ENIGMI, MISTERI E PARADOSSI (seconda parte)

Che cosa è un paradosso? E’ un problema che sembra infrangersi contro le barriere della logica e al quale dare una soluzione accettabile appare impossibile, ovvero un ragionamento il quale, sebbene corretto sul piano formale, risulta nella pratica irreale o addirittura assurdo e contrario alla comune esperienza.

I paradossi, specie quelli ideati in età antica e medioevale, furono elaborati per dimostrare i limiti della logica e la sua incapacità di giungere a conclusioni indubitabili, oltre il carattere convenzionale e fittizio dei suoi assunti. Si tenga inoltre presente che la logica antica (aristotelica, stoica) e quella medioevale hanno un carattere formale; il suo strumento principe è il “sillogismo”, cioè il processo mentale attraverso cui dalla constatazione, supposta certa in via convenzionale di determinati eventi, si giunge attraverso varie tappe ad una conclusione, la quale a sua volta può servire di base a ulteriori dimostrazioni: la logica dunque non giudica sulla “verità” né degli assunti iniziali, né delle conclusioni, ma sulla correttezza del procedimento.

In età moderna si è sostenuto che l’esistenza dei paradossi sia dovuta in realtà non ai limiti della logica, e in definitiva della facoltà raziocinante, della “ragione” (intesa ora in senso cartesiano-leibniziano e non platonico-aristotelico), bensì ai limiti del linguaggio umano, poiché come abbiamo detto, la logica antica e medioevale si fonda su un procedimento discorsivo (ed infatti il termine stesso “logica” deriva da Λoγoς, la “parola”, il “discorso”, come espressione e rappresentazione fonetica e mentale di “idee” o di schemi ed indica e insegna quindi le regole per ragionare in modo corretto).

Nella seconda metà dell’800 fu elaborata, -ad opera principalmente del filosofo Peirce e dei matematici G.Peano e G.Frege-, una nuova logica di carattere simbolico-matematico (e non linguistico), i cui procedimenti erano assai più rigorosi perché fondati non sull’imprecisione, la soggettività e la convenzionalità del linguaggio, ma su un simbolismo matematico.

Ma pure questa nuova logica venne svalutata dalla critica mossa alla matematica da filosofi e matematici insigni, quali soprattutto Bertrand Russell, i quali sostennero che le strutture matematiche stesse e i procedimenti attraverso i quali esse vengono messe reciprocamente in relazione altro non siano che un processo mentale che crea sé stesso (e quindi anch’esso soggettivo, -ovviamente non nel senso di arbitrario, ma di relativo all’uomo soggetto pensante-): e misero in evidenza il carattere non oggettivo di esso, così che i suoi fondamenti non sarebbero reali, ma convenzionali -e dunque considerati ovvi e indiscutibili solo per un inveterato abito mentale o per quelle che sono le strutture psichiche dell’uomo-; in questo senso le loro osservazioni si legano per certi aspetti alla critica alla scienza in generale fatta dall’empiriocriticismo.

Dall’elaborazione dei procedimenti logico-linguistici attraverso strumenti matematici si è capito che il linguaggio non può essere considerato una semplice intelaiatura di nessi logici, di predicati, di quantificatori, connettivi, segni e simboli (il “linguaggio oggetto”), del quale gli elementi grammaticali espressivi e semantici sarebbero solo per così dire un eccipiente, un elemento esornativo di valore e di carattere psicologico; insomma che sarebbe arduo se non impossibile fare un discorso, soprattutto quando si voglia comunicare contenuti emotivi o puramente interiori, solo attraverso segni e simboli e non si può ridurre il linguaggio a formule matematiche, e che d’altro canto non si può giungere con tali procedimenti a un criterio di “verità” sostanziale e non solo formale (per cui in pratica ci si è ritrovati a constatare che la “nuova” logica simbolica non si discosta poi molto, a parte l’astrusità, da quella tradizionale aristotelica e scolastica).

Tuttavia non possiamo a fare meno di sottolineare che con l’avvento del linguaggio formale elaborato dalla logica simbolico-matematica sono state poste le basi della cosiddetta “intelligenza artificiale”, con la conseguente invenzione dei primi “elaboratori elettronici”: dunque da questa logica è partita, già da ormai quasi un secolo, quella che a buon diritto è stata definita la “rivoluzione informatica”.

