L’AFFASCINANTE STORIA DELL’ALBERO DI NATALE -sesta parte (digressione sul Vischio)-

Il Vischio è protagonista nel suggestivo e patetico mito di Balder, figlio di Odino e di Frigg, il più buono, il più mite e il più saggio di tutti gli dei della mitologia norrena -e germanica in genere-. la cui storia è narrata nel “Gylfaginning”, uno dei testi più importanti, -anzi forse il più significativo per quanto riguarda i miti scandinavi-, del corpus che costituisce l'”Edda di Snorri” ( o “Edda in prosa”)(1). Una notte Balder ebbe dei terribili sogni che sembravano preannunciare la sua tragica morte. Egli palesò agli altri dei la preoccupazione che tali sogni avevano suscitato nel suo animo ed essi, riunitisi in consiglio, decisero di fare in modo di proteggerlo da qualsiasi pericolo (2). A tal fine la dea Frigg, madre di Balder, si premurò di far giurare al fuoco, all’acqua, alla terra, al ferro, a tutti i metalli e ad ogni specie di pietra, albero, malattia, veleno, a tutti i quadrupedi, agli uccelli e agli animali che strisciano che non avrebbero mai fatto alcun male a suo figlio.

Si credette così che Balder fosse divenuto invulnerabile, e gli dei si divertivano a colpirlo per gioco con svariati oggetti, a menargli fendenti, a lanciargli sassate, senza che questo gli arrecasse alcun danno, così che i celesti ne erano assai lieti. Tutti, tranne Loki, figlio di Laufey, il dio maligno, che ne era invece indispettito e meditò il modo di nuocere a Balder.

Statua ottocentesca di Balder, opera di B. E. Fogelberg.

Assunte sembianze di vecchia donna, si recò allora da Frigg, la quale gli disse che, stante il giuramento che aveva preteso da tutti gli esseri, nessuna cosa o essere viventi avrebbero ferire o uccidere suo figlio. Loki volle sapere se proprio qualunque essere avesse prestato il giuramento e Frigg rispose: “Ad occidente del Walhalla cresce un virgulto d’albero chiamato vischio (“Mistilteinn” in norreno), che mi parve troppo giovane per farlo giurare”. Subito Loki corse nel luogo che la dea gli aveva indicato e colse il ramo di vischio. Indi tornò nella sala degli dei e visto Hodr (o Hother), il fratello cieco di Balder, che se ne stava in disparte, gli chiese: “Perchè non tiri anche tu qualche cosa a Balder?”. Hodr ribattè che non vedeva dove stava suo fratello ed era senza armi. Allora il dio malvagio gli consegnò una lancia la cui cuspide era stata fatta con il ramo di vischio e gli disse di colpire Balder mentre lui gli indicava il punto dove si trovava e guidava la sua mano. Non appena la lancia con la punta di vischio colpì il giovane dio della luce lo trafisse da parte a parte ed egli cadde a terra morto (3).

Gli dei davanti a quel luttuoso evento non riuscivano a proferire parola, tanto erano costernati; infine proruppero in un pianto dirotto, chiedendosi chi mai avesse potuto ordire un simile misfatto (4). Quando si riebbero, stabilirono di mandare qualcuno di loro nel regno dei morti affinchè persuadesse Hel, -la regina degli Inferi, figlia di Loki-, a lasciare tornare Balder nella sua dimora nell’Asgard. Per tale missione si offerse Hermodr, un altro fratello di Balder, il quale salì in groppa a Sleipnir, il cavallo di suo padre, e partì al galoppo.

Mentre Hermodr si recava agli Inferi, gli altri dei trasportarono il corpo esanime di Balder sulla riva del mare, dove si trovava la nave che gli era appartenuta. Essi tentarono di spingerla nelle acque marine per apparecchiarvi la pira funebre, ma il pesante naviglio non si moveva. Allora fecero intervenire una gigantessa di nome Hyrrokkin, la quale giunse cavalcando un lupo al quale aveva legato una vipera come briglia. Ella diede una tale spinta all’imbarcazione che si sprigionarono fiamme dai tronchi sui quali veniva fatta scivolare verso il mare e tutta la terra tremò, suscitando l’ira di Thorr, il dio del fulmine, che voleva usare il suo martello contro la gigantessa. Ma gli dei lo trattennero, e a quel punto le spoglie mortali d Balder vennero deposte sulla nave: mentre veniva compiuto questo mesto rito, alla sua sposa Nanna si spezzò il cuore dal dolore e cadde morta, per cui anch’ella venne posta sulla pira e fu acceso il fuoco. Sopra il rogo venne posato anche il prezioso anello d’oro di Balder, chiamato Daupinir, il quale aveva la strana peculiarità di potersi replicare in altri otto anelli di eguale peso ogni nove notti.

