LA SCRITTURA CUNEIFORME E LA SUA DECIFRAZIONE (seconda parte)

L’intervento militare in Egitto di Napoleone I, il quale com’è noto si era portato seco una schiera di eruditi e studiosi desiderosi di approfondire in loco le loro fino ad allora scarse conoscenze delle antiche e grandiose civilità del Vicino Oriente, aveva dato inizio e impulso ad una riscoperta delle testimonianze che esse avevano lascito in gran numero, ma che da secoli giacevano neglette e semisepolte tra le sabbie dei deserti. In effetti il fascino che quegli antichi mondi esercitavano in Europa non era mai venuto meno (si pensi all’interesse che fin dal Rinascimento si era ridestato per le dottrine di Zoroastro e di Ermete Trismegisto, agli studi sulla lingua e la religione egizia di Athanasius Kirker, alla massoneria “egiziana” di Cagliostro, le cui dottrine e i cui rituali ispirarono anche capolavori come “Il flauto magico” di Mozart), ma solo agli inizi dell’800, anche in seguito ad eventi politico-militari quali le imprese napoleoniche e l’espansione coloniale in Asia e in Africa delle potenze europee, si era cominciato ad avere di esse una comprensione più esatta e scientifica.

Soprattutto si cominciò ad ampliare il campo delle conoscenze storiche alle civilità mesopotamiche, delle quali fino a quel momento si conosceva soltanto quanto si trovava su di esse nella Bibbia e quanto era tramandato dagli autori classici come Erodoto, Diodoro Siculo, Plinio il Vecchio, Eusebio di Cesarea (i quali a loro volta citavano e riassumevano altri autori, come il sacerdote babilonese Beroso, vissuto tra il IV e il III secolo a. C., Ctesia di Cnido, Alessandro Poliistore e altri), quando le missioni archeologiche condotte in Iraq da diversi studiosi europei quali il francese Paul Emile Botta e l’inglese August Henry Layard ebbero riportato alla luce le grandiose rovine di molte città assire, quali Nimrud e Ninive e tra di esse un’enorme quantità di tavolette d’argilla il cui contenuto rimaneva però incomprensibile.

Fu allora che entrò in scena un altro studioso dilettante a cui dobbiamo la scoperta del significato dei cunei nella scrittura mesopotamica e quindi la possibiltà di decifrare i testi in assiro e in accadico, ovvero l’inglese Henry Creswicke Rawlinson (1810-1895). Era costui un agente della Compagnia delle Indie appassionato di antichità e buon conoscitore del persiano moderno che era stato inviato in Persia e in Afghanistan per contrastare l’influenza russa in quelle regioni, disputate tanto dall’impero zarista quanto dalla Gran Bretagna, la quale si era ormai saldamente insediata in India. Oltre che a perseguire il suo compito politico-diplomatico, il Rawlinson si dedicò con lodevole impegno e determinanzione agli studi che più amava. Agli inizi delle sue ricerche egli ignorava gli studi compiuti da Grotefend, ma quando ne venne a conoscenza vi trovò la conferma delle proprie intuizioni, poichè anch’egli riteneva che per tentare l’intepretazione delle iscrizioni di Persepoli si dovesse partire dai nomi dei monarchi in esse citati.

Sir Henry Cheswicke Rawlinson.

A differenza di Grotefend, il quale non aveva avuto la possibilità di recarsi di persona nei luoghi ove erano fiorite le civiltà le cui lingue erano oggetto dei suoi studi, Rawlinson, nella sua qualità di funzionario britannico incaricato di missioni diplomatiche in Persia, ebbe la preziosa opportunità di poter studiare in loco i monumenti e le iscrizioni lasciati dagli antichi Persiani e decise di esaminare direttamente una delle più importanti testimonianze monumentali ed epigrafiche dell’Impero Achemenide: la celebre iscrizione incisa sulle pareti rocciose del monte Behistun, -che si trova circa a metà della via carovaniera che congiungeva Ecbatana, la capitale della Media, con Babilonia-, con la quale Dario I volle eternare la memoria delle gesta da lui compute. Il grande rilievo che la comprende misura circa 15 metri di altezza e 25 di larghezza e si trova su un pendìo calcareo circa 100 metri al di sopra della strada, per cui il testo inscrittovi risulta difficilmente visibile, o comunque leggibile a chi sosti sulla strada sottostante; pertanto si deve supporre che al tempo in cui l’opera fu realizzata la strada si trovasse ad un livello superiore, così da consentire al viandante la lettura della narrazione delle imprese del sovrano, altrimenti l’opera, tenendo conto delle sue finalità “propagandistiche”, sarebbe stata inutile se non fosse stata chiaramente visibile da chiunque.

