L’AFFASCINANTE STORIA DELL’ALBERO DI NATALE -prima parte-

L'”Albero di Natale”, divenuto per eccellenza l’emblema “laico” delle festività natalizie, trae in realtà le sue lontane origini da un simbolismo mistico-religioso, che si lega da un lato al solstizio d’inverno, il quale assume in diverse civiltà e culture un valore pregnante di rinascita, di rinnovamento delle energie cosmiche connesse all’inizio di un nuovo ciclo annuale; dall’altro dall’eccezionale importanza che riveste l’ALBERO in quasi tutte le religioni e le mitologie, dalla ricchezza e molteplicità dei simboli e dei significati che esso incarna: portatore di frutti, e dunque di nutrimento fisico e spirituale, immagine di vita, ma nel medesimo tempo di stabilità, con le radici saldamente abbarbicate nel terreno e le chiome protese verso l’alto, così da essere tramite tra la Terra e il Cielo.

Tuttavia la prima attestazione del vero e proprio “albero di Natale”, con le caratteristiche che ci sono divenute familiari, -ossia un Abete o un’altra conifera decorati con candele, nastri e altri ornamenti (e più tardi con le tipiche “palline”, che sostituivano le mele appese ad esso in antico)-, per quanto controversi siano il luogo e l’anno in cui tale usanza avrebbe fatto la sua prima apparizione, non risale comunque a prima del XV secolo. Si può affermare con certezza che l'”albero di Natale” -che invero quando apparve non si chiamava con tale nome-, così come lo conosciamo, sia nato nell’Europa centro-settentrionale, e che in origine fosse espressione di una coscienza collettiva e comunitaria, di solidarietà municipale, poiché veniva eretto ed addobbato un grande albero in un luogo pubblico, e non di un sentimento intimo e familiare, come diverrà solo più tardi (1).

Ed infatti la matrice originaria della consuetudine di erigere ed abbellire un albero in prossimità del solstizio d’inverno -e quindi della festa del “Natale di NCGC”, che ne è la diretta continuazione adattata al sopravvenuto cristianesimo- è da ricercarsi proprio nelle religioni germanica e baltica, nel quale gli alberi avevano un profondo significato, legato soprattutto all'”Albero Cosmico” e alla funzione ad esso attribuita di garante della stessa sopravvivenza del mondo.

Come abbiamo detto sopra, sul periodo e sul luogo in cui tale tradizione sarebbe apparsa per la prima volta nelle forme poi divenute usuali le versioni sono diverse; ma stando alla più attendibile e documentata il primo “Albero di Natale” in senso moderno nacque a Reval (odierna Tallinn) in Estonia (allora sotto la sovranità dell’Ordine Teutonico). Qui nel 1441 per iniziativa della “Fratellanza delle Teste Nere” (2) davanti al palazzo sede della confraternita (3) fu eretto nel periodo natalizio un grande abete decorato con nastri, frutti e biscotti intorno al quale i membri del sodalizio, che era costituito da giovani celibi, si riunirono intrecciando festose danze, anche con l’intenzione di propiziare la ricerca di una compagna. Questa consuetudine sarebbe poi proseguita, anche se forse non in modo continuativo, negli anni seguenti e se ne hanno esplicite testimonianze per il 1442, il 1510 e il 1514, prima solo a Reval e poi anche a Riga in Lituania, dove pure aveva sede la “Fratellanza delle Teste Nere”. In quest’ultima città, a perpetuare la memoria dell’evento, trovasi tuttora nella piazza del Mercato una lapide sulla quale è incisa in otto lingue la scritta “il primo albero di Capodanno a Riga 1510”; non si sa molto altro della celebrazioni svoltesi intorno all’albero, se non che intorno ad esso si riunirono gli aderenti alla “Fratellanza”, i quali per tenere fede al loro nome indossavano cappelli neri e che dopo la cerimonia finale, diedero fuoco all’albero, probabilmente con finalità propiziatorie per il nuovo anno. Dalla testimonianza del pastore protestante Balthasar Russow (1536-1600), autore della “Chronica der Provintz Lyfflandt”, si sa che a Riga la consuetudine di erigere nella piazza del mercato e decorare con frutti e fiori di carta un abete rosso era ancora viva nel 1584; intorno ad esso si radunavano fanciulle e donne alle quali si aggiungevano poi i giovani scapoli; alla fine della festa, che era allietata da canti e balli, l’albero veniva incendiato, diffondendo all’intorno l’effluvio aromatico del suo legno resinoso.

