L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -dodicesima parte (cosmologia ed escatologia nelle religioni iraniche -seguito-)-

In questo quadro assumono capitale importanza anche gli elementi naturali divinizzati: in essi peraltro sono da vedersi delle teofanie (ossia delle manifestazioni divine) non statiche, ma dinamiche, poiché esprimono i conflitti e le antitesi insiti nella sfera fenomenica, come pure gli equilibri in cui talo conflitti si risolvono, sebbene non in modo definitivo, ma sempre transitorio, tramite i quali procede l’incessante trasformazione del mondo naturale ed umano.

Il Fuoco (Atàr, Adar, Atur) è per eccellenza il dio purificatore, il “Figlio di Dio”, che riveste un rilevantissimo rilievo cultuale e diviene il sostegno e il fondamento medesimo della vita cosmica e umana. Incarna la potenza divina nel mondo, l’espressione visibile della giustizia, la gloria e l’aureola dei Re e dei Santi, la luce dell’intelligenza e dello spirito che dilegua le tenebre notturne e le presenze demoniache. Nella religione mitraica il Fuoco, identificato con Efesto e Vulcano, è la più elevata delle forze naturali, adorata in tutte le sue manifestazioni: luce e calore degli astri, fulgore del lampo, spirito vitale degli esseri viventi, energia che si cela nel ventre della terra ed infonde vita alle piante. Il Fuoco era sempre mantenuto acceso nelle cripte mitraiche, -così come nei luoghi di culto zoroastriani-, e i fedeli avevano grande cura acciocchè mai ne fosse macchiata la purezza.

Il dio Mitra (a sinistra) con un nimbo solare che si irradia dal suo capo, ed il “barsom”, lo scettro divino in mano, accanto al re Ardashir II in un rilevo di Taq-e Bustan in Iran.

Le Acque (Apò, o Apa) sono i principi liquidi fondamentali (dieci secondo il “Bundahishn”) dai quali prendono origine tutte le forme di vita, “i principi della nutrizione, della formazione, dello sviluppo e della saggia disposizione”, -stando a quanto è scritto in “Yasna”, 38-, guidati e coordinati da Arda Sura Anahita -l'”Umida, Forte, Pura” (alla quale abbiamo accennato anche nella parte precedente della presente trattazione, dove dicemmo che personifica il grande fiume cosmico che sgorga dal monte Hara Berezaiti, da cui discendono tutti i corsi d’acqua terrestri)-: a lei è dedicato lo Yast 5, dove si afferma che effonde le sue acque da una sorgente celeste collocata tra le stelle; è decritta come potente, splendente e maestosa, assisa sul suo venerabile in aspetto di leggiadra vergine, alta levando il suo sguardo luminoso, indossando una preziosa cintura, adorna di un superbo manto intessuto di fregi dorati. Ella assicura alle popolazioni, alle greggi, ai campi la fecondità e la prosperità, il latte alle puerpere, la saldezza nei propositi, la forza di resistere alle tentazioni dei demoni.

La Terra, la quale, fecondata dalle acque celesti, è madre di tutti gli esseri viventi era una figura importante più nella dottrina che nel rituale.

Pure i quattro venti principali, posti in relazione con i quattro punti cardinali e le quattro stagioni, avevano un loro significato nel quadro della cosmologia mitraica: essi erano considerati geni o angeli, ora benefici, ora malefici, apportatori del caldo e del freddo, delle tempeste e del sereno, preposti all’avvicendarsi dei ritmi stagionali. Essi appaiono soprattutto come la manifestazione dell’Aria, ritenuta il principio di tutta la vita (e in questo la dottrina mitraica sembra rimembrare la filosofia di Anassimene, il quale pose appunto l’Aria quale principio cosmico e causa prima). Gli altri tre elementi erano spesso rappresentati plasticamente da un leone (Fuoco), da un  cratere o una coppa (l’Acqua) e da un serpente (la Terra), non di rado effigiati insieme in un gruppo allegorico.

