L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -tredicesima parte (soteriologia ed escatologia mitraica; il manicheismo)-

Nell’interpretazione data dalla filosofia neoplatonica, Mitra è il creatore al quale Zeus-Oromazdes affida la missione di definire e di mantenere l’ordine cosmico e umano; è il “Logos” emanato da Dio, partecipe della divina potenza, che assume la funzione di demiurgo. Ma la sua opera non ha fine con la creazione e con l’ordinamento della natura, poiché il disordine e l’ingiustizia che si contrappongono all’armonia divina continuano a insidiare e indebolire quest’ultima: compito del fedele è proprio quello di “collaborare” con Mitra nel combattimento tra forze della luce e forze delle tenebre, tenendo presente che tale conflitto ha luogo, più e prima che cosmo, nell’interiorità dell’uomo tra le inclinazioni che elevano lo spirito verso il divino e le tendenze inferiori, carnali ed egoistiche. Da qui l’importanza che nel mitraismo, più che in altre religioni “misteriche”, -che spesso si esaurivano in uno slancio mistico più o meno sincero-, ha l’aspetto etico, anche quella che in termini moderni si direbbe la “morale sociale” (ed infatti questa religione nell’Impero Romano si diffuse soprattutto negli ambienti militari e della pubblica amministrazione).

Immagine di Mitra ove ai lati del scrificio del Toro sono raffigurati in piccoli riquadri gli episodi salienti del mito mitraico. Si notino in alto il cerchio zodiacale e le effigi del Sole e della Luna.

Venendo alle concezioni psicologiche ed escatologiche, -che sono quelle che più specificamente riguardano la nostra trattazione-, secondo la dottrina mitraica le anime hanno la loro originaria dimora nell’empireo presso l’Altissimo, donde scendono sulla terra incarnandosi o perché spinte dall’Ananke, la “Necessità” (1), o perché scelgono volontariamente la condizione terrena per lottare contro il male. Al momento della morte fisica, il genio della corruzione si impadronisce del cadavere, mentre i “deva” delle tenebre e gli angeli della luce si contendono l’anima che sta per abbandonare la prigione corporea. Essa viene poi sottoposta al giudizio degli dei: se questi ultimi la ritengono impura e indegna di ascendere all’empireo, è trascinata dai demoni di Ahrimane negli inferi e costretta ad incarnarsi poi in corpi di animali considerati immondi. Se invece le vengono riconosciuti meriti, l’anima viene elevata alle regioni celesti, attraverso i sette cieli planetari e il cielo delle stelle fisse, in ciascuno dei quali deve superare una prova, impostale da uno degli angeli di Oromazdes. L’itinerario di ascesa dell’anima verso la sua meta finale presso Dio era rappresentato nei luoghi di culto con una scala lungo la quale erano disposte otto porte, di cui le prime sette erano contrassegnate da simboli planetari-metallici propri di ciascun pianeta.

Quando l’anima varca ciascuna porta e supera le prove legate ad essa, si spoglia via via dei simulacri e delle disposizioni terrene (in termini di filosofie esoteriche moderne, in specie di scuola teosofica si libera dei “corpi sottili”, -ma pur sempre materiali-, che ha rivestito durante la sua esistenza terrena): nel cielo della Luna lascia la sua energia vitale e nutritiva; in quello di Mercurio si libera dell’avidità e dell’attaccamento ai beni terreni; nel cielo di Venere dagli impulsi sensuali ed erotici, e delle dipendenze emotive; nel cielo del Sole vengono meno anche le disposizioni mentali; in quello di Marte l’iracondia, l’aggressività e l’ardore guerriero; mentre nel cielo di Giove l’anima si distacca dalle ambizioni terrene; abbandona infine l’accidia e l’ignavia nel cielo di Saturno. Dopo aver attraversato il cielo delle stelle fisse, l’itinerario dell’anima si conclude nell’Empireo. Durante questo percorso tuttavia le anime sono amorevolmente assistite dallo stesso Mitra, insieme al quale entrano poi nello splendore e nella gloria dei giusti (2).

