L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -quindicesima parte (escatologia manichea)-

La creatura umana è consustanziale a Dio per la presenza in essa, seppure sepolta nella materia e nell’ignoranza, della luce divina, che ne costituisce la parte superiore il Noυς, l’intelletto (o l’intelligenza)(1). Scopo della rivelazione in senso lato e in particolare di quella trasmessa da Mani e dai suoi discepoli è il risveglio della parte divina dell’uomo dall’oblio, e il riscatto ad opera di quest’ultima dell’anima, -il principio vitale- dalla prigionia dei demoni. Chi conosce sé stesso, -ovvero la sua condizione potenzialmente divina, ma incatenata nel male-, si libera dal vincolo della materia ed è elevato al Paradiso delle Luci, poiché ha vinto i demoni, le pulsioni malefiche legate al corpo; coloro che invece rimangono nell’ignoranza sono condannati a rinascere in altri corpi . Secondo quanto affermano i “Kephalaia” (Capitoli) copti (cap. CXLI): “L’anima, una volta abbandonato il corpo, vede il suo salvatore e liberatore. Con l’immagine di Lui e con i tre angeli che stanno da presso, ascende verso l’alto, si reca davanti al giudice della verità e conquista la corona della vittoria”: essa riceve quali segni esteriori e simboli della sua giustificazione una “veste di luce”, un serto (“pusag”), un diadema (“dedem”), dopo di che entra nella sala superna (“Talvàr”), dinanzi al trono celeste (“gah”).

Ma la luce giace imprigionata non solo nei corpi umani ma in tutta la natura, in tutti gli esseri viventi, che si può identificare con l’Anima del Mondo pitagorica e platonica, e che continua a gemere e a soffrire a causa del suo legame con la materia, la quale, come abbiamo visto nella parte precedente, è personificata nello “Jesus Patibilis”, e non potrà esservi un’autentica salvezza fino a quando tutte le particelle di luce disperse nella materia, non saranno riunite intorno a Dio e non verrà ristabilito la separazione tra i due regni della Luce e dell’Oscurità.

La meta finale sarà raggiunta dopo una conflagrazione cosmica la cui descrizione si rifà sia ai miti finale dell’Iran e dell’oriente, sia alle apocalissi cristiane, secondo uno schema che nelle grandi linee si ritrova in molte tradizioni religiose. Gli ultimi giorni del mondo saranno preceduti da una miriade di segni infausti e di gravi sciagure. Apparirà poi una sorta di re o condottiero, il falso Mithra, cavalcante un toro, il quale darà inizio all’evento principale della fine dell’universo, detto la “Grande Guerra” in cui la “Chiesa della Giustizia” dovrà combattere un’epica battaglia contro le forze del male e delle tenebre; ma gli Eletti della Luce trionferanno e giungerà in un’aura di pace il vero Mithra, o Gesù Messia, il “Rex Magnus”, il quale sarà esaltato da una generazione di viventi, chiamata “a prendere possesso del suo bene”(2). Seguirà allora il giudizio universale, allorquando tutte le anime, riunite intorno al trono del Salvatore, saranno suddivise tra buone, -quelle che hanno saputo sciogliersi dai legami della materia- e cattive.

Gesù-Mithra regnerà sulla Terra per un breve tempo, dopo di che abbandonerà il cosmo, insieme con gli Eletti e con gli dei protettori dei firmamenti e si condurrà nel Regno della Luce; indi le particelle luminose ancora presenti nel mondo si aggregheranno in modo da formare una grande statua (“Andrias” in copto), che si eleverà al Cielo quale colonna di Luce. La sfera terrestre allora sarà annichilita; tutti i dannati, i demoni, il mondo della materia e delle tenebre saranno conglobati in unico ammasso (“bolos” o “globus”) e precipitati in un abisso cosmico, che sarà indi sigillata con una grossa pietra. In questo modo con il ristabilimento della pristina perfezione e distinzione netta tra Luce e tenebra si conclude la storia cosmica e salvifica manichea.

