L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -quattordicesima parte (la dottrina manichea)-

La religione fondata da Mani e la concezione ontologica e antropologica che sta a suo fondamento è di carattere eminentemente gnostico, -ovvero propone come via di salvezza non tanto la “fede”, ma la “conoscenza” (1)-, sebbene non sia da considerare uno sviluppo dello gnosticismo cristiano, poiché, più che essere influenzati da quest’ultimo, Mani e i suoi primi discepoli hanno solo ravvisato in esso analogie con le proprie convinzioni (2). Inoltre la differenza fondamentale con il complesso di scuole e di dottrine cristiane fiorite nei secoli I-V ed accomunate nella categoria dello “gnosticismo” è che mentre in queste ultime l’oscurità e la materia (e quindi il male), non sono un principio esistente  “ab aeterno”, ma sono emanate da un eone o da un arconte inferiore (il “Demiurgo”, o Achamot -la “Sofia inferiore”, o altri), il quale agisce non per malvagità, ma per ignoranza e/o orgoglio, nella concezione di Mani la tenebra e la materia sono principi eterni coesistenti con la Luce divina.

Per “conoscenza” (“gnosis”) deve essere chiaro che non si intende una semplice conoscenza teorica o scientifica, ma una “presa di coscienza”, una “consapevolezza” del dramma cosmico in cui è inserita la vita umana, e della precarietà e della miseria di quest’ultima, ove non sia riscattata dall'”illuminazione”, che è l’altro aspetto della consapevolezza: ovvero la conquistata coscienza della potenziale divinità dell’uomo, con la quale avviene la liberazione dei “semi di luce” che egli ha in sé e che una volta riscoperti rendono simili a Dio.

Mani espresse la sua dottrina alquanto elaborata e ricca di immagini mitologiche, -per cui anche per questo aspetto ricorda i complessi sistemi di Valentino, Basilide ed altri esponenti dello gnosticismo cristiano-, in una costruzione articolata, ma nell’insieme coerente, che ora cercheremo di riassumere in breve prima di passare ad esaminare le concezioni soteriologiche ed escatologiche che costituiscono il tema principale della presente ricerca.

Riprendendo l’assunto fondamentale della religione zoroastriana, il profeta pone a fondamento metafisico del cosmo due principi: Dio e Materia, che sono anche chiamati, o meglio identificati e considerati nella loro realtà effettuale, Luce e Tenebra, Verità e Menzogna, Bene e Male, e che in pratica corrispondono ad Ahura Mazda e ad Ahrimane (3). In parte Mani si riallaccia allo zurvanismo, la corrente mazdaica, che, -come abbiamo visto nell’undicesima parte de “L’Anima e la sua sopravvivenza” del 31 luglio 2018-, tenta di ricomporre questo insanabile dualismo facendo dei due principi fondamentali, personificati nelle figure di Ahura Mazda e di Ahrimane, i figli di Zurvan, l’entità cosmica primordiale, dei quali però il secondo, quello negativo, non è il parallelo perfettamente simmetrico di una “coppia dialettica”, ma appare senza dubbio inferiore, una sorta di brutta copia, di tentativo mal riuscito di dare vita ad un “cosmo” (cioè un insieme ordinato).

Si tenga presente però che Mani concepisce la Tenebra come una realtà ontologica, non come semplice assenza di luce, come ignoranza e in questo senso si distingue nettamente da altre forme di gnosi, come la gnosi ermetica e quella neoplatonica (4); essa non si può neppure identificare con il “Chaos” della mitologia greca, ovvero come lo stadio indifferenziato della materia-energia che in seguito acquista un ordine sempre più definito. Si potrebbe dire che “Chaos” e “Kosmos” sono per i manichei due realtà metafisiche esistenti “ab aeterno” e l’Universo non è l’evoluzione del secondo dal primo attraverso un processo per cui dal disordine e dallo scontro primordiale (talvolta preceduto a sua volta da un “nulla” che è un “tutto” potenziale indifferenziato e omogeneo) si giunge a un ordine più o meno armonico, -sebbene sempre minato dal perenne incombere della corruzione e della dissoluzione-, ma, come vedremo poc’anzi, da un traumatico irrompere delle forze del Chaos nel Kosmos, cui fa riscontro la discesa degli esseri della Luce nel modo tenebroso nel tentativo di ripristinare l’ordine infranto.