Questo percorso di ascesa mistica era prefigurato nella vita terrena dai sette gradi di iniziazione contemplati dalla religione mitraica: tra inferiori, ai quali potevano essere ammessi anche i fanciulli: Corax -Corvo-, Cryphius -“Occulto”, perché aspirante e non ancora discepolo a pieno titolo- (secondo altre testimonianze Nymphus -Giovanetto, Adolescente-), Miles -Soldato-; uno intermedio, Leo -Leone-; e tre superiori, cioè i veri e propri “iniziati”: Perses -Persiano-, Heliòdromus -Corriere del Sole-, Pater -Padre-. Dalla documentazione iconografica presente in alcuni mitrei, -come il Mitreo di Felicissimus ad Ostia-, sappiamo che a ciascun grado erano assegnati dei peculiari attributi: a Corax (in relazione col pianeta Mercurio) il corvo, la coppa e il caduceo; a Nymphus, -o Cryphius- (Venere) la lampada e il diadema; a Miles (Marte) la lancia, l’elmo e il berretto frigio; a Leo (Giove) il “simpulum”, -la paletta per togliere la cenere dal caminetto-, la falce e la stella della sera (Hesperos, e forse anche Sirio); a Heliòdromos (Sole) la frusta, la corona a sette raggi e la torcia (che rappresenta Phosphoros, la stella del mattino); a Pater (Saturno) la pàtera (il piatto liturgico), il “rhabdos”, la bacchetta degli dei (corrispettivo del “barsom” persiano), il copricapo regale persiano (mitria) e il falcetto di Cronos-Saturno (nel “rhabdos” e nella mitria assegnati quali attributi e segni di dignità al Pater si può vedere l’equivalente del pastorale e dell’omonimo copricapo liturgico usati dai vescovi cristiani -sebbene il loro impiego nella chiesa cristiana sia attestato con certezza solo dall’Alto Medio Evo-).

Pavimento del mitreo di Felicissimus a Ostia in cui sono raffigurati gli attribuiti dei sette gradi iniziatici del culto di Mitra

Si suppone che gli appartenenti ai diversi gradi iniziatici si distinguessero durante le agapi con contrassegni, travestimenti o maschere (per quelli che avevano caratterizzazioni animali) specifici, ipotesi invero suffragata da esplicite testimonianze, ma che non è certo fosse osservata sempre e dovunque. Ai membri dei gradi inferiori non era consentita la piena partecipazione ai misteri, e si potrebbero paragonare ai catecumeni del cristianesimo antico, o agli “uditori” delle antiche scuole filosofiche elleniche, in particolare di quella pitagorica, mentre i “patres” corrispondono ai presbiteri: essi presiedevano alle cerimonie e alle agapi di ciascun gruppo, che si celebravano in un mitreo, e dipendevano in via gerarchica da un  “Pater patrrum”, o “Pater patratus”, a capo di tutti i “patres” di una città o di un  distretto, che corrispondeva pertanto al vescovo cristiano.

La struttura gerarchica e l’organizzazione territoriale ben definita è uno degli elementi che avvicinano senza dubbio il mitraismo al cristianesimo, -oltre che, come abbiamo visto la teologia e la liturgia-; un altro importante aspetto in cui si osserva una notevole somiglianza è la solidarietà sociale che esisteva tra gli affiliati alla chiesa mitraica, i quali, quando si trasferivano o si spostavano per qualche ragione (soprattutto per “ragioni di servizio”, poiché ad essa aderivano soprattutto militari e “dipendenti dello stato”, come si direbbe oggi), essi potevano contare sull’aiuto della comunità locale. Gli iniziati ai mistero di Mitra si chiamavano tra loro con il termine di “syndexioi”, “quelli uniti con la stretta della (mano) destra”, tratto che evidenzia lo spirito “cameratesco”, o addirittura fraterno che caratterizzava gli adepti a questa religione.

Sono stati finora scoperti nelle regioni che appartennero all’Impero Romano 420 mitrei o siti in qualche modo collegati al culto mitraico, tra gli oggetti e i reperti in essi trovati si annoverano circa mille iscrizioni e 700 statue, rilievi e più di rado dipinti, che raffigurano la scena della “tauroctonia”; si ritiene che nella sola Roma esistessero ben 680 mitrei, dei quali solo alcuni sono venuti alla luce.

Un aspetto invece nel quale il mitraismo si distacca dal cristianesimo (almeno nelle sue forme “exoteriche” e “multitudiniste”), avvicinandosi in  questo alle altre religioni misteriche dell’antichità classica è l’assenza di proselitismo, poiché per entrare a far parte delle chiese mitraiche era necessario esservi introdotti da qualcuno che già ne fosse membro, salvo eccezioni in cui il candidato si presentava da sé stesso e poteva essere ammesso direttamente; ma in nessun caso gli adepti del mitraismo svolgevano opera di propaganda delle propria religione(3).

Oltre al destino ultraterreno individuale, la religione di Mitra contempla un esito finale del cosmo, dopo il quale avverrà il trionfo definitivo della luce sulle tenebre. Alla fine del mondo, che sarà preannunciata da una serie di eventi catastrofici, dovrà apparire sulla terra un altro toro divino, simile a quello da cui origine il cosmo, a cui seguirà una nuova epifania di Mitra, che verrà a resuscitare i morti dal loro sonno. Allora tutti gli umani riassumeranno una veste carnale e forma simile a quella che ebbero durante la loro esistenza terrena nel fiore degli anni per riunirsi intorno al Signore supremo il quale separerà i buoni dai reprobi; dopo di che verrà immolato il secondo Toro cosmico, col cui sangue mescolato all'”haoma”, -o al vino-, verrà preparata la bevanda salvifica; questa, offerta agli eletti, conferirà ad essi l’immortalità e l’eterna felicità. Dal cielo Giove-Oromazdes invierà in fuoco purificatore che distruggerà i malvagi e le loro opere, Ahrimane e i suoi demoni periranno e sarà costituito per sempre il regno della luce e della giustizia (4).