Tuttavia, si potrebbe anche ipotizzare che questo esito non sia la fine definitiva, ma soltanto la conclusione di un ciclo, la pausa tra manifestazione e l’altra, che prelude a una nuova fase dell’incessante divenire cosmico dove Spazio infinito e Tempo infinito si combinano per l’eternità in un susseguirsi di cicli incommensurabili e inconcepibili per la mente umana; e che tornino a ripetersi l’irrompere della Materia-Tenebra nella Luce e la discesa di quest’ultima nella materia, un nuovo scontro e una nuova palingenesi cosmica, e così via in una serie ininterrotta di cicli, che non sono però ripetizione sempre uguale della medesima storia ma procedono su piani diversi -e avremmo dunque uno sviluppo temporale che non è né una linea retta che si dirige da un punto a un altro punto, né un percorso circolare che trona sempre al medesimo punto per ricominciare daccapo sempre identico, ma un movimento “a spirale”, come è quello dei pianeti, delle stelle e delle galassie- (si intende che queste ultime sono osservazioni personali, ispirate dalla riflessione e dal confronto con le dottrine di scuole esoteriche -come quelle teosofiche e rosacrociane- che presentano alcune affinità con il manicheismo, ma che, allo stato attuale delle conoscenze, non hanno riscontro nei testi manichei).

Sui principi che abbiamo esposto nella parte precedente nacque e si sviluppò la chiesa manichea, che si articolava in due classi: quella degli “Zaddiqin” (“Giusti” in siriaco; in medio-persiano “Ardavàn”) e quella degli “Shamoin” (“Niyoshagàn”), più noti però con i termini latini invalsi allorché il manicheismo ebbe una certe diffusione in occidente, di “Electi” e “Auditores”, o di “Fideles” e “Cathecumeni” (mutuati gli ultimi due dalla chiesa cristiana). I primi paragonabile peraltro più che ai membri del clero cristiano ai monaci buddisti, sono coloro che seguono in pieno le ascetiche nomre di vita che sole possono assicurare la salvezza e che si possono sintetizzare nei “tria signacula” (i tre sigilli): “signaculum oris”, signaculum manuum” e “signaculum sinus”(3).

Il primo, il “sigillo della bocca” indica la purezza del pensiero e della parola, l’astensione da qualunque discorso disonesto o blasfemo, dalla menzogna e dal linguaggio aggressivo, offensivo e licenzioso, nonché ad un regime dietetico strettamente vegetariano, anzi “vegano”, poiché, come abbiamo detto sopra deve essere evitata per quanto possibile anche la sofferenza delle piante, per cui si consumeranno soltanto i frutti o altre parti delle piante la cui sottrazione  non comporti la morte o il patimento della pianta stessa.

In questo dipinto sono raffigurati alcuni Uditori: come si noterà il loro abbigliamento era caratterizzato da una tunica bianca e da alto copricapo parimenti bianco.

I precetti del secondo, il “sigillo delle mani”, vietano di usare qualunque forma di violenza, e di distruggere, mutilare o ferire gli animali e i vegetali: chi taglia le piante rinascerà pianta, chi uccide un animale si reincarnerà in un animale della medesima specie di quello da lui soppresso.

Il terzo sigillo, “del grembo”, contempla la completa astinenza sessuale, non soltanto per sfuggire alla schiavitù della sensualità e della libidine, e a tutti i guai che essa si trascina dietro, ma anche al fine di evitare la procreazione, che è lo strumento con il quale si perpetua l’imprigionamento delle anime nella materia. Notiamo infatti che la morale manichea tende a restaurare uno stato di “ermafroditismo spirituale”, -o, più esattamente una condizione asessuata-, poiché la divisione e la determinazione dei sessi è una conseguenza della contaminazione dello spirito con la materia, mentre i puri esseri di luce ne sono privi (4).

Sebbene tali norme fossero il modello a cui tutti i seguaci della religione manichea dovevano uniformare il loro comportamento, soltanto gli Eletti erano tenuta alla stretta osservanza di esse, mentre nella pratica per gli Uditori erano assai attenuate -tanto che essi potevano anche sposarsi e avere figli-, pur se veniva raccomandato loro di avvicinarsi sempre più a questo ideale di vita. Talvolta agli Uditori erano demandati alcuni compiti di cui beneficiavano anche gli Eletti senza infrangere formalmente le regole: ad esempio essi mietevano e macinavano il grano, con cui veniva poi confezionato il pane destinato agli Eletti, i quali lo consumavano solo dopo aver recitato una preghiera dove proclamavano di non essere colpevoli della violenza che era stata inflitta al mondo vegetale (5).

