BREVE STORIA DELLA GALLINA E DEL GALLO DOMESTICI -prima parte-

“…L’ale/ battendo esulta nella chiusa stanza/ la gallinella, ed al balcon s’affaccia/ l’abitator de’ campi, ed il Sol che nasce/ i suoi tremuli rai fra le cadenti/ stille saetta…”: cosi si apre un celebre idillio di Giacomo Leopardi, “La vita solitaria”: da questi versi prende inizio la nostra nuova trattazione dedicata a quest’umile pennuto al quale tanto deve l’umanità, e che dunque meriterebbe la sua devota riconoscenza, e che invece è stato ed è sfruttato in modo spietato e senza scrupoli.

I naturalisti Linneo e Darwin pensarono che la Gallina -e il Gallo- domestici derivassero dal “Gallus gallus”, -altrimenti detto Gallo Rosso delle foreste-, una galliforme selvatico, appartenente alla famiglia dei Fasianidi (come i Fagiani di varie specie, il Pavone e la Quaglia), che vive nelle foreste di India e Indocina, una delle quattro specie del genere “Gallus” il cui areale di distribuzione si trova nell’Asia sud-orientale, e in particolare ad una delle sue sottospecie, il “Gallus gallus Bankiva”. Essi attribuirono tale ascendenza considerando la somiglianza nell’aspetto e nella colorazione di questo volatile con quello di molte razzi domestiche. Ma da studi compiuti nel XX secolo si è supposto che pure altre razze, oltre al Gallo Bankiva abbiano contribuito allo sviluppo dei polli domestici.

Maschio di Gallus gallus bankiva ( javanicus).

Come abbiamo detto sopra, oltre al “Gallus gallus”, questo genere comprende altre tre specie che sono il “Gallus Sonnerati” (Temminck, 1831), detto “Gallo Grigio della giungla”; il “Gallus Lafayettei” (Lesson, 1831), “Gallo di Lafayette”, detto anche “Gallo Giallo della giungla”, o “Gallo di Ceylon”; e il “Gallus varius” (o “G. furcatus”)(Shaw e Nodder, 1798), detto “Gallo Verde della giungla”, o “Gallo di Giava”. A sua volta la specie “Gallus gallus” appare differenziata in cinque sottospecie: il “G. gallus murghi”, -Gallo indiano-; il “G. gallus spadiceus” -Gallo birmano-; il “G. gallus Jabouillei” -Gallo tonchinese-; il “G. gallus gallus” -Gallo di Cocincina-; e il “G. gallus bankiva”, o “G. gallus ferrugineus”, ritenuto il più diretto antenato del Gallo domestico (1).

Quest’ultimo presenta, nel maschio, la sommità del capo arancio scuro, circondata da un’elegante mantellina ricadente fulvo dorata, dotata di lunghe piume lanceolate con fiamma nera e rachide giallo pallido, mentre il petto e l’addome sono neri. Le scapolari, le piccole copritrici e le mediane del dorso appaiono brune, più scure al centro della schiena, sfumate d’arancio ove principiano a spuntare le piume lancelolate della groppa; le grandi copritrici alari sono invece nerastre. Le remiganti primarie sono di color nero brunito con splendide iridescenze verdi e porpora con barbe esterne rosse; le remiganti esterne sono anch’esse nere con riflessi verdi. Le lunghe copritrici della coda e le timoniere risaltano per il bel colore verde bronzo. La coda, a differenza della maggior parte delle razze domestiche, è solo lievemente arcuata, per cui assomiglia un po’ a quella di alcune specie di Fagiani, sebbene più corta che in essi, il cui ricordo si ravvisa anche nell’andatura. Alla base della coda troviamo un fiocco biancastro, mentre il sottocoda è nero oleoso.

Areali di diffusione delle specie del genere “Gallus”.

Il becco è color grigio-giallastro tendente al rosso alla base della mandibola e l’occhio è dotato di iride rosso-aranciata. La sommità del capo è ornata da una cresta dentellata in modo regolare di color rosso vivo brillante; la gola è rosso-rosata, dalla tonalità meno intensa della cresta e da essa pendono due bargigli rossi e corti.