Il parallelo avvento delle geometrie non euclidee, della fisica quantistica di Max Planck, la teorizzazione dei rapporti e dei legami tra mondo psichico e realtà esterna esplorati e studiati da Freud e da Jung, -del quale ultimo ricordiamo in particolare la teoria della “sincronicità”, ovvero delle “coincidenze significative”, -secondo la quale eventi diversi e separati sono legati e interconnessi tra di loro, pur senza avere una relazione causa-effetto di tipo fisico-, parvero dimostrare, o quanto meno porre le premesse, per poter dimostrare l’esistenza di diversi piani di realtà, oltre quello fisico, postulata o ammessa in precedenza solo dalle dottrine metafisiche, mistiche ed esoteriche.

Ora non ci addentreremo nella questione del carattere formale o sostanziale della logica, -e in senso lato della “ragione”-, e tanto meno nel complesso problema della validità, delle funzioni e dei limiti della scienza. Riportiamo a titolo di esempio, come spunto di riflessione e come esercizio di allenamento mentale alcuni paradossi divenuti celebri, dall’antichità al 900.

PARADOSSO DI ACHILLE E DELLA TARTARUGA

Il filosofo Zenone di Elea, vissuto nel v sec. a. C., fu il principale discepolo di Parmenide, e continuatore del pensiero del maestro, il quale sosteneva l’assoluta unità e immutabilità dell’essere e il carattere illusorio del movimento.

Egli per difendere le sue tesi, elaborò alcuni paradossi, dei quali il più conosciuto è quello tramandato come “paradosso di Achille e della tartaruga”, che è riportato da Aristotele nella “Fisica” (239b-240a).

Achille, -il più veloce dei Greci-, viene sfidato a una gara di corsa da una tartaruga, che, -come ognuno sa- è uno degli animali più lenti (sebbene in certe circostanze possa dimostrarsi meno lenta di quanto non si creda). Poiché sa di essere molto più rapido, Achille decide di concedere alla sfidante un certa distanza di vantaggio; la gara ha inizio: Achille dovrà impiegare un dato tempo per giungere al punto donde era partita la tartaruga; quest’ultima nel frattempo avrà percorso un altro tratto di strada.

Achille su una ceramica attica a figure rosse.
Achille su una ceramica attica a figure rosse.

Quando Achille raggiungerà la nuova posizione dove era arrivata la tartaruga, questa sarà avanzata di un altro tratto, precedendolo ancora… e così via: ogni volta che Achille giungerà in un punto toccato dalla tartaruga prima di lui, ella l’avrà sopravanzato. In tal modo la distanza tra Achille e la tartaruga, pur riducendosi sempre più, non verrà mai colmata del tutto e Achille “piè veloce” non riuscirà a raggiungere la lenta tartaruga che riuscirà così vincitrice della gara.

Come abbiamo detto, Zenone voleva corroborare con il suo esempio l’insegnamento di Parmenide, il quale considerava ingannevoli i sensi e riteneva che la realtà fosse un unico, immutabile tutto, mentre la pluralità e il movimento sono illusione: per Zenone all’osservatore superficiale sembra che Achille raggiunga la tartaruga, ma entrambi non sono che parti di unico ente immutabile e il loro moto è solo apparente.

In effetti critiche al movimento e al molteplice simili a quelle di Parmenide e e Zenone sono state formulate anche nel 900 da alcuni filosofi della scienza, quali Ludwig Wittgenstein (1889-1951) e Richard Rorty (1931-2007).

Il punto debole del ragionamento di Zenone sta nel ritenere che, poiché la tartaruga percorre un numero infinito di tratti, la somma delle lunghezze di tali tratti debba essere anch’essa infinita. Ma così non è: dal momento che le distanze che la tartaruga percorre diminuiscono progressivamente, dalla loro somma si ottiene un valore finito e non infinito, uguale allo spazio percorso dalla tartaruga prima di essere raggiunta.testudo-graeca-ibera

Penso che sia interessante per i lettori sapere che Lewis Dodgson Carroll (1832-1898), scrittore e matematico, famoso soprattutto per essere l’autore di “Alice nel Paese delle Meraviglie” (nel quale tra l’altro paradossi, sofismi e giochi logici sono assai presenti), compose un saggio intitolato “Quel che la Tartaruga disse ad Achille”, dove immagina un dialogo avvenuto tra i due sfidanti al termine della corsa. Secondo Carroll, Achille, -con buona pace di Zenone-, ha superato la Tartaruga e vinto la gara, dopo di che si è comodamente seduto sulla sua corazza per riposarsi:

“E così lei è arrivato alla fine del percorso? -disse la Tartaruga- anche se esso realmente consisteva di una serie infinita di lunghezze? Mi pareva che qualche bello spirito avesse dimostrato che la cosa non poteva esser fatta”.

