LA SCRITTURA CUNEIFORME E LA SUA DECIFRAZIONE (prima parte)

Mentre i geroglifici egizi e la via con la quale si giunse alla loro decifrazione ad opera di Champollion nel 1822-23, sono abbastanza noti anche al grande pubblico, sui complicati, e prima vista incomprensibili, segni dei quali consta la scrittura cuneiforme il grande pubblico ha un’idea assai vaga e confusa. Tale scrittura, in uso in tutta la Mesopotamia e la Persia almeno fino al primo secolo dell’era volgare (e forse oltre) rappresenta l’esito finale di un tipo di segni che in origine erano pittogrammi, ossia raffigurazioni grafiche degli oggetti che volevano designare, e pertanto simili nella loro genesi e nel legame tra “significato” e “significante” ai geroglifici egiziani. Tuttavia nel suo sviluppo, durato migliaia di anni -e iniziato all’incirca nel 3.400 a. C.-, la scrittura cuneiforme ebbe un’evoluzione del tutto diversa da quella egizia geroglifica (e di quelle da essa derivate la ieratica e la demotica): in quest’ultima i segni grafici, pur rimanendo in sostanza invariati, passarono a indicare alcuni suoni, altri azioni e concetti in qualche modo legati agli esseri materiali per mezzo dei quali venivano resi graficamente, mentre alcuni conservavano il loro significato di base (ossia esprimevano immediatamente l’oggetto che rappresentavano), -per cui troviamo tre classi di geroglifici dal valore rispettivamente alfabetico, ideografico e pittografico-; nella scrittura cuneiforme al contrario i segni iniziali che esprimevano gli oggetti che volevano indicare subirono un processo di semplificazione e di astrazione.

Le più antiche attestazioni dei segni cuneiformi appaiono in una proto-scrittura pittografica risalente al IV millennio a. C.; ma i primi documenti certamente vergati in lingua sumera, rinvenuti a Gemdet Nasr nel corso degli scavi compiuti da una missione archeologica anglo-americana tra il 1926 e il 1928, risalgono al XXXI secolo a. C.

In origine come si è detto ciascun segno era l’immagine di una cosa o di un essere concreto (una pianta, un animale, un oggetto di uso più o meno comune); talora veniva utilizzato il disegno solo di una parte per significare il tutto: ad esempio una testa di bue per il bue medesimo. Un oggetto poteva essere impiegato per indicarne un altro se tra i due esisteva una relazione (ad es. un bricco di latte per “latte”); oppure per esprimere un’idea astratta o un azione di cui l’oggetto stesso era strumento (ad es. un piede per il verbo “camminare”). In altra parole gli ideatori di tale sistema grafico si fondavano per esprimere i suoni della loro lingua sul principio logico che sta alla base delle figure retoriche della “metonimia”, della “sineddoche” e della “metafora”. Jules Oppert (1825-1905), insigne orientalista franco-tedesco, riconobbe l’origine geroglifica dei segni cuneiformi e riuscì con i pochi testi assiri e babilonesi che aveva a disposizione a ricostruire e distinguere quattordici delle immagini primitive, di tipo pittografico o ideografico, dalle quali si erano evoluti altrettanti “cunei; in seguito con il progredire degli studi si è riusciti a ricostruire lo sviluppo grafico di buona parte dei segni cuneiformi.

L’iscrizione in sumero posta sulla statua in basalto di Gudea, re sumero di Lagash, risalente al XXII secolo a. C.

Aggiungendo ai geroglifici alcuni segni complementari (chiamate dagli studiosi moderni “motivi”) vennero create nuove forme per arricchire le possibilità espressive di tale scrittura ancora primitiva: ad es., se alla figura di un uomo si accostavano alcune lineette sulla schiena si voleva indicare quest’ultima; se le lineette erano intorno alla bocca il geroglifico esprimeva questa parte, e così via. Un particolare “motivo”, piuttosto fequente, è la cosiddetta “gunazione”: quattro linee orizzontali o verticali che poste intorno al geroglifico ne amplificavano o intensificavano il significato, assumendo un valore di accrescitivo o di superlativo. I segni venivano combinati in diversi modi ed anche la loro posizione (capovolta, obliqua, uno di fronte all’altro, ecc.) ne diversificava e specificava il significato. Dalle primitive forme pittografiche e ideografiche, si sviluppò quindi il significato fonetico che divenne quello prevalente, anche se, come vedremo in seguito, esso poteva variare nelle diverse lingue in cui fu impiegato il cuneiforme, poteva esprimere una sillaba, un gruppo di più sillabe, o, nelle forme più recenti, proprie soprattutto dell’elamitico e del persiano una lettera dell’alfabeto, e rappresentare quindi un fonema.