Per quanto riguarda la femmina, la sommità del capo appare colorata di bruno, così come le piume intorno alla gola. Il collo e la parte superiore della mantellina sono giallo oro, con una sfumatura più aranciata ai lati; ciascuna di queste piume mostra una striscia nera mediana, mentre la rachide è biancastra. Il piumaggio del rimanente della parte superiore del tronco è di un prevalente color bruno ocra e le piume secondarie appaiono arabescate di nero, talora con un disegno sì fine da sembrare una sorta di trina. Le primarie sono invece tinte di marrone scuro, con una sfumatura più pallida nel lato esterno e talora macchiettate di scuro. La parte inferiore ed anteriore del collo è anch’essa bruna, il petto è caratterizzato da una sfumatura rosa-aranciata che si fa meno intensa sull’addome, le cui piume, dotate di rachide pallido. I fianchi, le cui piume sono dotate di rachide pallido, sono anch’essi color bruno terra e arabescati in nero; le penne della coda sono nero-brunastre: le due timoniere in entrambi i lati, mentre nelle restanti il lato esterno appare macchiettato di rossastro pallido. Le galline hanno cresta e bargigli rudimentali, di colorito assai più tenue che nel gallo, mentre il becco è grigio corneo e l’iride brunastra. Le uova, che depone in primavera in numero di cinque o sei, sono bianche sfumate di rosa-crema; l’incubazione di 21 giorni come nelle galline domestiche. Sia le galline che i galli hanno tarsi di tonalità plumbea pallida; gli speroni sono lunghi e aguzzi nel maschio, solo accennati nella femmina.

Gallina (femmina di Gallo Rosso della giungla).

Da notare che dopo la stagione degli amori, in primavera, il Gallo Rosso della giungla si veste di una livrea più dimessa (detta “piumaggio d’eclissi” o “livrea di riposo”), seguita da una ricrescita durante l’autunno-inverno. In concomitanza con tale muta anche il comportamento del gallo che si fa assai più timido e riservato, mentre la sua voce diviene meno squillante e simile a quella delle galline. Il “piumaggio d’eclissi” non si riscontra nelle razze domestiche di gallo, nonché negli ibridi tra animali selvatici e domestici, ed è quindi uno dei criteri fondamentali, più che non l’aspetto, spesso assai simile, per distinguere gli esemplari selvatici da quelli allevati.

Il Gallo Rosso vive di solito in gruppi più numerosi rispetto alle altre specie del suo genere, -in particolare il Gallo Verde, che è monogamo e vive in coppia con una sola gallina (pur se talvolta la “tradisce” con altre)-, ma di certo non come quelli dei polli tenuti in cattività, che comprende il più delle volte un maschio e tre o quattro femmine; sembra però che durante per ciascuna stagione riproduttiva le uova di una sola gallina siano fecondate, così che solo una all’anno per famiglia diventa chioccia.

Le prime attestazioni dell’addomesticamento del gallo sono state rinvenute in Cina e risalgono addirittura al VI millennio a. C., nell’era neolitica, nei resti di centri abitati venuti alla luce nelle province di Hebei e di Henan, nella Cina settentrionale. Nei siti archeologici di Cishan e di Peiligang sono state scoperte testimonianze di un’antica cultura agricola primitiva che si sviluppò tra il 5900 e il 5400 a. C.; qui si sono trovate ossa di Cane, di Maiale e di Pollo, in particolare di quest’ultimo diversi tarsometatarsi: da esse si è dedotto che dovevano appartenere ad animali più grandi del Gallo rosso delle foreste, ma più piccoli degli attuali polli domestici. Anche nei siti attribuibili alla più recente cultura neolitica di Yang-Shao, fiorita nell’odierno Shanxi meridionale tra il 4800 e il 3000 a. C., sono stati riscontrati resti di polli domestici. Poiché è dimostrato che l’ambiente nel quale si svilupparono questi insediamenti umani era di steppa semiarida, e dunque ben diverso da quello caldo-umido in cui vivevano e vivono tuttora le specie da cui si ritiene trassero origine le forme domestiche, si è dedotto che l’addomesticamento del gallo sia avvenuto nell’Asia sud-orientale, donde intorno al 6000 a. C. i polli sarebbero stati importati nella Cina settentrionale.

Dall’estremo oriente i gallinacei furono importati prima nell’Asia centrale e in India e in seguito anche nel Vicino Oriente e in Europa. Secondo studi recenti la loro diffusione nelle aree centrali del continente europeo dovrebbe aver avuto inizio nelle fasi C e D della “cultura di Halstatt” (VI-V secolo a. C), come testimoniano numerosi rinvenimenti in Germania, in Polonia e in Slovacchia. Più articolata e incerta è la documentazione della presenza di galli nella penisola iberica, dove, a parte scarse e dubbie segnalazioni in siti risalenti all’età del Bronzo, i galliformi domestici sembrano essere stati allevati a partire dalle fasi iniziali dell’età del Ferro, come  mostrano recenti ritrovamenti in una località nei pressi di Cadice.