“Può essere fatta -rispose Achille- è stata fatta! Solvitur ambulando. Vede, le distanze diminuivano continuamente, quindi…”

“Ma se fossero aumentate continuamente? -aggiunse la Tartaruga- Allora che sarebbe successo?”

“Allora non sarei stato qui- replicò con modestia Achille- e lei a quest’ora avrebbe fatto parecchie volte il giro del mondo!”.

Nel prosieguo dello strano dialogo, Carroll utilizza la struttura del paradosso per dimostrare l’impossibilità dei sillogismi, ovvero il dedurre una conclusione vera derivante da due premesse altrettanto vere, infatti la Tartaruga propone un’altra sfida ad Achille, questa volta nel campo della logica.cdea8e5d3b5396d8ae53f38155c199

La Tartaruga, cercando di superare la logica formale, costringe Achille a compiere un numero infinito di passi allo scopo di poter dedurre dalla verità delle proposizioni A e B, -le premesse-, la verità di Z -la conclusione-. Ogni qual volta Achille sembra giungere alla conclusione, la scaltra Tartaruga gli chiede di formalizzare e scrivere su un taccuino, -che egli ha estratto, insieme a una matita, dal suo elmo (poiché “pochi guerrieri greci avevano tasche a quei tempi”)- una regola che autorizzi il procedimento deduttivo. Ma, -come osserva alla fine la Tartaruga- saranno i logici del XIX secolo a sviluppare fino in fondo le conseguenze che derivano dalla costruzione di enunciati concatenati, arrivando a scoprire l’incompletezza della matematica, avvenuta poi ad opera del logico austriaco Kurt Godel (1906-1978), il quale nel 1931 formulò quelli che sono definiti i “teoremi dell’incompiutezza”.

E il dialogo così si conclude: “La Tartaruga stava dicendo: -Hai scritto quest’ultimo passaggio? Se non ho perso il conto, fanno mille e uno. Ne abbiamo ancora parecchi milioni. E ti dispiacerebbe, prendilo come un favore personale, considerando tutti gli insegnamenti che questo nostro dialogo offrirà ai logici del XIX secolo, ti dispiacerebbe, con un gioco di parole che farà in quell’epoca mia cugina, la Finta Tartaruga, cambiare nome e chiamarti “Insegnaci”?”.

“Come vuoi! -replicò allora lo sfinito guerriero con un tono cupo di disperazione, celandosi il volto tra le mani- A patto che tu, con un gioco di parole che la Finta Tartaruga ignora, ti ribattezzi “Uccidi-Tranquillità”!”. Chissà se Zenone immaginava che la tartaruga del suo paradosso fosse anch’ella filosofa!

La “Finta Tartaruga” (the Mock Turtle) a cui fa cenno la Tartaruga alla fine del suo discorso, parlandone come di una sua cugina che sarebbe vissuta molti secoli dopo, è un personaggio (non molto conosciuto a chi non abbia letto il libro) che appare nella più celebre opera di Carroll, “Alice nel Paese delle Meraviglie”, -precisamente nei capitoli IX e X-. Il nome di questo strano essere deriva dalla “zuppa di finta tartaruga”, un piatto assai in auge nell’Inghilterra vittoriana, che si preparava con la testina e gli zampetti di manzo cotti con diverse erbe aromatiche (anche se dovreste sapere che essendo animalista mi dà una certa tristezza parlare di animali come di cibi…):

La Finta Tartaruga e il Grifone insieme con Alice in una illustrazione di John Tenniel.
La Finta Tartaruga e il Grifone insieme con Alice in una illustrazione di John Tenniel.

dunque prendendo alla lettera codesta espressione, come se la “finta tartaruga” fosse un essere reale, Carrol creò questa figura, che è descritta, e rappresentata, con l’aspetto di una tartaruga con la testa bovina, nonché le zampe posteriori e la coda, che fuoriescono dal carapace, ugualmente bovini. Quando Alice le si avvicina in compagnia del Grifone, -altro enigmatico personaggio dell’opera-, ella è in lacrime e singhiozza in modo penoso.

Invitata a narrare la sua triste storia, l’insolita creatura spiega che un tempo era una vera tartaruga e parla delle esperienze scolastiche durante la sua infanzia. L’esposizione della “Finta Tartaruga” è ripiena di giochi di parole e di assonanze, difficilmente traducibili (ed è per questo che viene chiamata in causa dalla sua antenata e da Achille come esperta di giochi di parole); è certo però che l’autore intende fare una critica dei sistemi pedagogici del suo tempo. La narrazione viene però interrotta per dare inizio alla “Quadriglia delle Aragoste”, che viene illustrata ad Alice dalla “Tartaruga” e dal Grifone con tanto di canti e di filastrocche.