Mentre nel mitraismo si osserva un adattamento di principi e forme religiose iranico-mazdaiche (che a loro volta avevano subito un’elaborazione in ambiente anatolico e mesopotamico) al mondo greco-romano (5), il manicheismo appare come un incontro tra mazdaismo e cristianesimo gnostico. In effetti il suo fondatore il profeta babilonese Mani, da cui trasse il nome questa dottrina religiosa- si proponeva di riunire in una sintesi armonica gli insegnamenti dei tre maestri spirituali che a sua avviso meglio avevano colto la profonda realtà del mondo, dello spirito e di Dio e avevano contribuito ad elevare gli uomini e ad incamminarli sulla via della verità e della luce, ovvero Zoroastro per la Persia e l’Asia centrale, Cristo per l’occidente e Budda per l’oriente; ma per quanto riguarda quest’ultimo la sua influenza non appare molto rilevante, e più che in un apporto specifico si riscontra nell’aver Mani individuato gli elementi che accomunavano il buddismo mahayanico al cristianesimo gnostico, e in parte anche al mazdeismo (necessità del distacco non solo dai desideri sensuali e dalla concupiscenza, ma da tutte le aspirazioni terrene, con la conseguenza che solo l’ideale monastico consente la liberazione dell’essenza spirituale; metensomatosi; fratellanza universale di tutti gli esseri; venuta -o ritorno- di un futuro redentore, -che nel Buddismo mahayanico è il Budda Maitreya, il quale pure nel nome richiama il Mitra iranico-) e nell’aver constatato che anch’esso mirava a sottrarre l’uomo e gli esseri viventi al dominio del dolore e del male attraverso l’ascesi (6).

Da un passo dell’introduzione al “Shapuragan” (il “Libro di Shapur”, il sovrano sassanide al quale l’opera è dedicata), -l’unico scritto di Mani in medio-persiano, mentre gli altri sono tutti in siriaco-, apprendiamo che egli si proponeva come l’ultimo e definitivo profeta e rivelatore dell’Essere Supremo, dopo la predicazione di Buddha in India, di Zoroastro in Persia e di Gesù in occidente. La limitatezza e l’incompletezza delle religioni che lo hanno preceduto è evidenziata anche in due dei “Kephalaia” (“Capitoli”), una delle principali opere in cui viene esposto il pensiero di Mani (pur non essendone lui stesso l’autore), -di cui rimane una redazione in lingua copta-, nei quali egli proclama che nella sapienza a lui rivelata sono confluiti come gli affluenti in un  grande fiume, -ovvero come i fiumi nel mare-, le dottrine, le parabole, i salmi, tutte le verità parziali, travisate e incomplete presenti nelle religioni precedenti; mentre le chiese fondate dai suoi predecessori sono rimaste limitate alle parti del mondo dove sono sorte, la sua è destinata ad illuminare sia l’oriente sia l’occidente (7)-

La figura di Mani (8) è senza dubbio una delle più interessanti e affascinanti nella storia delle religioni, ma ingiustamente misconosciuta, soprattutto rispetto agli altri fondatori di religioni (o presunti tali) come furono il Budda Sakyamuni, Gesù Cristo e Maometto, anche a causa delle persecuzioni, pressoché ininterrotte ed “ecumeniche” (poiché promosse sia dagli zoroastriani, sia dai cristiani, sia dai musulmani) a cui furono sottoposti i suoi seguaci e delle condanne e dei grossolani fraintendimenti di cui fu oggetto il suo pensiero. Egli nacque a Seleucia-Ctesifone, capitale dell’Impero Persiano, nella regione di Babilionia, durante il regno dell’ultimo monarca della dinastia Arsacide (partica), Ardavan (Artabano) V, -il quale fu poi sconfitto da Ardashir, il fondatore della dinastia dei Sassanidi, che riportarono l’Impero Persiano alla stretta ortodossia zoroastriana-, secondo le fonti più accreditate, -come lo storico arabo Muhammad ibn Ahamad al-Biruni (973-1048)-, nel 216, probabilmente il 14 aprile; i suoi genitori, -Pàtek (o Futtàq, nelle fonti arabe) e Maryam-, erano imparentati con la stirpe Arsacide e rivestivano importanti uffici nell’amministrazione dell’impero, essendo il padre governatore della Media. Anche Pàtek nutriva profondi interessi spirituali e per questo lasciò la sua carica, redandosi da Ecbàtana (Hamadan), il capoluogo della Media, alla Babilonia dove, dopo aver udito una voce misteriosa che lo invitava ad abbandonare le bevande alcooliche e i piaceri carnali, si unì ad una setta non meglio identificata di “Battezzatori”, che alcuni ritengono fosse una comunità giudaica o cristiana gnostica; per altri un gruppo di Mandei (dei quali tratteremo più oltre nella nostra ricerca), -per quanto la maggior parte degli studiosi reputi la loro religione posteriore alla nascita del manicheismo-; per altri ancora un “ashram” buddista (e in tal caso si tratterebbe del cenobio buddistico più ad occidente dell’età antica, poiché sebbene nei primi secoli dell’era volgare il buddismo si sia diffuso anche verso ovest, la sua espansione è sicuramente attestata solo fino in Persia e in altre regioni iraniche).