La grande iscrizione è redatta in tre lingue (persiano, elamitico, babilonese): la parte in antico persiano consta di 414 linee divise in cinque colonne; la parte in elamitico, -che è la più lunga-, conta 593 linee distribuite in otto colonne; mentre la scritta in babilonese comprende solo 112 linee. Il rilievo e la lunga epigrafe intendono commemorare la vittoria di Dario I sull’usurpatore Gaumata, il quale, facendosi passare per il defunto figlio di Ciro e fratello di Cambise II, era salito sul trono degli Achemenidi. Costui, il cui nome persiano era Bardiya, viene designato da Erodoto, che ne narra la storia nei capitolo 61-89 del III libro della sua monumentale opera storica, con il nome di “falso Smerdi”. Secondo la narrazione dello storico greco, Cambise, succeduto al padre Ciro II nel 529 a. C., pensò bene, -o per meglio dire male-, di eliminare il suo congiunto prima di partire per la conquista dell’Egitto, onde evitare che questi, approfittando dell’assenza di lui, si impdronisse del trono. Poichè la precedente soppressione di Bardiya-Smerdi era stata tenuta nascosta al popolo, nel 522 il mago Gaumata (1), con la complicità di un altro mago, Patizeite, affermò di essere il figlio minore di Ciro. Poichè Cambise, a cagione della propria superbia, crudeltà e durezza, -da lui dimostrata, oltre che nell’aver comandato l’assassinio del fratello, nel disprezzo per i costumi e la religione egiziane, che lo indusse a ferire il sacro bue Api-, non godeva certo di vasta popolarità, l’usurpatore trovò il sostegno di una larga parte dell’esercito e del popolo. Cambise, affrettatosi a tornare dall’Egitto per domare l’insurrezione, non potè neppure affrontare il suo rivale, poichè morì in Siria in conseguenza di una ferita: pertanto l’autoproclamato sovrano, che fu creduto il vero figlio di Ciro, potè regnare ancora per sette mesi. In effetti secondo Erodoto il “falso Smerdi” fu giudicato un buon re dai suoi sudditi, specie quelli di origine non persiana, poichè aveva concesso l’esenzione delle imposte e la riduzione degli oneri militari ai popoli che erano stati conquistati dagli Achemenidi e che componevano il loro impero.

Ma un dignitario della sua corte, un certo Otane, sospettava che egli non fosse il vero erede del regno, poichè rimaneva sempre appartato ed evitava il pù possibile di mostrarsi in pubblico, soprattutto in presenza dei nobili più ragguardevoli, i quali, avendo conosciuto l’autentico rampollo di Ciro, avrebbero potuto smascherarlo. Per avere la conferma del suo sospetto, Otane indusse la consorte del presunto re a toccargli le orecchie durante il sonno: infatti se egli fosse stato davvero colui che sosteneva di essere le orecchie avrebbe dovuto averle, mentre se fosse stato Gautama il mago ne sarebbe stato privo, essendogli state fatte mozzare da Ciro per una colpa non precisata dallo storico (2).

