CANTO NONO
Quasi un mese avea trascorso,/ da che il micio si era incorso
in quel fato sfortunato,/ che vi ho testè narrato,
quando un giorno un bel gattino/ che lavavasi il musino
stando sopra un abbaino/ in un fulgido mattino
-anzi triste in verità,/ chè portava iniquità-
vide giungere al maniero,/ con un piglio inver guerriero,
la masnada del barone/ in smaniosa agitazione.
Corse gli altri ad avvisare,/ senza men tergiversare:
la minaccia che incombeva,/ e che già ciascun temeva,
stava or per arrivare/ la lor quiete a sconquassare!
Andar lesti ad occultarsi,/ nei ripari intorno sparsi;
si adoprava il nostro eroe/ a aiutare le bestiole,
e operava con ingegno/ per attuare il lor disegno
di difender la magione/ dalle insidie del barone.
Ei cercava con premura,/ tra le cupe e antiche mura,
i più adatti ripostigli,/ dispensando pur consigli,
per potersi preparare/ il nemico ad affrontare.
Esplorando a destra e a manca,/ entrò in una cassapanca,
mentre gli altri bei micetti,/ pur restando un poco stretti,
si infilarono qua e là,/ con scattante agilità,
per celarsi in modo scaltro,/ chi in un posto e chi in un altro,
nella vecchia scrivania/ o nella scaffaleria,
posta accanto a una parete,/ decorata con comete;
ciascun d’essi se ne andò/ dentro a un mobile o a un comò,
dietro un’anta o in una nicchia,/ dove mai il Sole non picchia.
Don Juanito, il pappagallo,/ sorvolato un piedistallo,
si andò lesto ad acquattare,/ senza punto dubitare,
proprio dietro lo schienale/ di un divano floreale,
così ben mimetizzato/ che da niuno era notato!
La civetta a volo grave/ si portò sotto una trave,
e lì bene si occultò,/ come meglio non si può.
Pure Amelia, la gallina,/ rifugiatasi in cucina,
nel camin s’era involata,/ e vi stava ben celata,
poiché, essendo tutta nera,/ là visibile non era,
mentre Anita con Giannetto,/ si rinchiuser nel cassetto,
che riempito avean di stracci,/ di pietruzze e calcinacci,
che apprestavansi a lanciare,/ senza tema di sbagliare,
contro i perfidi invasori/ che arrecavano dolori.
Quel manipolo brutale/ or saliva sulle scale
e, arrancando sui gradini,/ si accingevano i facchini
delle sale a sbaraccare/ tutti i mobili e il ciarpame,
pria che fosse principiata,/ del castel la smantellata.
La lor opera il barone/ pur seguia con attenzione,
poiché ben volea osservare/ se vi fosse da salvare
alcun pezzo un po’ pregiato,/ che poteva esser smerciato.
Lo scompiglio essi portavan,/ ma i micetti si paravan,
-loro e pur gli altri animali,/ che eran molto solidali-,
a eseguire il loro piano,/ proprio a compiersi balzano,
ed agendo di sorpresa/ a tentar bene l’impresa
degli intrusi discacciare/ e il pericolo sventare.
Ecco Esperia la civetta/ come rapida saetta
col suo volo silenzioso/ dal soffitto assai spazioso
su di un ingegner piombò/ e gli artigli conficcò
nelle spalle sue robuste,/ che divennero più onuste,
sì che quel malcapitato/ ululò come un dannato.
Ed allor che un operaio,/ -ignorando a quale guaio
stava per andare incontro, senza rendersene conto-,
al camino appropinquossi,/ onde fossero rimossi
le catene ed altri arnesi/ che lì stavano sospesi,
la sagace gallinella,/ quale fosse accorta ancella,
che celata era carponi/ tra la cenere e i carboni/
tanta polvere e un tizzone,/ per lui dare una lezione,
al birbon spruzzò sugli occhi,/ sì che cadde sui ginocchi.
Martin, Ciro e due gattini,/ accucciati su cuscini,
nella panca ben nascosti,/ ove eransi disposti,
allorché il fiero barone/ con rapace decisione
della cassa alzò il ripiano,/ -che era in legno di castagno-,
fuor sgusciaron d’improvviso,/ graffi dandogli sul viso,
sì che il perfido aggressore/ strillò forte pel dolore!
Cherubina e pur Zaira,/ spinte allor da giusta ira,
con le unghie e con i denti/ già menavano fendenti.
Gli animali ardimentosi,/ con i lor colpi ingegnosi,
così diedero battaglia/ del barone alla marmaglia,
e ne nacque un parapiglia/ che destava meraviglia,
perché i poveri esserini,/ così timidi e tapini,
ben sapevan tener testa/ con le loro prodi gesta
a quegli uomini arroganti/ che portavan danni alquanti!
Il barone furibondo,/ e di collera fremendo,
che parea quasi un ossesso/ per quel ch’era allor successo,
loro urlava con livore,/ e indicibile clamore:
“Care bestie, non temete!/ Delle belle ne vedrete!
Qui con forza torneremo/ e per ben ve le daremo!
Quanto inver vi pentirete,/ di aver qui cercato quiete!
Così andar ve ne dovrete,/ se alla pelle ci tenete!”
Queste ed altre simil cose/ dicean le parole astiose
ch’egli irato proferiva,/ con la voce sua cattiva.
E mantenne la promessa,/ che con impeto aveva espressa,
poiché già nel dì seguente/ al castel mandò altra gente,
tutta quanta assai agguerrita,/ e di arnesi ben munita,
di badili e di picconi,/ e pur vanghe con bastoni,
nonché ruspe e macchinari,/ che potean fare disastri.
CONTINUA
N.B.: il poemetto “Martino gatto musicista” è stato scritto da me alcuni anni fa in dieci canti; ma ultimamente, quando ho pensato di proporlo sull'”Oasi di Tammuz”, mi sembrato opportuno rivederlo e ampliarlo, portandolo a dodici canti. Per tale ragione pregherei coloro che siano interessati alle vicende del gattino violinista di pazientare per qualche tempo affinché abbia modo di portare a compimento l’opera.