Un altro celebre paradosso di Zenone contro l’effettiva realtà del movimento è quello della freccia. Durante il percorso dall’arco dove viene scoccata al punto di arrivo, la freccia in ciascun istante occupa solo un singolo spazio pari alla sua lunghezza e sarà quindi ferma in ogni spazio (o segmento di spazio) in cui venga a trovarsi; ma da una somma di stati immobili non si può produrre lo spostamento, per cui il suo moto è solo apparente. In questo caso il presupposto errato su cui si fonda il paradosso è che esistano delle unità indivisibili di spazio e di tempo, e quindi spazio e tempo sono concepiti come una sequenza omogenea di elementi uguali e isolati, e non come un “continuum” divisibile all’infinito.

PARADOSSO DI EPIMENIDE

Epimenide è un filosofo presocratico di origine cretese, vissuto tra l’VIII e il VII secolo a. C., la cui vita, quale è narrata dagli antichi autori presenta caratteri semileggendari.

Le principale notizie su di lui ci sono tramandate da Diogene Laerzio, scrittore greco vissuto agli inizi del III secolo, autore di una celebre opera in 10 libri nella quale espone la vita e, per sommi capi, il pensiero di 84 filosofi greci, intitolata appunto “Vite dei Filosofi”.

Nel libro primo di tale opera, a proposito di Epimenide, Diogene Laerzio questo ci ha lasciato:

“Il padre di Epimenide, stando a quanto affermano Teopompo e molti altri, fu Festio, -alcuni sostengono però che fosse Dosiade, ed altri ancora Agesarco-. Sebbene fosse nato Cretese, di Cnosso, non ne aveva l’aria, per via della lunga capigliatura (1).

Veduta delle rovine del palazzo reale di Cnosso a Creta.
Veduta delle rovine del palazzo reale di Cnosso a Creta.

Costui fu mandato una volta dal padre alla ricerca di una pecora smarrita, ma, giunto il mezzodì, si allontanò dalla strada ed entrato in una grotta si addormentò. In quel luogo dormì per 57 anni; ridestatosi, si rimise a cercare la pecora, credendo di aver dormito solo per poco tempo. Non avendola rinvenuta, ritornò al proprio campo, ma trovò ogni cosa mutata d’aspetto ed anche la proprietà del campo era passata ad altri. Tutto dubbioso, si diresse allora verso la città. Quivi, volendo entrare nella sua casa, si imbattè in alcune persone che gli chiesero chi fosse, fino a che non incontrò il suo fratello minore, ormai divenuto vecchio, e da lui apprese quanto era successo.

La fama di questo evento prodigioso si sparse allora tra i Greci, i quali ritennero che Epimenide fosse amatissimo dagli dei; così che gli Ateniesi, essendo afflitti da una grave pestilenza, ed avendo avuto dalla Pizia il responso di purificare la città, inviarono a Creta una nave sulla quale era imbarcato Nicia, figlio di Nicerato, per invitarlo ad Atene. Egli vi si recò durante la 46° Olimpiade (596-593 a. C.), purificò la città e fece cessare la peste nella seguente maniera: radunate alcune pecore dal vello nero ed altre dal vello bianco, le condusse sull’Areopago. Da lì le lasciò andare dove volessero, dopo aver comandato a coloro che erano incaricati di seguirle di sacrificarle al nume appropriato nello stesso luogo ove ciascuna di esse si sarebbe fermata. In tal modo Epimenide fece finire la pestilenza; per tale ragione tuttora è possibile rinvenire nei territori delle tribù ateniesi [i “demi”] delle anonime are, in memoria  delle purificazioni allora compiute. […] Gli Ateniesi decretarono di offrirgli la ricompensa di un talento e la nave che lo riconducesse a Creta. Egli non accettò il denaro, ma fu promotore di un’alleanza tra Cnosso ed Atene”.

Secondo quanto riportato da diverse fonti la pestilenza sarebbe scoppiata quale castigo per punire l’empietà di alcuni membri della famiglia degli Alcmeonidi (2), -una delle più ragguardevoli di Atene- i quali avevano ucciso alcuni dei loro avversari presso le are delle divinità dove si erano ricoverati per sfuggire al massacro. Per far cessare il flagello; Epimenide, che come abbiamo detto godeva fama di essere addentro alle divine cose, fu chiamato da Solone per eseguire l’espiazione. Nel libro di Diogene Laerzio è riportata anche una lettera che Epimenide avrebbe scritto a Solone, invitandolo a recarsi a Creta qualora Pisistrato (3) avesse recuperato il potere in Atene.