Loki induce Hirdr a lanciare il dardo mortale a Balder.

Non solo gli dei, ma moltissime creature di ogni stirpe accorsero per tributare l’ultimo saluto a Balder; perfino i crudeli giganti del freddo (Hrimthursar) e delle montagne (Bergrisar) si mostrarono commossi dal triste destino del migliore di tutti gli esseri viventi.

Hermodr nel frattempo cavalcò per nove notti attraverso valli profonde e foreste tenebrose, fino a che non giunse sulle rive del fiume Gjoll sopra il quale era stato costruito il mirabile ponte Gjallarbrù, tutto rivestito d’oro splendente. A capo del ponte stava di guardia una fanciulla, il cui nome è Modgudr, che gli chiese perchè volesse recarsi nel regno di Hel. Saputo il motivo della sua venuta, la fanciulla gli indicò il sentiero da percorrere; dopo che fu arrivato al palazzo di Hel, vide Balder e Nanna assisi su un trono nella grande sala dei morti. Il mattino seguente Hermodr pregò Hel di lasciar tornare suo fratello in Asgard insieme a lui, ma la regina degli Inferi gli disse che prima si doveva accertare se il dio della bellezza e della gentilezza fosse davvero tanto amato, per cui, aggiunse la sovrana del tetro regno dei morti: “Se tutti gli esseri del mondo, vivi e morti, lo piangeranno, egli potrà tornare tra gli Asi, ma dovrà rimanere qui se qualcuno si opporrà, o si rifiuterà di piangerlo”.

Dopo che Hermodr fu tornato ad Asgard ed ebbe riferito la richiesta di Hel, gli dei inviarono messaggeri in  tutto il mondo affinchè Balder fosse pianto da ogni creatura vivente e potesse così risorgere; e quasi tutti aderirono all’invito senza sforzo, uomini, animali, piante, pietre e metalli. Ma in una grotta trovarono una gigantessa, Thokk, la quale era in realtà lo stesso Loki sotto mentite spoglie, che non volle versare le sue lacrime per Balder. Pertanto a Balder non fu data la possibilità di risorgere dagli Inferi ed egli dovrà rimanervi fino al Ragnarok, il “Crespuscolo degli Dei”, quando, dopo la conflagrazione cosmica che porrà fine all’attuale mondo, sarà destinato a rifondare un nuovo Universo (5). Quanto a Loki, il suo inganno fu presto scoperto ed egli cercò di sfuggire all’ira degli dei tramutandosi in salmone, ma Thor riuscì a catturarlo. La punizione che gli fu inflitta consistette nell’essere legato a tre rocce al di sopra delle quali un serpente stillava veleno sul suo capo; la pena che prova è lenita dalla sua consorte Sigun, la quale, tenendo sopra di lui un bacile, raccoglie il liquido malefico. Ma quando il bacile è pieno, ella si allontana per vuotarlo, così che Loki non può evitare di essere colpito dallo stillicidio ed il dolore da lui provato in quei momenti lo induce ad agitarsi con violenza, tanto che i suoi sussulti provocano i terremoti.

La morte di Balder.

Un grande santuario dedicato a Balder sorgeva nei pressi del fiordo di Sogne, che penetra in profondità tra solenni montagne nella penisola scandinava, ammantate da foreste di conifere da cui innumerevoli corsi d’acqua si riversano con maestose cascate nel lungo braccio di mare. Esso era chiamato il “Bosco di Balder”; una palizzata circondava lo spazio consacrato entro il quale trovavansi i simulacri di molte divinità, nessuno dei quali però era venerato con tanta devozione quanto quello di Balder.