In un antico testo scoperto da Franz Cumont (1868-1947),- l’orientalista belga che studiò nel modo più approfondito i miti e i culti mitraici-, la concorrenza e lo scontro degli elementi sono espressi nel “mito della quadriga”: il dio supremo guida un cocchio tirato da quattro cavalli che percorrono senza sosta una pista circolare immutabile; il primo cavallo, il più veloce, è dotato di un pelo assai splendente sul quale spiccano le immagini dei pianeti e delle costellazioni; il secondo cavallo è meno forte e rapido ed ha un pelo scuro illuminato solo da una parte dallo splendore del Sole; il terzo è ancora più lento; mentre il quarto gira soltanto su sé stesso, essendo quasi come una meta intorno alla quale gli altri compiono la loro galoppata. Ma dopo che la quadriga ha effettuato un primo giro, il primo cavallo, quello più veloce e splendido, proietta il suo soffio ardente sul quarto, il più lento e oscuro, e ne infiamma così la criniera; il secondo cavallo inonda a sua volta la criniera del quarto con il suo copioso sudore. Infine si verifica una meravigliosa trasformazione: i quattro cavalli mutano la loro natura e l’essenza dei tre meno forti si traferisce al primo, il quale aumenta così a dismisura la sua potenza e viene a identificarsi nell’auriga del carro -ovvero il Dio supremo-. Nella simbologia espressa da questo mito, il primo cavallo personifica l’Etere (la “quintessenza”, in termini aristotelici, l’elemento sottile che contiene gli altri) -specie nel suo stadio finale- e il Fuoco, il secondo l’Aria, il terzo l’Acqua e il quarto la Terra.

Nella sua migrazione verso occidente, -prima in Mesopotamia, e poi entro i confini del dominio romano-, Mitra assunse sempre più le caratteristiche del “dio redentore”, che, oltre a risolvere il conflitto cosmico tra “male” e “bene” a favore di quest’ultimo, offre all’uomo la salvezza individuale, sollevandolo dalla prostrazione in cui si trova immerso nel mondo materiale. Pur confermandosi dio della luce, egli appare anche come “Mesites”, il “dimorante nella zona intermedia”, poiché la luce è trasportata dall’aria, che spira tra il Cielo e il mondo terreno e infero: per tanto egli è lo “yazata” che, prossimo alle creature umane, ne comprende le necessità e le angustie e ne accoglie le preghiere portandole all’Ente supremo (e in questa funzione mostra quindi analogie anche con l’Hermes greco). L’identificazione con il dio solare babilonese Shamash viene a rafforzare ulteriormente il carattere di “medietà”, poiché nella cosmologia mesopotamica il Sole occupa il quarto posto tra i sette cieli compresi tra la terra e il cieli delle stelle fisse (o delle costellazioni). Nello zoroastrismo la figura di Mitra appariva distinta da quella del dio del Sole Hvare-Khshaeta (“Sole radioso”), -nome che fu poi contratto in Khorshad nel medio-persiano, ma nel volgere dei secoli le due figure divine furono strettamente associate e in seguito finirono per confluire; di conseguenza dopo la conquista persiana della Mesopotamia, e l’inizio del processo di fusione delle due religioni fu naturale identificare Khorshad-Mitra persiano e Shamash babilonese.

Ed in effetti dalla civiltà e dalla religione assiro-babilonesi il credo mitraico riceve una forte impronte astrale: i sette pianeti sono divinizzati e possiedono ciascuno le proprie virtù; ognuno di essi presiede a un giorno della settimana, a un metallo, a una o più pietre, piante, animali, nonché a uno dei gradi di iniziazione della “chiesa” mitraica. Essi imprimono alle anime che scendono dall’empireo per incarnarsi le loro qualità, positive  e negative; e così pure divinizzati sono i segni dello zodiaco della tradizione astronomica ed astrologica mesopotamica, i quali esercitano le loro specifiche influenze sugli esseri viventi e sul mondo sublunare: per tale ragione particolare importanza ha nella dottrina mitraica (e, come avremo modo di vedere, ne avrà pure nel Manicheismo) l’astrologia (che, anche grazie all’impulso dato dai seguaci di Mitra, -pur se non esclusivamente per mezzo di essi-, si diffonde in occidente nella forma acquisita presso i sacerdoti-astronomi babilonesi, prevalendo sulla forma egizia).