In parallelo i segni originari subirono un processo di stilizzazione che li allontanò sempre più dall’aspetto naturalistico: alle linee continue che venivano incise sulla pietra o altri materiali duri con strumenti appuntiti, si sostuirono progressivamente dei trattini, riuniti di solito in gruppi più o meno numerosi, in cui erano sempre meno riconoscibili i disegni originari, costituiti da una “testa” piramidale e da un segmento allungato, simili a spilli o chiodi, che furono appunto chiamate “cunei”. Tale evoluzione, che si accentuò, allorchè ai Sumeri, -che si possono considerare gli inventori della scrittura mesopotamica proto-cuneiforme-, successero le popolazioni semitiche degli Accadi e degli Assiri, fu dovuta anche al fatto che il supporto scrittorio usato con sempre maggiore frequenza in Mesopotamia divennero le tavolette di argilla, sulle quali si scriveva con una sorta di bastoncino a sezione triangolare, che, pressato sull’argilla, -quando essa era ancora duttile-, con il filo o con la superficie della parte trasversale, vi lasciava l’impronta dei segni grafici (uno strumento quindi affatto diverso dallo stilo usato per scrivere sulle tavolette di cera). Le tavolette, delle quali sono state trovati migliaia di esemplari, specie negli archivi dei templi e dei palazzi reali, una volta induritesi con la cottura, erano destinate a tramandare nei secoli futuri i testi che vi erano stati incisi, come quelli di famose opere letterarie, epiche e mitologiche , quali l'”Enuma Elish”, -il poema sacro della religione assiro-babilonese-, l'”Epopea di Gilgamesh”, i miti di Adapa e di Etana, e molti altri; ma pure più modeste testimonianze delle attività amministrative e commerciali di quei popoli. Tuttavia i testi di carattere pubblico che contenevano editti di sovrani, raccolte di leggi, commemorazioni celebrative continuarono ad essere incisi su materiali più nobili e durevoli, quali il marmo, la diorite, il basalto, l’alabastro.

La tipologia e la combinazione dei “cunei” dapprima molto varia e talora caotica, fu poi ridotta a quattro tipi: orizzontali, verticali, obliqui e ad angolo, mentre la direzione secondo la quale erano disposti i segni, e dovevano quindi essere letti, era dapprima dall’alto in basso e da destra a sinistra, ma dal 1600 a. C. circa divenne orizzontale da sinistra a destra. Le parole si susseguivano le une alle altre senza alcun segno di interpunzione; di rado si trovano punti che separano una parola dall’altra: si presume che tali punti fossero inpiegati in funzione didattica per utilità dei discepoli che apprendevano la difficiale arte dello scriba. Talora nei testi ittiti le parole sono divise da un breve spazio.

Si noti che quando i Semiti acquisirono gli ideogrammi sumeri li adattarono alla loro lingua, il medesimo segno rimaneva presocchè identico ed esprimeva lo stesso significato, ma il valore fonetico era del tutto diverso: ad esempio, per i Sumeri il segno della “testa”, corrispondeva al suono “shag”, ossia il termine che indicava il capo; mentre per gli Accadi la “testa”, come suono e come segno grafico, era “reshu” (si confronti l’ebraico “resh” e l’arabo “ras”). In pratica dunque si aveva una situazione simile a quella degli ideogrammi cinesi che vengono usati anche nel giapponese, con il nome di “kangi”, avendo il medesimo significato, ma a cui corrispondono suoni del tutto diversi, per cui almeno in teoria (poichè in realtà tra molti dei “kangi” e gli ideogrammi cinesi da cui derivano esistono differenze sia grafiche, sia fonetiche) un cinese e un giapponese, pur non conoscendo l’uno la lingua dell’altro, potrebbero comunicare per iscritto. In seguito i “cunei” passarono a indicare sillabe, -di solito la sillaba iniziale dell’oggetto che rappresentavano in origine-, e poi anche gruppi di due o tre sillabe, per cui il sistema si complicò notevolmente; salvo semplificarsi quando nell’elamitico e nel persiano i segni cuneiformi cominciarono ad essere impiegati per indicare singoli suoni (“fonemi”) e ad assumere quindi valore alfabetico. I segni utilizzati che nella scrittura pittografica sumera erano oltre mille, dopo essersi ridotti a circa 500 in quella assiro-babilonese, in persiano si ridussero ulteriormente a 42.