Il profeta Mani in una raffigurazione moderna.

Secondo la testimonianza riportata in un’opera araba sulla vita e le dottrine di Mani, il “Fihirist al-‘ulum” (“Catalogo -o compendio- delle scienze”), di Muhammd ibn Isahak al-Nadim, egli avrebbe avuto la sua prima illuminazione all’età di dodici anni, quando gli apparve un’entità angelica, chiamata At-Ta’um, il “Compagno” o il “Gemello” (dal che potrebbe intendersi che tale figura personificava il suo vero “Io” spirituale), inviatagli dal “Re del Paradiso delle Luci”. L’angelo invita il fanciullo a lasciare la vita profana dedita alle opere materiali e ai piaceri mondani per consacrarsi alla vita interiore e promuovere la redenzione dell’umanità imboccando la via della luce eterna; ma aggiunge pure che, a causa della sua tenera età, ancora non è giunto il tempo di predicare apertamente la rivelazione che gli era stata donata.

Dodici anni più tardi,-quando ormai Mani era ventiquattrenne-, ricevette una nuova visita dell’angelo, che questa lo volta lo invitava ad annunziare la verità di cui era venuto a conoscenza e a proclamare al mondo gli insegnamenti che gli erano stati dati, e che nei “Kephalaia” (“Capitoli”), -dei quali abbiamo detto sopra-, sono così riassunti: “Egli mi rivelò il mistero celato agli Eoni e alle Generazioni, il mistero della profondità e dell’elevazione, il mistero della lotta e della guerra, e della “grande guerra” (quella tra la luce e le tenebre che avverrà alla fine di tempi, a cui l’uomo è chiamato e necessitato a partecipare)”.

Dopo aver messo a parte i suoi genitori (i quali come abbiamo visto erano già permeati di forti inclinazioni mistiche) del messaggio ricevuto, Mani diede inizio alla sua missione recandosi in India dove si presume abbia interloquito con i maestri buddisti vedendo nella loro religione analogie con gli insegnamenti con andava predicando. Dopo essere tornato in Persia riuscì a convertire il principe Mihrshah, fratello di re Shapuhr, -il successore di Ardashir e secondo monarca della dinastia  sassanide-, governatore della provincia di Maishan; costui all’inizio non voleva credere alle rivelazioni di Mani, ma questi, in virtù delle sue potenze miracolose, gli mostra il “Paradiso di Luce” destinato agli eletti, un meraviglioso giardino ove spira l’immortale soffio di vita. La visione colpisce in modo così forte il principe che egli perde conoscenza cadendo a terra, ma il profeta lo ridesta e da quel momento Maishan divenne uno degli apostolo della nuova religione.

Qualche tempo dopo Mani riuscì a conquistare la fiducia anche di un altro fratello del “Re dei Re”, il principe Peroz (o Firuz), il quale lo introdusse alla corte persiana. Secondo il “Fihrisht”, il profeta avrebbe incontrato Shapur I a Belapat nel Khuzistan durante le cerimonie per l’incoronazione il 9 aprile 243; in questa prima udienza Mani offrì al sovrano la sua prima opera scritta, il “Shapuhrakàn”, -cha abbiamo citato sopra-; impressionato dalla sua virtù e dalla dottrina il re persiano gli diede il permesso di predicare la sua religione senza impedimenti in tutti i territori dell’Impero Sassanide, assicurandogli anche il sostegno dei governatori delle province. Mani, che godeva della protezione di Mihrshah e Peroz, in seguito divenne consigliere del re, il quale insieme alla sua famiglia aderì o quanto meno fu influenzato dal manicheismo.

