CANTO VII
Già le stelle a una a una/ si spegnevan con la Luna,
e l’Aurora luminosa,/ con le dita tutte rosa,
mari e monti rischiarava/ e le ombre salutava.
Gli animal s’eran destati/ coi pancini un po’ imbronciati,
e per fare colazione/ se ne usciron dal portone,
perché alcune pie persone/ lì lasciavan cose buone.
Poi tornaron nelle sale/ per andarsi un po’ a lisciare,
o il pelo o le piume,/ com’è sempre lor costume.
“Se tu bravo sei a sonare,/ io saprei bene cantare!”
disse allora il pappagallo,/ che venìa dal Portogallo.
Lì l’aveva trasportato/ un veliero sinistrato,
comandato da pirati,/ lungamente ricercati.
Quando un dì la polizia,/ -dopo un’aspra scorreria-,
arrestato avea i bricconi/ e ammainato i lor pennoni,
tutto sol l’avean lasciato/ ed ei si era rifugiato
nel manier monumentale,/ che ben gli era congeniale.
“Far potremmo un bel duetto,/ o magari anche un gruppetto,
perché quasi ogni animale,/ ha una vena musicale!”
proseguì con tono arguto/ quell’esotico pennuto,
che Juanito si chiamava,/ e assai esperto si mostrava.
“Se tu vuoi la verità,/ ne ho davvero a sazietà
di violini e di sonate,/ che sian belle o un po’ stonate,
e vorrei solo giocare/ ed in quiete riposare!”
ribattè allora Martino,/ masticando un croccantino.
Ma nel mentre avea scorto/ un bastone un po’ ritorto
che davvero lo invitava/ a toccarlo dove stava
con le agili zampette,/ e a lanciarlo con le unghiette
ora di qua, ora di là/ con giocosa abilità.
Egli infatti vedea intorno,/ nel chiaror del nuovo giorno,
sparse in terra tante cose,/ all’aspetto misteriose,
che del buon micino agli occhi/ eran proprio dei balocchi,
quali biglie e boccettini/ e cannucce con nastrini,
molti cocci di terraglie,/ e altre simil cianfrusaglie,
delle quali v’era là/ un’enorme quantità,
tra i divan metà sfondati/ e i tappeti sfilacciati.
Anche Ciro e i fratellini,/ scelti alcuni bastoncini,
li lanciavan verso l’alto,/ riprendendoli in un salto,
e imitavano Martino/ scorrazzandogli vicino.
Venner poi Giannetto e Anita,/ che non era più impaurita,
aggregandosi al bel gioco,/ che pareva sì spassoso,
mentre la gallina Amelia/ or danzava su una madia,
che trovavasi colà/ -la ragione non si sa-,
e sul mobil becchettava/ con sua grazia non ignava.
Or correndo là e qua,/ con gioconda agilità,
con diletto e brio felino,/ all’eclettico gattino
un’idea si presentò/ -che ora tosto vi esporrò-
di adoprar come strumenti/ quegli insoliti elementi
con cui s’era trastullato/ e ben si era sollazzato,
e coi nuovi amici insieme,/ -se per essi andava bene-,
di creare un’orchestrina/ dalla vena canterina.
Accettaron gli animali,/ con fervore senza eguali,
di Martino la proposta,/ che trovaron molto accorta.
Con le corde e i bastoncini/ fecero archi e mandolini,
le cannucce e le bacchette/ trasformarono in trombette,
delle buste e sacchettoni/ diventarono tromboni,
era un grosso scatolone/ un tamburo a percussione,
con cartone e cordoncini/ ecco fatti dei violini…
Poi usarono altri oggetti,/ -benché non troppo perfetti-,
e d’aspetto un poco vile,/ che trovaron nel cortile,
e eran stati lì gettati/ dagli uman maleducati,
ma potevano servire/ per le loro nuove mire:
da barattoli e lattine/ trasser strane chitarrine,
scatoline e bottigliette,/ bei nastrini ed etichette,
stati a lungo sotto il cielo,/ radunarono con zelo
per far timpani e sonagli,/ senza prender degli abbagli,
perché erano assai attenti,/ come alunni diligenti!
Fatti ora gli strumenti,/ cominciarono contenti
a provar le loro doti/ nei recessi più remoti
dell’antica lor dimora,/ che però era bella ancora.
Martin tutto rallegrato,/ ma anche un poco preoccupato,
per la bella iniziativa,/ -un’impresa suggestiva-,
la lor opera lodò/ e a guidare si apprestò
la tendenza musicale/ che mostrava ogni animale,
insegnando a lor sonare/ come meglio sapea fare.
Ed allor quel giorno nacque,/ così come ad essi piacque,
un’assai valente orchestra,/ -benché invero un po’ maldestra-,
un complesso strumentale/ dall’impronta originale,
che eseguiva con passione,/ e profonda ispirazione,
una musica fatata,/ dalle Muse suscitata,
una lieta serenata,/ o una villica ballata;
ma talor pure solenne,/ da qualunque neo indenne,
quale augusta sinfonia,/ o struggente melodia.
Martin era il direttore,/ nonché il primo esecutore,
mentre il savio pappagallo,/ con una canzon da ballo,
l’orchestrina accompagnava,/ e il valore ne aumentava.