I tratti mitici del dio, la sua morte tragica, il suo stretto legame con il ciclo della natura e in particolare delle piante, la discesa agli Inferi e la futura resurrezione, -o, se vogliamo “parusia” = ritorno-, nonchè lo stesso nome Balder -il norreno “baldr” e il sassone “baldor” significano “signore”-, hanno indotto ha vedere in lui un equivalente di Tammuz, Adone, Sandas, e a supporre una sua derivazione dall’area anatolica o siriaca (6); per quanto non sia necessario pensare che sia un dio “emigrato” da queste aree, poichè esprime un mitologema, -quello del “dio sofferente”-, diffuso in vario modo in molte culture e religioni, tanto che si può considerare una figura archetipica. Balder tuttavia, se, a causa del suo cruento sacrificio,  appartiene al novero degli dei “salvatori” o “redentori”, che assicurano all’uomo la salvezza individuale e la conquista o il recupero di una condizione divina di eterna beatitudine (come Dioniso, Adone, Cristo, ecc.), donando la loro vita, sembra pure apparentato alla categoria dei rinnovatori del ciclo cosmico attraverso una palingenesi dell’universo, come il Messia ebraico o “Sayoshant” mazdaico; ma egli mostra senza dubbio spiccate analogie soprattutto con l’Osiride egizio e il Dioniso orfico, entrambi assassinati con l’inganno da “parenti” (il fratello Seth, paragonabile a Loki, per il primo e i Titani per il secondo). D’altro canto la luminosa divinità scandinava può essere vista anche come un corrispondente dell’Apollo greco-romano, dio della luce e dell’armonia (7).

Secondo l’ipotesi formulata da J. G. Frazer nel suo celebre saggio sulla fenomenologia delle religioni (“Il Ramo d’Oro”) nel mito di Balder l’albero su cui cresce il vischio (8) sarebbe la personificazione di Balder, mentre il vischio stesso rappresenta la sua anima (o il suo spirito), -idea, come abbiamo visto nella parte precedente, comune a molte popolazioni che proprio sul riconoscere nel cespuglio epifita lo “spirito” dell’albero che sopravvive rigoglioso durante l’inverno, quando l’albero sembra perdere la sua vitalità, fondavano le valenze simboliche, magiche e terapeutiche del vischio-. Di conseguenza solo privato del vischio l’albero perde il suo principio vitale e la sua invulnerabilità e può essere così abbattuto e servire per il sacrificio nel quale il suo legno viene arso nel fuoco sacro.

L’antica credenza italica per cui il vischio non potrebbe essere distrutto né dal fuoco, né dall’acqua conferma, -sempre a giudizio del Frazer-, questa interpretazione, poiché, se si considera indistruttibile, fino a che il vischio rimarrà unito alla pianta ospite, esso le comunica la sua invulnerabilità: dunque la vita del dio dell’albero (Balder) era saldamente immortale solo fino a che il vischio persisteva sui suoi rami. Quando un astuto nemico scoprì il segreto dell’immortalità di Balder, strappò il vischio uccidendo così il dio, il cui corpo fu poi arso sopra un rogo funebre che non gli avrebbe arrecato alcun male se il cespuglio fosse stato sopra di lui. In questa prospettiva dunque l’inganno di Loki, come il tradimento di Giuda, è lo strumento necessario affinché si compia il fato ineluttabile che incombe su tutto il cosmo, -destinato a finire per dar luogo a una nuova creazione-, e nel medesimo tempo si possa realizzare il sacrificio salvifico di Balder (9).

Il Frazer riporta poi diversi esempi di conservazione delle credenze sulle virtù magiche, apotropaiche e terapeutiche del vischio, e segnatamente al vischio di quercia-, nelle tradizioni popolari, in particolare nell’area germanica e contro-europea e in quella britannica. Ad esempio, in Argovia (Svizzera) i contadini attribuiscono, -o forse sarebbe meglio dire attribuivano-, a questo arbusto un grande potere di guarigione, soprattutto delle malattie infantili, ma solo se colto durante il transito del Sole nel Sagittario, il terzo o quarto giorno prima della Luna Nuova; esso inoltre doveva essere staccato dall’albero scoccando una freccia e poi afferrato con la mano sinistra. Pure in Svezia  e nel Galles era indispensabile impadronirsi del prezioso arboscello con un colpo di sasso o con un dardo.