La credenza astrologica si associa peraltro al mito di Zurvan e del Tempo circolare e senza limiti (rappresentato dall'”Urobòros”, il “Serpente che si morde la coda”), poiché l’azione dei pianeti e dei segni zodiacali, e soprattutto le interazioni tra di essi determinano il corso degli eventi terreni ed umani, così che il Tempo cosmico che si manifesta nell’eterno incrociarsi dei moti zodiacali e planetari viene a coincidere con l'”Ananke”, la Necessità ineluttabile, il destino a cui non si può sfuggire, ma che in fondo non è qualcosa di esterno a cui si soggiace, ma il risultato delle influenze e delle qualità presenti in noi fin dalla nascita e da cui siamo inevitabilmente condizionati. Tuttavia questi stessi  pianeti e segni conservano il loro carattere di divinità personali e possono, in parte, modificare e correggere le loro influenze ascoltando le preghiere degli uomini: il che in pratica significa che attraverso la riflessione e la disciplina interiore si possono incanalare e indirizzare verso un fine costruttivo anche le tendenze innate che di per sé potrebbero più facilmente condurre a vie sbagliate, ad usare in modo cattivo, e nocivo per sé e per gli altri, le proprie potenzialità fisiche, animiche e psicologiche; e che tanto più si ha consapevolezza delle proprie inclinazioni e della propria natura, tanto più si riuscirà a dominarle e a prevederne gli effetti, a non essere passivamente in balia degli eventi e del fato e ad evitare così scelte inadeguate ed errori spesso catastrofici (il che in altre parole richiama al precetto delfico e socratico del “Conosci te stesso”).

Nella statuaria e nei rilievi Mitra è rappresentato quasi sempre in mezzo a due fanciulli recanti in mano una fiaccola (e quindi chiamati “dadòfori” = “portatori di torcia”), dei quali uno la tiene alzata e l’altro abbassata, i cui nomi sono rispettivamente Cautes e Cautòpates. Codeste due figure sono incarnazioni ed epifanie del dio e costituiscono insieme alla figura principale una triade (il “triplice Mitra”), nella quale sono personificati i punti salienti del quotidiano ciclo del Sole: il sorgere all’alba (dadoforo con la torcia in alto); il pieno splendore meridiano (Mitra); il tramontare al vespro (dadoforo con la torcia in basso)(1). A questa rappresentazione plastica e simbolica del percorso diurno del Sole, se ne sovrappone un’altra con il ciclo annuale del Sole, secondo la quale i tre personaggi incarnano il susseguirsi delle stagioni: la primavera, che corrisponde all’alba; l’estate che corrisponde allo zenit; e l’autunno che è invece il tramonto (mentre, com’è ovvio, l’inverno è in parallelo con la notte).

Mentre nell’originario mito iranico Mitra è il figlio o della dea Anahita o di una vergine misteriosa, -che però richiama senza alcun dubbio Eredat-Fedhri, colei che è madre del “Saoshyant”, come abbiamo visto nella decima parte-, nella forma diffusasi nel mondo greco-romano egli nasce da una roccia, detta “petra generatrix”, fanciullo, ma già in grado di parlare e di camminare da solo, -o giovanetto-, circondato da una luce sfolgorante, portando in testa il tipico berretto frigio che è suo costante attributo (e che veniva indossato anche dai suoi sacerdoti), con un coltello o un pugnale o un arco con frecce nella mano destra e una fiaccola nella sinistra per dissolvere le tenebre che avvolgono il mondo (2). meno di frequente Mitra viene al mondo uscendo da un uovo, -come il Fanete orfico-, o da un albero -come Adone-.

Mitra che esce dalla “Petra generatrix”.