Ma come abbiamo detto sopra prima di giungere in occidente è soprattutto in Asia che l’allevamento dei polli conobbe una vasta espansione: dopo la Cina sembra sia stata la Valle dell’Indo il luogo di elezione dove i “volatili da cortile” trovarono un ambiente propizio e si diffusero ampiamente. Qui tra il 3300 e il 1600 a. C. (2) fiorì la “Civiltà di Harappa”, così chiamata dal nome della presunta capitale, che, insieme ad un’altra città, Mohenjo-Daro -entrambe nell’attuale Pakistan-, nonché nei centri di Lothal e Dholavira nello stato indiano del Gujarat, è il luogo che ha lasciato le testimonianze archeologiche più conosciute e studiate. Una prospera agricoltura stava al fondamento di questa civiltà, che intratteneva intensi scambi commerciali con il paese dei Sùmeri e in seguito con il regno semitico di Akkad -in particolare nel periodo in cui fu re Sargon il Grande-, e altre località del Medio e Vicino Oriente.

I principali centri ove fiorì la “Civiltà dell’Indo”.

La disposizione e l’architettura della città di Harappa sembra essere stata ispirata a principi urbanistici assai avanzati per quei tempi, mentre i reperti archeologici (ceramiche invetriate, bronzi, sigilli di steatite riportanti segni pittografici, statuette di terracotta raffiguranti animali e divinità,  ecc.) mostrano affinità con i manufatti coevi di area mesopotamica.

Quanto all’altro più importante centro della civiltà urbana della valle dell’Indo, Mohenjo-Daro, gli scavi archeologici, iniziati fin dal 1922, hanno evidenziato con il ritrovamento di ben nove strati sovrapposti (a somiglianza della più famosa città di Troia) che esso fu soggetto a diverse ricostruzioni, presumibilmente conseguenti ad eventi distruttivi di origine naturale o bellica.

La prosperità delle città della valle dell’Indo sembra essersi arrestata di colpo in seguito all’invasione degli Arii, un ramo della popolazione indoeuropea che sul finire del III millennio a. C. si erano insediate sull’altopiano iranico. Essi giunsero in India a ondate successive, soppiantando così le civiltà già presenti nel sub-continente indiano; ma nonostante i loro sforzi per non mescolarsi con le popolazioni sottomesse, ricevettero in cospicua misura, -come era inevitabile-, gli apporti e le influenze di queste ultime, dando vita così alla nuova civiltà indù, in cui gli elementi fondamentali della cultura nordica indo-europea si fondevano e si esprimevano in forme originali derivate dal substrato della civiltà pre-esistente. Dagli studi più recenti si evince però che anche fattori di carattere geologico e climatico ebbero un’influenza determinante nella scomparsa di questa antica civiltà, in particolare il mutamento del regime idrografico del fiume Sarasvati e del clima che da caldo e umido divenne semiarido.

A Mohenjo-Daro è stato trovato un sigillo raffigurante un combattimento di galli (segno che questo discutibile e deprecabile divertimento aveva già preso piede), nonché numerose statuette di gallinacei in creta e una gallina incorporata in un piatto di portata. Le ossa dei polli allevati nella valle dell’Indo che sono più grandi di quelle dei Galli Bankiva, sembrano indicare che fu la selezione conseguente all’allevamento la causa dell’aumento corporeo.

Una tradizione ormai del tutto smentita voleva che l’ingresso di galli e galline in Persia sia avvenuto durante il primo millennio a. C. in particolare dopo che sotto il regno di Ciro II il Grande i Persiani ebbero conquistato parte dell’India settentrionale (l’odierno Pakistan) nel 537 a. C. Ma, stando sia ai dati desumibili dai testi sacri del Mazdeismo, la religione degli antichi Persiani, fondata dal leggendario profeta Zarathustra (o Zoroastro nella tradizione greca) sia a quelli emersi dai ritrovamenti archeologici possiamo affermare che gli inizi dell’allevamento dei polli in Iran risalga ad un epoca assai anteriore. Nell’Avesta si narra che il dio supremo Ahura Mazda donò all’uomo una coppia di polli, e Zarathustra prescrisse a ciascun fedele di allevare e nutrire un bue, un cane e un gallo, animali legati alla luce e al bene. In particolare il gallo, grazie alla sua abitudine di cantare poco prima che il Sole sorga, fu considerato il “Messaggero dell’Aurora” ed era simbolo di vita e di resurrezione, nonché il “Guardiano del Bene”, che scacciava i demoni della notte.

Una parte essenziale il gallo ha nel XVIII capitolo del “Videvdat”, -la “Legge contro i Daeva” (3) (chiamata anche “Vendidad” in una traslitterazione inesatta), -una delle parti delle quali si compone l’Avesta (4) che tratta più che altro delle prescrizioni rituali e della purificazione ma in cui non mancano neppure narrazioni mitiche-; qui si trova un dialogo tra Ahura Mazda e Zarathustra Spitama, nel quale i profeta pone delle domande al dio supremo e questi risponde esponendo un elenco di precetti che aiutano l’uomo sulla via dell’elevazione spirituale. Nell’ultima parte del capitolo appaiono però due altri personaggi: Sràosha, -il dio-sacerdote a cui è affidata la protezione del mondo dai demoni, o “daeva” (5)-, e Drug, “la menzogna”, rappresentata come donna lasciva e impudica.

