IL DECLINO DELL’IMPERO ROMANO (caduta o trasformazione?) -sesta parte-

Fin dalla fine della repubblica si verificò un progressivo aumento dei latifondi , -specie nella parte occidentale del dominio romano-, dove dopo le lunghe guerre esterne e civili si erano avute numerose distribuzioni di terre ai veterani e ai piccoli proprietari.

Questa tendenza aumentò sempre più nell’età imperiale poiché i detentori di modesti appezzamenti di terreno che coltivavano direttamente (i “coltivatori diretti”) non potevano competere con i grandi proprietari terrieri che disponevano di numerosa manodopera servile, di attrezzature agricole numerose ed efficienti, e spesso pure di locali di trasformazione dei prodotti agricoli (mulini, frantoi, ecc.). Inoltre per poter versare i gravosi tributi dei quali abbiamo parlato in precedenza erano costretti a indebitarsi: ma quando davvero non riuscivano più a tirare avanti, non rimaneva loro altra scelta che quella di vendere i loro poderi a un proprietario più grande. Avvenne così che i latifondi aumentarono a dismisura, -tanto che ad esempio si calcola che agli inizi del IV secolo nell’intera Africa nord-occidentale tutto il terreno agricolo fosse in mano a non più di poche decine di proprietari. Agli ex coltivatori diretti non rimaneva che lavorare quali salariati per i grandi possidenti o recarsi nelle città per diventare “clientes” di qualche signore cittadino o vivere di espedienti o delle elargizioni pubbliche di generi alimentari e beni di consumo, -le cosiddette “frumentationes”-, che, durante i primi due secoli dell’impero erano abbastanza frequenti, tanto da consentire a una numerosa plebe urbana, – specie nell'”Urbs” per eccellenza, Roma- di vivere in pratica di “rendita”, cioè a spese dello stato.

Già dall’epoca repubblicana, le distribuzioni di grano a prezzo ridotto o del tutto gratuite alla plebe (destinate però solo a coloro che avessero la cittadinanza romana) erano abbastanza frequenti e regolate da diverse leggi, quali ad esempio la “lex Terentia et Cassia” del 73 a. C., che limitavano il numero di coloro che potevano usufruire di tale beneficio, onde evitare che i contadini e i piccoli proprietari impoveriti preferissero vivere della pubblica beneficenza, anziché cercare un lavoro, e per non incentivare l’abbandono delle campagne e ridurre il numero degli addetti all’agricoltura, che già allora si profilava come un grave problema. Sembra che Augusto nel 2 a. C. abbia limitato il numero degli aventi diritto alle distribuzioni gratuite a 200.000 (secondo quando l’imperatore medesimo afferma nella “Res gestae Divi Augusti”, l’elenco di tutte le opere di pace e di guerra da lui compiute durante il suo regno).

A Cesare si attribuisce l’istituzione della “subsortitio”, quale procedura con la quale erogare il beneficio. Un papiro egiziano del III sec. trovato a Ossirinco (1) ne illustra il funzionamento: esistevano delle graduatorie di iscritti alla “frumentatio”; ogni qual volta si fosse reso libero un posto, per decesso del titolare o per altre cause, si estraeva il nome del nuovo beneficiario attraverso l’estrazione a sorte tra gli iscritti nell’elenco di coloro aventi i requisiti per poter accedere alle distribuzioni. Tali requisiti erano: cittadinanza; residenza, maggiore età e sesso maschile. Per ricevere la quantità di grano a cui si aveva diritto, a scadenza mensile, si doveva esibire la “tessera frumentaria”, un gettone o una tavoletta di forma quadrangolare, il più delle volte in osso, che recava su un lato la figura allegorica dell’Annona e dall’altro il numero d’ordine della distribuzione gratuita a cui la tessera dava diritto.

Secondo quanto testimonia la “lex Terentia et Cassia”, prima citata, a ciascun titolare venivano distribuiti 5 “modii” al mese di frumento, con i quali si poteva ottenere farina per oltre 45 chili di pane (anche se molti fattori incidevano sulla quantità di pane ricavabile da 5 modii di grano: qualità del cereale, tipo di macinazione, grado di umidità, metodo di panificazione e di cottura, ecc.); peraltro la farina, tritata più grossolanamente, serviva anche per preparare la “puls”, una specie di polenta). RomaaugusteaAll’imperatore Claudio poi si deve la costruzione di edificio appositamente destinato alla distribuzione del grano (che prima avveniva in diverso luoghi della città), detto “Porticus Minucia Frumentaria”, sito nella IX regione (2); egli inoltre provvide ad ingrandire il porto di Ostia e concesse facilitazioni agli importatori di frumento -che proveniva soprattutto dalla Sicilia, dall’Africa proconsolare e dall’Egitto (3), incrementando così l’approvvigionamento della capitale, ulteriormente favorito dall’apertura di un secondo porto ad Ostia voluta da Traiano.