Questa concezione “realistica” dell’Oscurità, e quindi del Male, risalta anche nel fatto che il Regno della Luce e quello delle Tenebre occupano due regioni metafisiche divise da un confine che impedisce il loro mescolamento. La regione della luce è il regno di Dio, in cui l’Ente perfetto si manifesta nelle sue funzioni essenziali che Mani designa quali “dimore”, ma sono pure delle ipostasi o emanazioni (“shekhinà”): Intelligenza (“Reyana”, “Phronesis”), Ragione (“Hawna”, “Nous”), Pensiero (“Tar’ita”, “Logismos”), Riflessione (“Madde’a”, “Ennoia”) e Volontà (“Mahasavta”, “Enthymesis”)(5); tuttavia anche Dio risulta costituito da tre qualità che sono aspetti della sua essenza (Luce, Forza e Saggezza -che potrebbonsi paragonare alla Trinità cristiana-) e che insieme a Lui formano una “Tetrade divina” (e in questa concezione potrebbe ravvisarsi un’aporia, poiché da un lato le tre “qualità” sembrano essere solo aspetti e manifestazioni di Dio, dall’altro sembrano avere una realtà distinta da Dio stesso)(6). Nelle rappresentazioni mitologiche, nonché in quelle iconografiche da esse derivate (che si possono accostare ai “mandala” buddisti), il Dio Padre appare incoronato da ghirlande di fiori che gli vengono offerte dai Dodici Eoni, disposti a triadi intorno a Lui in corrispondenza dei quattro punti cardinali.

A questo mondo di perfezione si contrappone il Regno delle Tenebre, governato dal Signore dell’Oscurità (“Melech Heshoxa”, Ahriman): a differenza del Regno delle Luce, caratterizzato da una luminosa e ordinata quiete, esso è concepito come disordine e confusione, ed i suoi abitanti, in primo luogo gli Arconti di Ahrimane, sono perpetuamente in preda ad un movimento vorticoso, che li porta a scontrarsi l’uno con l’altro (si potrebbe vedere nel Regno delle Tenebre, oltre che un disordine primordiale, uno stato indifferenzato e molto instabile della materia antecedente al “big bang”, in cui le particelle subatomiche e dunque energia priva di qualunque coordinamento). A causa di questa instabilità e  irrequietudine gli abitanti dell’Oscurità giungono al confine con il dominio della Luce e attratti da esso sono colti dall’intenso desiderio di godere delle delizie che vi si trovano. La sopraggiunta aspirazione a quella beatitudine che prima ignoravano pone temporaneamente fine ai loro contrasti, per cui decidono di unire le loro forze per cercare di penetrare nel mondo della Luce sotto la guida del loro sovrano, infrangono la barriera di separazione e irrompono nel regno di Dio Padre.

Da qui inizia la lotta tra il Bene e il Male, tra lo Spirito e la Materia, tra la Coscienza angelica e l’Incoscienza demoniaca, poiché il Dio buono, il Padre della Grandezza (“Abba de Rabbutà””, Zurvan), in seguito a tale evento rovinoso è costretto ad uscire dalla sua condizione di quiete imperturbata (simile a quella degli dei di Epicuro), per difendere il suo regno, ma poiché egli, consustanziato di bontà, non è in grado di combattere, né lo sono le sue ipostasi, e i suoi Eoni, creati per la tranquillità e per la pace, evoca alla vita “da sé stesso” (Mani evita di impiegare termini che alludano alla generazione o ala creazione) un’entità intermedia, la “Madre della Vita” (o “M. dei Viventi”) -“Ima Dehayyè”-. Ella “evocò” a sua volta il “Primo Uomo”, o “Uomo Primordiale” -“Nasha Qadmaya”-, che corrisponde non tanto al Gayomart della tradizione zoroastriana, ma piuttosto all’Oromazdes, -o Ohrmizd-, del mazdaismo e dello zurvanismo (7). Questi per combattere le potenze tenebrose si riveste di una armatura fabbricata con i cinque elementi luminosi (“Ziwane”), che sono anche i suoi figli: Aria (o Etere), Vento, Luce, Acqua e Fuoco (i cui nomi in medio persiano sono rispettivamente: Frawahr, Wad, Roshn, Ab e Adur). Questi scende al confine tra i due regni, ma viene sconfitto dagli Arconti, spogliato della sua armatura, vede i suoi figli (i 5 elementi) divorati dai demoni ed è precipitato nell’abisso infernale.

La cosmologia manichea in una raffigurazione cinese.