In veste di assistente di Sràosha è presentato uno strano uccello, chiamato Parodarsh. Zarathustra chiede al suo signore chi mette in moto il mondo ed Ahura Mazda gli risponde: “E’ l’uccello il cui nome è Parodarsh, o Zarthustra Spitama, che i mortali maligni [lett. “le malelingue”] chiamano Kahrkatas (6), l’uccello che leva la sua voce verso la possente aurora, [dicendo] -Sorgete, o uomini! Recitate l'”Ashem yad vahistem” che dilegua i demoni malvagi!-“. Infatti è lui a destare gli uomini dal sonno e a dissipare gli inganni di Bushyasta dalla lunga mano, demone che incarna la morte fisica e spirituale e che tenta di impedire il risvegliarsi della coscienza, ribaltando i tre principi fondamentali della religione mazadaica: buon pensiero, buona parola e buona azione nel loro contrario. Ed Ahura Mazda, -dopo aver parlato del fuoco sacro, Atar, e della sua lotta contro il serpente Azi-Dahak-, conclude il suo intervento proclamando che chiunque farà dono con devozione ad uno dei fedeli di una coppia di uccelli Parodarsh, maschio e femmina, “sarà come se avesse donato una casa con cento colonne, cento travi, diecimila finestre larghe e diecimila finestre piccole”, e chiunque avesse offerto cibo a questi insigni pennuti sarebbe stato certo di entrare in paradiso.

Nel cap. XIX del “Bundahishn” (“La Creazione”), l’ampio testo enciclopedico in cui sono esposte la cosmogonia, la cosmologia e l’escatologia mazdaiche, si legge che il Gallo venne creato per combattere i demòni e gli stregoni;… Egli, insieme al Cane è l’alleato di Sraosha contro gli agenti delle tenebre”.

Peters peraltro ritiene che l’introduzione del gallo in Iran sia assai anteriore al diffondersi del verbo di Zarathustra, il quale, com’è noto, fu un riformatore dell’originaria religione iranica di matrice indo-europea, simile a quella vedica degli Arii, e sia venuta presumibilmente dalla Battriana, regione dell’Asia centrale, ove a sua volta l’allevamento dei polli sarebbe stato importato dalla Cina; dai Persiani poi tale pratica sarebbe stata introdotta in Mesopotamia e in Asia Minore. Ma anche in questo caso i dati archeologici sembrano contraddire la versione prevalente sul diffondersi dei gallinacei verso occidente, poiché a Babilonia sono stati rinvenuti sigilli risalenti all’incirca all’800 a. C. (e dunque ben prima dell’annessione della Mesopotamia all’Impero Persiano, o comunque dei contatti tra i due popoli) ove sono raffigurati galli appollaiati in cima a colonne che sembrano venerati dai sacerdoti: e dunque anche nella terra dei due fiumi la presenza di questi pennuti avrebbe avuto un significato e una finalità religioso-simbolica e non economica (come senza dubbio deve essere stato in Cina e nell’India pre-ariana).

Fino a non molto tempo fa si credeva che il gallo fosse stato conosciuto dai Greci per il tramite dei Persiani, o forse dei Medi: tale ipotesi era suffragata dal fatto che essi chiamavano il pollo “Uccello dei Medi”, oppure “Uccello Persiano” (“Persikòs Ornis”); ma secondo gli studi più recenti, e in particolare quelli di Peters, i Greci conoscevano il gallo ben prima dei loro contatti con le due popolazioni iraniche e i nomi loro attribuiti che facevano riferimento alla provenienza orientale di questo animale sarebbe dovuta all’importanza riservata a questo volatile nella simbologia religiosa del mazdeismo.

Omero ed Esiodo non fanno menzione del Gallo e della Gallina nelle loro opere, e la prima citazione letteraria di questi volatili si trova presso Teognide, poeta elegiaco di Megara nel Peloponneso vissuto nel VI secolo a. C., ma in seguito diversi autori nelle loro opere citano o trattano dei gallinacei, quali ad es. Aristofane in “Le Nuvole” e “Gli Uccelli” (7) e Aristotele nella “Historia Animalium”.

