L’AFFASCINANTE STORIA DELL’ALBERO DI NATALE -seconda parte-

Sulla data e le modalità dell’introduzione dell’albero di Natale negli USA esistono discordanti versioni. Secondo una delle più accreditate esso sarebbe stato introdotto nell’ultimo quarto del XVIII secolo da ufficiali tedeschi, e in special modo da quelli provenienti dall’Assia, che combattevano con gli Inglesi contro gli insorti nella guerra di indipendenza americana: ad esempio, gli abitanti della cittadina di Windsor Locks nel Connecticut assicurano che fu un soldato tedesco, il quale nel 1777 era stato fatto prigioniero dagli indipendentisti, a piantare nella loro città il primo albero di Natale sul suolo del nuovo continente. Più probabile, perché fondata su testimonianze storiche accertate, è la versione che fa risalire l’apparizione dell’albero in terra americana ad un ricevimento dato in occasione del Natale dal generale Friedrich Adolf Ridesel (1738-1800) a Sorel in Canada nel 1781, e in particolare all’iniziativa della consorte di costui la baronessa Federica Carlotta (1746-1808) che deliziò i suoi ospiti con un abete splendidamente decorato con candele e frutta.

Altre fonti riportano che ad aver esportato l’albero di Natale negli USA sarebbe stato Karl Theodor Follen (1796-1840), letterato e patriota che nel 1824 aveva dovuto esulare in America, dove insegnò letteratura tedesca all’università di Harward e divenne poi pastore della chiesa unitariana (1), impegnandosi nel movimento per l’abolizione della schiavitù. Egli nel 1832 aveva apparecchiato un albero di Natale nel cortile della sua casa di Boston nel Massachusetts attirando l’attenzione della scrittrice britannica Harriet Martineau (1802-1876), allora in visita negli USA, -che ne parlò in un suo articolo, attribuendogli l’introduzione dell’albero di Natale negli USA-, e da lì l’usanza cominciò a diffondersi negli stati del nord-est.

Il merito di aver fatto conoscere in USA l’albero di Natale viene assegnato però anche ad un altro tedesco-americano, Gustav Koerner (1809-1896), uomo politico, diplomatico e giornalista anti-schiavista, amico di Lincoln, il quale poco dopo essere giunto da Francoforte negli USA nel 1833, allestì nella casa di suo cugino Georg Engelmann (1809-1884), insigne botanico,-che si trovava a Belleville nell’Illinois-, ove era ospitato, un albero natalizio, che però non era un abete o un pino, secondo la più comune tradizione, ma un sassofrasso (Sassafras albidum), albero appartenente alla famiglia delle Lauracee a foglie decidue, tipico dell’America settentrionale, che conservava ancora alcune foglie e che egli rivestì di nastri, fiori di carta, mele, noci e candele, secondo l’ormai consolidata tradizione.

Il dato di fondo che accomuna tutte queste versioni, -che peraltro possono coesistere senza contraddizione perché l’usanza può essere giunta negli USA per diverse vie, in modo indipendente le une dalle altre-, è l’importazione da parte di immigrati tedeschi dell’elemento più caratteristico del folklore natalizio moderno.

Si sa per certo inoltre che fu un altro immigrato tedesco, August Imgard (1828-1904), residente a Wooster nell’Ohio a inaugurare l’uso prettamente americano di decorare l’albero anche con bastoncini di zucchero dalla punta ricurva (che volevano imitare il baculo dei pastori), chiamati in inglese “candy canes”, che però all’inizio erano solo bianchi, privi delle strisce rosse oblique che ne sarebbero divenute poi il tratto caratteristico.

La prima menzione dell’albero di Natale nella letteratura americana apparve in un racconto di Catherine Maria Sedgwick (1789-1867), in cui si narra la storia di una cameriera tedesca che deve decorare l’albero della sua signora; mentre il primo presidente degli USA che eresse un grande albero di Natale davanti alla Casa Bianca fu Franklin Pierce (in carica dal 1853 al 1857). Nel 1889 un altro presidente, Benjamin Harrison dichiarò che esso rientrava in pieno nella tradizione americana.

Ricordiamo infine che già nel 1882, ovvero solo tre anni dopo l’invenzione della lampada elettrica a incandescenza (comunemente detta “lampadina”) ad opera di Thomas A. Edison, si ha notizia di un albero in cui le luci elettriche sostituivano le tradizionali candeline di cera o i lumini ad olio, cosa che avvenne durante le festività natalizie nella casa di Edward H. Johnson, vicepresidente della “Edison Electric Light Company”, la società commerciale fondata dallo stesso Edison a New York. L’illuminazione elettrica degli alberi si diffuse con notevole rapidità anche perché limitava alquanto l’eventualità di incendi, come quello, sviluppatosi dalle candele di un albero natalizio che nel 1885 distrusse un ospedale a Chicago.