Il mito della sconfitta dell’Uomo Primevo esprime però un processo di salvezza che nasce da un sacrificio volontario: egli scende per sua scelta nell’abisso, si fa inghiottire dalle tenebre, proprio per portare in esso la luce di cui è fatto, che per la materia e l’oscurità è veleno e disgregazione: mostra dunque i caratteri dell’eroe liberatore e della vittima della sofferenza, poiché riesce a conseguire la vittoria solo dopo un’apparente sconfitta. Pertanto può essere assimilato agli dei che periscono per dare la vita, dal Dioniso-Zagreo dell’Orfismo, ad Adone, a Osiride, a Gesù Cristo (8). La “discesa agli Inferi” è sempre un momento fondamentale e centrale nel processo della salvezza e dell’autorealizzazione che tutti gli dei redentori devono compiere; e non solo gli dei, ma pure gli eroi, da Orfeo a Ulisse a Enea fino a Dante, poiché la via per ascendere al Cielo e quindi congiungersi e immedesimarsi con Dio passa prima per i regni tenebrosi. Ma pure sul piano prettamente umano e psicologico il visitare i recessi della psiche indica una indispensabile condizione nella crescita individuale: senza scendere nei meandri dell’inconscio per rischiarare le ombre, -che sono tanto più percolose quanto più le si ignora-, per conoscere le proprie debolezze e le proprie paure, ma pure per prendere coscienza delle proprie forze e qualità -quelle autentiche, non quelle che si crede di possedere-, non vi può essere evoluzione personale e non si può essere davvero sé stessi (9).

Una volta che si trova imprigionato nel regno tenebroso, l’Uomo Primevo cade in un profondo torpore; ma improvvisamente si desta, e, insieme ai suoi cinque figli, invoca sette volte il Padre della Grandezza, affinché egli ponga fine alle sue sofferenze e gli conceda la salvezza. Questi, commosso dalla struggente invocazione, evoca allora altre tre entità: l’Amico delle Luci (“Haviv Nehirè”), il Grande Architetto (“Ban Rabba”) e lo Spirito Vivente (“Ruhà Hayya”; “Mihryazd”). Quest’ultimo evoca a sua volta altri cinque figli, o emanazioni (che mostrano analogie con i “Bodhisattva” del buddismo mayanico): Ornamento dello Splendore (“Safet Ziwa”, “Splenditenens” in latino); Re di Gloria (“Melech Shuvhà”, “Rex gloriosus”); Diamante di Luce (“Adamus Nuhra”, “Adamas”); Grande Signore dell’Onore (“Malka Rabba Dikkara”; “Rex Honoris”); Atlante o Portatore (“Sebbla” o “Sakkala”; “Omòphoros”; ” Atlas”), e accompagnato da essi si reca nella fascia al limite tra i due regni ove lancia un accorato richiamo all’Uomo Primevo, ricevendo da lui in grido in risposta. Sia l'”Appello” (“Qarya”; “Padvaxtag”), sia la “Risposta” (“Hanya”; “Chroshtag”) divengono anch’essi due ipostasi che salgono presso la Madre della Vita e lo Spirito Vivente. Essi discendono nel Regno dell’Oscurità penetrando in esso fino a che non trovano l’Uomo Primevo e con sforzo sollevano lui e i suoi figli alla sua dimora celeste, il Paradiso delle Luci.

Ma a questo punto l’opera di salvazione non è conclusa, poiché devono essere recuperati i “semi di Luce” che costituiscono l’Anima dell’Uomo Primevo, che erano rimasti imprigionati nella materia e per compiere tale opera avviene la vera e propria creazione del mondo. Lo Spirito vivente, -che nella traduzioni greche è chiamato “Demiurgo”, mentre in quelle iraniche è identificato con il dio Mithra (Mihryazd)- diviene l’artefice del cosmo visibile che egli crea con il corpo degli Arconti di Ahrimane (10): infatti con la loro pelle fa il Cielo, con le ossa i monti e con la carne la terra. Il Demiurgo e la Madre della Vita posero in essere altresì dieci firmamenti e otto cerchi terrestri sovrapposti e alternati come dischi o strati uno sopra l’altro. Dei figli dello Spirito Vivente (o Demiurgo), Onore dello Splendore, “Splenditenens” ebbe il compito di tenere dall’alto i dieci firmamenti, mentre ad Atlante -Omòphoros- viene demandato l’incarico di sostenere gli otto circoli terrestri. Infine il Demiurgo con le particelle di Luce recuperate crea gli astri: con quelle non contaminate dalla materia costituisce le due “Navi di Luce”, il Sole e la Luna; con quelle che hanno subito una parziale commistione con la materialità, dopo averle opportunamente purificate, crea le stelle e i pianeti (11). I figli dello Spirito Vivente devono attrarre incessantemente sulla Terra le luce degli astri e proteggere il Cosmo dalle tenebre.