Non è molto chiaro quale fosse il percorso che conduceva dalla condizione di “Uditore” a quella di “Eletto”; sappiamo però che l’ammissione formale al corpo degli Eletti avveniva tramite un rito che alcuni esegeti hanno ritenuto una sorta di battesimo, e che veniva di solito celebrato nell’occasione della “Bema”, la festa principale del calendario religioso manicheo; ma l’opinione prevalente degli studiosi, -anche sulla base delle testimonianze rimaste, sebbene non molto chiare- ritiene che tale “sacramento” non comportasse un lavacro rituale, ma piuttosto un’imposizione delle mani un’unzione (in tal caso sarebbe assimilabile alla cresima cristiana). A tali segni esteriori si accompagnava il voto solenne di osservare integralmente le prescrizioni contenute nei “tria signacula”, e in particolare quella che impegnava a non procreare.

Unicamente gli Eletti potevano aspirare ad entrare subito dopo la loro dipartita terrena nel Regno di Luce, se avessero mantenuto sempre la purezza interiore ed esteriore, mentre le anime degli Uditori sono destinate a reincarnarsi diverse volte, fino a che non riescano  raggiungere la perfezione. Quanto ai non manichei non è chiaro se coloro che attengono a principi e norme di vita simili a quelle dei manichei, -come ad esempio i monaci buddisti o di sette rigoriste cristiane- possano essere a loro assimilati o meno; di certo però coloro che non rispettano le regole sopra esposte e sono schiavi delle passioni e dei vizi non possono aspirare alla salvezza, né subito dopo la morte sia dopo ripetute incarnazioni: infatti nel manicheismo, a differenza che nella maggior parte delle chiese e sette buddistiche, il processo di evoluzione spirituale non è illimitato ed alcuni individui, anzi molti, sono destinati ad una dannazione perpetua.

Celebrazione della “Bema”, la festa del Trono, -“Bema”, la cattedra posta su cinque gradini e lasciata vuota, sulla quale doveva prendere posto in spirito il maestro, Mani-, la principale festività della religione manichea. Si noti il tripode colmo di frutta, che aveva una particolare importanza nel simbolismo manicheo.

Si sa però che nell’imminenza della morte anche per gli Uditori veniva praticato un rituale simile a quello che sanciva il passaggio alla condizione superiore, -sebbene non sia chiaro se esso fosse abitualmente officiato, o soltanto in certi luoghi e periodi-; codesto rito appare dunque simile nella sua finalità, -propiziare “in extremis” la salvezza del devoto-, al “consulamentum” che i Catari amministravano nella medesima circostanza (6).

Il merito del manicheismo è soprattutto quello di avere posto al centro della sua riflessione la drammatica realtà del male e la sua presenza all’interno dell’uomo, evidenziando il carattere non buono della natura umana (7) contro il troppo facile e superficiale ottimismo con cui le cosiddette “grandi religioni monoteistiche”  hanno tollerato, giustificato o addirittura lodato non solo comportamenti riprovevoli e vergognosi, ma perfino le più infami nefandezze (mostrando peraltro un’inflessibile severità contro coloro che osino criticare i loro dogmi e cerchino una via personale alla spiritualità). Mentre nella concezione ebraico-cristiano-islamica Adamo ed Eva sono caratterizzati da un’originaria perfezione che essi perdono a causa della disubbidienza e del conseguente allontanamento da Dio (8), in quella manichea la prima coppia umana nasce intrinsecamente “cattiva”, generata da demoni, pur avendo dentro di sé i germi della luce e della spiritualità che si sono propagati anche nella materia a causa del dramma cosmico dal quale hanno tratto origine l’universo sensibile e tutti gli esseri viventi: non vi è dunque un “peccato originale”, ma una lenta e dolorosa salita, dopo il “risveglio” alla luce, verso una condizione superiore che si può conseguire solo se si riesce a domare i “demoni” interiori -obiettivo che ben pochi vogliono davvero conseguire, mentre la massa dei mortali sono vivono soggiogati da essi-.