A quest’ultimo imperatore si deve l’adozione delle “institutiones alimentariae”, una sorta di assegni familiari offerti alle famiglie di contadini poveri italiani onde essi potessero nutrire ed allevare la propria prole. Questa forma di assistenza era finanziata tramite la concessione di prestiti ai proprietari terrieri con un tasso di interesse agevolato: gli interessi dovuti allo stato per tali prestiti erano devoluti per l’erogazione di tali aiuti economici. Ma lo spirito caritativo e la filantropia dell’imperatore definito per eccellenza “optimus princeps” (4) non si limitarono a questo poiché egli provvide, attingendo anche al suo patrimonio personale, a stanziare i fondi per il mantenimento di numerosi fanciulli orfani e indigenti, sia legittimi sia illegittimi. Le disposizioni a favore degli orfani e delle famiglie povere furono poi rinnovate da Antonino Pio e da Marco Aurelio.

A partire da Traiano le distribuzioni di grano e altre forme di assistenza statale, che in precedenza venivano concesse soprattutto per aumentare il consenso dei cittadini e non erano strettamente legate allo stato di indigenza dei destinatari, cominciarono ad essere concepite quali forme di beneficenza nell’ambito di una vera e propria politica di intervento in campo sociale.

Rilievo sull'arco trionfale dedicato a Traiano, eretto a Benevento tra il 114 e il 117, nel quale si commemora le beneficenza del principe.
Rilievo sull’arco trionfale dedicato a Traiano, eretto a Benevento tra il 114 e il 117, nel quale si commemora le beneficenza del principe.

Incaricati di provvedere alle distribuzioni gratuite erano i “praefecti frumenti dandi”, i quali a loro volta dipendevano dagli “aediles plebis Ceriales”; Augusto però sottrasse loro questo compito e l’affidò al “praefectus annonae”, carica da lui istituita per l’approvvigionamento di grano nell’Urbe. Dall’epoca di Commodo (180-192) appaiono i “prefecti Miniciae”, in veste di elargitori delle “frumentationes”, e in seguito anche i “curatore aquae et Miniciae”.

Con l’avvento al soglio imperiale di Aureliano nel 270 questo sistema di assistenza dello stato subì un profondo mutamento: infatti l’imperatore decise di distribuire agli indigenti non più il grano, ma direttamente il pane.

Aureliano, dopo la sua campagna vittoriosa contro Zenobia di Palmira, che da reggente per il figlio Vaballato, -a sua volta “corrector totius Orientis” (titolo che l’imperatore Gallieno aveva concesso a suo padre Odenato)-, si era proclamata “augusta” e aveva conquistato, oltre alla Siria, l’Egitto e parte dell’Anatolia, era riuscito a riconquistare l’Egitto e quindi ad assicurare nuovamente un regolare rifornimento di grano a Roma e all’Italia. Egli poi non si limitò al pane, ma effettuò anche distribuzioni di altri generi alimentari, quali olio, sale e carne (5).

"Taberna" in cui si vende pane in affresco romano di Ostia.
“Taberna” in cui si vende pane in affresco romano di Ostia.

Tuttavia due passi dell'”Historia Augusta” (Aurel. XXXV, 1; XLVII, 1-4) inducono a pensare che Aureliano abbia semplicemente reintrodotto, ampliato e reso più o meno regolare l’usanza dei donativi di pane, che dovevano già essere stati fatti, sebbene forse solo in particolari occasioni, -come i “ludi Romani” e i “Cerialia”-, dagli imperatori della dinastia severiana. Si presume anche che la novità delle elargizioni di Aureliano stia nel fatto che il pane distribuito sarebbe stato “panis siligineus” (confezionato con farina di grano tenero, “siligo”), cioè il pane bianco della migliore qualità, che di solito era prerogativa dei ricchi; l’aver aumentato la quantità pro capite; l’aver decretato l’ereditarietà del diritto al pane gratuito.

A tale misura adottata da Aureliano contribuì forse anche la recente invenzione dei mulini ad acqua, di cui gli scavi archeologici hanno rilevato la presenza anche a Roma nel III secolo. In conseguenza della svalutazione della moneta e dell’inflazione, il prezzo del pane era raddoppiato nel giro di poco più di un secolo, mentre i salari erano aumentati solo in lieve misura e di fatto il potere d’acquisto degli umili aveva subito una drastica diminuzione. Distribuendo il pane già confezionato, l’imperatore si faceva carico dei costi della macinazione del grano e della cottura dell’impasto, che prima gravavano sui cittadini.