Rimaneva tuttavia una terza di parte di “semi di Luce”, che aveva subito una profonda contaminazione con la materia, e pertanto necessitava di un processo di riscatto assai più lungo e complesso. Deve così avere inizio la terza fase dell’opera di salvezza intrapresa dal Padre della Grandezza: questi evoca così un Terzo Inviato, o Messaggero (“Izgadda”; “Naresahyazad”, -nome quest’ultmo che evidentemente richiama gli “Yazata” della tradizione mazdaica-), -“Tertius Legatus”- (terzo dopo l’Uomo Primevo e lo Spirito Vivente), al quale viene talora dato il nome di Mithra (che peraltro era stato attribuito anche al secondo inviato, lo Spirito Vivente, il che potrebbe indurre a pensare che sia una ipostasi di quest’ultimo tanto più che come vedremo la dottrina manichea contempla anche un “Mithra futuro”, il quale, come nella “parusia” di Cristo, verrà a chiudere definitivamente il ciclo cosmico e la storia della salvezza). Egli inizia la sua opera di recupero delle particelle di Luce che erano state compenetrate dalla materia più in profondità costruendo una specie di macchina, una “sphaira”, ovvero una ruota idraulica, o di mulino, azionata dalla forza dell’Acqua, del Vento, della Luna e del Sole. Nella prima quindicina del mese lunare l’ingegnoso macchinario solleva dagli abissi le particelle di Luce (che in pratica corrispondono ciascuna ad un’anima) attraverso una “Colonna di Gloria” (“Estun Shuvha”; “Srosh Ahray”, nome che riprende quello di Sràosha, il più alto degli “Yazata” dello zoroastrismo) -la Via Lattea?- fino alla Luna, la quale gonfiandosi sempre più per l’apporto delle particelle di Luce, aumenta il suo volume fino a divenire Luna Piena. La sostanza di Luce, liberata così dal peso della materia, viene indi trasferita nella seconda parte del mese lunare, di Luna calante, dall’astro argenteo al Sole, e di lì alla sua Patria celeste presso il Padre della Grandezza (e pertanto i due luminari sono definiti dai manichei “navi” o “vascelli” mediante i quali si compie la redenzione delle anime).

Tuttavia la visione del “Terzo Inviato” che attraversa il Cielo sulle sue navi insieme ad una figura , la “Vergine di Luce”, della quale non si sa molto ma che sembra una sorta di sua controparte o paredra femminile, in tutta la loro splendente bellezza suscita negli Arconti e nei demoni, -che si deve dedurre non erano stati tutti soppressi per creare Cielo e Terra-, una insolita esaltazione che ha come effetto l’uscita dai loro corpi delle residue particelle di Luce da essi ancora trattenute, le quali cadono come scintille sulla superficie terrestre facendo nascere dal suolo tutte le piante (che pertanto nella concezione manichea possiedono una natura altamente spirituale). La parte di Luce che precipita in mare dà invece origine ad uno strano mostro marino che Adamas, il Diamante di Luce (uno dei figli dello Spirito Vivente) trafigge con la sua lancia (e allora questa parte dell’energia luminosa che fine fa?). Gli esseri demoniaci,-i quali si deve dedurre, sono distinti in maschi e femmine-, rimasti privi di energia spirituale sono invasi dalla concupiscenza, si uniscono tra loro e procreano altri demoni, moltiplicando così la loro specie; alcuni di essi poi si gettano sulle piante nate dalla terra e le divorano con avidità, incorporando così la luce in essa contenuta.

Gesù Splendore rivela ad Adamo ed Eva la loro natura spirituale in una illustrazione risalente a circa il 1100.

Ma il tentativo più poderoso che il Mondo della Tenebra mette in atto per contrastare l’opera salvifica dello Spirito Vivente e dei collaboratori e trattenere nella materia le particelle di energia luminosa ancora in essa presenti, è quello tramato da Az, demone della concupiscenza (l’Azi Dahaka della cosmologia zoroastriana) -che sembra ora assumere la funzione di Ahrimane-: egli a tal fine provvede a concentrare tutta la luce rimasta nel mondo inferiore in due creature demoniache, maschio e femmina, da lui opportunamente prescelte, i cui nomi sono rispettivamente Ashaqlùn e Namrael. Costoro prima incorporano un gran numero di demoni, per accumulare la luce in essi presente, indi si congiungono così che Namrael rimane ingravidata e genera la prima coppia umana, Gehmurd e Murdyanag, che corrispondono ad Adamo ed Eva. In tal modo in Gehmurd-Adamo confluisce tutta la luce rimasta nel mondo inferiore (di Eva non si parla molto e sembra che, secondo la visione maschilista comune a tutte tradizioni religiose e mistiche antiche, e spesso anche moderne, anche le più nobili ed elevate ad essa sia riservata una parte del tutto secondaria), ma egli ignora l’elemento spirituale e luminoso che dimora in lui, mentre d’altro canto il perverso meccanismo della concupiscenza e della procreazione, che Adamo ed Eva e i loro discendenti perpetuano nella loro esistenza, mantiene la luce avvinta nella materia e perpetua la schiavitù dello spirito.