La donna seguì il consiglio di Otane, il quale, ottenuta così la conferma dei suoi sospetti, insieme ad altri sei nobili persiani, tra i quali Dario, ordì una congiura che portò all’uccisione di Gautama. Sempre stando al racconto dello storico di Alicarnasso, i sette congiurati ebbero una discussione sulla forma di governo da dare allo stato persiano (democrazia, oligarchia, monarchia; tale discussione sul futuro assetto isituzionale dell’impero riflette evidentemente le idee greche in materia, essendo assai improbabile che i notabili persiani considerassero l’idea, anche in via del tutto ipotetica, di instaurare un regime democratico); ma prevalse la tesi di Dario, il quale asseriva essere il miglior partito mantenere l’istituto monarchico che aveva fino ad allora assicurato la libertà, la prosperità e la potenza dell’impero.

Per scegliere quale dei sette congiurati avrebbe dovuto salire al trono, seguendo un antico metodo divinatorio persiano, fu stabilito che l’onore e l’onere della guida del regno avrebbero dovuto toccare a quello tra di essi il cui cavallo al mattino seguente avesse nitrito per primo. Grazie ad uno stratagemma suggeritogli dal suo stalliere, Ebare (avvicinare all’equino una cavalla per cui sentiva attrazione), il cavallo di Dario nitrì per primo e in tal modo egli divenne il “Gran Re” di Persia e di tutti i domini annessi.

L’imponente bassorilievo che arricchisce e illustra il contenuto dell’iscrizione di Behistun raffigura il mago Gaumata e i nove re (o usurpatori) sottomessi da Dario al cospetto di quest’ultimo, assistito dall’alto dei cieli dalla benedizione di Ahura Mazda, il quale in tutti i capitoli del testo celebrativo viene sempre citato come protettore e ispiratore delle gesta del sovrano. Alle spalle del monarca si vedono due ufficiali armati rispettivamente di lancia e di arco, che forse rappresentano i generali fedeli grazie ai quali Dario riuscì a ristabilire l’ordine interno del suo regno; il “Gran Re” calpesta Gaumata che giace ai suoi piedi, mentre i ribelli sconfitti appaiono dritti con le mani legate dietro la schiena. Seguendo la consuetudine iconografica dell’antico oriente, appaiono di statura inferiore a quella di Dario e dei suoi ministri per sottolinearne la condizione di inferiorità e sudditanza, mentre l’umiliazione inflitta a Gaumata evidenzia il disprezzo e l’ira del sovrano per il rivale che aveva dovuto sopprimere per giungere al potere.

Il rilievo con l’iscrizione di Dario I a Behistun.

Ma poco dopo la sua ascesa al trono, in diverse parti del regno contro Dario insorsero ribelli e usurpatori, tutti elencati e rappresentati nel rilievo di Behistun, che vennero sconfitti ad uno ad uno dal monarca persiano. L’iscrizione celebra appunto la vittoria di Dario su tutti i suoi nemici con il divino aiuto di Ahura Mazda: dopo aver ricordato la sua discendenza dalla dinastia degli Achemenidi, attraverso i suoi antenati Istaspe, Arsames, Ariaramnes, Teispes, figlio di Achemene, capostipite della dinastia, -discendenza che legittimava il suo potere facendolo apparire in continuità con i precedenti sovrani-, Dario cita espressamente tutti i paesi soggetti alla sua autorità; indi narra in breve come abbia eliminato l’usurpatore Gautama e ristabilito, a suo dire, la giustizia e la religione. Ma il suo impero non era ancora pacificato e il suo potere non ancora consolidato, per cui contro di lui, come abbiamo detto sopra, comparvero numerosi antagonisti e ribelli, i quali cercavano di approfittare della crisi dinastica per rendersi indipendenti dall’autorità centrale. Il primo di essi fu Assina, figlio di Upadarma, che si proclamò re dell’Elam; poi la fu la volta del babilonese Nidintu-Bel, che asseriva di essere figlio di Nabonido, l’ultimo sovrano del regno neobabilonese (o caldeo), conquistato da Ciro nel 539 a. C., il quale sollevò la Mesopotamia. Costoro furono entrambi sconfitti da Dario nel 522. Ma ancora lunga era la schiera dei nemici di Dario che aspiravano a salire al trono o a sottrarsi al suo potere, poichè quasi tutte le province del suo impero gli si erano rivoltate contro: Martya rinnovò la ribellione dell’Elam, di cui si proclamò sovrano con il nome di Ummanish; Fraorte (Khshatria) non esitò a proclamarsi re della Media, rivendicando la sua presunta discendenza da Ciassare; Tritantaechmes, satrapo di Sagartia, provincia confinate con la Media, del cui antico re Ciassare pure costui si affermava discendente, si rivoltò al governo di Dario; e così pure il persiano Vahyazadata, presentatosi anch’egli al popolo quale Smerdi redivivo e quindi legittimo sovrano; l’armeno Arankha, altro preteso figlio di Nabonido, prese il titolo di re di Babilonia con il nome di Nabuchadrezzar; Frad sollevò la Margiana, provincia dell’Asia centrale, fregiandosi anch’egli di titolo regale; ed infine insorse Skunkha, capo della tribù scitica dei Saci, abitanti anch’essi una regione dell’Asia centrale. Tutti costoro furono vinti da Dario o più spesso dai suoi generali, i cui nomi sono diligentemente riferiti nell’iscrizione (dimostrando così che quanto meno il famoso re persiano non era un ingrato e non si arrogava meriti che spettavano ad altri), e subirono tutti la triste sorte di essere crocifissi (3).