Il Gallo in Grecia ebbe il nome di “Alèktryon”: questa voce è di solito (vedi “Dizionario Greco-Italiano” di Lorenzo Rocci e “Dizionario etimologico della mitologia greca”) messa in relazione con il verbo “alexo, alexein”, con significato di “allontanare, difendere da, proteggere”, e questa è quasi certamente l’etimologia di “alektor”, -“difensore”- altro termine con il quale era noto il gallo, e dal quale deriva il nome della gallina “Alèctoris” (come abbiamo precisato nella nota 7). Secondo un’altra ipotesi tale nome potrebbe essere derivato da “Halaka”, uno dei termini con cui i Persiani indicavano il Sole, e in seguito anche il gallo suo messaggero. “Alettrione” è il nome di un personaggio mitologico che aveva partecipato alla spedizione degli Argonauti, citato anche nell’Iliade quale padre di Leito, guerriero greco (Iliade, XVII, 759 -nella traduzione del Monti-), ma è assolutamente da escludere un suo legame col gallo, che avrebbe assunto questo nome solo in età posteriore a quella omerica.

Dal VII secolo a. C. poi raffigurazioni di galli appaiono anche con frequenza sia nella ceramica sia nella monetazione: da esse, specie i conii monetali, possiamo osservare che all’inizio i galli erano di modeste dimensioni (e quindi simili agli esemplari selvatici dai quali derivavano), ma poi aumentarono progressivamente le loro misure.

Gallo raffigurato su un vaso corinzio.

Soprattutto nei vasi corinzi -che mostrano una marcata predilezione per i soggetti animalistici e naturalistici in genere- il gallo ha un particolare risalto ed è spesso rappresentato insieme ad altri animali in eleganti composizioni figurative. Anche nella ceramica attica a figure nere nel VI sec. e a figure rosse nel V il gallo ha una parte piuttosto importante e la sua presenza non è relegata a complemento decorativo, poiché appare non di rado in complesse scene mitologiche o di vita quotidiana.

Nell’antica Grecia erano rinomati e apprezzati soprattutto i polli della Calcide, di Rodi e di Tanagra; da codesta città della Beozia provenivano due razze diverse, citate da Pausania il Periegete (“Periegesi della Grecia”, IX -Beozia-, XXII, 4): gli esemplari di una delle due erano dette “combattenti” (“Machimoi”) poiché era utilizzate in prevalenza per quell’esecrabile spettacolo che è il combattimento dei galli, mentre quelli dell’altra, – detta “Kossyhpoi” (“Merli”) a cagione del nero piumaggio di cui era rivestita-, erano dotati di bargigli e cresta vivacemente colorati di rosso e pertanto paragonati da Pausania ad un anemone scarlatto (8).

Il gallo viene altresì ad assumere notevole rilevanza nella simbologia religiosa poiché oltre ad essere associato ad Hermes e ad Ares, divenne per eccellenza l’uccello di Asclepio, il dio della salute e della medicina figlio di Apollo, per significare la vigilanza e l’attenzione che devono sempre contraddistinguere coloro che si dedichino ad attività terapeutiche e pertanto invalse l’usanza di offrire un gallo in sacrificio al dio guaritore dopo essere stati sanati da una malattia o aver superato gli effetti di un incidente. Celebre è il passo finale del “Fedone” platonico ove Socrate, che, dopo aver bevuto il letale succo della cicuta, si appresta a lasciare questo mondo, invita il suo discepolo Critone ad offrire un gallo ad Asclepio, volendo così significare che la morte terrena era la definitiva guarigione dai mali dell’esistenza.

Secondo un mito, riferito però solo da autori tardi (Luciano di Samosata, Eustazio di Tessalonica), Alettrione era un giovincello amico e confidente di Ares, il quale era stato incaricato dal dio guerriero di stare di guardia mentre egli si appartava con Afrodite per i loro segreti convegni amorosi, affinché lo avvisasse se si fosse appropinquato alcuno e soprattutto per dirgli quando il Sole stava per sorgere. Ma una volta Alettrione, stanco per la lunga attesa, fu vinto dal sonno e quindi non potè avvertire il suo amico che il Sole era sorto. Quest’ultimo stando celato dietro una nube ebbe così modo di vedere i due amanti e denunciarli a Efesto, legittimo consorte di Afrodite, il quale per vendetta avvolse i fedifraghi in una rete dorata e li mostrò per ludibrio agli altri dei. Dopo essere stato liberato, Ares adirato con il suo poco diligente servitore lo tramutò in uccello: le armi che questi portava divennero gli speroni e il cimiero la cresta. Ed è per questo che il gallo, memore del comando al quale non aveva ubbidito, tutte le mattine indica con il suo canto il momento in cui il Sole sta per levarsi all’orizzonte.