Dunque la libertà dell’uomo è solo potenziale e consiste nel giungere all’illuminazione e alla consapevolezza della sua natura luminosa (e in questo si potrebbe veder un’analogia anche con gli Orfici, laddove gli elementi “dionisiaco” e “titanico” dell’uomo corrispondono rispettivamente a quello luminoso ed ahrimanico dei Manichei). Di qui la radicale svalutazione e ripudio delle normali aspirazioni terrene dell’individuo: mentre per le “religioni monoteistiche” (almeno nelle loro forme ortodosse ed “exoteriche”) il “peccato” è l’eccesso o la degenerazione di tendenze in sé stesse legittime (i “sette peccati capitali” della tradizione cattolica), -oltre al “peccato originale”, ossia il non accettare una passiva ubbidienza a Dio, e soprattutto ai suoi presunti rappresentanti terreni-, per il manicheismo, come per il buddismo e il giainismo, tali tendenze sono invece sono negative di per sè, dovute alla contaminazione con la materia e devono pertanto essere completamente eradicate (9).

Le complesse costruzioni mitologiche in cui si esprimono la cosmologia e l’antropologia manichee potrebbero essere interpretate come un processo interiore, una battaglia che si combatte nell’animo umano tra luce e oscurità, tra aspirazioni buone e tendenze cattive (e dunque come una “psicomachia”). La via insegnata da Mani è quindi senza dubbio una religione “gnostica” nel senso che concepisce la redenzione e la salvezza nella consapevolezza della potenziale divinità dell’uomo, racchiusa nei “semi di luce” che si trovano sepolti nella materia e pertanto ha punti di contatto con lo gnosticismo cristiano. Ma ne è anche lontana poiché mentre quest’ultimo, pur avendo una concezione profondamente negativa della materia, -limite e non potenzialità come nella filosofia platonico-aristotelica-, non le attribuisce una realtà autonoma, dato che essa è il frutto dell’errore, dell’ignoranza  della presunzione di uno o più arconti, nel manicheismo la materia-tenebra è uno dei principi metafisici fondamentali, esistente “ab aeterno” come la Luce.

Un altro aspetto meritorio della religione manichea è il suo interesse per la scienza, -soprattutto l’astronomia e l’astrologia-, che appare strettamente congiunto con la spiegazione mitica dell’universo e le finalità salvifiche dell’insegnamento di Mani. A questa rivalutazione della scienza si unisce un atteggiamento anti-fideistico a muovere critiche acute alle altre credenze religiose e ai loro testi sacri, -in particolare alla Bibbia, ma in seguito anche al Corano-, rilevando le assurdità e le incoerenze presenti in essi.

Dopo un primo periodo di espansione, nel III e nel IV secolo, in cui, nonostante la feroce persecuzione che subì ad opera di Diocleziano e poi degli imperatori cristiani, specie di Teodosio, il manicheismo conobbe una notevole diffusione anche entro i confini dell’Impero Romano, soprattutto nell’Africa settentrionale, esso cominciò a declinare in occidente. L’intolleranza e il fanatismo del clero cristiano e le spietate condanne degli imperatori bizantini, in particolar modo di Giustino e di Giustiniano, avevano reso la vita impossibile ai seguaci di Mani; tuttavia spunti tratti dalla dottrina manichea si ritrovano in diverse confessioni religiose del ME, considerate eretiche ed anch’esse duramente perseguitate, quali i Pauliciani, -dei quali abbiamo parlato nella quarta parte della “Storia minima dell’idea di Dio” del 25 agosto 2017-, e poi i Bogomili e i Càtari.