Alla sua nascita assistono alcuni pastori che avevano condotto le loro greggi a dissetarsi ad un fiume presso la Pietra sacra, tra i quali talora sono rappresentati anche Cautes e Cautòpates (3); costoro intuendo la divinità del fanciullo che hanno visto emergere dalla roccia, lo adorano devotamente e gli offrono i loro doni. nell’iconografia della nascita di Mitra diffusa in occidente non di rado assistono al lieto evento diversi animali (cani, leoni, delfini, aquile e altri uccelli, coccodrilli, serpenti, ecc.) che incarnano le potenze luminose o tenebrose che aiutano o ostacolano la divina missione del dio neonato. In alcuni rilievi compare anche una figura maschile barbuta identificata con Oceano; altre volte sono presenti le personificazioni dei quattro elementi, dei quattro Venti, delle quattro Stagioni, e spesso non mancano neppure il Sole, la Luna, la Vittoria e Saturno che consegna a Mitra un pugnale (il Tempo che distrugge le cose che hanno esaurito la loro funzione): figure con le quali la venuta del dio si evidenzia come evento cosmico e palingenetico.

Non avendo altre vesti oltre il berretto frigio, il divino pargolo ha freddo e si ricovera pertanto sui rami di un fico che si trovava nei pressi, si nutre dei suoi frutti e si confeziona un abito con le foglie dell’albero (tuttavia nell’iconografia Mitra adulto appare sempre abbigliato alla maniera persiana, con una corta tunica e le “anassiridi”, i pantaloni allacciati).

Poco dopo la nascita, Mitra dà inizio alla sua missione terrena con la quale le forze oscure e tenebrose verranno sconfitte, e si avrà così il trionfo finale del bene e della luce. Primieramente gli incombe l’impresa di affrontare il Sole, il quale è costretto a rendergli omaggio, ricevendo da lui la luminosa corona radiata che da allora Mitra porta sul capo; dopo la vittoria di quest’ultimo i due dei stipulano tra di loro un patto di eterna amicizia e da allora collaborano per restaurare l’ordine cosmico compromesso dal male. In questa lotta seguita dalla conciliazione e dall’alleanza tra le due divinità non è difficile riconoscere la concorrenza, e poi la confluenza tra la figura di Mitra e del dio del Sole persiano Hvare-Khshaeta (come si è detto sopra) che si fusero a loro volta con lo Shamash assiro-babilonese.

A questo punto è introdotto l’episodio della lotta con il toro, che è il più noto e quello che riveste il significato più profondo nel misticismo mitraico. Nella tradizione mazdaica troviamo un sacro toro, -il quale peraltro sembra avere caratteristiche ermafrodite tanto che talora è definito mucca-, di immacolato candore lunare, a cui però non è attribuito uno stretto legame con Mitra: tale bovino, il cui nome è Gavaevodata nelle fonti più antiche e Gavevagdat, o Abudad, in quelle recenti (come il Bundahishn), era stato creato da Ahura Mazda, ma era stato ucciso da Ahrimane, il quale, assunte le sembianze di un serpente o di uno scorpione, l’aveva ucciso per mezzo di un veleno iniettatogli con il morso o con la puntura. Dal fianco destro (o in altre versioni da una sua zampa destra) nacque l’uomo primordiale ermafrodito -Gayomard, o Kaiomars, o Kaiomort-, da quello sinistro tutto il rimanente del regno animale (quanto al serpente e allo scorpione non è chiaro fossero stati creati da Ahrimane, o quest’ultimo abbia assunto l’aspetto di tali animali senza che questi già esistessero), mentre dalle restanti parti del suo corpo ebbero origine le piante (4). La morte del toro ha dunque tutti i caratteri di un mito cosmogonico e antropogonico, poiché dal suo sacrificio derivano tuti gli esseri viventi che popolano la terra e per tale ragione è probabile che sia stato attribuito a Mitra nelle correnti religiose in cui questa divinità assurge a figura centrale, -pur non essendo il Dio supremo- nel simbolismo cosmico e psicologico (5).