A questo punto interviene ancora il Padre della Grandezza, il quale evoca un quarto inviato, “Gesù Splendore” (“Yisho Ziwa”), -Ohrmizd, il Figli di Dio-, che non è da identificare nel Gesù Cristo storico e che è l’ultimo e definitivo Salvatore: questi ridesta Adamo dal suo letargo e lo rende consapevole dell’origine divina della sua anima (12). Tuttavia la redenzione di Adamo è solo parziale poiché lui e la sua compagna con il loro connubio danno origine a tutta la stirpe umana nei cui corpi mortali continua ad essere rinchiusa l’energia luminosa e spirituale, e il fine a cui tendere è la completa redenzione dell’anima dalla schiavitù della materia. Per compiere quest’opera difficile e grandiosa il profeta Mani ricevette la sua missione; egli peraltro, come si afferma nello “Shapuhragàn”, è l’ultima e definitiva incarnazione dell’Inviato Celeste o del Gesù-Splendore, che già si era incarnato sulla terra nelle figure dei profeti Zarathustra, Buddha e Gesù Cristo (13).

Ma come abbiamo detto la Luce si trova imprigionata non solo nei corpi umani, ma in tutta la natura, negli animali e nelle piante, -verso le quali ultime il manicheismo mostra una particolare considerazione (ed è questo un tratto peculiare che contraddistingue questa religione anche rispetto ad altre che ugualmente predicano la non-violenza e il rispetto per tutte le forme di vita, come il buddismo e il giainismo)-: in tutti gli esseri si manifesta l'”Anima Mundi”, la luce universalmente diffusa che continua nella sua sofferenza e che Mani identifica nello “Jesus Patiens -o Patibilis-” (espressione che si trova nei testi latini e in particolare in S. Agostino), la parte inferiore del Gesù-Splendore, che è stata crocifissa e contaminata dalla materia: la passione di Gesù è la passione dell’Anima vivente universale che aspira al suo finale riscatto, allorché tutte le particelle di luce, -o di spirito-, disperse e confuse nella materia saranno di nuovo riunite: “Noi vediamo in ogni dove essere misticamente legato Gesù alla sua croce” (S. Agostino, “Contra Faustum”, XX, 2)(13).

La figura di Gesù dunque nel manicheismo presenta tre aspetti distinti, pur se complementari: Gesù il Luminoso (Gesù-Splendore); Gesù Messia e Gesù Sofferente. Il primo è il supremo dispensatore della rivelazione. la guida che destò Adamo dal suo sonno e lo rese consapevole dell’origine divina della sua anima nonché la dolorosa condizione in cui essa si trovava a causa della commistione con la materia e la soggezione al corpo. Il Gesù Messia è la persona storica che fu profeta degli Ebrei e uno dei precursori di Mani, il quale però gli attribuiva una natura integralmente spirituale che non poteva in alcun modo essere mescolata con la materia; egli sarebbe divenuto vero figlio del Padre della Grandezza solo al momento del battesimo nel Giordano (14). La passione e la morte di Gesù sono un simbolo, un’immagine della sofferenza dell’anima anch’essa crocifissa nella materia; e la sua resurrezione dell’affrancamento da essa, oltre che una prefigurazione del martirio di Mani. Abbiamo dunque una concezione che riprende sia il docetismo, -ovvero quella per cui il corpo visibile di G:C. era solo “apparente”, cioè un rivestimento che non comportava la “natura umana”, derivante dalla commistione dell’anima immortale con il corpo terreno-, sia l’adozianismo -la tesi che GC sia divenuto effettivamente “Figlio di Dio” e redentore solo quando fu battezzato e lo Spirito Santo si posò su di lui in forma di colomba- (sul docetismo e l’adozianismo si veda quanto abbiamo detto nella prima parte della “Storia minima dell’idea di Dio” del 29 luglio 2017, esponendo in breve le dottrine cristologiche). Il Gesù sofferente incarna il dolore delle particelle di luce presenti in tutto l’Universo visibile: per questo la Croce (croce greca a bracci di eguale lunghezza) è un simbolo che rappresenta mirabilmente tutto l’Universo e la sua sofferenza: i suoi quattro bracci sono i quattro regni della natura -minerale, vegetale, animale  e umano-, ma nello stesso tempo la salvezza operata da Gesù che ha assunto su di sé le pene di tutti gli esseri.