Nello Schleswig-Holstein era considerato un rimedio infallibile per le ferite che stentavano a rimarginarsi e un potente talismano per propiziarsi una caccia fruttuosa. Eccezionale efficacia era poi attribuita in moltissime località al vischio contro il mal caduco, il “ballo di S. Vito” e tutte le forme convulsive: in Svezia e in Germania era uso portarne addosso per prevenire crisi epilettiche, mentre nella Francia centrale si impiegava a tale scopo una pappa confezionata con decotto di vischio di quercia colto la notte di S. Giovanni Battista (tra il 23 e il 24 giugno) mescolato con farina di segale. Alla base dell’idea dell’efficacia terapeutica del vischio per contrastare l’epilessia sta l’osservazione che come l’arboscello non può precipitare a terra fino a che rimane abbarbicato sul ramo che lo sostiene, così l’epilettico non può cadere vittima del morbo fin tanto che ne porta su di sè un rametto o dopo aver ingerito un decotto preparato con codesta pianta.

Poichè si credeva che il vischio crescesse nel punto in cui l’albero era stato colpito da un fulmine, seguendo un principio di magia simpatica, gli si attribuiva la virtù di proteggere dai pericoli del fuoco e specialmente dagli incendi: come abbiamo visto sopra dalla testimonianza di Plinio il Vecchio in Italia nei tempi antichi era ritenuto un valido antidoto contro questo tipo di sciagure, in Svezia veniva appeso in casa, mentre in Boemia un ramo veniva arso sul focolare durante i temporali. In moltissimi luoghi era uso porre una pianta di vischio sopra la soglia di casa per stornare malocchio, malefici e stregonerie e per attirare fortuna e buona salute sugli abitanti; e tale costumanza si è mantenuta tuttora, anzi si è diffusa anche dove non era prima conosciuta (10). Nel Galles si credeva che un ramoscello di vischio colto la vigilia di S. Giovanni Battista, con le modalità sopraddette, posto sotto il cuscino potesse propiziare sogni profetici.

Ma lasciamo ora le lande germaniche e scandinave per tornare in Italia, e precisamente nel Lazio. Qui nei pressi del lago di Nemi, -l’antico “Lacus Nemorensis” o “Speculum Dianae”-, poco a sud di Roma, tra le cittadine di Ariccia e Lanuvio, sorgeva un venerato santuario, che in principio consisteva soltanto di un bosco sacro, un “nemus”, a cui in seguito furono aggiunti anche edifici in muratura di cui si conservano scarse rovine. Il sacerdote addetto a questo luogo di culto era detto “Rex Nemorensis”, il “Re del bosco”,e le modalità con le quali egli assumeva tale carica rimandano a tradizioni altamente arcaiche che rimandano alle lontane origini comuni dei Latini, e degli Italici in genere, con i Celti e i Germani. Infatti questo sacerdozio poteva essere detenuto solo da uno schiavo fuggitivo che fosse riuscito a uccidere in duello il suo predecessore e rimaneva in carica fino a quando non fosse stato vinto a sua volta da uno dei successivi aspiranti a quella dignità; è facile immaginare che codesto insolito sacerdozio comportasse un’esistenza continuamente esposta al pericolo -“egli per conseguenza va sempre armato di pugnale, e sta in sospetto ed apparecchiato a respingere le insidie, tanto che la notte non trascorre mai per lui serena, né può abbandonarsi ad un lungo sonno ristoratore”-, e quindi in verità ben poco allettante se non per individui al tempo stesso audaci e disperati. Si osservi però -e questo l’elemento che riguarda la nostra trattazione-, che per avere il diritto di combattere con il sacerdote lo sfidante era tenuto a cogliere una fronda da un albero del bosco sacro, da cui a nessuno era lecito cogliere o spezzare alcun ramo, salvo che non volesse cimentarsi contro il “Rex Nemorensis”.

Ricostruzione del tempio di Diana Nemorense nell’età imperiale romana.