Ma la tradizione di erigere e decorare un albero in occasione delle festività natalizie aveva cominciato a diffondersi pure in altre località al di fuori dell’area baltica: sappiamo che nel 1492 a Strasburgo in Alsazia la Fabbrica di Nostra Signora aveva acquistato, per la cifra di 2 fiorini d’oro, nove abeti da distribuire alle nove parrocchie della città affinchè fossero di buon augurio per l’arrivo del nuovo anno. E sempre in Alsazia in un registro contabile risalente al 1521 e conservato nella famosa “Biblioteca Umanistica” della cittadina di Sèlestat (che allora aveva il nome tedesco di Schlettstadt), si fa menzione del compenso di quattro scellini versato ai guardaboschi perché, a partire dal dì di S. Tommaso, il 21 dicembre, sorvegliassero con diligenza le operazioni del taglio degli abeti nella foresta comunale al fine di evitare un eccessivo prelievo di alberi.

Da questa testimonianza si arguisce che gli abeti fossero sì ricercati per le decorazione delle case private, -che avveniva tre giorni prima del Natale nella ricorrenza della festa di S. Tommaso Apostolo-, ma per queste ultime venivano impiegate solo le fronde, mentre l’albero intero era riservato alla celebrazione pubblica e collettiva del Natale-Capodanno, come è attestato anche da un coevo quadro di scuola tedesca che mostra un albero portato in parata per le strade seguito da un uomo a cavallo vestito da vescovo -ragion per cui si ritiene che quasi certamente il rappresenti S. Nicola, che almeno fino dal ME è una delle figure alle quali le tradizioni popolari demandano il compito di portare doni ai bimbi e che fu poi “laicizzato” nella figura di “Babbo Natale” (figura nella quale però confluirono altre componenti)-. Pochi anni dopo, nel 1527, troviamo la più antica testimonianza del termine “Albero di Natale” (“Weiennacht Baum”), che si riscontra in una annotazione del libro degli atti ufficiali del signore di Magonza, relativa alla cittadina di Stockstadt ove esso fu innalzato.

Negli anni seguenti si moltiplicano le attestazioni dalle quali risulta come la consuetudine si fosse diffusa in tutta la Germania occidentale renana: almeno dal 1539 veniva innalzato un albero di Natale nella cattedrale di Strasburgo, mentre a Brema nel 1570 si ricorda che un alberello carico di mele, noci, datteri e pasticcini fu allestito nella sede di una corporazione a beneficio dei figli dei membri della medesima; e ancora nel 1576 nella città imperiale di Gegenbach un abete fu portato e decorato nella sala del consiglio comunale.

Dalle notizie a noi giunte dalle cronache, sebbene scarse, sommarie e frammentarie si possono evincere alcuni dati interessanti che possono illuminare sul significato originario della tradizione: innanzitutto notiamo che l’albero più che per solennizzare il Natale cristiano vero e proprio (il 25 dicembre, celebrazione che a sua volta si era sovrapposta al Dies Natalis Solis Invicti), veniva allestito come forma di rito propiziatorio in vista del Capodanno. Le due date però (Natale e Capodanno) in molti luoghi coincidevano; a tale riguardo è importante tenere presente che l’inizio dell’anno posto al primo gennaio (il cosiddetto “stile della circoncisione”, che fa iniziare l’anno dalla ricorrenza liturgica della Circoncisione di GC, che peraltro recuperava la data d’inzio d’anno del calendario giuliano), è divenuto di uso pressoché universale, almeno nei paesi della cristianità occidentale, solo in un’epoca relativamente recente all’incirca alla metà del XVIII secolo. Prima convivevano molti “stili” che fissavano l’inizio dell’anno in corrispondenza di diverse feste o ricorrenze religiose e di essi i più diffusi erano quello “dell’incarnazione”, che faceva cominciare l’anno il 25 marzo, e quello della “natività”, per il quale il ciclo annuale aveva principio il 25 dicembre (come si può notare questi due stili in pratica coincidevano rispettivamente con l’equinozio di primavera e il solstizio d’inverno, i quali a loro volta erano solennizzati nell’antico calendario germanico con le festività di “Ostara” e di “Yule”). Pertanto l’usanza dell’albero nelle regioni nordiche si legava al Natale in quanto inizio di un nuovo ciclo annuale, ovvero come “capodanno”, e in particolare come continuazione in ambito cristiano della principale festività del calendario germanico, “Yule”, che segnava l’inizio di un nuovo ciclo annuale (come il “Samahin” celtico). Il nome di quest’ultima festività, che era la principale degli antichi popoli germanici, è rimasto per indicare il Natale cristiano in alcuni paesi e in particolare in quelli scandinavi, dove il Natale è chiamato tuttora “Jul”.

Possiamo osservare altresì che l’albero era l’elemento coreografico e soprattutto beneaugurante di una festa organizzata da “gilde” e corporazioni, e che dunque assumeva la funzione di emblema essenzialmente laico (sebbene gli organizzatori non intendessero certo contrapporsi al significato religioso cristiano del Natale); inoltre che tale festa, oltre a una generica finalità ludica e di propiziazione di buona fortuna per l’anno che stava per iniziare, aveva pure il precipuo scopo di favorire la ricerca di una sposa per gli uomini celibi (e quindi intorno all’albero in pratica si svolgeva una festa per i “singles”); in seguito però servì anche per offrire doni ai bambini -e si profila dunque quella che diverrà l’usanza di porre i doni natalizi sotto l’albero, nel quadro di una che vedrà poi la celebrazione sempre più legata all’intimità familiare-.