In effetti codesta storia boccaccesca deve essere assai antica ed è narrata anche nel libro VIII dell’Odissea (vv. 352-491 nella versione italiana del Pindemonte) per bocca di Demòdoco il cantore cieco che alla corte di Alcinoo intratteneva gli ospiti del re dei Feaci, e che Ulisse ascolta quando viene accolto dal sovrano. Ma molto più recente fu l’inserimento di Alettrione in questo racconto e della trasformazione di lui in gallo, che troviamo citata proprio in un dotto commento all’Odissea del letterato bizantino Eustazio di Tessalonica, vissuto nel XII secolo, ma che riprese e riassunse nelle sue opere i commenti di molti altri autori antichi, specie di età ellenistica (Aristarco di Samo, Aristofane di Bisanzio, ecc.).

L’episodio viene narrato anche in uno dei dialoghi di Luciano di Samosata, intitolato per l’appunto “Il Gallo” -oppure “Il Sogno”-. In esso un povero calzolaio, Micillo, è destato da un gallo proprio mentre sta sognando di essere diventato ricco, grazie all’eredità lasciatagli da un certo Eucrate, dal quale era stato invitato a cena poco tempo avanti potendo così ammirare la sontuosità della dimora e dei conviti di costui. Con grande meraviglia di Micillo il gallo comincia a parlare con umana favella in risposta alle imprecazioni e alle minacce del suo padrone, adirato per essere stato svegliato proprio mentre stava assaporando le delizie che egli associava alla ricchezza. Il volatile dichiara che prima di essere un gallo fu umano, e allora Micillo pensa possa trattarsi dell’amico di Marte protagonista del mito che abbiamo dianzi esposto. Ma l’uccello ribatte che non è lui quel galletto, egli è niente di meno che la reincarnazione del filosofo Pitagora, aggiungendo però che dopo la morte del filosofo la sua anima trasmigrò in molti altri corpi: prima si era reincarnato in Aspasia, la famosa etera ateniese amica di Pericle, poi in un re, in un mendicante, in un satrapo, in un cavallo, in una cornacchia, in un ranocchio e in molti altri esseri che tralascia di indicare per non allungare eccessivamente la sua narrazione (9).

Gallo cavalcato da un efebo in una “kylix” a figure rosse.

Ma il più delle volte era rinato come gallo poiché la vita del pennuto gli aggradava assai e con questo aspetto aveva vissuto accanto a persone di svariate condizioni. Pertanto egli cerca di convincere Micillo che la vita dei ricchi e dei potenti, che quest’ultimo si immagina splendida e fortunata, non è affatto beata e gratificante come potrebbe apparire ad uno sguardo superficiale; al contrario essa è afflitta da continue preoccupazioni ed angustie. E il gallo ricorda soprattutto la sua esperienza come sovrano di un mirabile regno, sotto la cui magnificenza esteriore si celavano timori, dolori e miserie così come all’interno delle colossali statue crisoelefantine costruite da Fidia, da Mirone e da Prassitele, splendide nel loro aspetto, sono nascosti tronchi, chiodi, sbarre, ecc. -che ne costituiscono la vera struttura portante-, nonché polveri e ragnatele.

Micillo chiede allora quale fosse la sua esistenza quando si era trovato vivere in forme animali al che il gallo ribatte: “Cotesto sarìa un discorso troppo lungo, e non è tempo ora: ti basti questo: che nessuna vita m’è paruta più travagliata di quella dell’uomo, il quale non istà contento a soddisfare i soli naturali desideri e bisogni” (traduzione di Luigi Settembrini). Il calzolaio confessa allora che la sua più ardente aspirazione, fin da tenera età, era quella di arricchire, figurandosi che in questo modo avrebbe trovato la terrena felicità, nonché la sua invidia per un suo conoscente e collega, Simone, il quale aveva da poco ereditato “ex lege” da un suo cugino ed era così diventato ricchissimo.

Allora il gallo per dimostrare come la ricchezza sia fonte di guai e di ansie piuttosto che di gioie gli propone di entrare furtivamente nella dimora di Simone, cosa che essi potranno fare grazie alla virtù di una penna della coda del volatile che per concessione di Hermes consente di aprire tutte le porte. Micillo ha così modo di constatare con i propri occhi lo stato di sordida avarizia, il continuo arrovellarsi per i beni materiali in cui versa Simone da quando ha ricevuto la cospicua eredità. Egli si persuade allora della verità di quanto gli ha detto il gallo e della bontà dei suoi ammonimenti.