Per quanto riguarda l’Italia la consuetudine dell’albero di Natale fu inaugurata dalla regina Margherita (1851-1926), consorte di Umberto I, la quale nel 1880 fece decorare un abete in una sala del Quirinale. L’iniziativa della prima sovrana dell’Italia riunita (poiché al momento della proclamazione del regno nel 1861 Vittorio Emanuele II era vedovo) fu forse ispirata o influenzata da sua madre, la principessa tedesca Elisabetta di Sassonia-Weittel. Da allora l’usanza si propagò nelle famiglie della nobiltà e dell’alta borghesia, ma nel nostro paese rimase comunque assai limitata e marginale fino al secondo dopoguerra, allorché con il miglioramento delle condizioni economiche della popolazione e il diffondersi di costumi di origine anglosassone, che avevano ormai assunto carattere internazionale, divenne anche da noi sempre più abituale. Una testimonianza letteraria dell’albero di Natale si trova in “Il Principino” di Ida Baccini (1850-1911), scrittrice di libri per l’infanzia, dove all’inizio della storia si parla dell’allestimento di un albero di Natale. I protagonisti di questa novella sono però tedeschi, i sovrani di un immaginario regno di Achilberg, per cui il fatto che vi venga citato l’albero di Natale non significa che tale tradizione avesse già una certa diffusione pure in Italia (2)

I primi alberi di Natale artificiali furono prodotti in Germania intorno al 1880 con il nobile intento di salvaguardare le foreste da un disboscamento selvaggio e non giustificato da gravi motivazioni, ma non ebbe all’inizio un grande successo. L’iniziativa però fu imitata da una ditta statunitense e negli USA fu accolta con maggior favore, ma non riuscì a soppiantare il ricorso agli alberi veri.

Una particolare forma di albero di Natale, peculiare della Georgia (o per meglio dire della Cartvelia) e di poche aree caucasiche è il “Chichilaki”. Esso consiste in una larga fronda di noce o di nocciolo che viene abilmente sfrangiata, in modo da ottenere una cascata di lunghi trucioli, più o meno somigliante a una bianca conifera (ma che potrebbe ricordare anche una parrucca incipriata), che vengono poi addobbati con frutta secca, biscotti e decorazioni natalizie. Questo alberello, la cui altezza può andare da 20 cm a 3 metri, noto anche con il nome di “barba di S. Basilio”, preparato nell’imminenza del Natale ortodosso il 7 gennaio, viene poi dato alle fiamme durante l’Epifania, che ricorre dodici giorni dopo, il 19 gennaio, in una sorta di rito propiziatorio e apotropaico con il quale si intende eliminare le influenze negative per dare inizio con i migliori auspici al nuovo anno (e pertanto potrebbesi paragonare al rogo della Befana che suole compiersi in diversi luoghi in Italia).

Il nome di “barba di S: Basilio” attribuito a questa particolare forma di albero di Natale è dovuta al fatto che in alcuni paesi ortodossi, e in particolare in Grecia e in altre aree balcaniche, l’ufficio di ricompensare con doni più o meno ricchi i bambini buoni (e di fatto pure quelli meno buoni), -compito che nell’Europa occidentale e settentrionale è affidato a S. Nicola, a S. Lucia, ai Re Magi, alla Befana, e ad altre figure minori, oltre che a Babbo Natale-, è di competenza del dotto teologo luminare della chiesa orientale, ed è quindi nella ricorrenza della sua festa liturgica (1 gennaio) che si offrono i regali ai bimbi.

Si deve peraltro sottolineare che il compito di dispensatori di doni assegnato ai personaggi sopra citati è del tutto esteriore e convenzionale, sebbene giustificato e connesso alla popolarità della devozione ad essi tributata. Infatti esso è dovuto in gran parte alla vicinanza delle commemorazioni liturgiche che li riguardano al solstizio d’inverno, che per molte popolazioni -Germani, Slavi, ma anche per gli antichi Romani dopo la riforma del calendario di Giulio Cesare- segnava l’inizio dell’anno: per tale ragione a scopo propiziatorio si considerava e si considera tuttora che ricevere doni sia il modo migliore per iniziare l’anno, anche perché per un principio fondamentale di magia simpatica quello che accade nel capodanno è la prefigurazione di quanto è destinato ad accadere nei dodici mesi successivi ed è quindi fondamentale cercare in quel giorno di vivere esperienze gratificanti ed evitare quelle tristi e dolorose (il medesimo principio vale per il capodanno individuale, ovvero il compleanno). D’altro canto la figura dei santi cristiani si è sovrapposta a quella di antiche divinità -Saturno latino, Chronos greco, Wotan germanico, Dazhbog slavo)- sotto il cui patronato erano posti i rituali e i festeggiamenti per il nuovo anno, e che quindi ne hanno ereditato le attribuzioni. Inoltre l’inizio dell’anno in quasi tutte, o tutte, le civiltà antiche corrisponde con il rinnovamento di un ciclo cosmico: il clima di baldoria e di festa, con la temporanea soppressione dell’ordine sociale e delle norme morali (schiavi che si comportano da padroni, intemperanze alimentari, licenziosità, ecc.) si inquadra nell’intenzione di riprodurre il caos primordiale a cui fa seguito la rinascita di un nuovo ordine, e dunque la particolare “festosità” e sfrenatezza che contraddistinguono il periodo natalizio, che coincide con la fine di un ciclo annuale e il principio di uno successivo, per quanto attenuate nelle loro espressioni rispetto alle forme antiche e “pagane” (Saturnali romani, Yule germanico, Koliada slava), ha la sua ragion d’essere in questa concezione (per quanto ormai se ne sia persa la memoria a livello popolare) (3).