Per quanto riguarda la diffusione geografica, non possiamo fare a meno di osservare che tutte le testimonianze riguardanti l’albero di Natale si concentrano in due aree; quella dei paesi baltici e della Germania nord-orientale; e quella dell’Alsazia, -che fino agli inizi dell’età moderna era una regione tedesca- (4), e in minor misura di altre città dell’area renana della Germania occidentale: e dunque sembra che tale consuetudine abbia attecchito alle estremità orientale e occidentale del modo germanico. Tuttavia nulla impedisce di ritenere che pur mancando esplicite attestazioni per l’area intermedia, anche in essa la tradizione avesse cominciato a diffondersi.

Peraltro sappiamo che nel ME nella ricorrenza della memoria liturgica di Adamo ed Eva, che fino alla riforma liturgica post-conciliare del 1969 era celebrata dalla chiesa cattolica il 24 dicembre, vigilia di Natale, nell’Europa centro-settentrionale era una tradizione consolidata portare nelle chiese un albero, di solito una quercia o un frassino, e dunque presumibilmente spoglio durante la stagione invernale, che doveva rappresentare l’Albero della Conoscenza che si trovava nell’Eden. A questo albero venivano poi appese delle mele in ricordo del frutto colto da Eva, e spesso pure un serpente di legno, raffigurazione del tentatore. A partire dal XIV secolo si aggiunse anche una stella cometa posta sulla sommità dell’albero per sottolineare il parallelismo tra il peccato portato nel mondo da Adamo e la salvezza portata da Cristo, e poi anche delle ostie non consacrate, che rappresentavano la redenzione. Questo albero era chiamato “Albero del Paradiso” e alle caducifoglie vennero sempre più preferite piante sempreverdi, in particolare conifere, che bene incarnavano la “vita eterna”.

E’ assai probabile che su questa tradizione religiosa cristiana sia confluita e si sia innestata un significato “laico” e legato alla religiosità della natura, che riprendeva in modo più o meno consapevole la credenza dell'”Albero Cosmico”, considerato principio di vita e dunque portatore delle energie vivificatrici di un nuovo ciclo stagionale (significato peraltro presente anche nell'”Albero delle Vita” e nell'”Albero della Conoscenza” delle antiche religioni mesopotamiche, della cui mitologia e liturgia molti elementi ed aspetti si continuarono nell’ebraismo).

Fino a tutto il XVI secolo si ha notizia dell’usanza dell’albero in ambito comunitario e cittadino, poiché esso veniva eretto ed addobbato in luoghi pubblici in genere all’aperto, come piazze, ma talora pure al chiuso, come cattedrali o sale municipali. Nel 1605 abbiamo invece la prima testimonianza di alberi di Natale posti in case private, che proviene ancora una volta dall’Alsazia: a questi alberi si appendevano mele, ostie, zuccherini, nonché fiori di carta e figurine confezionate con sottili fogli di metallo, in genere dorate, che conferivano una nota di luminosità all’insieme, detti “zischgold”.

E’ all’opera di Dorothea Sibylla di Brandemburgo, duchessa di Brieg (Brzeg) in Slesia, -avendo ella sposato il duca Johann Christian-, nota per la sua pietà e carità, che si attribuisce l’aggiunta delle candele ai frutti, dolci e fiori di carta con i quali già era uso adornare gli alberi di Natale; l’innovazione, avvenuta nel 1611, le sarebbe stata ispirata dal desiderio di rendere più luminoso l’ampio salone del suo castello ove voleva collocare l’alberello che si era procurata per le feste natalizie.

Dorothea Sibylla di Brandemburgo.

Da allora l’illuminazione degli alberi con le candeline divenne immancabile in tutti gli allestimenti natalizi, fino a che nel corso del 900 le candele non furono sostituite dalle lampadine elettriche.

Nel XVII secolo però cominciarono a levarsi anche voci contrarie alla tradizione dell’Albero di Natale” che come abbiamo visto si era ormai affermata in territorio germanico. Tra di esse quella del teologo e predicatore luterano Johann Conrad Dannauer (1603-1666), il quale in una predica pronunciata a Strasburgo (che evidentemente era uno dei luoghi dove più tale usanza si era radicata) tra il 1642 e il 1646 tuonò contro questa consuetudine che a lui appariva deplorevole, poiché veniva ad oscurare l’autentico significato del Natale cristiano, che in tal modo, a suo dire, si celebrava più con infantili corbellerie, come un albero carico di dolciumi e balocchi, che con la parola di Dio.