Si ritiene inoltre che tale provvedimento rifletta pure un cambiamento delle abitudini alimentari dei Romani: nei tempi più antichi il cibo principale era la “puls” (che, come abbiano detto sopra) era una sorta di polenta confezionata con farina di farro (ritenuto il cereale il cui impiego alimentare è il più antico) grossolanamente macinata; in seguito, come attesta Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XVIII, 19, 83), il frumento sostituì sempre di più il farro e prevalse, soprattutto nelle famiglie abbienti, il consumo di pane, che poi si diffuse anche tra i poveri. Questo cambiamento portò all’apertura dei primi forni in cui si vendeva il pane, -che nelle “villae rusticae”, ognuno si preparava da sé- (“pistrina”), che erano presenti a Roma con certezza al tempo della “terza guerra macedonica” (171-168 a. C.).

Prima di allora il termine “pistor” indicava colui che macinava (o “pestava”) il farro con grossi pestelli di legno, mentre la preparazione del pane era affidata soprattutto alle donne. Tuttavia vi era una notevole differenza tra il pane consumato dai ricchi, fatto di fior di farina (“siligo”, da cui “panis siligineus”) , e il “panis cibarius” e il “panis plebeius (o sordidus)”, molto più ricchi di crusca, specie il secondo, -che in pratica corrispondeva al “pane integrale” dei nostri tempi, che però allora non era molto apprezzato, a differenza di oggi, in cui esso costa più del “pane bianco”-.

Pagnotta romana carbonizzata venuta alla luce negli scavi di Pompeii.
Pagnotta romana carbonizzata venuta alla luce negli scavi di Pompeii.

Quando le distribuzioni gratuite venivano effettuate con il frumento, nelle canpagne i beneficiari provvedevano alla macinazione o in proprio, con grossi mortai (e molta fatica), facendo quindi i “pistores”, oppure recandosi nel mulino di qualche possidente, ove facevano macinare il grano in cambio di prestazioni lavorative. Allo stesso modo per cuocere il pane, si avvalevano dei grandi forni (“furnus” o “fornax”, ancora più ampia), che si trovavano sempre nelle “villae rusticae” (si deve osservare che sistemi di questo tipo erano diffusi nella maggior parte del territorio italiano fino a tutta la prima metà del 900, e oltre).

Nelle città invece per la macinazione ci si rivolgeva ai “pistores” e ai “molitores” (cioè ai fornai e ai mugnai); mentre per la cottura si impiegava il forno portatile una sorta di grossa teglia, il “clibanus” (6). Tuttavia dalla fine della repubblica la maggior parte degli abitanti delle città preferiva comprare nei forni il pane già fatto.

Mosaico che rappresenta un forno romano.
Mosaico pavimentale che rappresenta un forno romano.

Poiché doveva essere difficile se non impossibile distribuire un gran numero di pagnotte a circa 100.000 persone nello stesso giorno e nello stesso luogo, si ritiene che siano stati dislocati in tutta la città (ma similmente doveva avvenire nelle altre grandi città dell’impero) dei punti di consegna, i “gradus”, una sorta di gradinate dall’alto delle quali un incaricato, assistito dagli “scribi” (gli impiegati) dell'”Ufficium Urbanum”, -i quali controllavano l’idoneità dei richiedenti-, elargiva il pane, che per questa ragione prese il nome di “gradilis”. Sembra pure che incaricati di compiere l’elargizione fossero gli stessi “pistores”, i fornai, le cui botteghe (i “pistrina”) erano in gran numero a Roma (a metà del IV secolo più di 150).

Il sempre più ampio sviluppo del latifondo e il conseguente progressivo impoverimento e poi sparizione della piccola proprietà agricola, e in generale di quello che in termini odierni si direbbe il ceto medio portò a un divaricazione nella società imperiale tra i ricchissimi e i poverissimi, -chiamati dalla metà del III secolo rispettivamente “honestiores” e “humiliores”-, che a partire dalla fine del II secolo assunse via via dimensioni più evidenti e drammatiche: infatti le distanze sociali si andavano approfondendo non solo sul piano pratico ed economico, ma anche su quello giuridico e civile.