Secondo l’antica credenza germanica Odino, -detto anche Woden o Wotan-, il dio supremo del pantheon germanico, durante la notte di Yule, -ossia del solstizio d’inverno-, e per i dodici giorni seguenti cavalcava insieme ad altri dei e agli spiriti dei guerrieri caduti in battaglia (quelli che risiedevano nel Walhalla) per beneficare la terra con la sua presenza. I bambini lasciavano i propri stivaletti nei presi del caminetto, riempiendoli di carote e di fieno quale offerta a Sleipnir. il cavallo a otto zampe che era la cavalcatura di Odino; quest’ultimo avrebbe contraccambiato la cortesia colmando a sua volta le calzature con frutta e dolci. Il fatto che i doni venissero lasciati nelle calzature testimonia il legame di tale tradizione con quella della Befana, nella quale è da ravvisare la Perchta ( o Berchta) germanica, figura in parte divina e in parte demoniaca, giunta poi in Italia con i Longobardi e qui fusasi con la latina Strenia, o Strenua, durante la cui festa che ricorreva alle calende di gennaio era usanza scambiarsi doni, che nei tempi più antichi consistevano principalmente in tralci vegetali e frutti, ma che in seguito divennero più importanti; tali doni venivano chiamati “streniae” (da cui l’italiano “strenne”).

Jultomten, “babbo Natale” svedese sulla slitta trainata da due capre.

Con l’avvento del cristianesimo la figura di S. Nicola di Mira, -più che altro in ragione della vicinanza della sua festa con il solstizio, specialmente se si tiene conto che la data di quest’ultimo nel calendario giuliano tendeva a cadere sempre più in anticipo rispetto all’originario 21 dicembre (4), nonché per una certa somiglianza tra l’iconografia del santo e quella del sommo nume germanico- sostituì quella del dio nordico, ereditandone le funzioni di dispensatore di regali, che, come il suo predecessore svolgeva giungendo nelle case cavalcando un cavallo bianco o grigio (5).

L’identificazione con una divinità precristiana dei portatori di doni è confermata anche nelle regioni finniche, dove troviamo la “Capra – o Caprone- di Yule” (“Julbochen”) e “Julopukki”. Quest’ultimo, il cui nome significa anch’esso “Capro di Yule”, è un personaggio che riveste l’ufficio di arrecare doni ai bambini nella notte di Natale in Finlandia, il quale in origine era travestito da caprone, ma che in tempi più recenti ha assunto un abbigliamento simili a quelli dei vari Santa Claus e Babbo Natale. Il pristino aspetto di caprone dimostra il suo legame con il dio Thor (o Donar), figlio di Odino, la principale divinità nordica dopo quest’ultimo, -ma che in alcuni luoghi assunse un’importanza e un rilievo cultuale forse superiori a quelli attribuiti al padre-, che percorreva le vie del cielo su un carro trinato da due capri, il cui nome era Tanngrisnir e Tanngnjostr. In Scandinavia la figura che porta doni ai bimbi è una sorta di gnomo chiamato Jultomten, che però nell’iconografia ha finito per confondersi con il ben più celebre Babbo Natale, acquisendone alcuni degli attributi, ma la cui slitta è trainata non dalle renne, ma da due capre, che ne dimostrano dunque la derivazione dal carro di Thor. A ricordo di questa tradizione in Finlandia si confezionano delle figurine o statuette, in genere di paglia intrecciata, le quali è uso pure collocare tra le decorazioni dell’albero di Natale (consuetudine però comparsa in epoca abbastanza recente, sembra non prima degli anni ’60 del XX secolo); talora però, con dimensioni più grandi, vengono anche poste davanti alle case o in luoghi pubblici.

“Julbock” appesi ad un albero di Natale.

Nell’antica religione nordica l’ultimo covone di grano mietuto durante l’estate, al quale erano attribuite virtù magiche, veniva chiamato “Julbochen” (“Capra di Jule”) e veniva conservato per la celebrazione di Yule, la festa del solstizio d’inverno, in ossequio a un rito che rientra nella tradizione, riscontrantesi in moltissime aree del pianeta, della “Madre del Grano”. Analoga credenza troviamo presso gli antichi Slavi, ove ugualmente l’ultimo covone era riservato alle celebrazioni della Koliada, la festa del solstizio equivalente alla Yule dei Germani. Qui il dio Dazhbog, personificazione del Sole, figlio del dio del fuoco Svarbog, -datore della luce e del calore che consentono alle messi di maturare e di cui il solstizio d’inverno segna la rinascita-, era rappresentato da una capra bianca. Durante la festa slava di Koliada (nome la cui etimologia alcuni riconnettono a quello delle latine “kalendae”, giorni di inizio del mese) era rappresentato da una persona travestita da capra che andava in giro a chiedere offerte (e come abbiamo visto nella trattazione su Halloween, sia la maschera e il travestimento, sia la questua  sono consuetudini tipiche del capodanno in svariate culture). In epoca più tarda però questa figura divenne anziché un richiedente, un elargitore di doni.