Per quanto l’insigne opera scultorea con l’annessa epigrafe trilingue con la quale Dario volle tramandare la memoria del suo trionfo si trovi sulla parete scoscesa di una montagna, quindi assai difficile da raggiungere ed esaminare da vicino, il Rawlinson non si lasciò spaventare dalle difficoltà dell’impresa e dai pericoli che essa comportava e per amore della scienza non esitò a farsi calare per mezzo di funi e di una carrucola fino al punto della parete rocciosa ove era scolpito il monumento così da poter copiare il testo dell’iscrizione. Compiuta la trascrizione delle scritte, potè dedicarsi alla loro traduzione, che portò a termine, per la parte in persiano, nel 1846. Grazie alla perseveranza di questo geniale dilettante i segreti dei segni cuneiformi impiegati per scrivere il persiano antico erano stati svelati; ma i segni usati per le altre due lingue in cui era stata redatta l’epigrafe di Behistun rimanevano ancora muti per gli studiosi europei.

Un mago in una lamina del IV sec. a. C.

Per quanto riguarda l’elamitico, i primi passi nella conoscenza di questo idioma vennero fatti ad opera di un orientalista danese, Niels Ludvig Westergaard (1815-1878), il quale valendosi del medesimo metodo comparativo usato da Rawlinson tra una lingua (relativamente) nota, -il persiano, appena decifrato nei suoi tratti essenziali-, e una lingua ignota -l’elamitico-, nel 1843-44 studiò l’iscrizione posta sulla tomba di Dario I a Naqsh-e-Rustam (4), ove sono contenuti i nomi dei numerosi popoli e nazioni che costituivano l’Impero Achemenide e che furono per lui l’elemento guida nell’interpretazione del testo, -così come i nomi dei sovrani lo erano stati per le ricerche di Grotefend-: in tal modo lo studioso fu in grado di stabilire il significato di circa ottanta caratteri cuneiformi confrontando i nomi propri elamiti con quelli persiani equivalenti. Più tardi poi sulla base dell’iscrizione di Behistun il Westergaard ampliò e perfezionò il proprio metodo interpretativo, così che, dopo le ulteriori correzioni di Edwin Norris, dal 1855 pure l’elamitico si potè considerare conosciuto e i testi in tale lingua che venivano scoperti nelle successive esplorazioni archeologiche poterono essere tradotti senza eccessive difficoltà.