Di certo la reincarnazione in gallo di Pitagora fu suggerita allo scrittore da quanto è tramandato sia da Diogene Laerzio (“Vite dei filosofi”, VIII, 34), sia dai “Symbola Pythagorae”, una raccolta di 39 precetti morali attribuiti al maestro di Samo ed elencati nel “Protrettico” del filosofo neoplatonico Giamblico, vissuto nel IV secolo. Nell’opera di Diogene Laerzio troviamo che Pitagora raccomandava ai discepoli di astenersi dal nutrirsi di un gallo bianco, che è sacro al dio Men (10), mentre nel precetto n. 17 si invita ad allevare il gallo ma a non ucciderlo, poiché sacro alla Luna e al Sole. In effetti tali comandamenti sembrano in contraddizione con i principi generali sia metafisici sia etici della dottrina pitagorica quale è stata di solito descritta e che, sul fondamento dell’incarnazione delle anime immortali nei più diversi esseri viventi, comporta l’astensione da qualunque tipo di carne e non solo da quelle dei galli. La restrizione limitata al gallo bianco riportata da Diogene Laerzio fa inoltre pensare che già nell’età di Pitagora, -e dunque nel VI secolo-, in Grecia esistessero razze di gallinacei albini; ma d’altro canto queste notizie, almeno nella forma in cui sono state tramandate, sono ampiamente leggendarie.

Questo dialogo, -pur se in esso, in conformità con lo stile e lo spirito dello scrittore greco-siriaco, prevale l’aspetto satirico e grottesco-, mostra una decisa influenza della diatriba cinico-stoica, sia nella forma, sia nella riprovazione della ricchezza materiale, fallace fonte di realizzazione personale e di felicità. Ma oltre a questa, si coglie una indubbia eco della narrazione platonica del mito di Er (contenuto nel decimo libro della “Repubblica”) -che abbiamo analizzato nella terza parte di “L’anima e la sua sopravvivenza” pubblicata il 23 novembre 2016-, in particolare nelle numerose incarnazioni terrene attribuite al gallo e nel fatto che egli poteva scegliere la forma in cui rinascere al termine di ciascuna esistenza, -e quella del gallo è quella da lui preferita-, pur se non si fa cenno come nell’opera di Platone al periodo di permanenza nei cieli o agli inferi tra l’una e l’altra delle vite terrene.

Un’altra probabile fonte di ispirazione di codesto scritto di Luciano è il dialogo di Plutarco “Gli animali usano la ragione”, di cui pure abbiamo parlato, nel quale Ulisse chiede a Circe di restituire l’aspetto umano a coloro che aveva trasformato in animali. La maga gli concede di esaudire la sua richiesta a patto che essi accettino di tornare uomini e tal fine Ulisse interroga un maiale, chiamato Grillo; ma questi, con somma meraviglia del condottiero greco rifiuta la possibilità offerta a lui e ai suoi compagni, affermando che gli animali sono assai più intelligenti e virtuosi di quanto non siano gli uomini: Grillo adduce numerosi esempi a sostegno della sua tesi e stigmatizza l’egoismo e la presunzione di questi ultimi, con acute argomentazioni che Ulisse stenta a confutare, cadendo in banalità e contraddizioni. Pertanto il gallo di Luciano, che preferisce essere un volatile che un umano e denuncia i mali della ricchezza, ricorda un po’ il maiale di Plutarco.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) al “Gallo Bankiva” nel 1980 è stata attribuita, ad opera dell’ornitologo giapponese Takao Nishida, la nuova denominazione scientifica di “Gallus gallus javanicus”. Questo mutamento è dovuto al fatto che il termine “bankiva”, che in malese significa “ibrido, bastardo” è stato ritenuto impreciso e fuorviante. Peraltro tale denominazione che fa riferimento all’isola di Giava potrebbe ingenerare confusione con il “Gallus varius”, il Gallo Verde della giungla, detto anche con nome volgare “Gallo di Giava”.

2) gli studiosi moderni hanno suddiviso la storia della “civiltà di Harappa” in tre periodi: un primo periodo durato dal 3000 al 2600 a. C. in cui presero forma gli elementi caratterizzanti di tale civiltà; un secondo periodo, dal 2600 al 1900, nel quale si ebbe il massino splendore e sviluppo della valle dell’Indo; ed infine un ultimo periodo dal 1900 al 1300 che corrisponde alla decadenza e infine alla scomparsa delle città fiorite nell’India occidentale prima dell’arrivo degli Indo-europei.

3) sui Daeva e gli Asura si veda anche la prima parte della ricerca  sugli “Angeli e Demoni” pubblicata il 10 giugno 2016.

4) il libro sacro degli Zoroastriani, oltre ad alcune appendici minori, comprende quattro parti principali: Yasna, Vispràt, Videvdàt e Khavarta Apastak (altrimenti detta Khorda Avesta, “Piccola Avesta”, poiché è una sorta di riassunto dell’intera opera e di sintesi delle dottrine in essa esposte).