Da notare che nei riti celebrati per solennizzare la Koliada era tradizione sospendere al soffitto di casa o sopra la porta una fronda di abete o di altra conifera, -chiamata “podlazniczka” in Polonia e Bielorussia- a cui venivano affissi mele, noci, dolciumi, nastri, fiori e stelle di carta, in modo similare a quanto abbiamo già visto succedere nella ricorrenza natalizia in altre parti d’Europa. Tale consuetudine aveva lo scopo di propiziare un cospicuo raccolto durante la prossima stagione estiva.

Tra i “predecessori” di Babbo Natale e di Santa Claus è da annoverarsi anche il Saturno romano-italico, l’antico dio legato alle messi e alla prosperità, il saggio e benefico re dell’Età dell’Oro in cui onore si celebravano i famosi “Saturnali”, dal 16° al 10° giorno “ante Kalendas Ianuarias”, ovvero dal 17 al 23 dicembre, e che equivalevano all’incirca alle feste “Cronia” che si celebravano in Grecia in onore di Cronos, l’omologo di Saturno, ma che duravano solo un giorno, il 12 di ecatombeone, alla fine di luglio, e, a differenza di quanto avveniva a Roma, chiudevano la stagione dei raccolti. In origine anche in Italia la festa durava un solo giorno, ma poi per ingraziarsi il popolo il periodo di baldorie fu allungato e portato a tre giorni da Cesare, a quattro da Ottaviano Augusto, a cinque da Caligola e infine a sette da Domiziano. Si osservi che a somiglianza di Odino, anche Saturno, -il quale aveva pure valenze ipoctonie (cioè sotterranee)-, nonché Dite (Plutone) e Proserpina in quelle giornate uscivano dagli Inferi e percorrevano sui loro carri la terra intirizzita dai freddi invernali seguiti da torme di spiriti.

Ma l’aspetto più tipico dei Saturnali era, oltre il temporaneo annullamento delle distanze sociali, -quasi una pallida eco della mitica Età dell’Oro, quando non v’erano né servi né padroni-, era l’elezione di un “princeps Saturnalicius”, il quale aveva il compito di presiedere alla celebrazione della festa nelle case private e alla distribuzione dei regali. Questi ultimi erano di solito statuine di terracotta o di cera (detti “sigillaria”) e dolci – a loro volta spesso di forma animale o umana-, ma per i ricchi potevano consistere in oggetti assai più preziosi. La distribuzione dei doni avveniva nel terzo giorno dei Saturnali (per cui tale giorno era chiamato anch’esso “Sigillaria”), e per questo nel periodo precedente si allestivano mercatini simili a quelli di Natale odierni (che a Roma si tenevano nel campo Marzio e poi anche nel portico delle terme di Traiano). A ulteriore conferma dell’affinità con i personaggi portatori di doni che abbiamo citato in precedenza, il “princeps Saturnalicius” vestiva una tunica rossa e si copriva il volto con una maschera grottesca. Le tradizioni legate ai Saturnali precorrevano quelle natalizie odierne anche per l’usanza di decorare in tale periodo le case con rami di abete, di pino e altre piante sempre verdi.

Tra gli altri personaggi cristiani, o almeno superficialmente cristiani, legati alle festività natalizie che elargiscono doni ai bambini ricordiamo innanzitutto Santa Lucia che è la portatrice di doni in diverse aree dell’Italia settentrionale, tra Lombardia, Emilia e Veneto, talora in esclusiva, talora in concorrenza con altri suoi “colleghi”. Anche per la leggendaria martire siracusana vale in linea di massima quanto detto a proposito di S. Nicola, ovvero che tale funzione gli è derivata principalmente dall’essere la sua festa (o meglio “memoria liturgica”) prossima, o addirittura coincidere nel XV e XVI secolo con il solstizio d’inverno (da cui il famoso detto “S. Lucia è il giorno più corto che ci sia”), ed avere quindi incorporato precedenti figure femminili, in pratica quelle in cui si può riconoscere la Befana, (sulla quale si vdea la nota n. 4), -la Strenia, o Strenua, latina, la Perchta germanica-, legate ad esso. In pratica si potrebbe dire che S. Lucia sta alla Befana come S. Nicola sta a Babbo Natale, nel senso che antiche divinità o entità mitiche sono state reinterpretate in un contesto cristiano. La scelta di questa santa, oltre al cadere la sua festa in prossimità o in coincidenza del solstizio, si può forse ricollegare all’impulso dato al culto verso di essa, dopo la traslazione delle suo presunto corpo a Venezia da Costantinopoli nel 1204 in seguito alla famigerata IV crociata che si risolse in un sacco della capitale dell’ormai declinante Impero Bizantino (6). In quell’occasione, oltre a innumerevoli tesori d’arte, i cosiddetti crociati trafugarono molte delle innumerevoli reliquie che si trovavano nel centro della cristianità orientale, reliquie che finirono in gran parte in Francia e a Venezia. Inoltre il suo stesso nome (“Lùcia”, da “lux”) la collega alla luce solare che dalla data del solstizio d’inverno torna ad aumentare (Si tenga presente che in latino il nome si pronuncia “Lùcia” -forma femminile di “Lucius”- e non “Lucìa”), e sempre a cagione del suo nome divenne la protettrice dei suoi devoti contro le infermità dell vista. Sembra che già dal XIII secolo i nobili veneziani offrissero dolci e frutta ai bambini poveri nella ricorrenza di S. Lucia e forse è da allora che ebbe inizio la tradizione dei doni, che però ribadiamo si spiega soprattutto con la sovrapposizione della santa a una più antica divinità legata al solstizio.