Ma la posizione di preminenza raggiunta da Mani alla corte persiana suscitò la gelosia e l’opposizione del clero mazdaico, in particolare del sommo sacerdote Kartìr, il quale era l’altro importante consigliere di Shapur in materia religiosa, che premeva affinché la monarchia sassanide ripristinasse in pieno la religione zoroastriana quale confessione ufficiale dello stato (dopo che durante il lungo periodo dei parti Arsacidi vi era stato un pullulare di religioni e sette spesso più o meno commiste: zoroastrismo, mitraismo, cristianesimo, ebraismo, buddismo, forme sincretistiche greco-persiano-semitiche, e altre). In un primo tempo però la situazione rimase di sostanziale equilibrio tra le due religioni, tanto più che all’interno dello zoroastrismo si contrapponevano due scuole e due classi sacerdotali, quella dei Magi, -più conservatrice- che aveva la sua sede principale a Siz nella Media Atropatene, e quella degli Herbad, che dominava nella regione di Fars, la Persia in senso stretto (la regione di Persepoli e di Shiraz); per tanto durante il regno di Shapuhr (242-273) e del suo primogenito Hormidz (273-274) il manicheismo potè beneficiare della protezione della corte sassanide (che peraltro in quel periodo aveva adottato in generale una politica di tolleranza di tutte le religioni). In quel periodo Mani potè predicare il suo verbo in tutte le regioni dell’Impero Sassanide e inviare suoi discepoli anche al di fuori di esso, in particolare nelle province orientali dell’Impero Romano fino all’Egitto, dove si sa per certo della presenza di missionari manichei già quando il maestro era ancora in vita (9).

Ma purtroppo la situazione cambiò alla morte di Hormizd, allorché ascese al trono Baharam, un altro figlio di Shaphur, il quale, oltre a non avere la sensibilità spirituale dei suoi congiunti, subì fortemente l’influenza del clero mazdaico, che nel frattempo aveva superato le sue rivalità interne e aveva dato inizio ad un’opera di recupero e di revisione della pura tradizione zoroastriana (frutto dei quali fu la redazione nella forma definitiva degli testi sacri dell’Avesta), nonché alla costituzione di una sorta di chiesa mazdea. Pertanto i sacerdoti zoroastriani, che male avevano sopportato la predilezione dei sovrani precedenti per il manicheismo, approfittarono del mutato clima per chiedere a Baharam l’arresto e la condanna di Mani, che accusavano di insegnare dottrine sacrileghe e contrarie all’autentica religione mazdaica, nonché la messa al bando della sua religione. Questi, che si stava recando nel regno di Kushana, tra l’India e l’Asia centrale, per diffondere pure colà il suo credo, fu raggiunto da un messo del monarca che gli ingiungeva di presentarsi a corte a Belapat (altrimenti detta Gondeshapuhr).

Sovrano sassanide a caccia di stambecchi.

In alcuni testi copti sulla vita di Mani si legge una viva descrizione del drammatico incontro di Mani con i re che, spinto dai sacerdoti, già l’aveva condannato. Baharam stava uscendo da un banchetto dopo aver partecipato a una battuta di caccia e visto il profeta che gli era stato condotto prigioniero gli disse che egli non era il benvenuto alla sua corte. Alla domanda di Mani su quale fosse la sua colpa l’ira del sovrano scoppiò con violenza: esclamò che la dottrina e l’opera dei Manichei non aveva alcuna utilità: non serviva per la caccia, per la guerra (attività alle quali egli si dedicava con insana passione), per governare lo stato e neppure per confezionare medicamenti e curare le malattie. Il profeta si difese ricordando al re i molti miracoli da lui compiuti, la resurrezione di morti, le guarigioni, nonché tutti i benefici che aveva arrecato alla sua stessa famiglia. Baharam chiese allora perché mai la rivelazione fosse stata data a lui e non al “Re dei Re”, il primo dei sovrani esistenti al mondo e Mani rispose che tale era stato il volere divino. Il re comandò allora che il profeta venisse incatenato e rinchiuso in prigione, dove rimase per poco meno di un mese dal gennaio al febbraio (di un anno che a seconda delle interpretazioni va dal 275 al 277).

Non possiamo fare a meno di osservare come le obiezioni e le accuse del monarca sassanide esprimano la perplessità, la diffidenza e il disprezzo per una religiosità di tipo essenzialmente mistico, “radicale”, che conduce inevitabilmente ad allontanarsi dal “mondo” e che dunque sembra negare, o comunque mettere in pericolo, i fondamenti della società, -ovvero le relazioni sociali, economiche e politiche su cui si regge la vita delle persone “normali”, e pertanto esprime l’analogo atteggiamento di incomprensione e rifiuto di cui furono vittima tutti i grandi riformatori mistico-religiosi, precedenti e seguenti Mani. In particolare come una religione che si fondava sulla non-violenza e sul rispetto di tutte le forme di vita (anche di quelle vegetali, come avremo modo di evidenziare in seguito) non poteva, e non può tuttora, essere compresa e accettata in un mondo dove la violenza, lo sfruttamento e la sopraffazione, sia pure in forme in qualche modo “regolamentate” ed edulcorate, sono pur sempre a fondamento della dialettica sociale e storica. In effetti il manicheismo, come il buddismo e lo gnosticismo, insistono sul carattere intrinsecamente doloroso dell’esperienza terrena, che si può riscattare solo trascendendo la dimensione fisica e carnale dell’uomo (e dunque le sue pulsioni anche legittime al benessere, alla ricchezza, al godimento, all’affermazione sociale che rimangono comunque sempre obiettivi fallaci ed effimeri), e dunque sul fatto che la giustizia e la “felicità” non possono essere di questo mondo: pertanto è assolutamente estranea ad essi tanto l’idea di promuovere un rinnovamento sociale fine a sé stesso, -il che non significa accettare passivamente l’ingiustizia, ma essere consapevoli che il progresso della società viene dal miglioramento degli individui, e che comunque non potrà mai realizzarsi in modo compiuto sulla terra-; quanto quella di porsi a fondamento ideologico e “identitario” (come si direbbe oggi) di una comunità politica, di una nazione o uno stato (10).