In oriente il manicheismo resistette più a lungo: nell’Impero Sassanide, all’avvento al trono di Narsete (293-302), altro figlio di Shapur, il quale, dopo il brevissimo regno dei nipoti Bahram II e III, era succeduto a Bahram I, la chiesa di Mani tornò ad essere protetta; in seguito, pur prevalendo nei confronti di esso un atteggiamento ostile, -quando non apertamente persecutorio, specie con gli ultimi sovrani della dinastia sassanide-, ebbe nel complesso un’esistenza meno difficile che nell’Impero Romano ( e poi Bizantino). Dopo la conquista dell’Impero da parte degli Arabi musulmani nel 651, questi ultimi mostrarono in un primo tempo una certa tolleranza nei confronti dei manichei; ma ben presto la situazione cambiò e sotto il califfi abbassidi, di origine persiana, succeduti agli Ommayyadi, pure nel mondo islamico cominciarono le persecuzioni contro i manichei che vennero in genere accomunati ai mistici eterodossi, -i “Sufi”-, e alle sette islamiche estremistiche rampollate dal ramo sciita dell’Islam, ma in effetti allontanatesi alquanto dalle interpretazioni ortodosse  Ed in effetti tematiche manichee, così come in genere di tipo gnostico e neoplatonico (emanatismo, metempsicosi, svalutazione dell’universo materiale, ecc.), si ritrovano in queste dottrine esoteriche; in particolare motivi chiaramente manichei appaiono nella setta di “Ahl -I Haqq” (“Quelli della Verità”). Tuttavia queste varianti molto eterodosse dell’Islam sono nell’insieme assai lontane sia nello spirito, sia nei principi etici dal manicheismo, poiché le sette mistiche dei sufi e dei dervisci hanno un carattere essenzialmente occulto e iniziatico (mentre nella chiesa manichea non risulta esistessero scritti o dottrine segrete comunicate a un ristretto gruppo di iniziati), ed i gruppi settari etnico-religiosi, -quali Drusi, Ismailiti, Nusayri-, sono entità assolutamente chiuse a cui si appartiene per nascita e che non accettano adepti provenienti dall’esterno, e sono dunque in antitesi con lo spirito di inclusività e di proselitismo proprio della religione di Mani.

Il regno degli Uiguri intorno all’800.

Ma fu nell’Asia centrale (Sogdiana, Transoxiana, Tokharistan) e in Cina che il manicheismo, giunto in quelle terre fin dal VII (nella parte dell’Asia centrale sottoposta all’Impero Sassanide -Khorasan, Sistan- in effetti assai prima), si mantenne più a lungo. Esso godette di vasta fortuna nell’Impero cinese, dove fu chiamato “Mo-ni kuang-fo chiao” (“religione del Budda della Luce”) ove peraltro si assimilò nelle sue espressioni culturali e cultuali all’ambiente locale, giungendo talora a una sintesi con il buddismo e il taoismo. E quando i Turchi Uiguri conquistarono la città di Loyang, uno dei centri principali del manicheismo cinese, e fondarono un vasto regno nella Mongolia settentrionale, il manicheismo ne divenne la religione ufficiale, in seguito alla conversione del loro sovrano, Bugug Qaghan nel 762.

Ma allorché nell’840 il regno uigurico fu abbattuto dai Kirghisi, anche l’organizzazione della chiesa manichea entrò in crisi; tuttavia sopravvisse ed ebbe anzi un certo sviluppo nei piccoli principati uigurici che si erano costituiti nel IX secolo dopo la caduta del regno principale: soprattutto l’oasi di Turfan fu allora un notevole centro religioso e culturale e da essa provengono numerosi testi, sia pure il più delle volte assai frammentari, che sono tra le poche fonti dirette che ci illuminano sulla dottrina manichea. Nella Cina vera e propria ancora una volta sui manichei si abbatterono le persecuzioni, e la loro religione cominciò dunque a declinare, pur se resistette in forme clandestine e segrete. Ma il colpo definitivo alla chiesa manichea in Asia fu portato dalle invasioni mongole di Gengis Khan nei primi decenni del XIII secolo, quantunque si abbiano testimonianze della sopravvivenza di alcuni gruppi manichei almeno fino alla fine del XIV secolo, poiché la “religione del Venerabile della Luce” viene menzionata, tra le espressioni religiose ufficialmente proibite, in alcuni documenti cinesi datati tra il 1370 e il 1374.