Nell’antica Mesopotamia e nelle aree circonvicine della Siria e dell’Anatolia l’arte della scrittura richiedeva un lungo tirocinio, come dimostrano le numerose tavolette che contengono esercitazioni scolastiche e quelle che si possono definire una sorta di testi didattici ad uso degli scolari, ed era prerogativa di una ristretta cerchia di dotti e di “scribi”. Nel tempio di Baal a Nippur, antica città-stato sumera, esplorato nel 1889 da Hermann Volrath Hilprecht (1859-1925), furono ritrovati parecchi temi ed esercizi calligrafici eseguiti dagli alunni del tempio: in uno appare una serie di cunei ad angolo tracciati in sei linee orizzontali (con 18 cunei per ciascuna linea); in un altro sono impressi sull’argilla segni dei tre tipi fondamentali della scrittura cuneiforme (orizzontale, verticale e ad angolo); un terzo contiene gruppi di segni che cominciano con il significante della sillaba “ba” (ba-a; ba-mu; ba-bamu; ecc.) e che probabilmente dovevano equivalere agli abbecedari e alle schede murali usati un tempo nelle scuole elementari (ba-dile; ba-locco; ba-nana; ecc.), pur se, a differenza di questi ultimi, avevano lo scopo di far conoscere non tanto il suono, quanto il segno. Una volta acquisiti i fondamenti della scrittura, si passava ad apprendere la pronunzia dei diversi segni  in sumero e in assiro e ad approfondire la grammatica e il significato delle parole. Quelle compilazioni, -in pratica testi linguistici e grammaticali-, che un tempo avevano ammaestrato gli scribi di Babilonia e di Ninive, ai giorni nostri sono passati ad insegnare agli odierni assiriologi il modo di leggere e di tradurre i caratteri cuneiformi.

Oltre che in Mesopotamia ed in Persia, i caratteri cuneiformi furono usati in Anatolia dagli Ittiti, dove sostiuirono una più antica scrittura geroglifica, nel regno di Mitanni e in quello di Urartu (regno fiorito nella regione dei laghi di Urmia e di Van e che poi, assunti elementi e lingua indoeuropei, diede origine al popolo degli Armeni); ma essi sono documentati in tutto il Vicino Oriente, specie per corrispondenze diplomatiche, e in tal senso particolarmente significative sono le tavolette scoperte nel 1886-87 a Tell-Amarna, la località egiziana dove sorgeva la città di Akhetaton, la capitale costruita dal faraone Amenophis IV (Akhenaton), noto soprattutto per il suo tentativo di riformare la religione egiziana, ma che fu abbandonata dopo il fallimento della riforma religiosa da lui inaugurata. Nell’archivio venuto alla luce in quel luogo fu rinvenuto un ricco deposito di documenti, -relativi soprattutto a scambi diplomatici tra il faraone e i sovrani della Palestina, della Mesopotamia e dell’Anatolia-, di fondamentale importanza per lo studio e la conoscenza della storia del Vicino Oriente antico.

Con il progressivo diffondersi nel Vicino Oriente della scrittura alfabetica cananea (o fenicia), le cui prime incerte attestazioni risalgono all’XI secolo, ma che appare già pienamente formata nelle iscrizioni sul sarcofago di Ahiram, re di Byblos (X secolo a. C.) e sulla stele di Mesha, re di Moab (840 a. C.), i caratteri cuneiformi anadarono via via cadendo in disuso, parallelamente al diffondersi della lingua aramaica, e poi di quelle da essa derivate, il siriaco e il caldeo, -che divennero le lingue franche di tutta l’area siro-palestinese e mesopotamica-. Gli ultimi esempi della scrittura cuneiforme sono testimoniati nel primo secolo dell’era volgare; in seguito pure in Persia fu adottato il più comodo alfabeto aramaico anche per il persiano medio (o “pahalavico”).