CONTINUA NELLA QUINDICESIMA PARTE

Note

1) tuttavia la contrapposizione tra “fede” e “conoscenza” non è in realtà così netta, poiché elementi fideistici sono presenti anche in dottrine religiose in senso lato “gnostiche” o panteistiche: ad esempio uno dei grandi filoni dell’induismo, quello che si incentra sulla figura di Visnù, il “conservatore” e il “salvatore”, e le sue incarnazioni terrene, in particolare Krishna, si fonda su una devozione personale verso la figura divina (la “bhakti”), -mentre l’altro filone principale, rivolto a Siva come divinità suprema, si volge in prevalenza alla pratica ascetica come strumento per realizzare la “potenza” divina-. Così anche in alcune correnti del buddismo mahayanico (del “grande veicolo”) la fede e la devozione verso il Buddha, o per meglio dire in una delle sue ipostasi cosmiche (poiché nel buddismo mahayanico la figura del Buddha storico Siddartha Gautama è senza dubbio trascesa dal Buddha metafisico che si manifesta in vario modo sulla terra) diviene strumento centrale di salvazione, per cui il carattere originariamente impersonale dello Spirito in questa religione (in cui anche gli dei stessi sono solo manifestazioni transeunti, sebbene assai superiori agli uomini, dell’Essere indeterminato) in sostanza viene meno -nelle religioni orientali però nella fede prevale sempre l’elemento soggettivo su quello oggettivo-. D’altra parte anche nel cristianesimo, -o per meglio dire in alcune interpretazioni eterodosse dei vangeli-, la “fede” si profila non solo e non tanto come l’affidarsi dell’uomo alla divinità, ma come un atteggiamento che in termini odierni si direbbe “pensiero positivo”, “potere della mente”, convinzione soggettiva nella possibilità di realizzare quanto si sente dentro di sé (“tutto è possibile se ci credi”), come appare in diversi passi evangelici (Marco, X, 52: “Va’! la tua fede ti ha salvato!” -guarigione del cieco Bartimeo-; XI, 23: “In verità vi dico che se uno dice a questa montagna: -Togliti di là e gettati in mare!-, senza avere alcun dubbio nel suo cuore, ma crederà quello che dice s’abbia a compiere, gli sarà concesso”; Luca, XVII, 6: “Se voi aveste tanta fede quanto in granello di senape, potreste dire a questa pianta di moro: -Sradicati e trapiantati in mare ed essa vi ubbidirebbe!-“).

2) in particolare l'”anello di congiunzione” tra gnosticismo cristiano e manicheismo (non tanto sul piano storico e “genetico”, quanto nell’aspetto concettuale) sarebbe rappresentato dalla dottrina di Bardesane (in siriaco Bar Dasyan, “figlio del Dasyan”, il fiume che bagna la città di Edessa ove nacque)(154-222), che, -stando a quanto affermarono i suoi confutatori cristiani-, sembra anticipare i temi propri del manicheismo. Questi, nato come abbiamo sopra detto ad Edessa capitale del regno dell’Osroene, nell’Alta Siria (città e regno di cui abbiamo altre volte parlato -nella terza parte della ricerca sulla Sindone del 15 maggio 2018; nella nota n. 5 della sesta parte de “L’Asino e il Bue nel presepe” del 17 febbraio 2016; nella nota n. 9 della quinta parte de “Le Amazzoni guerriere della Luna” del 26 ottobre 2015-) da genitori persiani, dopo essersi convertito al cristianesimo elaborò una sua concezione, -della quale però abbiamo quasi solo notizie indirette, poiché, come al solito, le sue opere furono distrutte ad opera della chiesa cristiana, che ha sempre tentato di cancellare ed eliminare tutte le dottrine considerate contrarie ai suoi dogmi (il più delle volte purtroppo riuscendo nel suo intento, almeno per quanto riguarda l’età antica e medioevale)-, secondo la quale l’Altissimo (Padre della Vita) congiuntosi con la Materia (Madre della Vita) avrebbe generato il Vento e lo Spirito (“Ruah”, che, come ormai ben sappiamo nelle lingue semitiche è femminile, sia dal punto di vista grammaticale, che da quello concettuale-filosofico), dai quali furono poi a loro volta procreati il Fuoco e l’Acqua. Ma le Tenebre, elemento maligno e infausto, irrompendo con violenza sugli elementi positivi, turbarono l’armonia dell’Universo, in soccorso del quale l’Altissimo inviò il suo Verbo, ossia il Cristo. Un altro aspetto che la dottrina di Bardesane ha in comune con il manicheismo è l’importanza data all’astrologia e la funzione dei luminari -Sole e Luna- nell’opera della salvezza. E’ però da escludere una diretta influenza di tali concezioni sul sistema di Mani, tanto più che stando alle testimonianze del citato “Fihirist” Mani aveva polemizzato contro i seguaci di Bardesane nel suo “Libro dei Misteri”. Osserviamo inoltre che la città di Edessa è il luogo dove, secondo una consolidata tradizione extra-canonica, sarebbe morto l’apostolo Tommaso, supposto autore di uno dei vangeli gnostici più importanti, nonché protagonista degli “Atti di Tommaso”, testo che mostra nello spirito notevoli affinità con il manicheismo.