Nei territori meridionali di lingua tedesca e in aree con essi confinanti (Boemia, Slovacchia, Slovenia) troviamo poi il “Christkind” (“Cristo bambino”), il quale, contrariamente al suo nome non è da identificarsi con Gesù Cristo neonato (che di certo nelle sue primissime ore di vita doveva avere altro da fare che portare doni ai pargoli), ma una sorta di angelo asessuato, di solito raffigurato con aspetto femmineo, dotato di ali e con una corona in testa. Incerta è l’origine di questo essere magico, che probabilmente ancora una volta è precedente al cristianesimo e ad esso associato in modo abbastanza estrinseco, ma è da collocarsi nell’area renana. La sua “promozione” ad “alter ego” di Gesù Bambino e di dispensatore di regali ai bimbi per conto e a nome di costui risalirebbe niente di meno che a Martin Lutero, il promotore della Riforma protestante. Poichè come è noto egli respingeva il culto cattolico dei santi, e rifiutava anzi l’idea stessa della “santità” come categoria distinta nell’ambito della fede cristiana, condannò le tradizioni popolari legate ad essi e quindi pure quella che voleva che i bimbi ricevessero doni da S. Nicola il dì della sua festa. Pertanto, per non scontentare le attese dei fanciulli, ormai avvezzi a ricevere doni nel periodo natalizio, nel 1535 l’audace riformatore decretò che ad assolvere tale compito sarebbe stato il “Christkind”. La cosa più curiosa è che il “Christkind” venne poi adottato anche in diverse regioni tedesche a maggioranza cattolica, mentre in quelle protestanti perse terreno a favore del “Weihnachtsmann” (“l’Uomo del Natale”), ossia quello che da noi è comunemente noto come Babbo Natale.

Infine non possiamo non menzionare  i Re Magi, ai quali la missione di allietare i fanciulli con l’offerta di dolcetti e balocchi è affidata in Spagna  (“los Tres Reyes”) e in alcune zone della Francia meridionale (“les Trois Rois”); in effetti essi che sono i portatori di doni per antonomasia sono coloro ai quali meglio tale missione si addice (che ovviamente svolgono nella notte precedente l’Epifania) e forse gli unici che sembrano non aver sostituito e mascherato qualche precedente divinità.

La tradizione dell’albero di Natale, pur mancando testimonianze esplicite che la leghino alle antiche religioni germaniche, baltiche e slave, è sicuramente da mettere in relazione sia con i culti propri del solstizio d’inverno e al principio di un nuovo ciclo cosmico, sia con la sacralità dell’albero, che presso moltissime civiltà esprime, soprattutto i sempreverdi, il simbolismo della vita e della rinascita.

Tuttavia per giustificare la consuetudine e conciliarla con il significato cristiano del Natale, -festività che invero, come abbiamo altre volte osservato, è un adattamento al cristianesimo della rinascita del Sole, e dunque in sostanza una riedizione della festa del solstizio d’inverno-, si inventarono alcune leggende devote.

Una di esse attribuisce l’invenzione dell’albero di Natale a S. Colombano, il quale nel 590 aveva fondato una rinomata abbazia a Luxòvium (odierna Luxeuil les Bains in Franca Contea), antico centro gallo-romano abbandonata da lungo tempo dopo che era stato devastato dalle incursioni di Attila nel 451, poco a sud del gruppo montuoso dei Vosgi. Una sera di Natale egli si recò con un piccolo stuolo di religiosi suoi discepoli sulla vetta di un monte ove si trovava un vecchio e alto abete, che era oggetto di venerazione da parte degli abitanti del luogo, I monaci allora appesero le loro torce e le loro lanterne in modo da formare una croce luminosa sulla sua cuspide. Alla vista dell’abete illuminato i contadini accorsero numerosi e il santo mostrando di onorare le credenze di essi, colse l’occasione per parlare della nascita di Cristo: da quell’episodio sarebbe derivata l’usanza di decorare gli abete i con lumi, e poi anche altri ornamenti, nella notte di Natale.