Secondo la leggenda riferita dagli antichi autori, come Servio nel suo commento all’Eneide di Virgilio (VI, 136) il culto di Diana Nemorense fu istituito da Oreste, il quale, dopo aver ucciso, Toante, re di Tauride (o Chersoneso Taurico), -l’attuale Crimea-, era fuggito in Italia con sua sorella Ifigenia (quella scampata, o meglio salvata da Artemide, al sacrificio in cui il padre Agamennone la voleva immolare per propiziare la sua impresa troiana), portando seco il simulacro di Artemide Taurica, occultato entro un fascio di sterpi. Giunto nei pressi di Ariccia egli collocò la statua nella selva frondosa che ivi trovavasi, ma in seguito la presenza numinosa della dea fu percepita in un albero sacro, -presumibilmente una quercia-, a cui non si poteva sottrarre alcuna fronda, -poiché, nell’interpretazione  del Frazer, contenevano lo spirito della pianta-dea-. Pertanto, stando a quanto testimonia Servio, -che visse quando tale sacerdozio non esisteva più (11)-, nello schiavo fuggitivo riviveva la figura di Oreste profugo, che aveva dovuto uccidere il re della Tauride, mentre il ramo di cui questi si doveva impadronire rappresentava il simulacro di Artemide-Diana (12).

Servio nel suo commento all’Eneide mette esplicitamente in relazione e sovrappone il significato del “ramo d’oro” che Enea su indicazione della Sibilla Cumana (VI, 133-155) deve procurarsi quale indispensabile viatico poter accedere agli Inferi con il ramo che l’aspirante sacerdote di Diana Nemorense doveva cogliere nel bosco sacro per avere il diritto di battersi con il “re del bosco” in carica; così come l’uccisione di quest’ultimo, se sconfitto, viene equiparato alla morte di Miseno, il nocchiero di Enea, il cui sacrificio era parimenti richiesto affinchè il suo signore potesse recarsi nell’Ade. A sua volta il Frazer identifica il “ramo d’oro”, e quindi anche il ramo colto dal “Rex Nemorensis”, con il vischio. Ed in effetti Virgilio paragona con poetica similitudine il ramo d’oro da lui ricercato al vischio: “Quale solet silvis brumali frigore viscum/ Fronde virere nova, quod non sua seminat arbos,/ Et croceo fetu teretis circumdare truncos,/ Talis erat species auri frondentis opaca/ Ilice, sic leni crepitabat brattea vento” (“Come né boschi, al brumal tempo, suole/ Di vischio un cèsto, in altrui scorza nato,/ Spiegar verdi le frondi e gialli i pomi,/ E con le sue radici ai non suoi rami/ Abbarbicarsi intorno; così ‘l bronco/ era de l’oro avviticchiato a l’elce/ ond’era surto; e così lievi al vento/ Crepitando movea l’aurate foglie” -traduzione di Annibal Caro-)(Aen., VI, 205-209), pur senza affermare che lo fosse; ma il fatto che il ramo spuntasse proprio da un’elce, ovvero un leccio (Quercus ilex), la specie di quercia sempreverde tipica dei litorali mediterranei, -che è pianta ospite del vischio-, avvalora l’ipotesi che l’idea del “ramo d’oro” quale dono da offrire a Proserpina, regina degli Inferi, sia stata ispirata al sommo poeta dal significato sacrale attribuito al cespuglio epifita, soprattutto se quest’ultimo venga identificato nel vischio quercino, il “Loranthus europaeus”, i cui frutti, come abbiamo constatato nella parte precedente, hanno un caldo colore dorato.

Servio sostiene inoltre che il ramo trovato da Enea avesse la forma di una ipsilon (Y), poiché, seguendo la dottrina pitagorica, questa lettera è simbolo della vita umana: la prima parte, corrispondente al primo tratto, fino all’età adulta risulta essere indifferenziata e ugualmente soggetta ai vizi e alle virtù, mentre la biforcazione rappresenta il bivio al quale gli umani devono decidere se seguire la via retta o quella della perdizione; aggiunge poi che il ramo è celato nel folto di una foresta oscura per significare che si devono discernere le virtù nascoste e mischiate ai vizi in questa nostra confusa vita terrena.