“Tornato in patria, dopo non molto tempo Epimenide morì, come asserisce Flegone nel suo libro che tratta dei longevi, dopo aver vissuto 157 anni; secondo i Cretesi visse invece 299 anni, mentre Senòfane di Colofone afferma di aver udito che sarebbe vissuto per 154 anni. […] Narrano alcuni che i Cretesi celebrano sacrifici in suo onore, come ad un nume: sostengono infatti che egli eccelse nell’arte divinatoria, ed avendo osservato la collina di Munichia nei pressi di Atene, disse che gli Ateniesi erano ignari di quanti mali sarebbe stata causa per loro questa modesta altura, altrimenti l’avrebbero demolita con i loro denti”.

Dai pochi frammenti rimasti delle sue opere. -tra le quali ricordiamo “Genesi dei Cureti e dei Coribanti”, “Teogonia”, “la costruzione della nave Argo”-, sembra che si riconnettesse alle teogonie e cosmogonie di Esiodo e di Orfeo, ponendo come primi principi l’Etere e la Notte, dai quali sarebbe stato generato il Tartaro, il mondo infero; dalla commistione di queste tre primordiali nature sarebbero infine nato i Titani e l’Uovo cosmico.

Questa figura di sapiente dai tratti profetici -così come molti dei filosofi presocratici- è tuttavia rimasta celebre soprattutto per il paradosso che gli venne attribuito, il cosiddetto “paradosso del mentitore” (o “di Epimenide”): infatti egli avrebbe dichiarato che “tutti i Cretesi sono bugiardi”: poiché egli stesso era cretese, in quanto tale avrebbe dovuto anch’egli appartenere alla “categoria” dei mentitori: e dunque o l’affermazione era vera -e pertanto contraddiceva il fatto che “tutti” i Cretesi erano bugiardi (poiché in quell’occasione Epimenide avrebbe detto il vero)-; oppure era falsa, e in tal caso avrebbe mentito lui affermando che tutti Cretesi mentivano sempre.

Secondo la tradizione Filita (o Fileta) di Coo (340-285 a. C. circa), filosofo e grammatico, ma noto soprattutto quale poeta elegiaco, si impegnò tanto per dare una soluzione al paradosso, che a causa dei suoi intensi sforzi mentali perse la vita, come è testimoniato dal suo epitaffio: “Viandante, io sono Filita. L’argomento chiamato “il mentitore” e le profonde meditazioni notturne mi condussero a morte”.

Il paradosso è noto anche in una versione formulata secondo la tradizione dal filosofo Eubùlide di Mileto: “Un uomo dice: -Io sto mentendo-“, che contiene sempre la contraddizione -o “antinomia”- del dire il vero se si mente, o si mente se si afferma un dato reale.

Ad Eubùlide, filosofo vissuto nella seconda metà del IV sec. a. C., seguace di Euclide di Megara, discepolo di Socrate e fondatore della scuola filosofica “megarica”, -il quale si riconnetteva pure agli insegnamenti di Parmenide che aveva concepito l’Essere come uno, eterno e indivisibile- sono attribuiti altri celebri paradossi , -o meglio “argomenti sofistici”-, con i quali voleva dimostrare, un po’ come Zenone, l’impossibilità e il carattere solo apparente del movimento e del cambiamento, e che esamineremo oltre.

Del famoso paradosso detto “del mentitore” sono state formulate altre varianti, che presentano situazioni un po’ più complesse e talora con un embrione di sviluppo narrativo; in una ad esempio troviamo un’isola (Creta?) sulla quale vivono due bambini, dei quali uno dice sempre la verità e l’altro mente sempre: se uno di essi dice: “Sto dicendo una bugia”, si pone il seguente problema: se fosse quello che mente sempre, in questo caso direbbe il vero e dunque non sarebbe esatto dire che mente sempre; se fosse quello che è sempre veridico, direbbe la verità affermando che ha detto una bugia, e quindi ci sarebbe una lampante contraddizione (o più esattamente un'”aporìa”).

