CANTO QUARTO
Giunto ormai era il momento/ di affrontare il gran cimento
e Martino fu portato/ nel teatro illuminato.
La serata era di gala/ e gremita appar la sala!
Venne l’alta società/ per mirar la novità,
che giammai non s’era vista,/ di quel gatto musicista,
una folla scintillante,/ che volea essere presente
alla “prima” eccezionale/ che si dava in quel locale:
v’eran dame sussiegose,/ con collane assai preziose,
con la tuba tutti seri/ dei signori molto austeri:
era proprio pien di gente,/ quella sera il vasto ambiente!
Al “Teatro delle Muse”/ accorrevan numerose
Le persone più importanti,/ con begli abiti eleganti;
eran tutte assai curiose,/ impazienti e pure ansiose,
di ascoltar l’esibizione/ d’un artista d’eccezione!
Dell’orchestra il direttore,/ -ch’era un noto professore
d’armonia e contrappunto,/ con il viso un poco smunto-,
attaccò con la bacchetta/ a dirigere un’arietta.
Il gattino, intimidito/ e piuttosto impermalito,
nell’udire quel clamore/ si sentì di malumore:
sulla scena non vuol stare,/ anzi a casa volea andare!
Per poterlo rinfrancare,/ ed indurlo a cooperare,
Bella al micio sussurrava/ quel che il core le ispirava,
mentre intanto accarezzava/ il micin che in grembo stava:
“O mio caro e buon Martino,/ che sei proprio un tesorino”
-gli diceva la bambina,/ sgranocchiando una mentina-
“Fai sentire a questa gente/ quanto bravo sei e valente!
Se contenta mi farai,/ un bel dono dopo avrai!”.
Con quel breve discorsetto/ si convinse il buon micetto:
così un poco rincuorato,/ e da Bella accompagnato,
sopra il palco presentossi,/ con i peli ancor più rossi
per la forte sua emozione/ nella nuova situazione.
Sollevatosi il sipario/ che chiudeva lo scenario,
un’eterea signorina,/ con un’aria da maestrina,
annunciò con voce chiara,/ e di eloquio non ignara:
“O signore mie graziose,/ della musica virtuose,
rispettabili signori,/ delle arti estimatori,
ecco a Voi il violinista/ più carin che al mondo esista!”
Un applauso fragoroso,/ come il suon d’un gran maroso,
scosse allor l’eutèrpeo tempio,/ quale mai non s’ebbe esempio,
e quel prode e buon gattino,/ fatto tosto un bell’inchino,
cominciò la sua sonata,/ che pareva assai ispirata:
eseguì un minuetto,/ col suo stil davver perfetto,
e poi assolo commoventi,/ ma pur anco divertenti,
in maniera magistrale,/ senza dubbio celestiale!
La brillante esibizione/ ricevette un’ovazione:
fu un trionfo clamoroso,/ per non dire strepitoso!
Esultavano anche i muri,/ che non erano più duri,
e ballavan le poltrone,/ con sedute le persone
che, applaudendo con calore/ e tantissimo stupore,
si chiedevano: “Che è stato?/ Il suol sembra sia animato!”.
Rosa Bella era commossa,/ si sentiva tutta scossa
per la gran felicità;/ la sua mamma ed il papà
eran tutti soddisfatti/ e sembravano due matti!
Martin era però stanco/ di quella serata in bianco
e voleva sol tornare/ nella cuccia a riposare.
Quando a casa fu arrivato,/ cadde tosto addormentato;
la sua mamma vide in sogno/ e fu quello il più bel dono
che ricevere potesse,/ né che a cuore più gli stesse!
Con la lingua lo leccava,/ con amor lo coccolava:
si sentiva in paradiso/ contemplando quel bel viso
e faceva tante fusa/ nella bianca culla chiusa
dove stava con la mamma/ per poi fare tanta nanna!
Dopo che ebbe ben dormito/ d’un bel sonno saporito,
come Bella avea promesso/ quale premio del successo,
lo servì d’un buon pranzetto,/ con la torta all’amaretto,
e la crema col budino,/ nonché qualche pasticcino.
Poi gli diede una pallina,/ con un’automobilina
e un cuscino tutto giallo,/ che portava al centro un gallo
di blu e rosso ricamato,/ così bene disegnato
che parea pronto a cantare/ per le ombre allontanare!
Il gattino per la gioia/ saltellava senza posa
e giocava con diletto/ un po’ su e un po’ giù dal letto.
CANTO QUINTO
Poi però da quell’evento,/ del quale pure era contento,
iniziò per il felino,/ or virtuoso di violino,
una vera penitenza:/ con grandissima frequenza
si doveva esercitare,/ per potere indi sonare
nei teatri e nelle arene/ di metà dell’ecumene.
Era spesso trasportato,/ e con forza sballottato,
ora di qua, ora di là,/ per paesi e per città;
non poteva più giocare,/ e nemmeno sonnecchiare,
come tanto amava fare:/ sol doveva sviolinare!