Sulla morte di Mani sono tramandate versioni diverse: secondo la più attendibile dopo aver trascorso circa un mese in carcere, -come si è detto sopra-, dove peraltro avrebbe potuto ricevere i suoi discepoli, -tra i quali Mar Ammo, che lo assistette fino alla morte (11)-, prostrato dalle privazioni e dalla prigionia, si sarebbe spento di lunedì all’undicesima ora del giorno. Il re ordinò che il cadavere fosse trafitto da una torcia accesa per accertarsi che fosse morto davvero; poi il corpo fu smembrato e la testa staccata fu collocata su una torre delle mura della città di Gundeshapur (o Gondishapur), -nel Khuzestan, l’antica Susiana-, dove era stato tenuto prigioniero, a monito di coloro che avessero voluto contrastare l’autorità sua e dei sacerdoti. Stando a quanto afferma invece al-Biruni, egli avrebbe subito la sorte crudele di essere stato scorticato vivo, dopo di che la sua pelle sarebbe stata riempita di paglia ed esposta sulla mura in segno di ludibrio. Per molti dei suoi seguaci Mani sarebbe stato crocifisso come Cristo (ma è evidente che tale condanna sembra voler accomunare la sorte dei due profeti).

CONTINUA NELLA QUATTORDICESIMA PARTE

Note

1) questa concezione mostra quindi delle affinità con quella platonica espressa nel X libro della “Repubblica”, che abbiamo esaminato nella quarta parte della presente ricerca (del 23 novembre 2016). A sua volta l'”Ananke” per certi aspetti si può considerare simile ai concetti di “dharma” (la “legge”) e di “karma” propri delle religioni di matrice indiana: con il secondo, ormai conosciuto anche in Europa, -ma raramente compreso davvero-, si indica l'”effetto”, l’azione in quanto prodotto di una determinata condizione di intelligenza e di coscienza; con il primo, “dharma”, si esprime la causa: il maggiore o minore adeguarsi di un essere alla sua natura autentica è la causa di quello che in termini mondani è “successo” (o la mancanza di esso): in altre parole coloro che si ostinano, per svariate ragioni che ora non è il caso di analizzare (influenze ambientali, complessità di elementi psichici che si ostacolano l’un l’altro, ecc.), a desiderare cose che non rispondono alla loro natura individuale autentica, andranno inevitabilmente incontro a fallimenti (e in sostanza torna qui il tema del “conosci te stesso”).

2) la dimora delle anime nei cieli planetari, ove si purificano dalle loro residue inclinazioni terrene, ricorda senza dubbio la concezione di Dante e la struttura da lui data al Purgatorio e al Paradiso (sebbene sia del tutto da escludere sul sommo poeta un’influenza del mitraismo che con ogni probabilità egli neppure conosceva). D’altro canto ricorda sia pure alla lontana la concezione egizia esposta nei libri (Libro di Am-Duat; L. delle Caverne; L. delle Porte) ove è descritto l’itinerario dell’anima attraverso dodici stazioni che corrispondono alle dodici ore del percorso del Sole e le prove che essa deve in ciascuna superare.

3) come già abbiamo osservato nella seconda parte de “Il declino dell’Impero Romano: caduta o trasformazione?” (13 giugno 2015), l’opera di proselitismo, talora troppo insistente e inopportuna, esercitata da molti dei suoi “attivisti”, -insieme all’atteggiamento sprezzante e polemico di alcune correnti, o sette, cristiane, come quella dei montanisti, nei confronti delle istituzioni e della società romane-, fu una delle cause principali dei provvedimenti discriminatori e talora persecutori messi in atto dalle autorità romane contro i cristiani (che furono però sempre circoscritti nel tempo e nello spazio, salvo l’ultima persecuzione, quella di Diocleziano, l’unica “sistematica”, ma che invero riguardò anche altri gruppi e sette religiose, come i Manichei, i quali pure esercitavano opera di proselitismo, e che continuarono ad essere duramente perseguitati degli imperatori cristiani del IV secolo).

4) la concezione mitraica presenta analogie impressionanti con la dottrina cristiana della “parusia” (il ritorno) di Cristo sulla terra, della “resurrezione della carne” e del giudizio universale.