Nella Repubblica Romana si era verificato un lento, ma costante processo di livellamento tra “patricii” e “plebeii”, che giunse infine a una completa parificazione, con la possibilità di accesso ai membri di entrambe la classi a tutte le magistrature. Alla precedente distinzione si sostituì così una contrapposizione tra la “nobilitas”, cioè tra gli appartenenti a famiglie i cui membri ricoprivano, o avevano ricoperto cariche pubbliche (e dunque “nobiles”, -“nobilis” in origine significa conosciuto e degno di stima-) e la “plebs”, ovvero il popolino, la “plebe” nel senso moderno. Ma in seguito si aggiunse un terzo “ordo”, quello degli “equites”, i “cavalieri”. Costoro, così detti dal fatto che secondo l’antica ripartizione dei cittadini in base al censo operata del re Servio Tullio, onde costituire le “centuriae”, i contingenti dell’esercito (7), erano chiamati a entrare nella cavalleria coloro che disponessero di un reddito cospicuo, erano quella parte della popolazione abbiente che si era arricchita, in modo più o meno lecito con tutte quelle attività legate al commercio, agli affari, agli appalti, con le concessioni pubbliche (specie di miniere e foreste), la riscossione delle imposte, che erano vietate ai membri dell’ordine senatorio, la cui ricchezza derivava interamente dalla proprietà agricola. Questa classe, o meglio “ordine”, acquistò una sempre maggiore importanza e influenza nell’ultimo secolo della repubblica e nei primi due dell’impero. Per essere ammessi nell'”ordo senatorius” occorreva avere un patrimonio ammontante ad almeno un milione di sesterzi; per far parte degli “equites” di almeno 400.000 sesterzi. Dall’ordine dei cavalieri provengono tutti gli alti funzionari, compresi quelli che si potrebbero far corrispondere ai ministri odierni: “praefecti”, “procuratores”, “curatores”, ecc.

Si avevano dunque tre ordini: senatores, equites e populus -al quale appartenevano in pratica tutti i cittadini liberi poveri o di media condizione economica-. Oltre ai liberi (“ingenui”), vi erano gli schiavi -i quali, come abbiamo già detto in origine non avevano alcuna personalità giuridica, ma che avevano via via visto riconoscere loro alcuni diritti- e i liberti, gli schiavi liberati, che però non erano del tutto assimilati ai nati liberi ed avevano uno status particolare, che comportava dei doveri nei confronti dell’ex-padrone, il “patronus” (in particolare l'”obsequium” e le “operae”, prestazioni lavorative). L’inosservanza di tali doveri, o a maggior ragione l’ingiuria commessa verso il “patronus”, potevano comportare tra le possibili sanzioni anche la “revocatio in servitutem”. Solo i figli dei liberti erano liberi a tutti gli effetti; in età imperiale molti liberti riescono ad arricchirsi; quelli degli imperatori e di alti funzionari dello stato acquisiscono talvolta cariche importanti nell’amministrazione imperiale.

Per quanto riguarda le altre città dell’impero di cittadinanza romana (come tutte quelle italiane), anche per accendere al rango di “decuriones”, -i consiglieri e assessori comunali (chiamati anche durante il tardo impero “curiales”)-, era indispensabile un certo censo (a Como, ad esempio, di 100.000 sesterzi), che presumibilmente era tanto più alto quanto più grande era la città. Spesso degli organi delle amministrazioni locali facevano parte ex-militari come ufficiali e sottufficiali (tribuni e centurioni) in congedo, poiché la rilevante liquidazione loro assegnata nel momento in cui lasciavano l’esercito consentiva ad essi questa possibilità.

Tuttavia la distinzione tra questi ordini sociali non era rigida, -come sarà poi nel ME e nell’età moderna tra nobiltà e plebe (o “terzo stato”)-, poiché era determinata non dalla nascita, ma dalla ricchezza; pertanto esisteva una certa mobilità sociale, che tuttavia dalla fine del II secolo cominciò a venire meno, per cessare del tutto con le disposizioni di Diocleziano e Costantino sull’ereditarietà delle professioni che contribuirono a cristallizzare le classi sociali, impedendo qualunque ricambio.

In particolare la classe dei “curiales”, che in passato aveva goduto notevole prestigio e nella quale molti piccoli borghesi aspiravano ad entrare, era divenuta una delle più tartassate, specie da quando con la riforma di Diocleziano i suoi membri furono incaricati di riscuotere le tasse, garantendone l’importo con il loro personale patrimonio; pertanto a questo compito si cercava di sottrarsi in ogni modo, anche se tale “liberazione”, data l’ereditarietà degli uffici, era assai difficile.

In una situazione sociale ed economica tanto problematica, soprattutto nelle campagne, dove coloni e braccianti vessanti dai proprietari spesso non avevano di che vivere, nacquero delle sommosse, talora assai violente, sebbene poco organizzate, in cui al movente economico e al desiderio di rivalsa talora si mescolavano confuse motivazioni e aspirazioni politiche e religiose. Queste rivolte scoppiarono soprattutto in alcune aree dell’Impero e segnatamente in Gallia e in Africa settentrionale.