Nel corso del XVIII secolo i riferimenti all'”Albero di Natale” come usanza comune nelle case borghesi dell’epoca si fanno via via più frequenti. Una delle prime menzioni letterarie di esso si trova nel famoso romanzo epistolare “I dolori del giovane Werther” (1774) di Johann Wolfgang von Goethe (lettera del 20 dicembre nella III parte): il protagonista, recatosi una sera la domenica prima di Natale alla dimora di Carlotta, la fanciulla da lui amata, la vede intenta a preparare i doni per i suoi fratellini, ed immagina la letizia dei bambini allorché, dischiusa la porta della stanza, si sarebbe offerta alla loro vista l’incantevole visione di un albero splendidamente agghindato con lumini, caramelle e mele, tale da infondere loro una sensazione paradisiaca.

Lo scrittore e mistico, -nonché oculista- Johann Heinrich Jung-Stilling (1740-1817), le cui opere furono apprezzate da Goethe e da Herder (5), nel suo romanzo “La nostalgia” (“Das Heimweh”), pubblicato nel 1793, rievocando gli eventi della sua infanzia, ricorda invece quando da bambino la mattina di Natale era condotto davanti ad un luminoso “Albero della Vita” dal quale pendevano noci dorate.

Friedrich Schiller, sebbene non abbia descritto scene natalizie nelle sue opere, nel 1789 scrisse a Charlotte von Lengefeld (1766-1826), -che l’anno seguente sarebbe diventata sua moglie-, che si sarebbe recato a Weimar per Natale, esprimendo il desiderio che ella avrebbe collocato un albero verde nella sua stanza; mentre nel 1805 la pubblicazione delle “Poesie alemanne” di Johann Peter Hebel (1760-1826) che comprendeva tra le altre la celebre canzone “La madre alla vigilia di Natale”, in cui una mamma prepara per i suoi bambini un modesto ma allegro alberello natalizio, estese sempre più la popolarità d questa consuetudine natalizia nelle terre di cultura germanica.

Ma fu soprattutto nel racconto “Schiaccianoci e il Re dei Topi” (“Nussknacker und Mausekonig”) di Ernst Theodor A. Hoffmann (1776-1822), nel secondo capitolo (“I doni”), che si ebbe una delle prime accurate ed esuberanti descrizioni di albero di Natale della letteratura: “Il grande abete in mezzo alla tavola era carico di mele dorate e argentate, dolcetti e caramelle di ogni genere vi spuntavano come fiori appena sbocciati e magnifici rami erano sospesi a tutti rami. Ma la cosa più bella in quell’albero meraviglioso erano un centinaio di lumini che brillavano come stelle tra il fogliame scuro e sembravano invitare i fanciulli a cogliere i fiori e i frutti dell’albero”. Esso suscita lo stupore e l’ammirazione di Maria e Fritz Stahlbaum (cognome che significa “albero metallico”), i due fanciulli protagonisti della storia (in particolare la bambina), così come i ricchi doni che essi trovano sotto le fronde agghindate: Maria è attratta soprattutto da un vestitino di seta, mentre Fritz si scatena galoppando intorno alla tavola in groppa a un cavallino di legno già tutto bardato e poi si diverte a schierare uno squadrone di piccoli ussari a cavallo tutti impettiti nella loro uniforme rossa con alamari dorati. Infine, su sollecitazione del loro padrino Drosselmeier, i bambini scoprono, seminascosto sotto l’albero il pupazzo, anch’egli abbigliato da ussaro, da cui prende il nome la fiaba e che si rivela essere uno schiaccianoci allorché Maria, su invito del padrino, gli mette in bocca una noce, facendo in pezzi sia il guscio, sia il gheriglio della stessa. Il pupazzo si rivela essere un principe vittima di un maleficio, così come la stessa Maria scoprirà di essere una “reincarnazione” della principessa Pirlipat. Alla fine del racconto le verrà presentato l’affascinante nipote di Drosselmeier, che era stato trasformato in Schiaccianoci dalla Signora Mauserink (la Regina dei Topi), il quale la chiederà in sposa (6).

E’ soprattutto nelle celeberrime “Fiabe” di Hans Christian Andersen che l’albero di Natale ha una presenza ricorrente e significativa. In effetti nella letteratura danese già l’albero era stato protagonista di un racconto del poeta e romanziere Bernhard S. Ingemann, scritto nel 1817, in cui esso è trasfigurato e raffigurato nell'”Albero del Paradiso”, sopra il quale una povera ragazza di Copenaghen (quasi prefigurazione della “piccola fiammiferaia”) danza con gli angeli. Ma alla penna di Andersen, il più famoso scrittore e poeta danese, dobbiamo le espressioni letterarie maggiormente conosciute della poetica consuetudine dell’albero di Natale.