Di un’altra il protagonista è S. Bonifacio di Magonza (680-754), monaco anglo-sassone, -il cui nome originario era Winfrith o Winfrid-, che si dedicò alla conversione dei Germani (7). Spintosi nel territorio dei Catti, egli vide un giorno un gruppo di persone riunite intorno alla “Sacra Quercia del Tuono di Geismar”, dove si compivano riti in onore di Thor (detto anche Donar), una delle principali divinità germaniche, che si apprestavano a compiere un sacrificio umano: alla vista della scena fu colto da un empito d’ira e di zelo religioso che lo spinse ad afferrare un’ascia con la quale cominciò a menare fendenti sull’albero. In quel momento, secondo la leggenda, si levò un vento impetuoso così che la quercia si abbattè al suolo schiantandosi in quattro parti. Nel mezzo apparve miracolosamente un giovane abete verde: il missionario allora proclamò che quello sarebbe stato il loro nuovo albero sacro, simbolo del legame tra il Cielo e la Terra che la redenzione di Cristo aveva restaurato, nonché, a causa delle sue fronde sempre verdi, della vita eterna. Per completare l’opera i compagni di Bonifacio adornarono l’abete con candele accese che avrebbero dovuto significare la discesa dello spirito santo su di essi.

Come si può notare queste due leggende abbastanza simili in realtà mirano a cristianizzare il culto degli alberi tipico delle religioni celtiche e germaniche, trasformandolo da una forma di venerazione resa agli dei della natura e del cosmo in testimonianza della “vera” religione, secondo la costante politica della chiesa di “annettersi” in qualche modo le tradizioni che, essendo profondamente legate al sentimento e alla psicologia del popolo, non riusciva ad estirpare del tutto (e in questo senso le lettere del menzionato Bonifacio di Magonza, sebbene non vi si accenni alla vicenda che abbiamo sopra narrato, illustrano come i missionari cercassero di far leva su alcuni aspetti della religiosità autoctona dei Germani) (8). Esse tuttavia sono senza dubbio assai tarde poiché, come abbiamo visto nella prima parte della presente ricerca l’impiego dell’abete decorato non risulta attestato prima del XV secolo; inoltre esso aveva un significato eminentemente “laico”, poiché doveva celebrare l’inizio del nuovo anno. E anche per quanto riguarda l’aspetto “religioso” della tradizione dell’albero di Natale, -del quale peraltro non si hanno notizie anteriori al XIV sec.-, quello che si rifaceva all’albero dell’Eden, esso non era un abete, ma un albero a foglie decidue; quanto ai lumi e alle candele furono aggiunti solo all’inizio del XVII sec., per cui è probabile che, almeno nella forma sopra riportata, codeste leggende non siano nate prima di tale secolo.

Una tradizione -invero assai poco attendibile- attribuisce poi l’invenzione dell’albero di Natale allo stesso Martin Lutero. Il riformatore religioso, nell’imminenza del Natale, mentre una notte stava attraversando un bosco innevato avrebbe innalzato lo sguardo al cielo per contemplare le stelle che scintillavano mostrandosi tra i rami degli abeti. Quella suggestiva immagine tanto colpì la sua fantasia che una volta tornato a casa disse alla sua famiglia che gli aveva ricordato la discesa di Dio in Terra e pertanto volle riprodurre quella visione con un abete decorato con nastri e illuminato con candele (in realtà, come abbiamo visto, l’impiego delle candele o di altri lumi per addobbare l’albero non è attestato prima degli inizi del XVII secolo; è vero però che fino al 700 l’albero di Natale era un costume proprio solo delle aree protestanti -e in alcune zone della Russia settentrionale-).

Un’altra leggenda più modestamente attribuisce invece la storia e la conseguente invenzione dell'”albero” a un umile taglialegna, il quale tornando a casa la vigilia di Natale in una notte rischiarata dalla Luna, vide un meraviglioso spettacolo: le stelle che brillavano tremule tra le fronde di un abete ricoperto di neve. Per dare un’idea alla sua sposa della bellezza di quanto era apparso ai suoi occhi, l’uomo prese un piccolo abete, lo rivestì di nastri bianchi, che rappresentavano la neve, e di candeline accese che tenevano il luogo delle stelle. Tutto il vicinato accorse per ammirare l’opera del taglialegna e da allora divenne uso comune nelle case adornare un abete o un pino per rievocare l’episodio.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1) l'”unitaniarismo” cristiano è la corrente moderna del protestantesimo che rifiuta il dogma della trinità, e che dunque sotto questo aspetto si può considerare una riedizione dell’arianesimo antico. Le idee antitrinitarie furono riprese nel XVI secolo da Michele Serveto e da Lelio e Fausto Socini, ed ebbero poi notevole seguito in Inghilterra e in Scozia nel XVII e XVIII secolo dove furono fatte proprie da personalità quali il poeta John Milton e lo scienziato Isaac Newton, e ispirarono la fondazione di chiese vere e proprie. Da esse derivarono la chiesa unitariana degli USA che esercitò anch’essa notevole influenza.