La Gallia, dai tempi di Còmmodo (180-192) fino al V secolo, fu sconvolta dalle ricorrenti insurrezioni dei “bagaudi” (o “bacaudi”, termine di probabile origine celtica), contadini poveri o rovinati, braccianti disoccupati, che si unirono a bande di predoni e gladiatori ribelli e che, insieme a disertori dell’esercito romano e, nelle zone di confine, ad elementi barbari, colpirono le case e le proprietà dei ricchi possidenti e dei magistrati romani, talvolta con inaudita ferocia. Queste scorrerie assunsero proporzioni allarmanti nei primi tempi del governo di Diocleziano allorché nel 284 riuscirono a conquistare Augustòdonum (odierna Autun) ed riuscirono pure a creare due imperatori nelle persone di Eliano ed Amando. Per quanto sconfitti l’anno seguente da Massimiano, il “cesare” di Diocleziano (che nel 286 sarebbe divenuto “augusto” e quindi collega alla pari di Diocleziano nell’ambito della “tetrarchia), non furono del tutto debellati, tanto che i superstiti, rifugiatisi sui monti e nelle foreste ricominciarono a devastare i territori della Gallia sud-occidentale e della Spagna settentrionale.

Un altro “movimento” di protesta sociale, spesso assai violenta, sconvolse le province dell’Africa settentrionale, in specie la Numidia e la Mauretania (corrispondenti alle fasce costiere degli attuali Algeria e Marocco)(8), quello dei cosiddetti “circumcelliones”. Il termine con cui furono designati significa letteralmente “coloro che si aggirano intorno alla dispensa” (da “circum”=intorno e “cella” nel senso di magazzino di derrate agricole, dispensa), ma passò poi ad indicare i braccianti agricoli stagionali di quei luoghi, al servizio dei latifondisti (come abbiamo detto sopra nell’Africa settentrionale esistevano immensi latifondi, tanto che la proprietà delle terre era in mano quasi per intero a poche decine di possidenti). Costoro, esasperati dalle misere condizioni in cui si trovavano ed abituati a causa del loro lavoro (o ex-lavoro) a muoversi in squadre, fin dagli inizi del IV secolo costituirono delle bande che comprendevano ex-coloni, contadini, ex piccoli proprietari impoveriti, lavoratori stagionali, in genere di origine bèrbera. Sotto la guida di Axido e Fasir, i quali si arrogarono il titolo di “capi dei santi”, essi impedirono ai creditori di esigere il rimborso dei debiti, occuparono con la forza i mercati, si proclamarono vendicatori dei torti e delle ingiustizie perpetrate dai grandi proprietari, obbligando spesso i padroni che riuscivano a catturare a trainare i carri su cui sedevano i loro schiavi, ecc.; anche se non di rado queste motivazioni ideali divennero pretesti per saccheggi ed eccidi indiscriminati.

Mosaico deli inizi del IV secolo conservato al Museo del Bardo a Tunisi che mostra una villa romana dell'Africa settentrionale.
Mosaico deli inizi del IV secolo conservato al Museo del Bardo a Tunisi che mostra una villa romana dell’Africa settentrionale.

Secondo la testimonianza di un vescovo africano i “circumcelliones” erano “bande di briganti, che si dicono “santi” e che si aggirano minacciosi per le campagne. Nessun proprietario può vivere tranquillo: i capi dei “santi” mandano ai signori lettere ricattatorie con le quali ingiungono di consegnare le ricevute dei debiti o i documenti comprovanti l’acquisto di schiavi. Se i signori tardano ad obbedire questi pazzi fanatici invadono le fattorie, rubano il bestiame, saccheggiano le ville”.  S. Agostino definì le loro bande “perditorum hominum dementissimi greges”, che scorrazzavano per le campagne circondando soprattutto i granai, abitudine da cui appunto il dottore cristiano fa derivare il termine “circumcelliones”.

Il movimento che all’inizio aveva un carattere puramente sociale, ne assunse poi anche uno religioso, quando dopo la presa della città di Bagai, che era il quartier generale dei “circumcelliones”, ed il massacro della sua popolazione ad opera delle truppe di Costantino, essi si accostarono ai “donatisti” i membri di una setta cristiana scismatica, di carattere rigoristico e millenaristico, divenendone, per così dire, il braccio armato.

La setta donatista era sorta al tempo della persecuzione di Diocleziano e degli altri tetrarchi (9): com’è noto, gli editti imperiali (dei quali abbiano parlato diffusamente in precedenza) imponevano ai cristiani di recarsi al foro a compiere un’offerta di incenso davanti alla statua dell’imperatore e per quanto riguarda i vescovi di consegnare alle autorità i libri sacri. Una parte non piccola del clero obbedì agli ordine dei magistrati -e pertanto costoro furono detti “traditores” (dal verbo latino “trado, -ere”=consegnare)- da cui deriva il significato italiano di “traditore”-. Tra di essi il vescovo di Cartagine, Mansurio, il quale dopo la fine delle persecuzioni, fu accusato pure di mancata solidarietà con le sue “pecorelle” finite in carcere: infatti, mentre molti facevano a gara per portare cibo e bevande ai detenuti (si tenga presente che fino ai tempi moderni al mantenimento dei prigionieri provvedevano i loro amici e parenti), egli avrebbe posto delle sentinelle davanti al carcere per ostacolare questi atti di carità. Mansurio si giustificò dicendo che aveva soltanto cercato di impedire che i reclusi per delitti comuni approfittassero del buon cuore dei cristiani per vivere alle loro spalle (10).