In Danimarca tale consuetudine aveva fatto la sua prima apparizione nel 1796 nel castello di Wandsbach nello Schleswig-Holstein, -territorio che però appartiene attualmente alla Germania-, ma si diffuse poi nell’area più propriamente danese almeno a partire del 1808, per opera della contessa Guglielmina di Holsteinborg: sarebbe stata l’anziana nobildonna a raccontare la storia del primo albero di Natale in Danimarca ad Andersen.

Nella “Piccola Fiammiferaia” (o più esattamente “La bambina dei fiammiferi” -Den lille Pige med Svovlstkkerne-) uno splendido albero di Natale è la terza delle visioni che le appaiono quando ella cerca di scaldarsi accendendo qualcuno dei suoi fiammiferi: “Era più grande e decorato di quello che aveva visto l’anno prima attraverso la vetrina di un ricco droghiere; migliaia di candele ardevano sui rami verdi e figurine variopinte pendevano dall’albero […]. Le sembrava che guardassero verso di lei. La bambina sollevò le manine per salutarle, ma il fiammifero si spense. Le innumerevoli candeline che decoravano l’albero salirono sempre più in alto, fino a diventare le chiare stelle del cielo; poi una di loro cadde, lasciando nel buio della notte una lunga striscia di fuoco. -Ora sta morendo qualcuno!- esclamò la bambina, perché la sua vecchia nonna, l’unica che era stata buona con lei, ma che ora era morta, le aveva detto: -Quando cade una stella, allora un’anima va al Signore-“.

Anche in “Lo storpio” (“Kr∅blingen”), una fiaba che non è tra le più note dello scrittore danese, si trova la descrizione di un albero di Natale: “La sera di Natale vi era un grazioso albero tutto decorato nell’antica sala dei cavalieri [di un castello], dove il fuoco ardeva nei camini e dove erano appesi ramoscelli di abete intorno ai vecchi ritratti”. Ma pure nella stanza della servitù era stato allestito “un imponente abete con le candeline accese, rosse e bianche, con bandierine danesi, cigni ritagliati nella carta e sacchettini colorati riempiti di leccornie. I bambini poveri del villaggio erano stati invitati e ciascuno aveva con sé la propria madre”. L’autore precisa tuttavia queste ultime più che dagli ornamenti natalizi erano attratte dalle stoffe e dai capi di abbigliamento posti sulla tavola accanto all’albero.

Questa storia, come altre scritte da Andersen, ha un contenuto autobiografico: infatti Hans, il protagonista, è un bambino, primo dei cinque figli di una coppia di giardinieri che lavoravano per i proprietari del castello, che aveva perso l’uso delle gambe. I suoi genitori e i suoi fratelli avevano ricevuto doni durante la festa di Natale, ma ad Hans che a causa della sua menomazione non aveva potuto parteciparvi era stato mandato un libro di favole che invero egli aveva molto gradito, poiché data la sua natura contemplativa amava molto leggere e riflettere su quanto aveva appreso. In particolare lo avevano colpito la storia del boscaiolo e di sua moglie i quali erano stati beneficati da un magnanimo re, ma che, avendo disobbedito al suo comando di non aprire una misteriosa scodella, come Adamo ed Eva erano scacciati dal paradiso terrestre, così essi vengono privati della loro insperata prosperità; quella della “camicia dell’uomo felice”, -in cui un re che cerca la camicia di un uomo che non avesse mai provato né dolore né privazione quando alfine trova tale persona, scopre che non hai posseduto una camicia-; e quella del pescatore e sua moglie, parabola sull’incontentabilità umana, in cui la moglie di un pescatore divorata dall’avidità e da quello che si potrebbe definire un delirio di potenza, abusando dei favori di un misterioso pesce salvato da suo marito, perde tutto quanto aveva ottenuto (7). Un giorno per salvare dalle insidie del gatto un uccellino di cui la signora del castello gli aveva fatto dono, Hans con un sforzo riesce ad alzarsi dal letto e a camminare. Da quel momento per il fanciullo ebbe inizio una nuova vita poiché i signori del castello, conoscendo le sue qualità morali e intellettuali, decisero di concedergli i mezzi per farlo studiare e così partì per frequentare una scuola superiore.

“L’Abete” (“Grantraeet”) vede invece un albero di Natale come assoluto protagonista: un giovane alberello della foresta vede molti suoi simili più grandi di lui essere abbattuti e poi sfrondati per essere portati via dalla foresta e si chiede quale sarebbe stata la loro sorte. Nell’imminenza delle feste natalizie alcuni alberi non molto più grandi di lui vengono abbattuti conservandone il fogliame e alcuni uccellini gli dicono che quegli alberi erano destinati ad essere trapiantati in mezzo ad una stanza nelle case degli uomini e lì essere decorati con mele dorate, tortine, candeline e giocattoli.