In una prateria posta su un altopiano tra alte montagne Mitra insegue un grande e indomito toro (che rimembra il toro di Creta), fino a che non riesce a raggiungerlo e, dopo avergli afferrato le corna, a salire sulla sua groppa. L’animale però non si ferma ed anzi accelera la sua corsa, trasportando con sé il dio il quale però non desiste dalla presa, finchè il toro vinto dalla stanchezza, cede agli sforzi di Mitra; questi allora lo trascina per la coda fino alla caverna che aveva eletto a sua dimora (questo particolare ricorda il furto della mandria di buoi compiuto dal neonato Hermes ai danni di Apollo), attraversando un sentiero irto di innumerevoli ostacoli, -che vennero interpretate poi come allegoria delle prove, esistenziali e/o iniziatiche che l’uomo deve superare, durante la sua esistenza e che presentano analogie con il percorso dell’anima nell’al di là della religione egizia (ma sulle quali non si hanno precise notizie)(6)-. Ma il toro riesce a fuggire dalla grotta di Mitra e torna alle sue praterie, dove però viene scoperto dall’occhio vigile del Sole, il quale per mezzo del corvo, suo messaggero (si noti che il corvo è associato alle divinità solari in diverse mitologie: ad Apollo in quella greca, a Lug in quella celtica, ecc.), il comando di uccidere il forte animale. Mitra vorrebbe evitare di eseguire il crudele ordine, ma non osa trasgredirlo, per cui postosi all’inseguimento del bovino con il suo fedele cane (abbiamo visto nella decima parte che il cane, insieme al gallo, aveva una funzione e un significato importanti nel credo zoroastriano), riesce a raggiungerlo proprio mentre sta per rientrare nella caverna donde si era allontanato. Quando ha trafitto il toro con il suo coltello (o il suo “acinace”, la scimitarra persiana e armena), avviene però un miracolo: dal copro della vittima morente escono tutte le piante benefiche, che si diffondono sulla terra; dal midollo si genera il grano, dal sangue il vino (che nelle agapi mitraiche aveva la funzione che nel mazdaismo era assegnata all'”haoma”)(7). I demoni maligni tentarono di impedire tale trasformazione e a tal fine inviarono il serpente, lo scorpione e la formica (che nel mitraismo è stranamente vista in modo negativo, a differenza che nella maggior parte delle culture dove all’operoso insetto si attribuisce una valenza positiva), i quali attaccano le parti intime del toro, mentre il cane di Mitra cerca di scacciarli. Lo spirito del Toro, -che è identificato nel Toro zodiacale-, ascende verso la Luna, dando origine a tutte le specie di animali utili, mentre la sua anima, in compagnia del cane, sale verso il cerchio zodiacale, ove si trasforma in Silvano, dio delle greggi.

Da due piante di rabarbaro nacque la prima coppia umana (in effetti non si capisce allora a che genere appartenessero i pastori che avevano assistito alla nascita di Mitra: è questa una delle tipiche incoerenze di cui abbondano le cosmogonie e le dottrine religiose in genere); ma ancora un volta lo spirito del male trama contro gli esseri creati da Ahura Mazda e tenta di porre fine all’esistenza di costoro inaridendo le fonti delle acque e inviando sulla terra una perniciosa carestia, così che i due rischiano di morire poco tempo dopo la loro apparizione nel mondo. La coppia umana rivolge allora a Mitra un’accorata preghiera e questi lancia una freccia su di una roccia da cui sgorga una sorgente di acqua limpida con la quale i due umani si possono dissetare. Seguono poi cataclismi cosmici che mettono a dura prova l’umanità: un diluvio, dal quale pochi rappresentanti del genere umano si salvano su di un’imbarcazione nella quale vengono accolto anche alcuni esemplari di tutte le specie animali; e poi una conflagrazione per opera del fuoco, dalla quale le creature del dio buono riescono a sopravvivere. Alla fine Mitra, il Sole e le altre divinità celebrano la loro vittoria con un banchetto, -che veniva rinnovato nelle àgapi del culto mitraico-, e ascendono al Cielo (8).