CONTINUA NELLA SETTIMA PARTE

Note

1) “Gylfaginning” significa “L’astuzia di Gylfi”. Gylfi è un antico re norreno che reca in Asgard per interrogare Odino, -che in codesta narrazione è designato con il nome di Har-, sulla natura e le vicende degli dei e del mondo. Del mito di Balder abbiamo trattato anche nella sesta parte di “Le Amazzoni ad Atlantide – Il dio che muore e risorge-” del 15 novembre 2013.

2) gli incubi di Balder sono il tema di un poemetto, “Baldrs Draumar” (“I sogni di Balder”), detto pure “il Canto del Viandante” (“Vegtamskvida”), nel quale Odino, sotto le spoglie di un misterioso viandante scende agli Inferi per interrogare sulla sorte di Balder una “volva”, una veggente, la quale, seppeure controvoglia, gli rivela chi sarà ad uccidere il dio buono.

3) secondo una leggenda posteriore, un cespuglio di Agrifoglio tentò di proteggere il dio coi suoi rami mentre egli si accasciava al suolo. Per riconoscenza verso il generoso, sebbene inutile, aiuto offerto dalla pianta, Odino le concesse di rimanere sempre verde e che le sue bacche divenissero scarlatte in memoria del sangue versato da Balder (questa parte della storia non è però menzionata nel “Gylfaginning”). Altri particolari con i quali fu arricchita la triste storia di Balder sono il canto con il quale un gallo (uccello di Odino, legato al Sole e alla luce) avrebbe cercato di metterlo in guardia dall’imminente pericolo e le lacrime di Nanna, che cadendo sul vischio si trasformarono nei frutti bianchi e traslucidi della pianta.

4) come abbiamo già osservato, nella religione germanica una sorte diversa da quella di tutti gli altri defunti era riservata solo ai caduti in battaglia, che soggiornavano nel “Walhalla” in Asgard. Questo destino era loro assegnato solo per il fatto detto che essi dovevano esercitarsi per coadiuvare gli dei nell’immane lotta cosmica con cui si conclude l’attuale ciclo temporale e non già per esaltazione della violenza; solo alla fine del mondo i giusti godranno nell’eterna beatitudine nel “Gimlè”, il paradiso regno del redivivo Balder, il quale allo stato attuale delle conoscenze non è ben chiaro se sia un luogo già esistente, sebbene “vuoto”, o una condizione atemporale che si verrà a creare alla fine dei  tempi (si veda al riguardo quanto abbiamo detto nella quarta parte della presente trattazione pubblicata il 27 gennaio 2018). Si ricordi poi che nelle religioni “politeistiche” (o “pagane”), gli dei non sono l’Essere Assoluto, l’Ente Necessario, o in qualunque modo si voglia designare il principio dell’universo -che talvolta è chiaramente definito e distinto e talaltra no-, ma entità intermedie che partecipano e assicurano l’ordine cosmico, che da un lato si possono assimilare ad “archetipi” in senso junghiano e dall’altro personificano le energie fisiche e psichiche che animano e vivificano il mondo. Pertanto essi, per quanto assai superiori all’uomo, non sono dotati dell’onnipresenza, dell’onniscienza e dell’onnipotenza che caratterizzano l’Ente supremo, che venga concepito in forma personale o impersonale. Nella religione germanica invero la vulnerabilità degli dei, il loro soggiacere alla sventura, alla sofferenza, alla malattie e alla morte sono particolarmente accentuati, specie in confronto alla tipologia del divino che si riscontra nella religione ellenica e in quelle dell’area del Vicino e Medio Oriente; questo ha fatto supporre che le popolazioni germaniche avessero una visione della vita assai cupa e pessimistica, determinata forse dal dover sopportare condizioni esistenziali più dure e una natura più ostile che quelle proprie di popolazioni più meridionali, -come già osservava lo storico romano Tacito nella “Germania”, specie nei capitoli II e V-, (per quanto tale spiegazione dovrebbe valere anche per le altre genti nordiche -Slavi, Balti, Ugro-Finni, Uralo-Altaici, Paleosiberiani- che vivono o vivevano in prossimità del circolo polare artico, le cui religioni sono però meno pessimistiche).