E infine il Natale seguente anche per lui giunge l’ora di condividere la sorte, che gli sembrava felice, dei suoi compagni, che tanto aveva invidiato e viene condotto in una casa dove viene ricoperto di ricchi ornamenti e di dolciumi prelibati: “Su un ramo erano appese piccole reti di carte colorata e ciascuna era stata riempita di caramelle. Pendevano pure mele e noci dorate, che sembravano quasi cresciute dei rami. Poi vennero fissare alle fronde più di cento candeline bianche, rosse e blu, mentre bambole che sembravano vere […] si dondolavano tra il verde. In cima fu posta una grande stella fatta con la stagnola dorata”.

Quando l’albero fu pronto i bambini, per i quali esso era stato agghindato e caricato di regali, accorsero rumorosamente nella stanza. Dopo un primo momento di ammirazione, essi si precipitano verso l’albero con tanta veemenza per impadronirsi dei balocchi che vi erano appesi che egli traballa e se non fosse stato ancorato al soffitto con la stella dorata, di certo si sarebbe rovesciato.

Ma trascorso quel momento di spensieratezza, nel quale l’abete si era sentito al centro dell’attenzione e aveva ascoltato con attenzione le fiabe che venivano narrate ai fanciulli, con suo grande rammarico egli viene riposto in un angolo di una oscura soffitta. E quando dopo alcuni mesi torna infine a rivedere la luce è solo per essere trasportato nel cortile dove viene fatto a pezzi per ricavarne legna da ardere: triste metafora la vita di quell’abete della sorte riservata dagli uomini a tutti gli esseri dai quali hanno ricevuto gioia e benefici, i quali allorché sembra non possano più servire, vengono eleminati senza rimorso e senza rimpianto.

Fino agli inizi dell’800 la tradizione dell'”Albero di Natale” è attestata solo nelle aree protestanti della Germania: ricordiamo tra l’altro che la vigilia di Natale del 1815 J. W. Hoffmann, rinomato libraio di Weimar, fece innalzare sulla piazza davanti alla sua bottega un imponente albero carico di doni destinati ai bambini poveri della città, -tradizione continuatasi negli anni successivi-; ma in seguito cominciò a espandersi anche in quelle cattoliche. A Vienna sembra che il primo albero decorato sia stato allestito nel 1814 da Fanny von Arstein, una nobildonna berlinese di origine ebraica; ma l’usanza iniziò ad affermarsi in Austria solo dal 1816, o secondo altre fonti, dal 1823, quando fu reintrodotta ad opera di Enrichetta di Nassau-Weilburg (1797-1829), consorte dell’arciduca Carlo. Tuttavia l’associazione di alberi a feste religiose doveva già rientrare nelle tradizioni popolari austriache, poiché nel 1815 erano state emanate disposizioni che vietavano lo sfrondamento e lo sradicamento di piante verdi in occasione della festa del Corpus Domini e di altre festività.

In Russia l’uso di festeggiare il capodanno intorno ad un albero, detto “Yelka”, fu importata dallo zar Pietro I il Grande, il quale, nel quadro della sua opera di avvicinamento culturale e politico ai paesi dell’Europa occidentale aveva stabilito nel 1699 che la data di inizio dell’anno fosse il primo gennaio (aveva cioè adottato lo “stile dell’incarnazione”, che, sebbene non l’unico, era ormai quello prevalente nel Vecchio Continente), anziché il primo settembre come nel calendario bizantino vigente fino ad allora in Russia. Secondo le indicazioni fornite dal sovrano l’albero poteva essere un abete, un pino o un ginepro.

E da una nobildonna di origine russa, la principessa Sofia Sergèievna Troubetzkoy (1838-1898), -da alcuni ritenuta figlia illegittima dello zar Nicola I-, l’albero di Natale fu portato in Spagna. Ella dopo essere rimasta vedova del duca Charles-Auguste di Morny (1811-1865), fratellastro dell’imperatore Napoleone III, si era risposata nel 1869 con il diplomatico spagnolo Josè Osorio y da Silva, marchese di Alcañices, e trasferitasi a Madrid nel Natale del 1870 vi inaugurò la moda dell'”albero”.