Ma tra le lingue che impiegavano i caratteri cuneiformi rimanevano ancora oscure il sumero, l’accadico, il babilonese e l’assiro, e a tentare di svelare il mistero di queste lingue dimenticate si accnse ancora una volta il Rawlinson. Egli tuttavia fece una scoperta che parve compromettere per sempre ogni futura possibilità di decifrare quegli antichi idiomi. Infatti mentre nel persiano e nell’elamitico i segni cuneiformi indicavano suoni ed avevano quindi un significato alfabetico, -il che aveva oltremodo facilitato l’interpretazione e la comprensione dei testi redatti in tali lingue-, in babilonese, -il terzo idioma impiegato nella stele di Bisthun-, come abbiamo detto nella parte precedente della presente trattazione, ciascun cuneo rappresentava una o più sillabe insieme, o addirittura una parola intera.

Di fronte a questa desolante constatazione gli sforzi degli studiosi per comprendere le antiche lingue mesopotamiche parvero miseramente arenarsi entro difficoltà insormontabili, quando un evento imprevisto venne loro in aiuto. Nel corso degli scavi a Ninive compiuti da Austen Henry Layard (1817-1894) furono scoperte più di cento tavolette d’argilla risalenti al VII secolo a. C. che contenevano una sorta di testi per l’apprendimento linguistico, o di dizionari, in cui venivano raffrontati i medesimi termini in lingua sumera, accadica e/o assira, così che si potevano verificare le corrispondenze tra le tre lingue (delle quali il sumero era rimasto solo come lingua di cultura e non era più usato per la normale comunicazione), e che testimoniavano pure come la primitiva scrittura cuneiforme sillabica andasse trasformandosi per assumere un significato alfabetico.

Oltre a Rawlinson altri studiosi si impegnarono nell’impresa di rendere accessibili gli antichi testi mesopotamici e consentire quindi una conoscenza di gran lunga più approfondità delle civiltà che li avevano espressi e di cui fino ad allora si aveva una conoscenza solo indiretta tramite le testimonianze che si avevano di esse provenienti da altri popoli. Tra essi si segnalarono soprattutto il britannico William H. Fox Talbot (1800-1877), il francese di origine tedesca Jules Oppert (1825-1905) e il parroco irlandese Edward Hincks (1792-1866). Quest’ultimo confrontando le diverse grafie impiegate per il medesimo nome proprio intuì che Rawlinson non aveva compreso che, -come abbiamo rilevato nella parte precedente della presente trattazione-, nelle lingue accadica e babilonese uno stesso segno poteva indicare sia una parola sia una sillaba; Hinks aveva altresì osservato che una sillaba poteva essere scritta sia con un unico segno, sia con la combinazione di due diversi segni: così “dur” poteva essere espresso o con un segno che voleva dire “dur”, o con l’unione di due distinti segni sillabici, “du” e “ur”.

L’eminente studioso riscontrò pure che il nome del re babilonese Nabukudurriusur (meglio conosciuto come Nabuconodonosor) si poteva trovare scritto nelle due possibile grafie cuneiformi; grazie alla sua conoscenza dell’ebraico, Hinks riconobbe anche il pronome personale della prima persona singolare, “anaku”, e potè stabilire con certezza che il babilonese e l’assiro appartenevano alla famiglia delle lingue semitiche. Queste ultimi si scrivevano e in parte si scrivono tuttora senza indicare le vocali (5), -che nelle lingue semitiche erano solo la A, la I e la U (così come tuttora nell’arabo classico letterario, mentre nelle forme volgari parlate nelle aree di idioma arabo -penisola arabica, Egitto, Mashreq e Maghreb- esistono pure la E e la O)-, per cui il babilonese utilizzava diversi segni per scrivere sillabe come “ab”, “ib”, “ub”, “ba”, “bi” e “bu”: tale scoperta arrecò un fondamentale contributo per la comprensione della grammatica babilonese. Hincks scoprì inoltre che gli Assiri e i Babilonesi impiegvano due distinti generi di scruttura: il “monumentale”, per le iscrizioni su muri di edifici, costruzioni e statue in pietra; e il “corsivo”, per le tavolette di argilla che costituiscono la fonte di gran lunga principale tanto per la decifrazione della lingua, quanto per la conoscenza della società e della religione mesopotamiche (6).