In Europa si era avuto un lunghissimo periodo di oblio della scrittura nella quale si erano espresse antiche e importantissime civiltà che avevano dato un fondamentale contributo allo sviluppo del mondo greco-romano e quindi indirettamente pure alla nostra civiltà europea, -quali quelle dei Sumeri, dei Babilonesi e degli antichi Persiani-, e le nostre conoscenze su di esse derivavano esclusivamente dalle testimonianze degli autori classici greci e latini, dai testi biblici e da quanto si conosceva della produzione letteraria in siriaco, armeno e in persiano pahlavico (che si scriveva in caratteri aramaici). Il primo ridestarsi di interesse verso la scrittura cuneiforme si ebbe in Europa allorchè un geniale esploratore italiano, Pietro Della Valle (1586-1652), -del quale parlammo già a proposito della popolazione dei Mandei, che egli per primo tra gli Europei scoprì-, tornato da un lungo viaggio nel Vicino e Medio Oriente, durato dal 1614 al 1626, nel corso del quale aveva visitato numerose contrade di quelle terre affascinanti, portò nel nostro paese alcuni esemplari di iscrizioni cuneiformi su tavolette di argilla, spesso in frantumi, oppure trascritte in modo approssimativo. Si trattava di testi in genere assai brevi, anche perchè contenuti in tavolette o lastre spezzate e frammentarie. Infatti la maggior parte di questi reperti giungeva da un area nei pressi della città di Shiraz, capitale della Persia fino al XVIII secolo, dove si trovava un enorme cumulo di rovine che circa un secolo e mezzo più tardi uno studioso ed esploratore e tedesco Carsten Niebuhr (1733-1815), nel corso di una lunga spedizione nel Vicino e Medio Oriente, -la “Danish Arabia Exspedition” (1761-1767)-, riconobbe essere quanto rimaneva dell’antica Persepoli, la splendida capitale dei sovrani Achemenidi, irrimediabilmente distrutta da Alessandro Magno in un momento di follia (e in quel frangente il celebre sovrano e condottiero macedone, che pure ebbe tanti meriti, si comportò davvero da barbaro incivile!). All’orientalista inglese Thomas Hyde (1636-1703) si deve poi la definizione di “cuneiforme” o “piramidale” delle antiche scritture mesopotamiche e persiane (“pyramidales seu cuneiformes”) in una sua opera sulla storia, i costumi e la religione dei Persiani, Medi e Parti pubblicata nel 1700 (di cui ovviamente egli conosceva solo i testi meno antichi scritti in medio-persiano -pahalavico, siriaco e caldeo).

Tuttavia per moltissimi anni nessuno riuscì a comprendere il significato di quegli strani segni, ed anzi vi fu chi pensò che non si trattasse di una scrittura, ma che avessero soltanto scopo decorativo. Dobbiamo giungere così ai primi anni del XIX secolo, quando un giovane maestro di scuola tedesco, Georg Friedrich Grotefend (1775-1853), appassionato di archeologia e di lingue antiche, si accinse a tentare l’impresa di decifrare i segni cuneiformi.  A quanto si narra, egli avrebbe deciso di lanciarsi nel cimento, alquanto impegnativo, in seguito a una scommessa propostagli da alcuni suoi amici e da lui accettata in una notte di baldorie del 1802 (dal che si dovrebbe dedurre che Grotefend non fosse solo un ascetico studioso alieno dai dilletti terreni). Per condurre a termine l’arduo compito che si era assunto, il geniale dilettante, che aveva già una discreta conoscenza dell’avestico, la lingua in cui è redatto il libro sacro di Zoroastro, -simile al persiano classico di età achemenide-, utilizzò la trascrizione di epigrafi celebrative dei monarchi achemenidi, che constavano in genere di tre colonne in cui il medesimo testo è riportato in persiano, in elamitico e in babilonese, le principali lingue parlate nel suo impero. Si tenga presente che la decifrazione dei segni cuneiformi alla quale il Grotefend si accingeva era assai più ardua e difficoltosa di quanto non fosse quella dei geroglifici alla quale pochi anni dopo si sarebbe dedicato Champollion, poichè quest’ultimo disponeva di una traduzione del testo geroglifico che voleva interpretare in una lingua nota, il greco ionico-attico, e pertanto il confronto tra le versioni nelle due lingue del medesimo contenuto rendeva relativamente agevole il suo tentativo.