Il  vescovo, sostenuto da altri prelati, affermò pure che troppi fanatici in cerca di martirio avevano provocato le autorità e assunto inutili atteggiamenti di sfida, coinvolgendo altre persone, e che costoro non avrebbero dovuto essere venerati come martiri. Ma una parte della chiesa africana non accettò queste giustificazioni; dopo la morte di Mansurio nel 311, il gruppo degli intransigenti non riconobbe come suo successore il diacono Ceciliano, -anch’egli un “lapsus” (11)-, e si staccò dagli ortodossi, aprendo in tal modo uno scisma: dal nome del loro primo vescovo, Donato, -soprannominato “il Grande” per la sua eloquenza-, i dissidenti furono detti “donatisti”.

Dai donatisti, che diedero loro una sorta di “copertura ideologica” e di nobilitazione ideale, i “circumcelliones” furono definiti “agonisti” (combattenti) e “milites Christi”. Durante le loro scorrerie queste bande non si servivano di spade, poiché nel Vangelo si dice che a S. Pietro fu detto di riporre la spada che aveva sfoderato quando tentò di difendere Gesù al momento dell’arresto; ma nondimeno si servivano di altre armi, e in particolare di bastoni, -da essi chiamati “israeliti”-, con i quali perpetravano continui atti di violenza. Usavano malmenare le loro vittime senza arrivare ad ucciderle, ma lasciandole così gravemente ferite che la morte sopraggiungeva per esse dopo poco tempo. Al tempo di S. Agostino tuttavia avevano abbandonato il pregiudizio contro la spada e si valevano di qualunque tipo di arma avessero potuto trovare. Il loro grido di battaglia era “Deo laudes” e allora non si potevano incontrare banditi più terribili.

Veduta delle rovine di Cartagine.
Veduta delle rovine di Cartagine.

Spesso cercavano volontariamente la morte, considerando il suicidio alla stregua del martirio, e il modo preferito con cui ponevano fine ai loro giorni, sperando nelle vita eterna, era di lanciarsi nel vuoto da alte rupi; oppure si gettavano nell’acqua o nel fuoco. Ma talvolta, -e questa è la cosa più grave- facevano in modo di ricevere la morte dalla mano di altri, sia inducendo i magistrati a condannarli a morte per le loro razzie e violenze, sia minacciando i passanti di ucciderli, se essi non avessero acconsentito alla loro richiesta di farsi sopprimere. Il teologo siriaco Teodoreto di Cirro (393-458) tramanda che gli “agonisti” erano soliti annunciare la loro intenzione di andare incontro al martirio assai prima di attuarla, in modo da essere ben nutriti e ricevere un trattamento di favore: “Alcuni di questi fanatici, ingrassati come fagiani, incontrarono un giovane e gli misero in mano una spada, con la minaccia di ucciderlo se avesse rifiutato. Egli finse di temere che dopo averne ucciso qualcuno gli altri avrebbero potuto mutare parere e vendicare la morte dei compagni: pertanto pretese che fossero legati. Costoro si mostrarono d’accordo: così, mentre erano indifesi, il giovane diede a ciascuno di essi una sonora battitura e indi se andò per la sua strada” (Haereticarum fabularum compendium, IV, 6).

Tuttavia alla lunga gli atti di criminalità compiuti dai circumcelliones-agonisti, il carattere sacrilego e vietato dai canoni ecclesiastici del loro pseudo-martirio, specie quelli attuati con il suicidio, infastidirono gli stessi vescovi donatisti, i quali chiesero e ottennero l’intervento del generale Taurino per combattere questi eccessi e reprimere le rivolte. Questi sconfisse i circumcelliones nei pressi della cittadina di Ottava, in Numidia, dove i ribelli si erano asserragliati. Tuttavia bande di “circumcelliones” scamparono alla strage e produssero gravi danni ancora per molto tempo.

Nonostante i tumulti sociali da loro provocati, durante i quali era difficile distinguere il bracciante miserabile dal bandito, e le molteplici e vigorose repressioni che ne seguirono, il movimento dei “circumcelliones” perdurò fino all’invasione dei Vandali (429-439).