Per tentare un confronto e una sintesi dei risultati raggiunti dai diversi studiosi che si erano cimentati nella decifrazione e nella comprensione delle lingue babilonese e assira, William H. F. Talbot, anch’egli ricercatore dilettante, nel marzo del 1857 ebbe l’idea di proporre alla “Royal Asiatic Society” un singolare ma certo efficace esperimento: far tradurre la trascrizione di un testo assiro cuneiforme ai quattro maggiori studiosi di antichità mesopotamiche dell’epoca, già in precedenza citati, ossia Talbot stesso, Rawlinson, Hincks e Jules Oppert. Ciascuno di essi però, ad eccezione di Talbot, che era stato l’ideatore della sfida, avrebbe dovuto ignorare la contemporanea opera di traduzione che stavano svolgendo i suoi dotti colleghi. Le quattro traduzioni, una volta completate, furono sottoposte al giudizio di una commissione appositamente costituita dalla “Royal Asiatic Society”; tale commissione sentenziò che esse, pur mostrando alcune differenze non molto rilevanti, concordavano nella sostanza del testo: si potè così constatare come, sebbene con metodi diversi, si era giunti alla comprensione della lingua assira. In seguito la conoscenza delle lingue e delle civiltà mesopotamiche fu sempre più approfondita e nel 1868, a cura di Jules Oppert venne pubblicata la prima grammatica della lingua assira (“Elements de la grammaire assyrienne”).