3) si noti che secondo Alessandro di Licopoli, filosofo neoplatonico del IV sec., che compose un trattato in cui confutava le dottrine manichee da un punto di vista filosofico e metafisico, Mani non intendeva la “materia” (“Hyle”) al medesimo modo di Platone e Aristotele, e in generale della filosofia ellenica, ove il termine indica un ente concepito come contenitore, substrato, potenza, elemento passivo che ha di per sé una valenza neutra, ma come “àtaktos kìnesis”, “movimento disordinato”, in cui ogni singolo elemento, anzichè coordinarsi con gli altri, procede per conto suo, e turba in tal modo la perfetta armonia dello spirito essendo dunque la radice e il principio di tutti i mali dell’universo e delle passioni umane.

4) nella “Tenebra” della concezione manichea si potrebbe in qualche modo vedere l'”inconscio” oscuro e profondo scoperto dalla psicanalisi freudiana, sede delle pulsioni più distruttive e irrazionali, se non fosse per il fatto che quest’ultimo una volta che sia illuminato e portato così alla coscienza perde la sua potenza negativa, anzi viene meno, mentre l'”Oscurità”, o la “Materia” manichea ha un’esistenza autonoma. L'”Oscurità”  a sua volta corrisponde agli “inferi”, che si trovano in tutte le mitologie, il luogo dove dimorano i “mostri” personificanti gli impulsi inquietanti e perniciosi, i quali però nel medesimo tempo puniscono le anime che hanno ceduto ad essi o le mettono alla prova nel loro percorso verso la luce celeste.

5) la “Tetrade divina” richiama senza dubbio il “Tetragrammaton” ebraico (le quattro lettere del nome Iawhe’: yod-he-waw-he -da sinistra a destra-) che esprime a sua volta le quattro fondamentali qualità divine.

6) come si può osservare, i termini in greco con cui sono stati tradotti quelli siriaci non corrispondono esattamente al significato che avevano nella tradizione ellenica platonico-aristotelica.

7) è evidente che il “Nasha Qadmaya” richiama, in parte anche nel nome l’Adam Kadmon della filosofia ebraica e in  particolare della Qabbalah, l’uomo primordiale prima manifestazione di Dio, che è prototipo non solo dell’uomo terreno, -il “microcosmo”-, anche di tutto l’Universo.

8) in una interpretazione psicoanalitica junghiana si potrebbe anche vedere in questo mito la coscienza che rischiara gli abissi dell’inconscio, il “Sé” superiore che piega gli impulsi distruttivi dell'”Es” (così come l'”Ego” sarebbe la “regione di confine”, il campo di battaglia tra i due).

9) la necessità di esplorare le profondità e gli abissi interiore per giungere alla luce e alla comprensione di sé stessi e del mondo è mirabilmente espressa anche nell’invito -arcano, ma non  troppo-, che sintetizza l’insegnamento ermetico: “Visita Interiora Terrae: Rectificando Invenies Occultum Lapidem (Veram Medicinam)”, noto con l’acrostico VITRIOL(UM), l'”Occultus Lapis”, la Pietra Filosofale, che trasforma in oro i metalli vili significa, com’è ovvio, la Luce, l’energia spirituale, il “Regno dei Cieli” che con una faticosa ricerca si scopre dentro di sé e la trasmutazione degli impulsi oscuri nelle virtù morali.

10) in effetti sembrerebbe che gli Arconti malefici siano definitivamente annientati, ma poi nel prosieguo della narrazione vedremo che esercitano ancora un’azione assai importante nel divenire cosmico e nella nascita del genere umano.

11) nella concezione cosmologica ed astrologica manichea i due luminari del Cielo, Sole e Luna, costituiti di pure luce, mai contaminata dalla materia, rivestono una parte essenziale nell’economia salvifica e nella lotta dell’individuo contro il male; al contrario i pianeti e i segni zodiacali, che sono stati creati con luce parzialmente contaminata dalla materia, sono considerati maligni ed esercitano un’influenza negativa da cui l’uomo si deve liberare (e pertanto lo studio dell’astrologia serve soprattutto per capire quali sono le proprie debolezze e i vizi verso i quali si è maggiormente predisposti e poterli così combattere); in particolare Gemelli e Sagittario dominano il mondo del Fumo; Ariete e Leone il mondo del Fuoco; Toro, Bilancia e Acquario il mondo del Vento; Cancro, Vergine e Pesci il mondo dell’Acqua; Scorpione e Capricorno il mondo delle Tenebre. Si noti che gli elementi qui citati non sono quelli figli dell’Uomo Primordiale, con cui questi si costruisce la propria corazza, ma la loro controparte negativa (alla Luce corrisponde la Tenebra, e all’Etere luminoso il Fumo caliginoso). La classificazione manichea dei segni zodiacali differisce quindi da quella codificata in età ellenistica che li assegna a quattro triplicità attribuite ai quattro elementi della tradizione empedoclea e pitagorica.