Secondo i logici moderni in un caso come questo il paradosso deriverebbe dal fatto che si è creata un’interferenza tra il piano del “linguaggio” (che cerca di rendere e descrivere esprimere le cose e le loro relazioni) e il “metalinguaggio” (4), che ha per oggetto i simboli e segni linguistici, sia fonetici sia grafici (e quindi gli elementi grammaticali): è ovvio che dire “io mento”, di per sé non significa nulla, poiché il verbo mentire viene usato avulso da una situazione e da un contenuto concreto. Tuttavia, tornando all’esempio dei bambini, se si supponesse che uno dica: “Ho visto un elefante volare… ma questa è una bugia!”, in realtà si riproporrebbe lo stesso dilemma, ma questa volta con un contenuto di comunicazione concreta e non in forma “metalinguistica”.

PARADOSSI DI EUBULIDE

Come abbiano detto sopra, ad Eubùlide di Mileto, oltre a una variante del paradosso del mentitore, sono attribuiti altri sei paradossi: dell’incappucciato (o di Elettra); del velato (o mascherato); del nascosto (o trascurato); del cornuto; del calvo; e del “sorite” (cioè del mucchio, -o dell’acervo-, in greco σωρìτης), che è forse il più conosciuto.

L'”incappucciato” (o Elettra): Elettra ignora che l’uomo che le si sta appressando è suo fratello Oreste, poiché egli ha il viso occultato da un cappuccio. “Conosci l’uomo che si avvicina? No! Se gli leviamo il cappuccio lo riconosci? Sì, è mio fratello! Dunque conosci e non conosci la medesima persona”.

Il “velato” (o il “mascherato”) -“enkekalummènos”-: “Conosci Corisco? Sì. Conosci quell’uomo che si sta avvicinando con il volto velato (o mascherato)? No! Eppure è Corisco, che affermavi di conoscere!”.

Il “cornuto” -“keratines”-: “Tutto quello che non hai perso, ce l’hai: è vero o falso? E’ vero! Ma non hai perso le corna: dunque hai le corna. Allora è falso! Non hai perso gli occhi: allora non hai nemmeno quelli!”. Questo paradosso è riferito da Aulo Gellio (Notes Atticae, XVI, 2) nella seguente forma: “Nam si ego istorum aliquem rogem: -Quicquid non perididisti, habeasne an non habeas, postulo ut aias aut neges-, utrumcumque breviter responderit, capietur. Nam si non habere se negaverit, quod non perdidit, colligetur oculos eum non habere, quos non perdidit; sin vero habere se dixerit, colligetur habere eum cornua, quae non perdidit. Rectius igitur cautiusque ita respondebitur: -Quicquid habui, id habeo, si id non perdidi-“; l’autore latino per parte sua suggerisce anche il modo onde risolvere il paradosso e rispondere alla argomentazioni capziose proprie dei ragionamenti dei Sofisti.

(Infatti se chiedessi a qualcuno di costoro -i Sofisti-: “hai o non hai qualcosa che non hai perso? esigo che tu dica sì o no!”, abbia egli dato l’una o l’altra risposta, essa sarà giusta. Infatti se avrà negato di possedere quanto non ha perduto, dovrà riconoscere di non avere gli occhi, non avendoli persi; se invero avrà detto di avere -quanto non ha perso-, dovrà ammettere di avere le corna, poichè non le ha perse. E pertanto un modo più giusto e saggio di rispondere -a tale domanda- è questo: “Tutto quello che ho avuto, ce l’ho, se non l’ho perduto”).4033975-Bunch-of-wheat-grain-on-white-background-Stock-Photo

Il “calvo” -phalakros-: si consideri un uomo che non sia calvo. Se gli si strappa un capello dalla testa, non diventerà certo calvo, e neppure se gliene viene strappato un secondo e un terzo…allora quando quest’uomo sarà calvo (o per meglio dire privo di capelli, poiché se i capelli strappati se sono sani ricresceranno, mentre la calvizie è una perdita irreversibile della chioma)?

Il “sorite”: un granello di sabbia non è un mucchio di sabbia; di certo nemmeno due granelli di sabbia si possono definire un mucchio; e così pure  tre, e quattro…: aggiungendo un solo granello a un gruppo che non è un mucchio non si ottiene un mucchio. Eppure i mucchi di sabbia esistono…come si può spiegare questo paradosso (che ovviamente vale anche per altri oggetti di minime dimensioni quali chicchi di grano e simili)? Quand’è che una somma di granelli o di chicchi si può definire un mucchio? Si potrebbe rispondere che si deve aggiungere non una singola unità, ma una pluralità di elementi, vale a dire un mucchio: ma questo significa che per creare un mucchio da uno o pochi elementi occorre un altro mucchio (5).