Sulle cause della relativamente rapida scomparsa del manicheismo, di certo possiamo dire che esso non riuscì ad affrontare la concorrenza delle altre grandi religioni universalistiche che si andavano espandendo nel periodo in cui nacque (buddismo in oriente e cristianesimo in occidente) e poi dell’islamismo, poiché la sua indole utopistica e aliena dai compromessi non lo rendeva in grado di contrastare energicamente l’aggressivo dinamismo di cristianesimo e islamismo e la capacità di adattamento del buddismo. Tanto più che una dottrina filosofica o religiosa che proponga come ideale la rinunzia, anzi la condanna, del matrimonio e della procreazione, -sebbene limitata solo agli Eletti (ma consigliata a tutti come via per raggiungere la perfezione)-, è inevitabilmente destinata ad essere percepita come un pericolo per l’ordine sociale, -cha al contrario richiede di incrementare la popolazione per avere in abbondanza soldati da far combattere e poveracci da sfruttare senza pietà-; oltre al fatto che il principio della non-violenza e del rispetto per tutte le forme di vita, anche quelle vegetali, è in stridente contrasto con le prevalenti modalità di attuazione delle normali attività economiche di un paese: per tutte queste ragioni il manicheismo soccombette presto, lasciando solo l’eredità delle sue intuizioni ad altre correnti religiose, spesso a loro volta perseguitate. Ma senza dubbio esso ha una posto importante nella storia della religione e della spiritualità, poiché diede l’esempio di una spiritualità tollerante e soprattutto fondata sull’interiorità.

Si potrebbe osservare che anche il buddismo, pur nella diversità delle concezioni cosmologiche e antropologiche, si fonda su principi non molto dissimili e non di meno è riuscito a diventare religione dominante in alquanti paesi dell’estremo oriente, seppure in genere in forme ibride e più o meno commiste con le religioni precedenti alla sua venuta (in particolare il buddismo “mahayana”,- “del Grande Veicolo”-, che in parecchie delle scuole in cui si è articolato ha elaborato complicate e artificiose costruzioni metafisico-mistiche, mentre il buddismo “thervada” è rimasto più fedele alla nobile semplicità degli insegnamenti del Buddha Sakyamuni). Dobbiamo però tenere presente che in questa religione la contrarietà alla procreazione, -o meglio alla sessualità-, è temperata e compensata dal fatto che tali manifestazioni della psiche e del comportamento umano, -pur se in sé stesse fattore di attaccamento alla vita materiale e strumento di quel desiderio che il buddismo si propone di estirpare come causa prima della dolorosa condizione dell’uomo-, sono considerate in qualche modo necessarie, affinché le anime di coloro che devono scontare le loro colpe sulla terra possano incarnarsi e progredire così sulla via dell'”illuminazione”, conseguendo la liberazione dal giogo dell’esistenza materiale, o quanto mano avvicinarsi ad essa.

Infatti il buddismo, a differenza del manicheismo, sostiene l’eternità del mondo e la capacità potenziale di tutti gli umani, anzi di tutti gli esseri, di conquistare la salvezza, pur se attraverso migliaia, o addirittura milioni, di incarnazioni e non vi sono individui condannati ad una irrevocabile dannazione; al contrario, come abbiamo visto in precedenza, per Mani e i suoi discepoli l’Universo ha un inizio e una fine e alcuni, anzi molti degli esseri umani, sono destinati a causa delle loro colpe a rimanere imprigionati per l’eternità nelle tenebre: se “molti sono i chiamati”, “pochi sono gli eletti”, per cui non vale il principio della “chiamata” alla vita terrena per consentire a un’anima di incarnarsi, se per fare questo si deve perpetuare la sudditanza alla materialità oscura.

CONTINUA NELLA SEDICESIMA PARTE

Note

1) è bene precisare che per “materia” non si intende solo la “materia fisica” che ricade sotto i sensi, né la materia intesa come pura passività e potenzialità come nella filosofia platonica e aristotelica, ma pure quella che nelle religioni di matrice indiana e nelle dottrine esoteriche occidentali è la “materia sottile”, ovvero quella “eterica” (la “sostanza vitale”) e quella “astrale” o “psichica”, di cui sono costituite emozioni, desideri e passioni. Dall’esposizione della dottrina ontologica e cosmogonica manichea di deve inoltre dedurre che sia il mondo dello Spirito-Luce sia quello della Materia-Oscurità siano accomunati da un elemento energetico, altrimenti la materia-tenebra dovrebbe essere del tutto inerte, pur se ricettiva ad acquisire una “forma” come nella concezione aristotelica, e non potrebbe avere degli abitatori.