5) in effetti soprattutto romano, poiché la presenza del culto di Mitra è attestata soprattutto nelle province occidentali dell’Impero Romano, in specie quelle nordiche sul “limes” danubiano-renano (Dacia, Mesia, Pannonia, Norico, Germania) nonché in Britannia, ove era stanziato il grosso delle legioni romane, al fine di contenere la pressione delle popolazioni germaniche, mentre scarse o assenti sono le testimonianze di tale culto in Grecia e nelle regioni orientali più ellenizzate (a parte quelle anatoliche e mesopotamiche al confine tra Impero Romano e Impero Partico -e poi Sassanide-, -come a Dura-Europos-, che erano le terre in cui erano state  elaborate le dottrine mitraiche e dove pure forte era la presenza dei militari).

6) occorre precisare che mentre nella sua diffusione in occidente il manicheismo si pose in uno stretto rapporto dialettico con il cristianesimo, sia nella teologia, sia nel culto, presentandosi come l’autentico erede dell’insegnamento di Gesù Cristo, che la chiesa cattolica aveva deformato e  corrotto, in oriente (Asia centrale, Cina) la componente cristiana appare alquanto ridotta, mentre assai forti sono gli elementi di convergenza con il buddismo e il taoismo (dei quali parimenti la religione manichea si propone come completamento e coronamento).

7) Mani riteneva peraltro che nella sostanza il messaggio trasmesso dai suoi predecessori fosse il medesimo pur se in forma diverse. Ma poiché i loro insegnamenti non furono messi per iscritto da loro stessi ed autori dei libri sacri ad essi attribuiti furono discepoli che li redassero anche molto tempo dopo la loro venuta, le dottrine autentiche degli antichi maestri furono alterate, interpolate e talora snaturate. Mani al contrario non solo scrisse, ma pure illustrò con miniature i testi che contenevano le rivelazioni da lui ricevute, testi che costituiscono il “Canone Manicheo” -e di cui fanno parte tra gli altri, oltre al già citati “Shapuhragàn”, l'”Evangelo Vivente”, il “Tesoro di Vita” e il “Libro dei Misteri”- e di cui purtroppo a causa delle persecuzioni di cui furono vittima i manichei e in seguito dell’abbandono, rimangono solo frammenti più o meno ampi e citazioni in altre opere-.

8) in realtà “Mani” è un appellativo tramandato dalle fonti e dalle traduzioni siriache delle opere del profeta nella forma “Mani Hayya”, “Mani il Vivente”, poiché il nome vero che gli fu imposto alla nascita non è noto. In occidente veniva designato come Manys (genitivo Mànytos) in greco e Manes (gen. Mànetis) in latino.

9) nella predicazione del verbo di Mani verso occidente e soprattutto in Siria si distinsero in particolare Pattikios e Mar Addà; quest’ultimo si sarebbe recato anche nel regno di Palmira, ove secondo una tradizione tramandata sia da fonti manichee presenti nei “Testi di Turfan” (un corpus di scritti rinvenuti nell’oasi di Turfan, nel Turchestan cinese), sia da una leggenda araba riportata dallo storico arabo-persiano Abu Giafar Muhammad Giarir al-Tabari (839-923), avrebbe convertito una sorella delle regina Zenobia, chiamata Nafsha, dopo averla guarita da una grave malattia. In effetti nelle fonti storiche greche e latine non si trova alcun cenno di questa ipotetica sorella della famosa regina la quale tentò di opporsi all’Impero Romano, -che in quel periodo era in grave crisi-, sobillata anche dai suoi consiglieri, il filosofo ateniese Cassio Longino e il generale Zabdas, riuscendo ad assoggettare Siria, Egitto e parte dell’Asia Minore (ma che fu poi sconfitta da Aureliano nel 272). Tuttavia se si considera che il nome “Nafsha” (“nefesh” in ebraico, “nafsh” in arabo e in aramaico) significa anima,-e che d’altra parte questo nome non è attestato nelle iscrizioni palmirene-, appare assai probabile che il racconto abbia una valenza simbolica: Mar Addà sarebbe riuscito a convertire l'”anima” del popolo palmireno. Oppure si potrebbe interpretare la leggenda come una conversione della regina stessa, nel senso che la sorella guarita e illuminata dalla luce di Mani, personifica la sua anima. Invero si sa per certo che Zenobia aveva interessi spirituali ed era simpatizzante sia del cristianesimo, sia del neoplatonismo, avendo avuto come consiglieri il vescovo di Antiochia Paolo di Samosata (sul quale si veda la prima parte della “Storia minima dell’idea di Dio, ecc.” del 29 luglio 2017) e poi il citato Cassio Longino. E’ tuttavia da escludere che fosse cristiana nel senso di appartenente alla chiesa cristiana, o che abbia aderito all’ebraismo -come aveva fatto due secoli prima la sua “collega” Elena di Adiabene (si veda al riguardo la nota 2 della seconda parte di “Osservazioni sulla nascita del cristianesimo” del 25 settembre 2016)-, e assai improbabile che fosse divenuta seguace del manicheismo, pur essendo plausibile che ne fosse protettrice.