2) la trama si incentra su un principino, Riccardo, rapito da un malvagio zio, il quale facendo credere morto il nipote intende assicurarsi la successione al trono. Saputo -da un supplica rivoltagli- dell’esistenza di un fanciullino che era un sosia del principe, egli si precipita dalla madre di lui e una volta che questi a causa della cagionevole salute viene a morte, lo sostituisce con il nipotino che viene così reputato defunto. Il vero principe viene affidato a Margherita, la madre, la quale è costretta al silenzio sotto minaccia di morte; in seguito vengono spediti entrambi in Italia, a Firenze. Qui però dopo un tentivo di fuga di Riccardo (al quale era stato cambiato il nome in Ermanno), la donna trova la forza di confidarsi alle persone che l’ospitavano, così che viene mandato un funzionario italiano alla corte di Achilberg e il legittimo principe si può ricongiungere alla propria famiglia.

3) anche il “Samahin” celtico, cristianizzato nella solennità di “Tutti i Santi” risponde in pieno a questa tipologia del “capodanno”: come abbiamo ricordato nella specifica trattazione che abbiamo dedicato all’argomento, in Sicilia e un tempo pure in alcune località della Spagna sono gli spiriti dei defunti a portare doni ai bambini. La celebrazione di Samahin, oltre che nella festività di “Tutti i santi”, è continuata anche nella commemorazione di S. Martino di Tours l’11 novembre, santo assai venerato nel ME, al quale, pur non risultandomi che abbia assunto l’incarico di distribuire regali ai bambini, sono legate manifestazioni che, sia pure in tono minore, rientrano nella tipologia del capodanno (fiere, occasioni conviviali, preparazione di dolci tipici, scadenza dei contratti agricoli, ecc.), frequenti specialmente nell’Italia centro-settentrionale (sul capodanno celtico si veda quanto abbiamo detto nella prima parte de “La Festa di Halloween e la Commemorazione dei Defunti” del 12 ottobre 2014).

4)  quando nel 1582 fu adottata la riforma del calendario giuliano promossa da papa Gregorio XIII, onde riagganciare l’anno civile al corso solare, il solstizio d’inverno cadeva il 10 dicembre.

5) da questa credenza della religione germanica, assai deformata dall’avvento del cristianesimo, si sviluppò l’idea, comune nel folklore di buona parte d’Europa, di un esercito di esseri soprannaturali come elfi, folletti, troll, ecc. e/o diavoli e spiriti dannati -talora anche di bambini morti prima del battesimo e di persone decedute prematuramente o di morte violenta, e quindi particolarmente predisposti ad assumere caratteristiche demoniache (si veda quanto abbiamo detto a proposito dei “biaiothanatoi” e degli “atelestoi” nella ricerca sulle “defixiones” del 6 febbraio 2017)-, che nelle notti tempestose, con fragore di tuono, ululati di lupi e latrati di cani, percorre la terra in luoghi montuosi e orridi suscitando spavento in chi lo oda e lo veda (e vederlo è considerato in genere presagio di sventura), e viene talora a confondersi con la ridda delle streghe che si recano al sabba. Codesta sorta di macabro spettacolo è noto nell’etnologia con l’espressione “caccia selvaggia” (“Wilde Jagd”), prescelta da Jacob Grimm, il quale nella “Mitologia Germanica” (1835) studiò a fondo questa credenza, ma è designato con diversi termini, più o meno suggestivi, nell’ampia area in cui è attestato -esercito selvaggio, esercito furioso (“wutende heer”), caccia di Odino (“Woden’s Hunt”), “oskoreia” e “asgardreia” (in Scandinavia), ecc.-. Secondo J. Grimm la cristianizzazione trasformò quel mistico corteo, da “marcia solenne degli dei e degli eroi”, in “un branco di spettri orrendi, pieno di elementi oscuri e diabolici” e come tale appare invero con molte e significative varianti nel folklore di quasi tutti i paesi d’Europa. Questa concezione peraltro rientra in quella più generale che vuole all’inizio di un nuovo ciclo annuale si dischiudano temporaneamente le soglie che separano i vivi dai morti, i mortali dagli dei e gli spiriti dei defunti tornino sulla terra. Nella credenza medioevale e moderna la schiera di spiriti e di demoni può essere guidata, oltre che da una figura che è chiaramente lo stesso Odino, decaduto a demone, da svariati personaggi mitici (Arawn, -divinità celtica gallese-; Gwyn ap Nudd in Irlanda; ecc), ma pure leggendari o addirittura storici, quali Caino, Erode, re Artù, Teodorico, Carlo Magno, ecc.-. Tra i personaggi mitici, che spesso sono anche femminili, ricordiamo soprattutto Berchta (o Perchta) e Holda (o Holle), nella Germania rispettivamente meridionale e settentrionale, figure in cui rivive l’antica dea degli Inferi Hel, -omologa dell’Ecate-Persefone greco-romana, dell’Ereshkigal mesopotamica, ecc-, ma che, stranamente, nel passaggio tra antica religione e cristianesimo hanno attenuato i tratti orrifici e assunto caratteri più positivi e benefici, forse per influenza delle dee Diana, Ecate e Selene alle quali furono accostate. “Frau Holle”, -di cui si diceva che quando scuote energicamente i cuscini e i materassi della sua casa le piume che ne escono diventano fiocchi di neve- è anche la protagonista di una fiaba dei fratelli Grimm (“Racconti per bambini e famiglie”, 24), in cui assume i tipici tratti della fata che premia una fanciulla gentile e modesta e punisce invece la sorella di lei che si era dimostrata avida ed arrogante. Questo personaggio, la cui iconografia comprendeva una versione in cui appariva come dotata di aspetto leggiadro e una di vecchia con naso adunco, è ritenuta una delle figure da cui si sarebbe sviluppata la Befana, sebbene nella figura di quest’ultima riviva anche la memoria dell’antica divinità romana Strenua, o Strenna, e confluiscano probabilmente anche componenti che la apparentano alle streghe greco-romane come la Mormò: non deve stupire che un essere considerato uno spauracchio per bambini possa aver acquisito nel volgere dei secoli carattere benefico, sia perché figure demoniache possono attenuare la loro malignità per assumere tratti positivi (e viceversa), sia perché nella Befana esiste anche un aspetto “punitivo” (il carbone per i “cattivi”). Sebbene la Befana sia tipica del folklore italiano, in alcune aree tra Germania e Francia, e segnatamente in Franca Contea si riscontra, -o si riscontrava-, una figura a lei simile nei tratti e nel comportamento, la “Tante Arìe” (la “zia Arìa”), salvo il fatto che ella trasporta i suoi doni sulla groppa di un asino, chiamato “Marion”, e li offre la notte di Natale e non in quella dell’Epifania. In questa “buona signora” peraltro si celerebbe anche un personaggio storico, poiché sarebbe lo spirito di Enrichetta d’Orbe-Montfaucon, contessa di Montebeliard (1387-1444), nota in vita per la sua carità e beneficienza. Nel loro aspetto demoniaco Holle e Berchta furono accomunate ad altre figure mitiche o mitizzate quali Diana, Erodiade (nei paesi latini), Abundia, regina di Elphame (nelle isole britanniche), e altre, spesso citate nei processi per stregoneria come guide e sovrane delle streghe. Una affinità notevole, -che può essere dovuta sia a una comune derivazione, sia a un’influenza della Berchta germanica-, presenta la Morana (o Marzanna) slava-: nel folklore dei paesi slavi al simulacro di quest’ultima è riservata la triste sorte di essere bruciata o annegata (o entrambe le cose), sorte simile a quanto avviene in diversi luoghi in Italia, in cui, con somma ingratitudine, dopo aver ricevuto da lei i doni la si manda al rogo; peraltro il rogo o l’annegamento di Morana sono perpetrati il primo marzo, con l’intento di allontanare l’inverno di cui è simbolo- e non nella ricorrenza dell’Epifania-.