Note

1) i Magi, al dire di Erodoto (Storie, I, 101) erano la più nobile delle sei tribù che costituivano il popolo dei Medi: da essi provenivano i sacerdoti, o, per essere più esatti, coloro la cui presenza era indispensabile affinchè un rito religioso fosse celebrato secondo i canoni stabiliti e potesse dimostrarsi efficace (poichè in effetti è incerto che nell’età più antica vi fossero tra i Persiani dei veri e propri sacerdoti, così come non esistevano templi -nell’epoca arsacide e soprattutto sassanide si affermò invece un vero proprio clero mazadico, costituito da sacerdoti detti “mobed”-). Per tale ragione questa tribù venne identificata come casta sacerdotale, in modo non dissimile a quanto era avvenuto tra gli Ebrei con la tribù di Levi. Le testimonianze che sono state tramandate su di essi sia nelle fonti iraniche, sia presso gli autori greci sono peraltro assai contraddittorie: da un lato essi appaiono, -ad esempio negli scritti di Diogene Laerzio e di Porfirio di Tiro-, come i più diretti e fedeli discepoli della dottrina di Zoroastro, dediti ad una vita ascetica all’insegna della castità e del vegetarianesimo (e quindi simili ai Pitagorici “osservanti”, agli Esseni, ai “Perfetti” manichei e catari o ai monaci buddisti); dall’altro una sorta di stregoni e di invasati, seguaci di una religione degenerata: secondo Erodoto ad esempio (Storie, I, 140) i Magi differiscono alquanto dai sacerdoti delle altre religioni, e in particolare da quelli egiziani, che si astengono dall’uccidere alcun essere vivente, all’infuori di quelli che sacrificano agli dei; al contrario essi uccidono di propria mano ogni sorta di animali, eccetto l’uomo e il cane, e reputano anzi nobile fatica eliminare le formiche, le serpi e tutti gli altri animali che strisciano o che volano. A quanto scrive Plutarco poi (De Iside et Osiride, 46), i Magi sacrificavano non solo ad Ohrmazd (Ahura Mazda), ma pure ad Hadea (Ahrimane, in qualche modo assimilato all’Ade greco), tritando nel mortaio l’erba “omomi” (termine che deriva senza dubbio da quello della sacra bevanda inebriante “haoma”, che corrisponde al “soma” indiano, al “ciceone” dei misteri eleusini e al “nettare dei poeti” germanico), il cui succo veniva poi mescolato con il sangue di un lupo sacrificato. In effetti anche Dario sembra assegnare una qualificazione negativa alla tribù, o setta, dei Magi, un cui membro aveva usurpato il trono, sottolineando di aver restaurato la “vera” religione dopo aver eliminato l’usurpatore. D’altro canto però anche le testimonianze sfavorevoli ai Magi sembrano indicare una sostanziale fedeltà alla religione mazadaica, pur travisandone gli elementi: il rispetto per il cane, -animale sacro per gli zoroastriani, insieme al gallo-; l’avversione per gli animali che strisiciano come Rettili e Insetti, considerati invece animali “ahrimanici”; la preparazione dell'”haoma”. Erodoto rileva pure che essi abbandonavano i cadaveri quali “orrido pasto” per “cani ed augelli”, distinguendosi dall’uso comune dei Persiani che al contrario seppellivano i morti dopo averli spalmati di cera (una sorta di imbalsamazione?): ammettendo che al tempo dello storico greco fosse effettivamente così, e che egli non si sia confuso come fece in altri passi della sua opera, in seguito l’uso funebre adottato da tutti gli zoroastriani, e tuttora praticato, è proprio quello di abbandonare le spoglie mortali dei defunti in luoghi solitari (le “torri del silenzio”), ove esse sono divorate dagli avvoltoi, affinchè l’impurità dei cadaveri non contamini nè la terra nè alcun altro elemento, in particolare il fuoco (sacro per essi con il nome di “Atar”). Dopo l’annessione all’impero Achemenide della Mesopotamia, una parte dei Magi stabilitasi in quella regione, in particolare nell’area più meridionale, a sud di Babilonia, quella che dal nome della tribù aramaica insediatavisi poco prima del 1000 a. C., prese il nome di Caldea, assorbì le credenze astrali della religione babilonese, integrandole con quelle mazdaiche: da costoro, esperti di astrologia e scienze divinatorie, deriva, attraverso la forma greca e latina “magos-magus” e “màgheia-maghìa” il significato che “mago” e “magia” hanno tuttora. A costoro, ossia ai magi caldei, e non a quelli autenticamente iranici, appartengono i magi citati nel vangelo canonico di Matteo, secondo il quale alcuni di essi vennero dall’Oriente ad adorare il neonato Gesù (stabilendo dunque in modo implicito un legame tra quest’ultimo e lo zoroastrismo, secondo il quale appare ciclicamente un salvatore, il “Sayoshant” per rinnovare il mondo). Tuttavia nella cultura greca e latina il termine “mago” (e “magia”) ebbe quasi sempre un significato deteriore, oscillante tra quello di puro e semplice ciarlatano, che si vanta di avere poteri inesistenti allo scopo di ingannare gli ingenui, e quello di stregone che opera, per sè o per conto di altri, incantesimi volti a un fine malefico. Particolarmente significativo in questo senso è il giudizio assai negativo formulato da Plinio il Vecchio nei primi capitoli del XXX libro della “Naturalis Historia”, ove la magia è definita “fraudolentissima artium”. Fu solo nel tardo neoplatonismo, e in particolare nella “scuola di Pergamo” e nella corrente “ritualistica” della quale massimo esponente fu Giamblico, che la “magia” cominciò ad essere considerata una via di elevazione spirituale, nella forma della “teurgia” (della quale abbiamo diverse volte parlato nelle nostre trattazioni), ossia la ricerca del contatto diretto con gli dei e gli angeli tramite “medium” o anche supporti materiali attraverso i quali gli spiriti evocati parlavano. La teurgia (“magia bianca”) era contrapposta alla “goezia”, ovvero la magia volgare (“magia nera”), volta al procacciamento di beni materiali e di successi mondani. Invero nella tradizione occidentale (e non solo), soprattutto in epoca medioevale e rinascimentale,  per “magia bianca” si intese lo studio e l’utilizzo delle virtù più o meno segrete ed occulte di minerali, piante e animali (talvolta reali, talvolta esagerate o immaginarie), -ossia la “magia naturale”-, ammessa pure dalle chiese cristiane (e in tal senso alcune delle opere di autori assolutamente ortodossi come la mistica Ildegarda di Bingen e il filosofo Alberto Magno si possono considerare esempi di trattati di magia naturale). La “magia nera” era invece quella che ricorreva all’invocazione e all’aiuto di entità spirituali demoniache, assolutamente proibita dalle chiese (anche nel caso fossero invocate entità angeliche, che, secondo la teologia cattolica ed ortodossa, non avrebbero mai acconsentito ad esaudire richieste terrene). Sulla religione persiana si vedano anche la decima, undicesima e dodicesima parte di “L’anima e la sua sopravvivenza” rispettivamente del 16 e 31 luglio e del 26 settembre 2018. Per i Magi evangelici informazioni più approfondite si possono trovare nella seconda parte di “Gli Hyksos ed altre genti” del 4 maggio 2013.

