, poichè il cubito reale equivaleva a cm 52,5, a 2757 mq.

6) il Necthebis qui citato dovrebbe essere uno dei due faraoni chiamati Nectanebo, i quali però regnarono entrambi nel IV secolo a. C., e quindi non 500 anni, ma pochi decenni prima di Alessandro Magno, il primo dal 380 al 362 a. C., il secondo dal 360 al 343 quando fu vinto dal re achemenide Artaserse III (425-338 a. C.): egli fu dunque l’ultimo sovrano delle trenta dinastie elencate da Manetone, con il quale si concluse l’età faraonica dell’Egitto, -ove non si consideri l’estremo tentativo di resistenza opposto ai Persiani dal principe Khababash-. Anzi secondo una leggenda accolta nella “Vita di Alessandro” detta dello pseudo-Callistene, -biografia alquanto romanzata del condottiero macedone scritta nel III secolo in ambiente egiziano-, Nectanebo sarebbe stato, oltre che faraone, un potente mago, il quale, dopo aver saputo per mezzo delle sue arti magiche che non avrebbe avuto alcuna possibilità di prevalere sui Persiani che si apprestavano a conquistare l’Egitto, fuggì in Macedonia. Qui riuscì ad acquistare grande fama come mago e indovino, tanto che anche la regina Olimpiade volle consultarlo. Invaghitosi della regina, Nectanebo ideò un modo ingegnoso e subdolo per godere delle grazie di lei dicendole che era stata prescelta dal dio Ammone per divenire madre di un figlio destinato a compiere strabilianti imprese. Egli si combinò in modo da apparire alla regina nelle sembianze che, secondo la sua profezia e secondo un sogno fatto da Olimpiade provocato con un incantesimo da Nectanebo, avrebbe avuto il dio quando fosse andato a farle visita (con un vello d’ariete, corna di simil-oro -poichè Ammone, ossia Hamon-Ra, era raffigurato in parte o in tutto come ariete-, una bianca veste e una pelle di serpente maculato), e con tale inganno riuscì a giacere con lei. In effetti se si prendesse per buona questa storia romanzesca Alessandro Magno sarebbe nato almeno tredici anni dopo la sua effettiva data di nascita nel 356, cosa che appare impossibile a meno di non mettere in discussione tutta la cronologia degli eventi riguardanti il celebre sovrano e l’ultima parte della storia dell’impero Achemenide. D’altro canto se prendiamo in considerazione i faraoni vissuti circa cinque secoli prima di Alessandro Magno, ovvero quelli della XXII° dinastia, non ve n’è alcuno il cui nome somigli a “Necthanebis”.

7) probabilmente qui l’autore si riferisce non all'”orghìa” greca attica, equivalente a cm 177,6, ma a quella del sistema sistema egiziano “filetereo” in cui l’orgia corrisponde a cm 210. Pertanto il lato della base della piramide doveva essere di 84 metri. E’ questa la famosa “piramide di Hawara”, tuttora esistente, pur se assai malandata, tanto che assomiglia più a una collina naturale che a una costruzione umana.

8) lo stadio era una misura di lunghezza, equivalente a 600 piedi, che corrisponde a uno spazio che va da 177 a 215 metri, a seconda dei tempi e dei luoghi. Come abbiamo altre volte rilevato, la differenza tra antiche unità di misura che pure avevano il medesimo nome costituisce spesso una notevole difficoltà per stabilire con sufficiente approssimazione le distanze e le dimensioni di edifici descritti nei testi degli autori greci e romani.

9) esistette un Demotele che fu tiranno di Samo nel VII secolo a. C., ma è improbabile che si tratti di lui; quanto a Licea potrebbe trattarsi di Licea di Argo o dell’omonimo di Naucrati, entrambi storici, dei quali è più probabile Plinio si riferisca al secondo, tenendo conto che il suo luogo di origine era la colonia greca di Naucrati nel delta del Nilo.

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