CONTINUA NELLA SETTIMA PARTE

Note

1) Ossirinco è un’antica città del medio Egitto che fu un importante centro amministrativo in età romana e dove alla fine dll’800 furono rinvenuti da due archeologi inglesi numerosissimi papiri, che grazie alla collocazione del sito, che non veniva toccato dalle inondazioni del Nilo, e al clima stabilmente secco e ventilato, si erano conservati in ottime condizioni. In questi papiri, databili tra il I e il IV secolo, si trovano sia testi storici e letterari, -soprattutto in greco, ma pure in copto, aramaico e latino-, sia documenti amministrativi e privati. Per quanto riguarda il papiro che illustra il procedimento della “subsortitio”, nel testo in cui ho reperito la notizia (Cristina Suraci: “Dalle frumentationes alle distribuzioni di pane”) non è precisato se si riferisca a quanto avveniva a Roma (cosa che mi sembra improbabile), oppure descriva il funzionamento delle “frumentationes” in un centro di provincia che doveva essere simile a quello di Roma.

2) Augusto aveva suddiviso la città di Roma in 14 circoscrizioni, dette “regiones”. La nona era quella dove si trovava il Circo Flaminio.

3) l’Egitto era il principale “granaio” dell’Impero Romano poiché le annuali inondazioni del Nilo rendevano le terre circostanti fertilissime e risparmiavano ai contadini la fatica di dover compiere opere di irrigazione.

4) peraltro anche Traiano mostrò limiti e ombre, forse inevitabili per la posizione di governo che rivestiva: infatti pure egli indulse alla deplorevole passione del popolo per i “ludi circenses” (certamente l’aspetto più brutto e discutibile del mondo romano) e indisse in alcune occasioni, specie dopo la sua vittoriosa campagna di conquista della Dacia, grandiosi giochi che risolsero in immani carneficine di animali.

5) per quanto riguarda l’olio e la carne vi erano già state delle distribuzioni saltuarie nel III secolo a partire da Settimio Severo, specie sotto Alessandro Severo (alla cui politica umanitaria per molti aspetti Aureliano si rifece). Della distribuzione di sale invece si ha solo una testimonianza tarda nel “Cronografo romano” del 354, in cui si afferma che Aureliano “panem, oleum et sal iussit dari gratuite”. Quanto al vino, -anch’esso un “genere” di largo consumo nell’antichità greco-romana-, è probabile che fosse venduto a prezzo ridotto.

6) dalla metà del II secolo fu chiamato “clìbanus” anche un tipo di corazza metallica molto grande e rigida, -ben diversa della “lorica”, la corazza propria dell’esercito romano-, tipica della cavalleria pesante e in origine propria di reparti della cavalleria arsacide e sassanide. In seguito fu adottata anche da reparti di cavalleria pesante romana; “clibanarii” si chiamavano i cavalieri che si difendevano con tale corazza e i cui cavalli erano in genere a loro volta ricoperti con una sorta di gualdrappa di placche metalliche (che prelude a quelle analoghe del mondo medioevale). I “clibanarii” erano spesso associati e talora confusi con i “catafratti”, altro corpo di cavalleria presente nei primi secoli dell’era volgare negli eserciti barbari e orientali, ma poi “copiati” dai Romani, la cui corazza invero non era in unico pezzo, ma costituita di scaglie. I “clibanarii” dell’esercito di Zenobia furono sonoramente sconfitti nel 272 dalla cavalleria leggera romana di Aureliano nelle battaglie di Immae e di Emesa. E’ tuttavia incerto se il nome dell’armatura sia una scherzosa o ironica designazione metaforica con il nome del forno portatile, a causa della sua rigidezza, o sia l’adattamento di un termine persiano. E’ probabile che il termine persiano sia poi stato accostato a quello latino (di origine greca, “κρìβανος”).

7) ciascun cittadino doveva procurarsi a spese proprie l’armamento e quindi a seconda delle possibilità economiche poteva far parte di in certo corpo dell’esercito.

8) dopo la riforma di Diocleziano, che aveva moltiplicato il numero delle province, le province dell’Africa romana, -che andava dalla grande Sirte alle coste atlantiche, e dunque non comprendeva né l’Egitto, né la Libia (la quale a sua volta corrispondeva solo alla parte orientale dell’attuale Libia) erano da ovest ad est: Mauretania Tingitana; Mauretania Caesariensis, Numidia Sitifensis, Numidia Cirtensis, Numidia Militiana, Africa proconsularis Zeugitana, Africa proconsularis Byzacena, Tripolitania. La prima di queste province, la Mauretania Tingitana (così detta dalla città di Tingis, l’attuale Tàngeri) era compresa nella “diocesis Hispaniarum”; le altre nella “diocesis Africae”.

9) gli editti di Diocleziano sulla persecuzione dei cristiani furono in effetti applicati in misura diversa nelle varie prefetture e diocesi dell’Impero: nelle prefetture dell’Illirico e d’Oriente governate da Galerio, -il principale ispiratore della politica anticristiana di Diocleziano-, e da Massimino Daia le misure anticristiane furono applicate con grande severità, mentre nella prefettura delle Gallie, assegnata a Costanzo Cloro, il padre di Costantino, in maniera molto più blanda, tanto che non si ebbero gravi condanne contro le persone, ma solo sequestri di beni e di edifici sacri.