5) questo essere divino, il cui nome significa “Obbedienza” è ascritto talora agli “Amesha Spenta”, i sette Grandi Angeli che coadiuvano Ahura Mazda nel governo del cosmo; talaltra agli “Yazata”, categoria di angeli subordinati ai precedenti ed esecutori dei loro ordini, nella quale rientrano sia personificazioni tanto di concetti astratti e di virtù, -quali Rasnu, la giustizia, Asi, la Ricompensa, Verthraghna, la Vittoria-, quanto di elementi naturali -come Atar, il Fuoco, Ap, l’Acqua, Vata, il Vento-; sia divinità dell’antico pantheon indo-iranico -Mitra, Varuna, Anahita, ecc.- (si veda anche al riguardo la nota n. 6 all’articolo suddetto sugli “Angeli e Demoni”).

6) questo termine di probabile origine onomatopeica è quasi certamente connesso con l’antico iranico “krika”, il greco “kerkos” e il sanscrito “kùkkuta”. Con il riferimento alle “malelingue” si vuole indicare che esso appartiene al linguaggio popolare profano, mentre “Parodarsh”, -che significa “annunciatore dell’alba”-, esprime un valore morale e spirituale.

7) nella commedia “Le Nuvole” Socrate rimprovera Strepsiade che usa lo stesso termine -“alektryon”- sia il maschio -gallo- sia per la femmina -gallina-, sostenendo che debbasi impiegare “alektraina” per indicare quest’ultima. Quest’ultimo termine, costruito a imitazione di alcuni altri usati come forma femminile del nome di diversi animali (“lykaina” da “lykos” = “lupo”; “laina” da “leon” = “leone”, “drakaina” da “drakon” = drago, ecc.), non ebbe mai molta fortuna, sostituito , soprattutto in forza dell’autorità di Aristotele, che lo impiegò nelle sue opere naturalistiche, da quello di “alèctoris”. -propriamente femminile di “alector”-.

8) “Qui a Tanagra vi sono due razze di galli che sono chiamati gli uni “Combattenti”, gli altri “Merli”. Le dimensioni dei “Merli” sono le medesime dei polli della Lidia, ma nel colore sono simili a un corvo, mentre i bargigli e la cresta sono assai simili nel colore all’anemone. Essi sono caratterizzati altresì da piccoli segni bianchi sulla unta del becco e all’estremità della coda”.

9) il gallo non manca però di citare anche l’incarnazione precedente a quella nel corpo di Pitagora, nel guerriero troiano Euforbo, figlio di Panto e di Frontide, il quale secondo l’Iliade fu ucciso da Menelao (XVII, vv. 39-41; 68-70 nella versione del Monti), dopo aver a sua volta ferito Patroclo (XVI, 807-810; 1136-1150); egli è citato anche da Pausania il Periegete (P., II, 17, 3). Stando alle antiche fonti Pitagora stesso sosteneva di essere la reincarnazione di Euforbo. Diogene Laerzio (Vite dei Filosofi, VIII, 4), che riferisce a sua volta quanto aveva scritto Eraclide Pontico, afferma che Pitagora avrebbe avuto da Hermes il singolare privilegio di conservare dopo la morte e nelle successive rinascite il ricordo delle sue vite precedenti; egli sarebbe stato dapprima Etàlide, araldo degli Argonauti, reputati progenie di Hermes, poi Euforbo; in seguito la sua anima sarebbe trasmigrata in Ermòtimo ed infine in Pirro, pescatore dimorante nell’isola di Delo. Alla morte di costui finalmente sarebbe tronato sulla terra come Pitagora.

10) su questo antico dio lunare, -il cui nome si riconnette al nome originario dell’astro argenteo nelle lingue indo-europee e che si ritrova nel latino “mensis”-, si veda quanto abbiamo detto nella quinta parte di “Le Amazzoni, guerriere della Luna” pubblicata il 26 ottobre 2015.

11) in particolare possiamo osservare un’analogia tra il gallo in cui si reincarna Pitagora e il cigno in cui sceglie di rinascere Orfeo, anch’egli filosofo e vate, annunciatore di una dottrina che aveva numerosi aspetti in comune con quella pitagorica, a cominciare dalla metensomatosi.

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2 Risposte a “BREVE STORIA DELLA GALLINA E DEL GALLO DOMESTICI -prima parte-”

  1. interessante la storia della Gallina e del Gallo e la sua diffusione verso Ovest dall’India e dalla Cina…ma chi e quando lo introdusse nelle isole HAWAII e le altre isole della Polinesia? Se c’è bibliografia chiedo la cortesia di farmela avere. Grazie

    1. La maggior parte delle notizie per questa ricerca (che mi riprometto di continuare quanto prima…) sono tratte dal sito “SUMMA GALLICANA” del dott. Elio Corti, il sito più completo in lingua italiana su Galli, Galline, Polli ed altri Galliformi, nel quale sono riportati anche molti testi naturalistici antichi, come quelli di Ulisse Aldrovandi e Conrad Gessner. Lì potrà trovare tutte le informazioni bibliografiche che desidera.

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