Per quanto l’usanza di abbellire la casa con fronde di sempreverdi nel periodo natalizio fosse da lungo tempo presente in Gran Bretagna -come attesta anche John Stow nella sua “Descrizione di Londra”, pubblicata nel 1603, dove si dice che nella capitale britannica in tutte le case e le parrocchie nell’imminenza del Natale si ponevano sulle porte rami di abete e di leccio, tralci di edera ed altre piante sempreverdi-, sembra che in questo paese il vero e proprio albero di Natale riccamente adornato sia apparso solo nel 1800, allorché la regina Carlotta di Mecklemburgo- Strelitz (ducato che trovasi nella Germania nord-orientale) (1744-1818), consorte di re Giorgio III di Hannover, pensò di collocarne uno nella sala del castello di Windsor dove il dì di Natale aveva organizzato una festa per i bimbi della cittadina. Il suo biografo dr. John Watkins così descrive l’avvenimento: “Nel mezzo della stanza si trovava un enorme recipiente in cui era piantato un albero di tasso, dai cui rami pendevano grappoli di dolciumi, mandorle e uvetta avvolta in carta colorata, frutta e giocattoli disposti con buon gusto, il tutto illuminato da candeline di cera. Dopo che i fanciulli ebbero girato intorno all’albero e l’ebbero ammirato, ciascuno di essi ottenne una porzione di dolci con un giocattolo, per cui tornarono a casa deliziati”.

In seguito anche la regina Adelaide (1792-1849), consorte di re Guglielmo IV (che regnò dal 1830 al 1837), anch’ella proveniente da un casato tedesco (quello di Sassonia-Meiningen), ebbe l’abitudine di addobbare l’albero di Natale e pure la regina Vittoria durante la sua infanzia nella dimora di Kensington Palace ove risiedeva si allietava di tale uso natalizio, tanto che la vigilia di Natale del 1832 la principessa allora tredicenne scrisse nel suo diario: “Dopo cena […] andammo nel salotto accanto alla sala da pranzo… Là erano due ampie tavole ove erano collocati due alberi con luci e ornamenti di zucchero, e intorno ad essi erano disposti i regali”.

Tuttavia in Gran Bretagna nei primi decenni dell’800 la consuetudine dell’albero fu seguita solo dalla famiglia reale e da quelle della nobiltà. Solo dopo il matrimonio della regina Vittoria con il cugino Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha nel 1841 l’usanza cominciò ad espandersi nel paese anche nelle famiglie dell’alta borghesia, tanto che nel 1844 apparve una sorta di guida illustrata che descriveva le origini, la storia e il modo migliore di collocare e abbellire l’albero intitolata per l’appunto “The Christmas Tree” (“L’Albero di Natale”).

Alla corte di Francia l’albero di Natale sarebbe stato introdotto per la prima volta nel 1837 dalla principessa Elena Luisa di Mekclemburgo-Schwerin (1814-1858), nuora del re Luigi Filippo, avendone sposato il figlio primogenito Ferdinando Filippo d’Orlèans (1810-1842)(8), che ne allestì uno nella sua residenza alle Tuileries, tra lo stupore della corte, e la consuetudine fu imitata in alcune famiglie della nobiltà e dell’alta borghesia, e poi ripresa dall’imperatrice Eugenia, la moglie di Napoleone III che contribuì a renderla popolare nella capitale francese. Ma in effetti la tradizione dell'”Albero” cominciò a radicarsi e a conoscere rapida espansione soprattutto dopo il 1870, ovvero dopo la guerra franco-prussiana in seguito a cui l’Alsazia e la Lorena passarono dalla Francia alla Germania: infatti molti alsaziani che, non accettando la sovranità tedesca, erano emigrati in Francia vi portarono l’usanza e la diffusero in tutto il paese.

Nel 1858 una grave siccità aveva drasticamente ridotto il raccolto di mele nella Francia nord-orientale e così per rimediare alla scarsità dei frutti che erano la principale decorazione dell’albero di Natale sembra che un vetraio abbia inventato le palline di vetro con le quali sostituire le mele vere sulla pianta e che da allora ne divennero l’ornamento caratteristico. Ma altre fonti sostengono invece che la moda di abbellire gli alberi di Natale con decorazioni in vetro sarebbe apparsa in Germania già prima del 1850: qui infatti si producevano già degli oggetti ornamentali sferici in tale materia, dei quali i più piccoli aventi la forma di palline avrebbero cominciato ad essere usati come addobbi natalizi.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) da questo punto di vista si può osservare un parallelo con la tradizione del presepio, che anch’esso all’inizio, dal XV secolo in poi, veniva allestito solo nelle chiese, -e non in tutte, solo nelle principali-, con statue di dimensioni naturali, o comunque piuttosto grandi e solo a partire dal 700 cominciò ad essere fatto nelle dimore private di alcune grandi casate, per estendersi poi nell’800 ai ceti medio-alti e solo nel corso del 900 anche al popolo.