10) appare piuttosto strana questa libertà di movimento per un esponente di un gruppo religioso perseguitato. Peraltro, da quanto abbiamo sopra esposto -e ad integrazione di quanto si è detto a proposito dei rapporti tra Cristiani e impero Romano-, si può arguire che pure nel pieno della persecuzione più sistematica, quella di Diocleziano, la condanna capitale non fosse la pena normalmente comminata solo per la semplice appartenenza alla chiesa cristiana o la professione di fede cristiana. Perché fosse irrogata la condanna a morte, specie con esecuzioni strazianti, occorreva che alla dichiarazione di essere cristiano fosse congiunta un’accusa (non necessariamente vera) di “flagitium” (cioè di azione vergognosa e scandalosa) e che la persona avesse compiuto atti o tenuto un comportamento fortemente sprezzante verso i culti romani e l’autorità imperiale. Senza contare il fatto che solo ai membri delle fasce inferiori della società (gli “humiliores”) erano riservati i supplizi più crudeli, -che comunque venivano raramente irrogati alle donne-: dal che si deduce come le “passio” di cui sono protagoniste aristocratiche fanciulle come le sante Cecilia, Agnese, Lucia, Barbara, Caterina d’Alessandria, ecc., e che traboccano di orrori siano in larga parte, se non del tutto, leggendarie. Le “passiones” dei martiri sono indubbiamente ispirate e influenzate dalle trame dei romanzi greci d’amore e d’avventura, i cui eroi ed eroine subiscono spesso analoghi trattamenti, da cui si sottraggono con il soccorso di qualche divinità, -cosa che avviene pure nei testi cristiani, ma con la differenza che alla fine devono soccombere a qualche tortura per divenire martiri. Inoltre  -come abbiamo già detto-, i membri delle correnti e delle sette cristiane più intransigenti e rigoristiche, come quella dei montanisti,-ai quali appartenne Tertulliano, il quale tuttavia a quanto si sa non subì mai alcuna pena o condanna per essere cristiano-, che si erano sviluppate soprattutto a partire dalla fine del II secolo e che teorizzavano un conflitto e un contrasto insanabile tra la fede cristiana e il mondo peccatore e votato alla perdizione, contrasto visto spesso in una prospettiva “millenaristica”, -ovvero della prossima fine del mondo-, non di rado cercavano volontariamente il martirio, assumendo un atteggiamento sprezzante verso le autorità romane, che ovviamente procurava loro il desiderato supplizio. L’accusa principale contro i cristiani, specialmente nel periodo della tetrarchia, era quella di non essere fedeli all’imperatore poiché si rifiutavano di celebrare o partecipare al culto imperale che per essi era un atto religioso (e dunque inaccettabile e inconciliabile con la loro fede), mentre per i funzionari era un mero atto di lealismo verso lo stato che non implicava un’adesione ad una credenza religiosa. Si direbbe peraltro, -ma questa è un’osservazione personale- che già nelle comunità cristiane vi fosse un contrasto di fatto se non di principio tra coloro che consideravano l’offerta di incenso all’imperatore un atto formale e “politico” (tanto più che si trattava di bruciare un po’ di incenso, non di partecipare a un vero rito) e chi invece la riteneva una vera e propria manifestazione religiosa, incompatibile con l’esclusivistica fede cristiana. Sembra inoltre che anche nel pieno della persecuzione più violenta e sistematica, i cristiani avessero una certa limitata libertà di movimento, anche attraverso tentativi di corruzione o mancanza di zelo dei magistrati. Quanto alla corruzione di funzionari e soldati per salvarsi dall’arresto, dai supplizi od ottenere comunque un trattamento migliore, ne abbiamo testimonianza anche da autori quali Luciano di Samosata.

11) “lapsi” (dal latino “labor, lapsus sum, labi”=scivolare, cadere), -letteralmente erano detti i cristiani che avevano ubbidito agli ordini dei magistrati e incensato il simulacro dell’imperatore o consegnato nelle loro mani libri e oggetti sacri. La dottrina prevalente era quella di riammettere i “lapsi” nella comunione ecclesiastica, previa penitenza, -decisione confermata anche nel concilio di Elvira in Spagna del 306 (la celebrazione di un concilio in un periodo ufficialmente di persecuzione conferma che nei domini di Costanzo Cloro, nei quali rientrava la Spagna, le disposizioni anticristiane di Diocleziano e Galerio rimasero per lo più inapplicate)-; ma vi fu chi come i donatisti, sosteneva una linea intransigente.

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