12) osserviamo che l’illuminazione intesa come “risveglio” da una condizione di “sonno spirituale”, di incoscienza, che abbiamo già visto prima che in Adamo nell’Uomo Primevo, potrebbe evidenziare un’influenza buddistica (anche il Buddha è un “risvegliato”).

13) dai frammenti rimasti di una delle opere di Mani, il “Libro dei Giganti”, provenienti dall’oasi di Turfan, apprendiamo che lo Spirito Vivente e i suoi figli incatenarono nei sette firmamenti inferiori molti demoni  (“Ir”, “Egregoroi”) e “Giganti” (“Gabbarè” in siriaco, “Kawan” in persiano, “Kawist” in sogdiano, “Ningigas” in copto). I primi avevano soggiogato l’umanità e avevano stabilito sulla terra un dominio del terrore; unendosi con donne umane avevano generato una stirpe di “Giganti” (Gabbarè) ancora più perniciosi; costoro, -che corrispondono ai “Nephilim” della Genesi (nome tradotto dai “LXX” con “Gigantes”)- insieme ai demoni loro padri avevano ingaggiato con gli uomini giusti un’epica lotta nel corso della quale persero la vita ben 400.000 di questi ultimi. Ma alla fine i quattro angeli vendicatori -Raphael, Michael, Gabriel, Uriel-, riuscirono a porre termine alla tirannia dei demoni e dei Giganti loro figli precipitandoli nel Tartaro. Questa storia, -che mostra analogie con il mito esiodeo dei Giganti che diedero l’assalto all’Olimpo-, è ripresa in pratica dall’omonimo libro dei Giganti, apocrifo ebraico, trovato nella biblioteca di Qumran, sebbene, dato il cattivo stato di conservazione e la frammentarietà dei testi, sia difficile appurare se l’opera di Mani sia una semplice traduzione o rifacimento, o vi siano tra i due testi differenze più profonde. A sua volta il “Libro dei Giganti” di Qumran dovrebbe essere una versione del “Libro dei Vigilanti” (“Vigilanti” è un altro nome con cui vengono designati i Giganti), che compare come prima parte nel “Libro dei Enoch” etiopico. Nel libro di Mani i protagonisti sono il demone Shamizad (che corrisponde allo Shemihaza del libro di Enoch), i suoi figli, o giganti Sam e Narimàn, insieme al demone Wirogdad e a suo figlio Mahaway. In merito al libro di Enoch si veda anche la terza parte delle “Osservazioni sulla nascita del cristianesimo” del 9 ottobre 2016, la nona parte de “L’asino e il bue nel presepe” del 16 aprile 2016 e la sesta parte de “La Fenice” del 16 marzo 2014. Notiamo infine che la figura di Enoch nelle versioni più orientali dei testi sacri manichei (in sogdiano, uiguro, cinese) diventa un Buddha.

13) S. Agostino per un certo periodo della sua vita fu seguace del manicheismo, anche se poi lo rinnegò per aderire al cristianesimo ortodosso. Ed in effetti alcune delle sue opere, nonostante gli intenti polemici e lo spirito fortemente denigratorio verso la dottrina da lui un tempo professata, sono una delle fonti principali per la conoscenza del manicheismo.

14) in effetti però la figura di un “Messia” nel Manicheismo è piuttosto diversa dal “messia” ebraico, il quale, come abbiamo già rilevato, è soprattutto un restauratore della potenza ebraica e un rinnovatore della creazione, senza essere né “dio”, né “figlio di Dio” (idea sicuramente estranea agli Ebrei), e che tanto meno muore e risorge -o in realtà o in apparenza- (si veda al riguardo quanto abbiamo detto nella nota 14 della decima parte de “L’anima e la sua sopravvivenza”, oltre alle “Osservazioni sula nascita del Cristianesimo”); è quindi una figura che, oltre che allo “Shayosant” mazdaico, si avvicina a quello che sarà “al-Mahdi”, dell’islamismo sciita duodecimano, l’ultimo dei dodici “imam” successori di Maometto tramite Alì, l'”Imam nascosto”, che non sarebbe morto, ma celato in attesa di tornare per restaurare la fede e la giustizia nel mondo e assicurare la vittoria dell’Islam.

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