In un’altra versione del paradosso del sorite, il processo avviene al contrario, non per aggiunta ma per sottrazione: da un mucchio si toglie un elemento alla volta: qual è il momento in cui il mucchio cessa di essere tale? Dal fatto che non sia possibile individuare con precisione questo momento deriva che non può esistere il mutamento o la trasformazione.

Il “nascosto” -“diàlanthanon”-: “Alfa non conosce l’uomo che si sta approssimando e lo tratta come un estraneo. Eppure quell’uomo è suo padre. Dunque Alfa non conosce suo padre e si comporta con lui come un estraneo?”.

IL PONTE DEI BUGIARDI

In un capitolo del “Don Chisciotte”, il capolavoro di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616), -parte II, cap. 51-, trovasi la seguente storia:

Sancio Panza era divenuto governatore dell’immaginaria isola di Barattaria; in tale veste gli viene sottoposto un singolare caso, affinché egli dia il suo illuminato giudizio. Gli si presenta un forestiero il quale, alla presenza dei ministri dell’isola, gli sottopone una questione alquanto delicata e complessa in questi termini: “Signore, un largo fiume divide due territori di un medesimo dominio. […] Questo fiume era attraversato da un ponte e in capo ad esso una forca ed una sorta di tribunale con quattro giudici che applicavano la legge del signore del luogo, secondo la quale, -chiunque voglia passare sopra il ponte dall’una all’altra sponda dovrà prima dichiarare sotto giuramento  dove voglia dirigersi e che vada a farvi. Colui che abbia il vero giurato, sia lasciato passare; ma colui che sia colto in spergiuro, muoia impiccato, senza pietà per alcuno-. […] Successe dunque un dì che un uomo, invitato a giurare, pronunciò il giuramento e disse che passava con l’intenzione di andare a morire su quella forca e non per altro. I giudici meditarono sulla questione e dissero: -Se lasciamo passare quest’uomo, egli è spergiuro e secondo la legge dovrà morire; ma se lo impicchiamo, poiché egli ha giurato di andare a morire sulla forca e ha giurato il vero, secondo la medesima legge, deve essere lasciato libero”.ponte-del-diavolo

Dopo aver lungamente ragionato e riflettuto, Sancio Panza prende una decisione davvero salomonica, decretando che, poiché quel tale diceva sia il vero sia il falso, si dovesse lasciar passare di lui la parte che aveva giurato il vero ed impiccare la parte che aveva mentito. All’obiezione dell’interlocutore che in tal caso, dovendo dividere a metà quella persona, essa sarebbe comunque morta, l’avveduto governatore, dopo un lungo ragionamento, conclude che in caso i motivi per l’assoluzione bilancino quelli per la condanna, è bene far prevalere la misericordia, e dunque in pratica consiglia di risparmiare l’uomo (il quale d’altra parte, secondo quanto aveva dichiarato, voleva passare sul ponte al solo scopo di farsi impiccare).

Anche Aristotele nelle “Confutazioni sofistiche” aveva proposto un paradosso nella forma di un giuramento che si potesse nello stesso tempo rispettare e infrangere. Giurare di rompere un giuramento che si sta pronunciando è di per sé abbastanza assurdo; ma si potrebbe procedere in due passi, ovvero giurando di infrangere un successivo giuramento, che consiste nel giurare di non compiere una determinata azione: compiendo quell’atto, si infrange il secondo giuramento e si onora dunque il primo. Ove si considerino i due giuramenti come parti di uno solo, è pertanto possibile affermare che si è nello stesso tempo infranto e rispettato il medesimo giuramento, formulato in due parti (e questa sarebbe la soluzione del paradosso).

In modo analogo, lo Stagirita formulò il paradosso del disubbidiente: è possibile ad un tempo obbedire e non obbedire a un ordine? Anche in tal caso, si potrebbe comandare di disobbedire ad un successivo ordine, consistente nel proibire di compiere una certa azione: compiendola, si disubbidisce al secondo ordine e si ottempera al primo.

Una variazione del tema è stata narrata nel 1981 da Hans Freudenthal, matematico e filosofo tedesco (1905-1990), il quale trasse però l’argomento da una novella in versi del poeta Christian F. Gellert (1715-1769) (6). Un giorno un padre stava conducendo suo figlio a fare una passeggiata; a un certo punto il bambino disse una grossa bugia; allora il padre lo ammonì severamente dicendogli che di lì a poco avrebbero attraversato il Ponte dei Bugiardi, che sarebbe crollato qualora un bugiardo l’avesse attraversato. Allora il figlio, spaventato da quella prospettiva, confessò di avere mentito.