5) dobbiamo però ricordare che oltre alla versione propriamente mitologica tramandata nell'”Edda di Snorri”, delle storia di Balder esiste anche una versione evemeristica, riportata da Saxo Grammaticus (1150-1220 circa) nella sua opera storica “Gesta Danorum”( III, 1-4), il quale afferma che Balder (Bàlderus nel testo) sarebbe stato un eroe figlio di Odino che aspirava alla mano di Nanna, figlia del re norvegese Gevarus. La principessa era però oggetto delle mire di Hòtherus, figlio del re di Svezia Hothbèrodus, -che ella mostrava peraltro di preferire- e pertanto nacque una acerrima rivalità tra i due eroi, che accrebbe vieppiù quando entrambi pretesero di avere diritto alla corona di Danimarca. Nonostante la sua invulnerabilità alle armi comuni e l’aiuto prestatogli dagli dei, Balderus fu sconfitto nello combattimento che ebbe col suo rivale. In seguito Hotherus riesce a sapere dalla “Ninfe dei Boschi” che Balder traeva la sua forza da un misterioso nutrimento; egli riesce a indurre le ninfe ad ammannirgli la medesima vivanda (di che cosa si trattasse non è precisato nel racconto di Saxo Grammaticus, il quale si limita a dichiarare che si trattava di un cibo delizioso), In tal modo Hotherus sente  moltiplicarsi le sue energie, riesce a sopraffare Balderus e poi lo uccide avvalendosi di una spada magica, chiamata “Mistilteinn” (“Vischio”) che egli aveva sottratto con un inganno allo “Spirito dei Boschi” Mimingus (che l’autore nel testo, riportandosi alla mitologia classica, definisce “Satyrus”, ma nel quale è senza dubbio da vedersi una rimembranza del gigante Mimir, che era stato decapitato durante la guerra tra Asi e Vani, ma la cui testa, imbalsamata da Odino, continuava a dare responsi se interrogata). Con questa versione della storia l’autore, che era un ecclesiastico, intendeva forse screditare in nome della religione cristiana la divinità più luminosa del pantheon germanico, e in generale gli antichi dei, che egli mostra soccombere in una battaglia contro i mortali; egli peraltro non doveva averla inventata di sana pianta, ma si era probabilmente rifatto ad una variante del mito diffusa in Danimarca e Germania settentrionale.

6) questa è ipotesi è rafforzata dal nome della sposa di Balder, il quale richiama indiscutibilmente quello di divinità microasiatiche e mesopotamiche, quali l’Inanna sumera e la Nana anatolica, la madre di Attis; senza contare il fatto che nel mito sumero di Tammuz pure quest’ultimo, così come Balder, era tormentato da una visione funesta che presagiva la sua morte e discesa agli Inferi. Si tenga poi presente che nel prologo dell'”Edda” in prosa, l’autore Snorri Sturluson (1179-1241), vissuto nel Medio Evo, riattacca l’inizio della sua narrazione al racconto biblico della Genesi, dove viene spiegata l’origine mitica dei diversi popoli dai figli di Noè, per poi rifarsi alla mitologia greco-latina, interpretata in senso evemeristico. Gli dei Asi si sarebbero chiamati così perché provenienti dall’Asia Minore e Odino, secondo il dotto scrittore scandinavo, era un discendente di Priamo, re di Troia, emigrato nelle terre nordiche così come Enea si era rifugiato in Italia.