Lo studioso partì dall’ipotesi che le iscrizioni, essendo di carattere encomiastico, seguissero uno schema abbastanza preciso ed iniziassero con preamboli e formule di uso protocollare simili a quelli abituali nelle altre corti antiche e pure dell’età moderna, e cercò quindi un segno o un gruppo di segni che presumibilmente significasse “re”. Tenendo conto dunque che spesso documenti ufficiali e iscrizioni monumentali cominciavano con formule elogiative e con un elenco dei titoli del monarca che li aveva emanati, cercò di individuare nella prima parte del testo una costruzione del tipo: “X, Gran Re, Re dei Re, figlio di Y, re della Persia, dell’Elam, ecc.”; in effetti Grotefend si accorse che la parola “re” appariva molte volte secondo la successione da lui ipotizzata. Una volta che ebbe constatato la correttezza della sua intuizione, ebbe l’idea di ricercare nei testi di altre iscrizioni celebrative o commemorative i nomi dei sovrani. La soluzione adottata dallo studioso tedesco fu pertanto simile a quella che Champollion avrebbe seguito per la decifrazione dei geroglifici: questi infatti individuò nella stele di Rosetta il nome di Tolomeo osservandone la corrispondenza con le lettere greche; quando poi nell’obelisco di File trovò sia il nome di Tolomeo che quello di Cleopatra, notò che alle lettere greche che i due nomi avevano in comune corrispondevano uguali geroglifici.

Dario I di Persia.

Grotefend confrontando diverse iscrizioni osservò che i nomi citati prima del termine “re” erano sempre due: suppose dunque che fossero i nomi di un re padre e un re figlio, e e tra i due antroponimi individò una parola che ritenne significasse “figlio”. Notò anche il termine “figlio” si ripeteva due volte, ma il secondo nome era seguito da un altro nome proprio al quale non era associata la parola re (ossia: “Re X, figlio di re Y, figlio di Z”): in tal modo comprese che l’iscrizione si riferiva ad un sovrano figlio di un altro sovrano, il cui nonno però non era stato re; tale condizione si attagliava perfettamente a Serse, figlio di Dario, figlio di Istaspe, il quale ultimo non era stato re di Persia. I nomi dei re persiani erano allora conosciuti in Europa solo nella versione greca e per avere una traduzione attendibile era indispensabile scoprire qual era l’originale antico persiano. Grotefend, valendosi della sua conoscenze dei testi in medio persiano riuscì a stabilire la pronuncia corretta di tali nomi: in tal modo il geniale ricercatore riuscì a identificare il valore fonetico di dodici segni della scrittura cuneiforme. In pratica nell’antico persiano i “cunei” avevano significato alfabetico e corrispondevano a lettere; nelle lingue mesopotamiche invece, come avremo modo di vedere oltre, tali segni rappresentavano sillabe, o intere parole, e dunque la strada per tentare di decifrarli era ancora più complicata.

Negli anni seguenti il nostro perfezionò sempre più il metodo da lui inventato e nel 1837 pubblicò un libro, “Contributi all’interpretazione delle scritture cuneiformi di Persepoli”, nel quale esponeva i risultati delle sue ricerche e il metodo che aveva adottato per condurle. Egli tentò anche di penetrare le misteriose iscrizioni in babilonese, ma questi suoi studi ulteriori non conseguirono risultati rilevanti e comunque pari a quelli a cui era giunto con il persiano. Ma in effetti i risultati dei suoi studi non avevano portato ad una decifrazione e comprensione completa dell’antico persiano, e tanto meno avevano consentito di tradurre per intero testi di una certa importanza.

Dobbiamo però con rammarico rilevare che il povero Grotefend non ricavò dai suoi studi nessun beneficio concreto, nè alcun riconoscimento accedemico, forse perchè, a differenza di Champollion, egli aveva solo posto i fondamenti per la comprensione dei segni cuneiformi e dei testi scritti con essi, ma non era stato in grado di giungere alla traduzione di interi testi; pertanto l’importanza della sua opera venne timidamente riconosciuta solo quando il suo lavoro servì come base per l’opera di altri ricercatori che si accinsero ad approfondire lo studio della scrittura cuneiforme e soprattutto a decifrare le lingue mesopotamiche: il sumero, l’accadico, il babilonese (che può considerarsi una varietà del precedente) e l’assiro.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

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