Che cosa accadde allorché i due attraversarono il ponte? Freudenthal diede questa risposta: “Il ponte crollò sotto il padre, il quale aveva evidentemente mentito, poiché non esiste alcun ponte dei bugiardi”. E’ chiaro però che se quanto aveva affermato il padre, e cioè l’esistenza del ponte dei bugiardi, era una menzogna, non avrebbe dovuto avvenire alcun crollo; se invece aveva detto la verità, sia pure in modo inconsapevole, il ponte non avrebbe dovuto ugualmente crollare; a meno che non si consideri una menzogna anche una verità detta credendo che sia falsa, ovvero in mala fede. Ma pure in questo caso si potrebbe obiettare che l’intento del padre non era cattivo, al contrario aveva finalità pedagogiche, cioè indurre il bambino a non dire bugie.

Come si può osservare, in tutti questi paradossi, e in diversi altri che sono stati formulati, quello che appare evidente è l’incapacità delle strutture logiche, e non solo linguistiche, di cogliere e di rappresentare in modo assolutamente obiettivo e univoco il reale; e dunque, capovolgendo l’assunto del razionalismo, si direbbe che “la realtà non è razionale”, ovvero che le strutture delle mente umana non possono “leggere” e spiegare il mondo e cogliere l'”essere in sé”, ma solo ordinarne i molteplici, mutevoli ed a volte contraddittori aspetti per darne un’interpretazione accettabile. Tale interpretazione è “scientifica” solo in quanto abbia una sua coerenza interna e una validità empirica: la funzione e la finalità della scienza è dunque strumentale e non gnoseologica o dottrinale, non enuncia “verità”, ma raccoglie dati e informazioni da interpretare ed utilizzare, e magari rivoluzionare, propone schemi e soluzioni valide in determinate situazioni e circostanze.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1) dopo la fine della civiltà minoica, l’isola di Creta era stata occupata dai Dori, che vi introdussero i loro costumi e tradizioni. Essi usavano tenere di solito i capelli molto corti.

2) gli Alcmeonidi erano una nobile famiglia ateniese, i cui membri ebbero fondamentale importanza nel governo della città. Ad esse appartenne Clìstene, l’ideatore della costituzione del 508 a. C., e, per parte di madre, Pericle e Alcibiade.

3) Pisitrato, tiranno di Atene dal 560 al 527 circa a. C.. Nonostante il carattere autoritario del suo governo, esso segnò un periodo di prosperità economica e di fioritura artistica per Atene.

4) il termine “metalinguaggio”, che indica l’impiego della lingua non per significare oggetti esterni, ma per trattare gli elementi linguistici (come avviene ad esempio in un testo di grammatica), è entrato nell’uso nel campo della logica, della linguistica e della filosofia soprattutto per opera del matematico e filosofo polacco Alfred Tarski (1902-1983) -sebbene non da lui coniato-.

5) non si confonda il paradosso del sorite con il particolare tipo di sillogismo chiamato “sorite”. Quest’ultimo, -talora chiamato impropriamente anche “polisillogismo”,- e costituito da un insieme di proposizioni (e per tanto fu definito “sorite”=mucchio), in ciascuna delle quali, a guisa di catena, il predicato diviene a sua volta il soggetto della seguente, fino alla conclusione. Ad esempio: “Pietro è uomo;/ l’uomo è animale;/ l’animale ha un corpo vivente;/ ciò che ha un corpo vivente è mortale;/ Pietro dunque è mortale” (l’esempio è tolto dal libro di Ottavio Collecchi “Sopra alcune quistioni le più importanti della flosofia”, Napoli, 1843, che a sua volta riprende in forma in  forma semplificata quanto espone Pasquale Galluppi nel suo “Elementi di filosofia”, Firenze,1834).

6) la novella è intitolata “Der Bauer und sein Sohn” (Il contadino e suo figlio). La bugia che racconta è di aver visto un cane più grande di un cavallo; di fronte alla rivelazione del padre, dapprima ridimensiona la sua affermazione (il cane diviene grosso quanto un bue e poi più grande di un vitellino); infine, quando sono quasi giunti sul ponte, ammette che il cane da lui visto era “grande come gli altri cani”. Quanto al ponte, non è destinato a crollare allorché venga attraversato da un bugiardo, ma in capo ad esso si trova una pietra contro la quale è destinato a sbattere chiunque menta. Questa versione è senza dubbio più logica poiché altrimenti si dovrebbe supporre che il ponte non fosse mai stato attraversato da mentitori o che ogni qual volta lo fosse stato, dovesse essere stato poi ricostruito.

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