7) in effetti nell’Apollo greco è da vedersi con tutta probabilità un antico dio anatolico che comandava le epidemie e le malattie -e mostra quindi analogie con il Nergal mesopotamico-, ma ne era anche il guaritore, chiamato Aplu presso gli Hurriti, Apaliunas dai Luvi, o con altri simili nomi (che si presume significhino “colui che afferra”) dalle popolazioni dell’Asia Minore. Non è certo un caso che Apaliunas fosse la divinità principale di Wilusa, città identificata come la Troia omerica (e Ilio sarebbe derivato appunto da Wilusa); nell’Iliade la figura di Apollo, scatenatore di malattie e di epidemie, risponde in pieno alle caratteristiche del dio anatolico e non mostra ancora i caratteri che diverranno tipici dell’Apollo dell’età classica. In seguito adottato dai Greci sembra assumere le qualità di un dio della luce e del Sole, sul tipo del Lug gallico; solo in un’evoluzione molto tarda finisce per diventare (anche) il dio protettore della poesia, della musica e delle arti. Nella figura di Apollo confluiscono dunque diversi strati: uno più arcaico di dio che manda le malattie, ma pure guaritore; uno intermedio in cui diviene dio della luce e della divinazione, -poiché quest’ultima consente di far luce sul futuro e di mettere in chiaro realtà nascoste, dando così preziosi suggerimenti agli uomini-;  infine quello tardo, e in parte artificioso di dio della poesia e della musica, significato derivato dalla secondo strato, -poiché la divinazione e la profezia si esprimevano in modo poetico, così come la poesia si deve all’ispirazione divina-. In Grecia le funziono di guaritore proprie di Apollo passarono poi a suo figlio Asclepio. E’ stato pure notato che nell’Iliade gli dei propriamente ellenici (Zeus, Hera, Atena, Hermes) proteggono gli Achei -che sarebbero i Micenei-, mentre le divinità “orientali”, per quanto accolte nel pantheon greco (Apollo e Artemide anatolici; Ares tracio; Afrodite semitica) aiutano i Troiani. Aplu è anche il nome dell’Apollo etrusco, ed è difficile dire se tale denominazione sia derivata dal nome greco o denoti la persistenza del dio anatolico, -e in tal caso confermerebbe la provenienza attribuita a quel popolo-.

8) il Frazer parla di “quercia”, ma in effetti nelle fonti che tramandano il mito di Balder essa non viene mai citata in modo esplicito, e d’altra parte il maestoso albero era per eccellenza legato al dio del tuono e della folgore -e non a divinità luminoso-primaverili come Balder-, per cui l’identificazione della quercia nell’albero che porta il vischio in questo mito mi sembra arbitraria.

9) per suffragare la sua tesi l’autore tratta poi del motivo largamente presente nei miti e fiabe di varie epoche e luoghi dell'”anima esterna”, che presenta dei personaggi, -in genere eroi, maghi. orchi, giganti-, che hanno la prerogativa di custodire la loro anima -ovvero il loro principio vitale- entro una pianta, una pietra o un altro oggetto (spesso anche uno dentro l’altro), sì che fino a che essa rimane staccata dal loro corpo godono del privilegio dell’invulnerabilità. Solo quando il loro antagonista riesce ad impadronirsi di tale essere o cosa e a distruggerla può definitivamente sconfiggerli. Su tale argomento, che ci porterebbe troppo lontano dal tema della nostra trattazione, non ci soffermiamo ora in questa sede.

10) il vischio tuttavia per possedere in pieno le sue virtù dovrebbe essere colto nella notte di S. Giovanni Battista, o comunque al solstizio d’estate, che è uno dei momenti in cui la potenza della natura si manifesta con maggior forza secondo la credenza degli antichi popoli europei.

11) com’è noto con l’editto del 391 emanato da Teodosio I furono proibiti e perseguitati nei territori dell’Impero Romano tutti i culti diversi da quello cristiano (salvo pochissime eccezioni, come quella del santuario di Iside a File nella Tebaide, estremo avamposto romano in Alto Egitto, dove una parte delle truppe seguiva ancora la religione egizia, per cui si preferì concedere ai legionari del luogo una dispensa per assicurarsene la fedeltà). Tuttavia è probabile che a quel tempo la figura del “Rex Nemorensis” non esistesse già più, pur continuando il tempio ad essere officiato fino al IV sec., poiché le ultime testimonianze su di essa risalgono al II secolo. A decretare la fine di questo sacerdozio arcaico e ormai anacronistico nel periodo imperiale furono senza dubbio i mutamenti sociali e culturali intervenuti tra il II e il IV sec. -sui quali si veda la ricerca su “Il declino dell’Impero Romano: trasformazione o caduta?”-.

12) Strabone (64 a. C.-21 d.C. circa), -in “Geografia”, V, 3, 12-, pur non citando espressamente Oreste, indica il tempio come dedicato ad Artemide “Tauropolos”, -proveniente dalla Tauride-, e ne giudica l’aspetto come avente un che di barbarico, e precisamente di scitico.

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