6) in effetti però, come ci informa Jacques A. S. Collin de Plancy (1794-1881) nel suo “Dizionario delle reliquie e delle immagini miracolose”, fino alla metà del XIX secolo di corpi di S. Lucia se ne contavano almeno altri tre, -conservati rispettivamente a Roma, a Palermo e a Metz in Francia-, più una testa isolata che si venerava nella cattedrale di Bourges. Fenomeno questo invero tutt’altro che raro nella storia delle reliquie cristiane; anzi è, o era (perchè nel 900, specie dopo il concilio vaticano secondo, si è cercato di porre rimedio a tale stato di cose alquanto ridicolo), piuttosto normale che del medesimo santo, vissuto nell’antichità o nel ME, fossero venerati in più luoghi il corpo o parti di esso (che secondo alcuni erano stati miracolosamente moltiplicati).

7) abbiamo già ricordato nella nota n.4 della sesta parte della “Storia minima dell’idea di Dio” che questo personaggio nel 752 incoronò Pipino il Breve re dei Franchi, legittimandone così l’usurpazione, con il consenso e il sostegno di papa Zaccaria.

8) si sa dalle fonti antiche che Bonifacio di Magonza spesso fece abbattere gli alberi sacri venerati dai Sassoni e da altre stirpi germaniche, ma non risulta abbia compiuto “miracoli” del tipo di quello riportato. In effetti lui, e altri missionari, pure in epoche successive, sfidavano spesso i pagani  a sollecitare i loro dei a intervenire per salvare i loro simulacri dalla distruzione e dimostrare così la loro esistenza. Ma è ovvio che un simile argomento avrebbe potuto valere anche contro i cristiani (e non risulta che le profanazioni di ostie, reliquie e immagini sacre compiute durante la rivoluzione francese o quella russa abbiano mai suscitato l’intervento di Dio e provocato castighi divini). Le conversioni di massa, e talora anche non di massa, alle religioni monoteistiche non sono mai avvenute con argomentazioni sottili o un’opera di intelligente persuasione, ma con modalità rozze e superficiali, quando non con l’imposizione violenta. Ma anche quando il sovrano di un popolo prima “pagano” si convertiva al cristianesimo, spesso più per convenienza e opportunità politica che per convinzione, tutti i suoi sudditi erano tenuti a convertirsi a loro volta: così avvenne con Clodoveo I re dei Franchi, Boris I khan dei Bulgari, Vladimir I gran principe di Kiev, Stefano re d’Ungheria, e molti altri.

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