Dei colombi v’era il coro,/ che era certo assai canoro,
e pur anco i pipistrelli,/ inquilini dei castelli,
con melodici squittii,/ che di grazia non son privi,
al concerto preser parte,/ dimostrando la lor arte!
Oh, quant’erano gagliardi!/ Mozart, Wagner e Vivaldi
presso i nostri musicanti/ eran solo dilettanti!
CANTO VIII
Ma quel ritmo affascinante/ tanto era esuberante
che l’umore sollevava/ e a librarsi confortava,
sì che in quelle oscure stanze/ or aprironsi le danze!
Diede inizio una gattina,/ il cui nome è Cherubina,
che, inseguendo una pallina/ con la grazia sua felina,e
eseguiva con destrezza,/ e mirabile prontezza,
giravolte, piroette/ e altre simili mossette.
Poi volò una tortorella/ a ballar le tarantella,
mentre alquante rondinelle,/ come garrule donzelle,
si slanciavan tutt’intorno/ della sala nell’interno
e guizzavano nel vuoto/ con un vorticoso moto.
Pure il drago sulla volta/ la sua lingua aveva sciolta
e, sbuffando esilarato/ un vapore profumato,
per il giubilo esultava/ ed intanto canticchiava
con la sua voce sua spiegata,/ che era roca, ma intonata.
Alla fin tutti i pelosi,/ con dei passi fantasiosi,
e di poi pure i piumati,/ che a lor s’erano aggregati,
giunti presso lo scalone,/ terminar l’esecuzione
con un gaio girotondo,/ che rendeva il cor giocondo!
Al fnir della giornata,/ che fantastica era stata,
se ne andarono a dormire,/ senza più null’altro dire,
lassi invero, ma contenti,/ per i conseguiti intenti.
Martin era soddisfatto/ per quel ch’egli aveva fatto,
però Bella rimembrava,/ che nel cor sempre serbava!
Or sembrava ormai conclusa,/ la terribile avventura
che il micin avea portato/ in quel luogo intemerato;
ma -ahimè- l’acerbo fato/ già tendeva un nuovo agguato!
Il barone Biribocchi,/ -un maestro nei pastrocchi-,
del maniero il possessore,/ che era un uomo senza cuore,
ebbe allora un’idea ria,/ -una vera fellonia-:
Il palazzo demolire,/ e al suo posto costruire
un gran centro commerciale,/ di cui ancor non v’era eguale.
A tal fin, -com’era d’uopo-,/ volle fare un sopralluogo:
al palagio si recò,/ ed insieme a lui portò
uno stuolo di ingegneri,/ capimastri e carpentieri,
per studiar la locazione/ della nuova costruzione.
Stavan or gli animaletti/ a dormir quali angioletti
e beandosi in bei sogni/ si cullavano nei suoni
con cui si erano allietati/ e sì bravi dimostrati.
Dal trambusto disturbati,/ si destaron spaventati,
e, vedendo quella gente/ dall’aspetto prepotente,
che frugava là e qua/ con febbrile inciviltà
senza scrupolo alcun farsi,/ corser rapidi a celarsi
negli armadi e nei cassetti/ (e gli alati sotto i tetti);
ma gli ignobili invasori,/ di disgrazie apportatori,
non cessavan di esplorare,/ senza nulla trascurare;
vanno pure a rovistare/ dietro al vecchio focolare,
dentro i mobili e i ricetti,/ le poltrone e gli stipetti
ove si erano riparate/ le bestiole spaventate.
E quegli uomini arroganti,/ che credeansi importanti,
quando spiavan gli animali/ entro i loro penetrali,
li scacciavano con ira,/ se venivano alla lor mira,
né di certo avea il barone/ la lodevole intenzione
di trovare ai micettini,/ -che per lui eran clandestini-,
una stabile dimora,/ dove salutar l’aurora,
un ricovero sicuro e per essi meno duro;
per cui i gatti e i coniglietti/ a fuggir furon costretti,
del cortile negli anfratti,/ dove star possono quatti.
Finalmente quegli intrusi,/ che mostravansi sì ottusi,
or, almeno per quel giorno,/ si levarono di torno;/
ed allora i nostri amici,/ dalle tane risaliti,
si poteron ristorare/ e indi poi ritorno fare
nella propria abitazione,/ ma con qualche esitazione.
Degli umani l’irruzione/ provocò trepidazione
poiché, udendo i lor discorsi,/ -benché fossero contorti-,
essi avevano capito/ quel che si era stabilito,
e le perfide intenzioni/ di quel branco di birboni
che volevano sfrattarli,/ e di un buon ripar privarli.
Per tant’erano allarmati/ e dicevan costernati:
“Or dovrem meditar bene/ quel che fare ci conviene,
per trovar la soluzione/ che la congiuntura impone,
ed elaborare un piano,/ quanto più geniale e strano,
per l’ipotesi scartare/ di dover da qui sloggiare
e raminghi per il mondo/ senza meta errare in tondo!”.
E si misero a pensare/ onde un modo escogitare,
con attenta riflessione,/ per salvar la lor magione.
CONTINUA NELLA QUARTA PARTE