2) la “Grande Guerra” dell’escatologia manichea ricorda molto la “Guerra dei Figli della Luce contro i Figli dell’Oscurità”, uno dei testi della biblioteca scoperta nelle grotte introno al Mar Morto e che si suppone appartenessero alla comunità degli Esseni, con i quali i Manichei presentano notevoli affinità dottrinali ed etiche.

3) in effetti gli Uditori si dividevano a loro volta in quattro categorie: semplice “electus” (ardavàn), “presbyter” (“mahistag”), “episcopus” (“aspasag”), “magister” (“hamozag”). A capo di questa gerarchia in ciascuna comunità di una certa consistenza si trovava un “Archegos” (“Guida suprema”) -in arabo “Imam”-, considerato successore di Mani.

4) un’originaria condizione di ermafrodito dell’uomo è propria di diverse antropogonie mitiche, ed è presente in modo implicito anche nella “Genesi” biblica, poiché l’essere stata tratta Eva dalla costola di Adamo presuppone un precedente androginia di quest’ultimo. L'”Adam Kadmon” della filosofia ebraica, l’uomo primordiale e celeste prima manifestazione di Dio e prototipo non solo dell’umanità, ma di tutto l’Universo, è anch’esso androgino; ma secondo Filone di Alessandria “l’Uomo Primigenio” o “Celeste” (“γενικòς” o “oυρανìος ανθρωπoς”), essendo nato a immagine di Dio, non ha alcuna partecipazione in qualsiasi essenza corruttibile”(“Le allegorie delle leggi”, I, 12); “l’Uomo Celeste, come immagine perfetta del Logos, non è né maschio né femmina, ma un’intelligenza incorporea […](e dunque egli non è ermafrodito, ma asessuato). L’uomo terrestre essendo stato creato più tardi è percepibile ai sensi e partecipa delle qualità corporee” (“De opificio mundi”, I, 46). Asessuati o androgini sono gli “uomini primordiali” come il Purusha vedico, il Gayomars persiano e l’Yimir germanico. Ma l’esempio più noto di ermafroditismo, proprio peraltro non di un “uomo cosmico”, ma di esser umani concreti è quello citato nel “Simposio” di Platone, ove si dice che a questa originaria condizione pose fine Zeus per punire la superbia e l’arroganza di tale primitiva umanità, che così venne a trovarsi in una posizione di debolezza e pertanto anela in modo più o meno conscio, a reintegrare la primitiva unità. Nel caso del manicheismo però non abbiamo una forma di androginia nell’uomo concreto ed empirico, -come nell’interpretazione più letterale del testo biblico o del dialogo platonico-, poiché i progenitori umani corporei, essendo frutto di un’azione demoniaca, nascono già maschio e femmina; ma essa è riferita al prototipo celeste dell’uomo, all’Uomo Primevo, la cui condizione gli esseri umani dovrebbero ripristinare.

5) in effetti potrebbe sembrare anche questa una manifestazione dell’ipocrisia e della tendenza al compromesso che si riscontra pure nelle dottrine mistico-religiose più elevate e che abbiamo osservato nella nota n. 10 della parte precedente. Tuttavia, tenendo conto che il grano viene mietuto quando ormai la pianta si è seccata, certo la contraddizione è meno stridente dell’affidare ad altri il compito del macellaio -e dunque in pratica assoldare un “killer”- onde rimanere così formalmente innocenti della colpa di aver versato il sangue dell’animale (per citare l’esempio che abbiamo portato nella nota suddetta); o del consumare pesce che non viene ucciso dal pescatore con la violenza, ma muore da solo una volta estratto dall’acqua!