Già l’aveva quasi a morte/ di subire quella sorte,
che molesta gli sembrava,/ e ormai più non sopportava!
Allor triste si sentiva/ e tra sé rimuginava:
“Me meschino! Quando mai/ mi son messo in questi guai
per la brama di sonare/ ed il violinista fare!”.
Un bel dì ei si trovava,/ -come spesso capitava-,
in una città sul mare,/ ove ben dovea sonare
nel teatro comunale/ per la festa patronale.
Ora accadde che un bambino,/ -che era un vero birichino-,
quando vide il bel gattino/ mentre entrava in camerino
per leccarsi il folto pelo,/ acconciandosi con zelo,
a Martin pestò la coda/ e il micin scappò con foga.
Infilò svelto la porta,/ inseguito dalla scorta,
e fuggì per la città/ a una gran velocità,
evitando con destrezza/ e con abile prontezza
i veicoli a motore/ che sfrecciavan con furore.
Distanziò gli inseguitori/ e dal centro venne fuori.
Corse, corse a perdifiato,/ finchè fu molto affannato.
Si fermò per respirare/ ed un poco riposare.
Era giunto a un vicoletto/ che era invero alquanto stretto.
Un gattino bianco e nero/ lo fissò con sguardo fiero.
“Tu chi sei?” gli chiese tosto./ “Mai ti ho visto in questo posto!”.
“Io Martino son nomato,/ da un teatro son scappato!”
-Disse il piccolo felino,/ un pochetto timidino-
“Il violin dovrei sonare/ per la mia virtù mostrare,
ma davver mi son stancato/ d’esser sempre sì sfruttato!
E per giunta poco fa,/ a aumentar la mia ansietà,
un fanciullo dispettoso,/ e per nulla giudizioso,
sulla coda mi ha pestato/ e son molto spaventato!”.
“Ma che dici? Sai sonare?/ E’ una cosa da ammirare!”
esclamò con meraviglia/ quel micin senza famiglia
(non avea famiglia umana,/ perché stava inver con mamma,
nonché tre o quattro fratelli,/ un pochino birbantelli)
“Sì, davver suono il violino/ come mai fece un gattino!
Ma dove or sono arrivato,/ e tu come sei chiamato?”
chiese il micio immantinente,/ un tantino diffidente.
“Ti dirò, il mio nome è Ciro,/ e son quasi sempre in giro,
perché io una casa vera,/ dove andar sempre alla sera,
per adesso non ce l’ho/ e non so se mai l’avrò!
Con la mamma e i fratellini,/ nonché alcuni altri gattini,
e diversi animaletti,/ che già furono reietti,
abitiamo nel cortile,/ tempo addietro signorile,
di un palazzo abbandonato,/ e già mezzo diroccato”.
E poi aggiunse: “Se lo vuoi,/ puoi venir a star con noi!”
Il gattino acconsentì,/ di buon grado lo seguì,
ed il nuovo suo amichetto,/ imboccato un vicoletto,
lo condusse nel maniero,/ che era antico e molto austero,
dove la sua mamma stava,/ che Zaira si chiamava,
una gatta di buon cuore,/ con il manto tricolore.
Ella disse: “Resta pure!/ Non ci rechi seccature,
anzi lieti ci farai,/ se da noi ti fermerai!”.
E per dargli il benvenuto/ lo leccò tosto sul muso,
come fosse la sua mamma,/ che ora lo metteva a nanna,
cosicché il prode micino/ si trovò proprio benino
in quel luogo assai appartato,/ che pareva desolato.
CANTO SESTO
Pria di fargli visitare,/ la dimora secolare,
preso un poco di respiro,/ con gentil premura Ciro
un giaciglio gli indicò,/ dove il micio riposò.
Esprimendo lieti auspici,/ presentògli indi i suoi amici,
che abitavan quelle stanze,/ tutte ingombre di credenze
e altri mobili scassati,/ -ma già un tempo rinomati-.
Eran aule ospitali,/ dove i poveri animali
si potevano accucciare,/ e così sicuri stare,
nonchè bene riparare,/ in un modo un po’ speciale,
dai rigori stagionali,/ che potean esser ferali.
V’era un bianco coniglietto,/ che appellavasi Giannetto,
e di neve pareva un fiocco,/ quasi fosse un bel balocco.
Con la sorellina Anita,/ che appariva un po’ spaurita,
e il musin tenero avea/ e dorata la livrea,
occupavano un cassetto,/ anche se era un poco stretto,
di un magnifico comò,/ tutto in stile rococò,
che faceva gran figura,/ con la sua ricca bordura,
benché avesse un piè azzoppato,/ e un aspetto malandato.