CONTINUA NELLA TREDICESIMA PARTE

Note

1) questa tripartizione mostra una significativa analogia con la credenza egiziana nella quale il Sole nascente era incarnato da Chepri, quello meridiano da Ra (o da Horo) e quello vespertino da Atum. L’etimologia del nome Cautes è dubbia: secondo alcuni deriverebbe dall’iranico “kauta” = “giovanetto”; per altri invece sarebbe connesso al persiano antico “k’vat” e al medio persiano “xvar” = “fuoco solare” (imparentati a loro volta con il greco “kaio” = “bruciare” e il latino “cautes” = “pietra rovente”). Cautopates è l’unione di Cautes con “patar” = “protettore”. In alcune raffigurazioni in cui i due dadofori appaiono ai lati della “tauroctonia”, -ovvero di Mitra che uccide il toro, l’episodio centrale del mito di questa divinità, di cui tratteremo poc’anzi-, Cautes tiene in mano spighe di frumento e Cautopates la coda del toro, che però termina anch’essa con una spiga, esprimendo così il loro legame con la fecondità della terra e con il ciclo stagionale, reso evidente anche dall’associazione di Cautes con un albero ancora spoglio e con il segno zodiacale del Toro; e di Cautopates con un albero che reca frutti e con il segno dello Scorpione. Essi inoltre alzano lo sguardo il primo verso il Sole, il secondo, Cautopates, verso la Luna (poiché i due luminari quasi sempre assistono all’evento)  con un’espressione di pena o tristezza.

2) la pietra, così come la grotta, è figura del ventre della Terra, e nello stesso tempo allegoria del Cosmo, “imago Mundi”; non a caso spesso le divinità, specie quelle salvifiche, nascono in una caverna (Hermes, Dioniso, e altri). Porfirio afferma, -in “L’antro delle Ninfe”, opera nella quale prendendo spunto dall’episodio dell’Odissea (XIII, 102-112) in cui Ulisse, tornato ad Itaca, prima di presentarsi a Penelope, si rifugia in un antro consacrato alle Ninfe ove nasconde i ricchi doni ricevuti da Alcinoo, re dei Feaci, tratta appunto del simbolismo mistico legato alle caverne-, che “gli antichi assai opportunamente consacravano gli antri al Cosmo, considerato nel suo insieme o nelle sue singole parti, poiché vedevano nella terra il simbolo della materia di cui il cosmo è costituito […]; ma nelle caverne vedevano anche rappresentato il cosmo che si forma dalla materia: essi infatti sono per lo più autogenerati e connaturali alla terra, circondati da un blocco uniforme di roccia, cavo all’interno, mentre all’esterno si confonde nell’indistinta superficie terrestre”. Talora nell’iconografia mitraica il dio è rappresentato nascente dal centro di un nastro ellittico, in cui è inscritto lo zodiaco, risultando dunque le scena assai simile alla nascita del Fanete orfico (o “primo Dioniso”), che esce dall'”Uovo Cosmico”  per dare inizio al ciclo temporale (ed in effetti è probabile una confluenza o un’influenza delle credenze orfiche nello sviluppo della religione mitraica in occidente).

3) anche il fiume presso il quale si trova la pietra sacra richiama il lago Kashaoya, nelle cui acque la vergine bagnandosi si ingravida del “Saoshyant”, il “Benefattore”; è chiaro che nella religione mitraica la figura di Mitra assorbe e sostituisce quella del Saoshyant, il salvatore dello zoroastrismo. Credo sia superfluo rilevare l’analogia con l'”adorazione dei pastori” che nei vangeli canonici e apocrifi è associata alla nascita di Gesù Cristo (e forse tenendo conto di altre elementi che collegano tale evento ad ambiti religiosi non giudaici -la parallela “adorazione dei Magi”, la “fuga in Egitto”-, non si tratta di una semplice analogia o parallelismo tra le vicende di “salvatori” e fondatori di religioni, ma di una vera e propria inserzione di elementi iranici nella figura di Cristo).