2) si tenga presente che come risulta sia dalle testimonianze antiche, sia dalle raffigurazioni plastiche gli antichi Persiani indossavano quasi sempre dei berretti di feltro o altro tessuto, e per quanto riguarda i notabili e nelle occasioni importanti una tiara cilindrica, più o meno riccamente decorata; pertanto non era difficile nascondere l’eventuale mutilazione delle orecchie.

3) Erodoto non tratta diffusamente di tali rivolte e guerre civili, ma accenna ad una ribellione in Babilonia (non si sa se alla prima o alla seconda) e dell’inganno ordito da Zòpiro, nobile persiano partecipe della congiura contro il “falso Smerdi”, il quale, facendosi credere vittima di Dario (e accettando perfino per avvalorare le sue affermazioni di subire mutilazioni) si presentò ai Babilonesi, offrendo informazioni sull’esercito di Dario che assediava la capitale mesopotamica. Una volta accolto entro le mura di Babilonia, aprì le porte della città, consegnandola agli assedianti.

4) famosa località nei pressi di Persepoli ove si trovano i sepolcri di alcuni re achemenidi e dei primi sovrani della dinastia dei Sassandi (che regnò dal 226 al 636 -con alcune sacche di resistenza contro gli islamici fino al 651-, quando l’impero persiano fu conquistato dagli Arabi). “Naqs-e-Rustam” significa “muro di Rustam” e prende il nome da uno dei più nobili eroi dell’epopea mitica persiana, in particolare nel poema “Shanameh” (“Libro dei Re”) del poeta Firdusi (930-1020 circa), poichè in quel luogo la tradizione popolare identificò il sepolcro dell’eroe, pur non avendo un vero legame con la figura di esso. Su Rustam si veda l’articolo su Simurgh, l’uccello fatato della mitologia persiana, dell’11 aprile 2014.

5) in effetti le lingue semitiche sono caratterizzate dal consonantismo, dalla prevalenza che nella fonetica, nel lessico e nella morfologia  hanno le consonanti, che caratterizzano l’ambito semantico delle parole tramite il sistema delle “radici trilittere”, entro le quali si colloca buona parte del lessico di tali lingue, mentre le vocali servono più che altro come “collante” tra i suoni consonantici; in questo esse si differenziano nettamente dalle lingue indoeuropee, le quali sono invece caratterizzate dal “vocalismo”, dalla prevalenza dei suoni vocalici che nel loro ripetersi, differenziarsi o alternarsi esprimono principalmente il tessuto semantico della lingua (fenomeno questo particolarmente evidente nella coniugazione verbale).

6) tale distinzione di impiego si può paragonare a quella esistente in Egitto tra la scrittura geroglifica, che dal Nuovo Regno in poi fu usata quasi esclusivamente per le epigrafi monumentali, e quella ieratica (e più tardi quella demotica), propria degli scritti su papiri; o nell’antica Roma tra la capitale quadrata, di uso epigrafico, e la “capitale rustica”, impiegata nei papiri e nei codici (nonchè la “capitale corsiva” di uso limitato agli scritti di minore importanza e alle esercitazioni scolastiche).

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