Sopra un mobil da toeletta,/ stava Esperia, la civetta,
che per tutti era una zia:/ col suo tocco di magia
lei risolvere sapeva/ ogni piccolo problema,
oppur grande, se ve n’era,/ quale saggia consigliera.
Accogliendol con dolcezza,/ a Martin diè una carezza
con la morbida sua ala/ dal micino assai apprezzata.
V’eran pure in quelle sale,/ ch’avean aria un po’ regale,
molte tortore e colombi,/ i cui armonici rimbombi
risonavan per le scale/ con lor grazia musicale.
Sotto i tetti ed il soffitto,/ stavan pure a capofitto
venti o trenta pipistrelli,/ che dormivano tranquilli,
e aspettavano di uscire/ dell’azzurro all’imbrunire.
In un’altra bella stanza,/ forse di rappresentanza,
il gattin, -ch’avea ammirato/, tutto quel da lui osservato-,
vide accoccolata Amelia,/ una nera gallinella,
che fuggita era da un’aia,/ la cui perfida massaia
le voleva il col tirare/ per il brodo preparare,
e, correndo a perdifiato,/ ella scampo avea trovato
in quel nobile palagio,/ ove stava a suo bell’agio;
e poi un grosso pappagallo,/ di color blu, verde e giallo,
che sapeva ben parlare,/ quasi senza mai sbagliare,
nella lingua degli umani,/ con quei loro versi strani,
il qual stava appollaiato,/ sgranocchiando un mandorlato,
sopra un alto attaccapanni,/ disusato da molti anni.
Con un “Ciao!” lo salutò,/ e di poi gli domandò:
“Come mai sei anche tu qua/ a cercar la carità?
Ti hanno forse abbandonato,/ su una strada scaricato?”.
“No” ripose a lui Martino/ “Non fu questo il mio destino:
dalla gente son scappato,/ e fin qui sono arrivato
perché mi ero assai stufato,/ senza d’essere pregato,
di sonar sempre il violino,/ alla sera ed al mattino
per gli umani rallegrare/ con le mie melodie rare!”.
E poi il micio lor narrò,/ e per bene palesò,
tutta quanta la sua storia,/ da che allor n’ebbe memoria.
Dopo udito il suo racconto/ con orecchio ben attento,
gli animali lì riuniti,/ che eran prima ammutoliti
nell’udir le traversie/ da Martino un dì subite,
esclamaron tutti in coro,/ come fossero in un foro:
“Tante volte quegli umani,/ son davvero dei marrani!
Sono vili sfruttatori,/ che a noi provocan dolori!
Diamo loro tanto affetto/ e poi questo ne è l’effetto!”.
“Ma non è sempre cosi,/ anche se ora sono qui!
Le mie care due padrone/ sono inver brave persone!
Se la sorte è stata avara,/ v’è però qualche gattara
che di voi si prende cura/ e la rende meno dura!
Questa specie di bicocca,/ dove vivere vi tocca,
non è poi sì desolata,/ or che ben l’ho visitata”,
osservò il micin prudente,/ “anzi sembrami accogliente!”.
“Sì, ma freddo fa d’inverno/ poco meno che all’esterno!”
replicò allora Giannetto,/ agitando il suo musetto.
“Qui però siamo sicuri,/ entro questi saldi muri!”
commentò poi la civetta,/ sollevando una zampetta,
“E benigna la fortuna/ si è mostrata, ed opportuna:
qui non giungono teppisti,/ né energumeni malvisti.
Mai non viene in queste sale/ chi ci voglia fare male,
né alcuno ci disturba,/ o la nostra pace turba:
è il palazzo un buon asilo/ e vi stiam come in Eliso!”.
E così era davvero:/ quel già nobile maniero
era stato un dì d’un mago/ che vi avea dipinto un drago
sulla volta celestiale/ del salone principale:
ei con forza proteggeva/ chi li sotto vi fermava!
Quel maniero abbandonato/ per la gente era stregato,
e così stava lontano/ chi un fine aveva insano.
Ma ormai il Sole declinava,/ oltre i monti se ne andava,
e la sera col suo velo,/ che scendeva giù dal Cielo,
ammantava d’aurea quiete/ quelle volte ormai segrete.
Di già stava per venire/ il momento di dormire
e assai stanchi ed assonnati,/ da Morfeo desiderati,
si recavan gli animali/ nei lor covi artificiali
con sollievo a riposare/ e le forze a ritemprare.
E così pure Martino,/ che ora aveva un po’ freddino,
si stirò con voluttà/ e salì sopra un sofà,
dove ben s’accomodò/ finchè non s’addormentò.
Or regnava tutt’intorno/ il silenzio più profondo.
Ma il gattino nella notte/ sognò tanti sogni in frotte
-Il violino, Rosabella,/ or splendente quale stella,
la sua fuga dal teatro/ e la corsa a perdifiato-
e rivisse le emozioni/ di quel giorno da leoni.
CONTINUA NELLA TERZA PARTE (canti settimo e ottavo)