4) in effetti nella tradizione prevalente la creazione dell’uomo primordiale segue ed è distinta da quella del bovino primordiale. Nel “Bundahishn” -nel quale peraltro sono contemplate varianti del mito cosmogonico- viene riportata una sequenza della creazione che si attua in sei giorni, assomigliando dunque all’analogo schema della “Genesi” ebraica: nel primo giorno Ahura Mazda crea il Cielo, costituito di Ferro Vampante, inespugnabile fortezza dello Spirito del bene contro le insidie di Ahrimane; nel secondo l’Acqua, accompagnata da Vento piovoso, che dovrà combattere i demoni della sete e della siccità; nel terzo il dio buono crea la Terra, rotonda e posta al centro del Cielo; nel quarto le Piante; nel quinto i Bovino primordiale, capostipite di tutte le specie animali; e infine nel sesto, Gayomart, il prototipo dell’umanità. Gavaevodata è creata nel “Menok”, il mondo spirituale (nel quale potrebbesi vedere qualche affinità con il mondo delle idee platonico), e viene poi inviata nel “Getik”, il mondo materiale o delle forme; qui il povero animale divine vittima di Ahrimane, che suscita contro di lei fame, malattie e sofferenze di ogni genere, sì da provocarne la morte. Ma dal suo corpo hanno origine 155 specie di semi commestibili e 2 specie di piante salutari (quindi le specie vegetali utili all’uomo; dopo di che, trasportata nella sfera della Luna, genera due esseri simili, maschio e femmina, dai quali derivano le 272 specie di animali utili (mentre quelli considerati nocivi sono considerati creazioni di Ahrimane). In altre versioni viene il bovini viene plasmato con il fango sulla riva destra del fiume Veh-Daiti, che scorre nella terra di Airyan Vaejah -il centro del mondo e il luogo leggendario (e che potrebbesi pertanto paragonare all’Eden biblico) dal quale ebbero origine le stirpi indo-iraniche e da cui derivano il nome degli Airya e il toponimo “Iran”-; quanto a Gayomart, secondo quanto si dice nel primo capitolo del “Bundahishn” viene creato da Ahura Mazda nel sesto giorno della creazione sulla riva sinistra del fiume V eh-Daiti in forma di fanciullo di circa 15 anni, affinché gli fosse di ausilio per contrastare il suo malvagio gemello Ahrimane; egli è dotato di aspetto lucente e splendido, nonché altissima statura. Per 3.000 anni visse sulla terra senza avere alcuna necessità di nutrirsi, né di parlare e durante questo periodo Ahirmane rimase in una condizione di semi-incoscienza, così che nel mondo regnarono la pace e la giustizia. Ma purtroppo alla fine il dio maligno fu ridestato da un potente urlo di Jehi, demone femminile dell’impudenza e della lascivia: da questo momento Ahrimane irruppe sulla terra nel primo giorno del mese di “farvardin”, -il “nevrouz” o “nouruz”, l’equinozio di primavera-  con la violenza di un dragone adirato portando seco fame, carestia, malattie e tutte le disgrazie e le passioni distruttive che funestano l’esistenza degli esseri viventi. A causa di questa catastrofe, la buona Gavevagdat muore (e nella sua morte alcuni vedono la fine dell’anno vecchio per far posto a quello nuovo), mentre Gayomart viene affidato al demone Astovidat, che viene incaricato da Ahrimane di ucciderlo. Ma poichè mancavano ancora 30 anni al compimento del suo destino, la sua uccisione viene rimandata. Alla fine viene anch’egli soppresso; ma, quarant’anni dopo la sua morte, dal suo corpo nasce un arboscello a quindici foglie dai cui frutti uscirono le prime due creature umane, Mashi e Mashani (o Mihre e Mhiryane). Secondo una tradizione secondaria dalla testa di Gayomart derivò il piombo, dal sangue lo zinco, dal midollo l’argento, dai piedi il ferro, dalle ossa l’ottone, dal grasso il cristallo, dalle braccia l’acciaio e dall’anima l’oro.

5) occorre peraltro ricordare che nella religione persiana, come in quella indiana, i bovini godevano di una particolare considerazione e financo venerazione, data l’importantissima funzione che hanno nel sostentamento umano. Anche nella cosmogonia germanica troviamo una mucca cosmica, Audumbla (o Audumla) nata dallo scioglimento dei ghiacci primordiali insieme al macroantropo Ymir che fu da lei allattato. Leccando il sale che incrostava alcuna pietre ghiacciate Audumbla portò a sua volta alla luce un altro protoantropo, i cui discendenti uccisero Ymir e con le sue membra crearono le varie parti del mondo (con il cranio la volta celeste, con le ossa le montagne, con il sangue il mare, ecc.).