2) codesta “Fratellanza delle Teste Nere”, diffusa in epoca medioevale in Estonia, in Livonia e in altri paesi baltici, era una “gilda”, -forma associativa tipica del mondo germanico medioevale che si configurava come una via di mezzo tra una corporazione e una confraternita religiosa-; essa era costituita da mercanti e allevatori di bestiame, tutti celibi e in prevalenza stranieri, -in particolare tedeschi-. Il nome è dovuto al fatto che il patrono della fratellanza era S. Maurizio, tribuno della “Legione Tebana” o “Tebea”, martire del III secolo ad Agàunum (od. Saint-Moritz in Svizzera, che assunse tale nuovo toponimo in memoria del santo), il quale a motivo di una presunta origine etiope a partire del XIII secolo fu spesso rappresentato come un moro, e nera appariva la sua testa nell’emblema del sodalizio: per questo i suoi membri scelsero per sé stessi il nome di “Teste Nere” con cui divennero noti e che rinforzarono con l’adozione di un copricapo nero. Di tale fratellanza si ha notizia fino a quando l’Estonia e la Livonia, in seguito alla “Grande Guerra del Nord”, -con la quale la Russia e altri paesi della regione vollero contrastare l’espansione della Svezia intorno al mar Baltico e la sua penetrazione ad oriente-, durata tra alterne vicende dal 1700 al 1721, entrarono a far parte dell’Impero Russo nel 1721; ma in effetti essa era già in grave declino da oltre un secolo ed aveva mutato le originarie finalità solidaristiche diventando una sorta di banca.

3) questo palazzo, detto “Melngalvju Nams”, risalente nella sua struttura al XIV secolo, sebbene abbia subito nel corso dei secoli diversi rimaneggiamenti, esiste tuttora, ed è considerato uno dei più significativi e leggiadri monumenti della città.

4) l’Alsazia, come la Lorena, nel ME, e fino al XVII secolo, apparteneva al Sacro Romano Impero, sebbene fosse suddivisa in molti staterelli feudali e città libere. Con il trattato di Westfalia, che nel 1648 pose fine alla devastante “Guerra dei Trent’anni”, la maggior parte della regione passò sotto la sovranità della Francia. Nel 1681 poi Luigi XIV annettè anche il resto dell’Alsazia, in cui si trovava Strasburgo, al suo regno, e allo stato francese rimase fino alla guerra franco-prussiana del 1870, quando dopo la sconfitta francese rientrò nel dominio della Germania, per tornare infine alla Francia dopo la prima guerra mondiale.

5) fortemente influenzato dal pietismo, -la corrente mistica del luteranesimo anti-dogmatica e aliena dalle istituzioni ecclesiastiche organizzate che predicava una religiosità personale e interiore-, nelle sue numerose opere si propose soprattutto di combattere il razionalismo e il materialismo. Nel 1803 il granduca Carlo Federico di Baden gli affidò il compito di promuovere la rinascita morale e religiosa del popolo, al quale si dedicò fino alla morte con zelo indefesso. Espose in modo sistematico le sue convinzioni filosofico-religiose nella “Teoria della comunicazione con gli spiriti” (1808), in cui sosteneva, in sintonia con la concezione affine dello Swedenborgh, che esiste un regno degli spiriti che può comunicare con le anime dei viventi, e che pertanto suscitò le critiche e le ire dei luterani ortodossi, mente i romantici, come il von Arnim, lo esaltarono vedendo in essa la fonte di una nuova mitologia adatta ai tempi moderni.

6) com’è risaputo, dal racconto di Hoffmann trasse ispirazione P.I.Chaikowsky per il balletto “Lo Schiaccianoci” composto nel 1892. La trama dell’azione coreografica si rifà però non direttamente a quella ideata da Hoffmann, ma da una rielaborazione fattane da A. Dumas padre nel 1844.

7) della prima fiaba nella forma presentata da Andersen non ho trovato precisi riferimenti, anche se rientra nell’ambito delle numerose narrazioni sul tema dell’avidità e della curiosità umane apportatrici di rovina. La seconda è una celebre leggenda orientale di cui la prima versione si trova in alcune redazioni del cosiddetto “Romanzo di Alessandro”, un biografia assai romanzata del celebre condottiero macedone, in cui egli vive numerose avventura fantastiche cercando l’immortalità e il senso della vita, attribuita a Callistene di Olinto, che aveva seguito le imprese di Alessandro come storiografo ufficiale, ma in realtà risalente al III secolo, pur se rielabora molti materiali precedenti, e pertanto noto come “pseudo-Callistene”; questa narrazione o apologo venne tramandata nella narrativa popolare di carattere gnomico sia a oriente che occidente e ripresa anche da Tolstoj nel “Quarto Libro di Lettura”; in Italia Italo Calvino ne riporta un versione friulana nelle sue celebri “Fiabe italiane”. La terza, quella del pesciolino d’oro, sempre sul tema dell’incontentabilità umana, è una fiaba di cui la versione più conosciuta compare nei “Kinder und Hausmarchen” (“Racconti per bambini e famiglie”) dei fratelli Grimm (n. 19), sebbene se ne conoscano diverse versioni sia popolari, sia letterarie (tra queste ultime famosa quella di Aleksander Pushkin).

8) egli era l’erede al trono, ma perì tragicamente nel 1842 a causa di incidente.

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