MARTINO, GATTO MUSICISTA -quarta parte-

CANTO NONO

Quasi un mese avea trascorso,/ da che il micio si era incorso

in quel fato sfortunato,/ che vi ho testè narrato,

quando un giorno un bel gattino/ che lavavasi il musino

stando sopra un abbaino/ in un fulgido mattino

-anzi triste in verità,/ chè portava iniquità-

vide giungere al maniero,/ con un piglio inver guerriero,

la masnada del barone/ in smaniosa agitazione.

Corse gli altri ad avvisare,/ senza men tergiversare:

la minaccia che incombeva,/ e che già ciascun temeva,

stava or per arrivare/ la lor quiete a sconquassare!

Andar lesti ad occultarsi,/ nei ripari intorno sparsi;

si adoprava il nostro eroe/ a aiutare le bestiole,

e operava con ingegno/ per attuare il lor disegno

di difender la magione/ dalle insidie del barone.

Ei cercava con premura,/ tra le cupe e antiche mura,

i più adatti ripostigli,/ dispensando pur consigli,

per potersi preparare/ il nemico ad affrontare.

Esplorando a destra e a manca,/ entrò in una cassapanca,

mentre gli altri bei micetti,/ pur restando un poco stretti,

si infilarono qua e là,/ con scattante agilità,

per celarsi in modo scaltro,/ chi in un posto e chi in un altro,

nella vecchia scrivania/ o nella scaffaleria,

posta accanto a una parete,/ decorata con comete;

ciascun d’essi se ne andò/ dentro a un mobile o a un comò,

dietro un’anta o in una nicchia,/ dove mai il Sole non picchia.

Don Juanito, il pappagallo,/ sorvolato un piedistallo,

si andò lesto ad acquattare,/ senza punto dubitare,

proprio dietro lo schienale/ di un divano floreale,

così ben mimetizzato/ che da niuno era notato!

La civetta a volo grave/ si portò sotto una trave,

e lì bene si occultò,/ come meglio non si può.

Pure Amelia, la gallina,/ rifugiatasi in cucina,

nel camin s’era involata,/ e vi stava ben celata,

poiché, essendo tutta nera,/ là visibile non era,

mentre Anita con Giannetto,/ si rinchiuser nel cassetto,

che riempito avean di stracci,/ di pietruzze e calcinacci,

che apprestavansi a lanciare,/ senza tema di sbagliare,

contro i perfidi invasori/ che arrecavano dolori.

Quel manipolo brutale/ or saliva sulle scale

e, arrancando sui gradini,/ si accingevano i facchini

delle sale a sbaraccare/ tutti i mobili e il ciarpame,

pria che fosse principiata,/ del castel la smantellata.

La lor opera il barone/ pur seguia con attenzione,

poiché ben volea osservare/ se vi fosse da salvare

alcun pezzo un po’ pregiato,/ che poteva esser smerciato.

Lo scompiglio essi portavan,/ ma i micetti si paravan,

-loro e pur gli altri animali,/ che eran molto solidali-,

a eseguire il loro piano,/ proprio a compiersi balzano,

ed agendo di sorpresa/ a tentar bene l’impresa

degli intrusi discacciare/ e il pericolo sventare.

Ecco Esperia la civetta/ come rapida saetta

col suo volo silenzioso/ dal soffitto assai spazioso

su di un ingegner piombò/ e gli artigli conficcò

nelle spalle sue robuste,/ che divennero più onuste,

sì che quel malcapitato/ ululò come un dannato.

Ed allor che un operaio,/ -ignorando a quale guaio

stava per andare incontro, senza rendersene conto-,

al camino appropinquossi,/ onde fossero rimossi

le catene ed altri arnesi/ che lì stavano sospesi,

la sagace gallinella,/ quale fosse accorta ancella,

che celata era carponi/ tra la cenere e i carboni/

tanta polvere e un tizzone,/ per lui dare una lezione,

al birbon spruzzò sugli occhi,/ sì che cadde sui ginocchi.

Martin, Ciro e due gattini,/ accucciati su cuscini,

nella panca ben nascosti,/ ove eransi disposti,

allorché il fiero barone/ con rapace decisione

della cassa alzò il ripiano,/ -che era in legno di castagno-,

fuor sgusciaron d’improvviso,/ graffi dandogli sul viso,

sì che il perfido aggressore/ strillò forte pel dolore!

Cherubina e pur Zaira,/ spinte allor da giusta ira,

con le unghie e con i denti/ già menavano fendenti.

Gli animali ardimentosi,/ con i lor colpi ingegnosi,

così diedero battaglia/ del barone alla marmaglia,

e ne nacque un parapiglia/ che destava meraviglia,

perché i poveri esserini,/ così timidi e tapini,

ben sapevan tener testa/ con le loro prodi gesta

a quegli uomini arroganti/ che portavan danni alquanti!

Il barone furibondo,/ e di collera fremendo,

che parea quasi un ossesso/ per quel ch’era allor successo,

loro urlava con livore,/ e indicibile clamore:

“Care bestie, non temete!/ Delle belle ne vedrete!

Qui con forza torneremo/ e per ben ve le daremo!

Quanto inver vi pentirete,/ di aver qui cercato quiete!

Così andar ve ne dovrete,/ se alla pelle ci tenete!”

Queste ed altre simil cose/ dicean le parole astiose

ch’egli irato proferiva,/ con la voce sua cattiva.

E mantenne la promessa,/ che con impeto aveva espressa,

poiché già nel dì seguente/ al castel mandò altra gente,

tutta quanta assai agguerrita,/ e di arnesi ben munita,

di badili e di picconi,/ e pur vanghe con bastoni,

nonché ruspe e macchinari,/ che potean fare disastri.

CONTINUA

N.B.: il poemetto “Martino gatto musicista” è stato scritto da me alcuni anni fa in dieci canti; ma ultimamente, quando ho pensato di proporlo sull'”Oasi di Tammuz”, mi sembrato opportuno rivederlo e ampliarlo, portandolo a dodici canti. Per tale ragione pregherei coloro che siano interessati alle vicende del gattino violinista di pazientare per qualche tempo affinché abbia modo di portare a compimento l’opera.

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