10) ci si potrebbe chiedere perché il buddismo, che pure proponeva un totale allontanamento dai desideri e dalle aspirazioni mondane (come del resto il giainismo, l’altra grande “eresia” di matrice induistica, che però non divenne mai religione di massa), sia riuscito invece a conquistarsi un vasto seguito in Estremo Oriente, fino a diventare in alcuni paesi “religione di stato”. Non so se la questione sia stata posta da storici, orientalisti, studiosi di storia e fenomenologia delle religioni, e quale sia l’eventuale risposta. Di certo però il fatto si può spiegare tenendo conto del carattere non esclusivistico delle religioni e delle filosofie mistiche orientali, che concepiscono le varie dottrine non come reciprocamente escludentisi, ma come complementari, per cui religioni diverse, -nonché le numerosissime sette in cui si articolano alcune di queste stesse religioni (e in primis il buddismo)-, possono essere viste come punti di vista differenti su una medesima realtà e come espressioni diverse di similari tendenze ed esigenze: ad esempio in Giappone lo shintoismo, la religione più antica, nazionale, legata alle istituzioni imperiali, ha sempre convissuto senza alcun contrasto con il buddismo di introduzione più recente, che esprime invece l’aspetto più interiore, mistico e votato alla salvezza personale (salvo un breve periodo nella seconda metà del XIX secolo, allorché dopo la restaurazione imperiale nel 1868, il buddismo subì limitazioni; ma questo non per motivazioni religiose, ma poiché era considerato legato al regime degli “shogun”, che aveva dominato il paese per molti secoli a scapito del potere imperiale). Inoltre il buddismo non si proponeva di scalzare le precedenti religioni dei paesi dove si affermò, ma di completarle e integrarle, tanto più che nella sua visione la salvezza non viene da una “fede” in una divinità personale (sebbene in molte sette del buddismo mahayanico vi sia una forte componente fideistica, -ma che si potrebbe considerare di “autosuggestione”-), ma dell’estinzione dei desideri e dell’attaccamento alla vita fisica, qualunque sia la via attraverso la quale la si raggiunge. Non così in occidente dove la grandi religioni teistiche e moltitudiniste che si sono affermate negli ultimi due millenni, -il cristianesimo e l’islamismo-, hanno predicato la più ottusa intolleranza (salvo alcune sette mistiche, a loro volta perseguitate), per cui dove e quando hanno preso il sopravvento i loro capi e rappresentanti non hanno mai lasciato alcuno spazio per espressioni della spiritualità diverse dalla loro (posto che a mio parere nelle grandi chiese non vi è molto di spirituale). D’altro canto è doveroso sottolineare che anche il buddismo e le “religioni orientali” nelle loro forme istituzionali e popolari hanno accettato molti compromessi con le debolezze umane: basti ricordare gli artifici con i quali il principio di assoluto rispetto per tutte le forme di vita è stato ingegnosamente e astutamente temperato per consentire ai fedeli un regime dietetico meno austero (anzi spesso per nulla austero), come ad esempio l’affidare il compito del macellaio a individui seguaci di altra fede: poiché i precetti buddisti impongono di non spegnere la vita degli animali, ma non di non nutrirsi delle loro carni (almeno non espressamente), in tal modo i “pii buddisti”(?) possono soddisfare i piaceri del ventre senza infrangere nella lettera i principi della loro religione e salvarsi così la coscienza (è ovvio però che in tal modo si tradisce lo spirito del buddismo…)!

11) Mar Ammo fu il principale apostolo del manicheismo in oriente. Egli, mentre ancora Mani era in vita, giunse in Sogdiana, nell’Asia centrale, dove sulle rive del fiume Oxus gli sarebbe apparso un genio femminile (che si suppone fosse la dea Ardvakhsh, spirito tutelare dell’Oxus) che gli voleva impedire di attraversare il fiume. Allora Mar Ammo digiunò e pregò per due giorni, dopo di che ebbe una visione di Mani che gli consigliò di leggere allo spirito un capitolo del “Tesoro della Vita”. Quando il genio ritornò gli chiese quale fosse la ragione che lo aveva condotto in quelle contrade ed egli rispose che voleva insegnare il digiuno e la rinuncia al vino, alla carne e a i piaceri sensuali. Lo spirito ribattè che già v’erano in Sogdiana persone che insegnavano tali cose (riferendosi probabilmente ai monaci buddisti). Ma quando il missionario gli lesse un capitolo del “Tesoro”, il genio comprese che egli era un annunciatore della vere religione e gli permise di passare.

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