6) la chiesa dei Catari che fiorì in alcune aree europee (in particolare nell’Italia settentrionale e nella Franca meridionale) nei secolo XII-XIII è considerata una delle forme religiose “eredi” del manicheismo. Si può ritenere improbabile una derivazione diretta delle dottrine catare da quelle manichee; più plausibile che l’influenza manichea sia stata ereditata per l’intermediazione dei Bogomili e di altre sette similari che fiorirono in età medievale nella penisola balcanica e che, come i Catari, furono duramente perseguitati dalle chiese cattolica e ortodossa. E’ certo comunque che il catarismo non può reputarsi una variante del manicheismo, poiché, a parte il fatto che entrambe le dottrine rientrano nell’ambito del dualismo e del cristianesimo gnostico e predicavano una morale ascetica, tra le due vi sono alquante differenze.

7) ora non ci dilunghiamo sulla spinosa questione di che si debba intendere per “natura umana” e se esista una “natura umana”, generica o specifica, distinta da quella individuale. Per semplificare impieghiamo tale espressione nel senso comune di radicate tendenze egoistiche, volte ad una affermazione, personale o collettiva, e distinte da quelle che sono le esigenze biologiche e psicologiche primarie e fondamentali, e che talvolta possono degenerare in una forma di gratuita sopraffazione di altri esseri.

8) com’è noto, tale disubbidienza sarebbe stata dovuta ad un abuso del libero arbitrio di cui Dio aveva dotato la sua creatura più elevata. Si potrebbe obiettare che Dio nella sua onniscienza avrebbe dovuto prevedere la disubbidienza dell’uomo, e d’altro canto il concetto di “libero arbitrio” applicato all’uomo è ambiguo e impreciso, poiché la libertà per essere tale deve si presupporre la possibilità di operare delle scelte di vita fondamentali. Ma è evidente che per “scegliere” con autentico discernimento occorre una coscienza di sé, una consapevolezza che l’uomo “comune” non ha; e dunque la “libertà” che caratterizza l’uomo è solo apparente: in pratica mentre gli altri esseri viventi sono guidati nel loro agire, esclusivamente o in gran parte, da un “istinto”, o per meglio dire da un'”intelligenza istintiva”, l’uomo non ha una guida che lo porti a perseguire gli scopi propri della specie a cui appartiene alla quale non si può opporre, ma è privo di una chiara visione di sé e delle conseguenze del sue azioni. Pertanto si potrebbe dire che mentre l’animale è “infallibile” nel senso che sceglie sempre il meglio per la sua condizione, pur se i mezzi possono essere inadeguati, l’uomo cercando una realizzazione personale con mezzi fallaci (e torna qui il tema del “conosci te stesso”)- poiché o non sa quello che vuole davvero e si inganna su sé stesso; ovvero pur avendo chiari i suoi obiettivi, questi ultimi sono dettati dalla “parte oscura” e non da quella luminosa, non dalla coscienza, ma dall’incoscienza- è soggetto a continui e spesso rovinosi errori. Ricordiamo altresì che del mito di Adamo ed Eva sono state date diverse interpretazioni, da Filone di Alessandria alla teosofia dell’800: Eva che coglie la mela è stata vista come l’intelligenza, che assimila in qualche modo a Dio, ma nel medesimo fa sentire l’incolmabile distanza con lui; o come la sensazione o la sensibilità che affinandosi rende le condizioni di vita più dure e penose. E similmente l’equivalente mito greco di Pandora: non è che ella abbia davvero recato all’uomo mali che prima non esistevano, ma gli ha fatto prendere coscienza della precarietà e della miseria della propria esistenza nel mentre questi, grazie al dono del fuoco offerto dal Prometeo, -che corrisponde al frutto dell'”Albero della Scienza del bene e del male”- vorrebbe in qualche modo essere dio, cioè poter avere in mano la propria vita e conseguire obiettivi personali.

9) in effetti presso i mistici anche nelle religioni monoteistiche abbiamo un distacco totale dalle aspirazioni terrene legittime, una sorta di trasmutazione o di “eversione” della natura umana per giungere all’unione con Dio, ma questo è considerato un “di più”, un dono particolare riservato ad alcune anime eccezionali, non certo una condizione indispensabile per la salvezza.

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