6) si tenga presente che la maggior parte delle informazioni sulla religione mitraica vengono, oltre che dalle testimonianze archeologiche e iconografiche (numerose, poiché luoghi di culto consacrati a Mitra, i “mitrei”, sono stati scoperti in tutte le regioni dell’Impero Romano), dagli scritti di autori cristiani (Tertulliano, Arnobio, S. Gerolamo, Firmico Materno, pseudo-Agostino) le cui affermazioni sono spesso inficiate da intenti polemici, e non da fonti mitraiche. Pertanto esistono molte lacune sulle dottrine dei seguaci del dio persiano, e anche le interpretazioni date dagli studiosi moderni divergono spesso: si va da coloro che ritengono il mitraismo una autentica religione persiana, una versione dello zoroastrismo, superficialmente rivestita di elementi e forme greco-romane, a quelli per cui, pur derivando la base degli insegnamenti mitraici dal mondo iranico, questi ultimi sarebbero stati profondamente trasformati e integrati nella religiosità e nella cultura del mondo greco-romano, perdendo in gran parte il significato originario. Altri invece seguono una via intermedia, -ossia che i principi e la teologia della dottrina iranica sarebbero stati interpretati alla luce dello spirito greco e romano, ma senza annullarne o inficiarne l’originalità-, e tra di essi il Cumont, -alla cui opera e interpretazione ci siamo attenuti nella presente ricerca-, il quale, pur essendo stati i suoi studi messi in discussione negli ultimi decenni, a nostro giudizio rimane tuttora la voce più autorevole sulla materia.

7) il pane, trasformazione del grano, e il vino, di solito diluito con acqua, -che in occidente aveva sostituito l'”haoma”- costituivano dunque l’eucarestia mitraica, assai simile a quella cristiana. Questa somiglianza non è certamente dovuta a un’influenza di una delle religioni sull’altra, ma al simbolismo naturalistico che sta alla base delle religioni salvifiche.

8) nell’episodio del sacrificio del Toro si è visto anche un simbolismo astronomico-astrologico: il passaggio del punto vernale (o “punto γ”) -il punto di intersezione dell’eclittica (il percorso del Sole attraverso i segni dello zodiaco) con l’equatore celeste-, che segna l’equinozio di primavera, dalla costellazione del Toro a quella dell’Ariete, a causa della “precessione degli equinozi”, scoperta dall’astronomo Ipparco di Nicea nel II sec. a. C. A causa di tale processo astronomico, dovuto al continuo spostamento dell’asse terrestre secondo un moto circolare a trottola, il punto vernale retrocede di un grado ogni 72 anni nella fascia zodiacale, per cui impiega 2.160 anni ad attraversare ciascuna costellazione e 25.920 anni per compiere il giro dell’intero zodiaco, periodo definito “grande anno platonico”. Ciascuna delle dodici fasi di cui si compone il “grande anno” si configura come un’era denominata dalla costellazione attraversata dal punto vernale durante quel periodo. Per quanto il calcolo del momento esatto del passaggio da una costellazione all’altra del punto vernale sia di difficile determinazione, -anche perché varia a seconda che si prenda in considerazione lo zodiaco tropico, lo zodiaco siderale e quello astronomico-, stando ai calcoli più attendibili l'”Età del Toro (di Taurus)” sarebbe cominciata nel 4.035 a. C., mentre all'”Età dell’Ariete (o di Aries)” è dato come anno di inizio il 1874 a. C. (su questo argomento si veda anche quanto abbiamo scritto nella prima parte di “L’età dell’Aquario e la profezia della Piramide” del 24 maggio 2013). Un’altra interpretazione di tipo astronomico vede nell’evento mitico di cui è protagonista Mitra il Sole che uccide l’anno vecchio affinché si dia principio ad un nuovo ciclo temporale.

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Una risposta a “L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -dodicesima parte (cosmologia ed escatologia nelle religioni iraniche -seguito-)-”

  1. […] Para el zoroastrismo esta realidad está fundamentada en la conocida lucha dual blanco/negro, las dos polaridades, dos caras de la misma moneda pero opuestas: el Bien (AHURA MAZDA, ORMUZ o SPENTA MAINYU ) que son las fuerzas creativas/ el orden, la «Buena Mente» («mainyu» significa mente o espíritu) y el Mal (AHRIMAN o ANGRA MAINYU) que son las fuerzas destructivas o del caos. […]

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