RIFLESSIONI SULL’ANNIVERSARIO DELL’UNITA’ D’ITALIA

Ricorre quest’oggi il 160° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia: dopo 17 secoli di divisione e di dominazioni straniere, la nostra patria tornava finalmente ad essere anche uno stato unitario (pur se molti territori italiani rimanevano ancora separati e irredenti).

Ma anche durante i lunghi secoli della divisione e della decadenza politica e civile, mai si era smarrito il senso dell’unità ideale, culturale, spirituale della nazione italiana, costituitasi già sotto la guida illuminata di Roma, che fin dal III secolo a. C. riunì tutti i territori della penisola italiana dalla stretto di Messina alle Alpi, e fondendone poi tutti i popoli in unica nazione, a cui si aggiunsero infine anche le isole (Sicilia, Sardegna e Corsica); ed anzi, pur nella divisione, e poi nella sudditanza a potenze straniere, nell’età di mezzo, sul fondamento della civiltà romana, si venne sempre più definendo e consolidando lo spirito dell’italianità della nazione, sostenuto e propiziato dal genio e dalle opere degli spiriti che illustrarono la nostra nazione nel campo della letteratura, dell’arte, della filosofia e della scienza, ispirandosi sempre nelle loro opera ad un profondo sentimento di italianità, dai massimi -come Dante, Petrarca, Ariosto, Machiavelli, Guicciardini, Tasso, Vico, Parini, fino ad Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni, che si inseriscono a pieno titolo nel nostro Risorgimento-, ad una miriade di “minori”, i quali diedero però anch’essi un importantissimo contributo nel mantenere viva la fiamma della coscienza nazionale (e tra costoro giova qui citare personalità quali il Campanella (il quale con il “Discorso ai principi d’Italia” anticipò di più di duecento anni le resi del Gioberti), il Tassoni, il Boccalini, il Muratori -di cui ricordiamo gli “Annali d’Italia” e i “Rerum Italicarum Scriptores”-, il Tiraboschi -che con la sua “Storia della letteratura italiana” delineò per primo lo sviluppo storico che dalla latinità proseguì negli autori italiani fino ai suoi tempi-, il Maffei, ecc.).

Negli ultimi decenni però l’Unità d’Italia e il processo che portò ad essa, -ossia il “Risorgimento”-, sono divenuti oggetto di un violentissimo attacco, quale mai si era avuto dacchè con il sacrificio di innumerevoli eroi noti e meno noti la sospirata Unità era stata finalmente conseguita. Già aspre critiche erano state formulate agli inizi del 900 dagli ambienti intellettuali di area marxista, che vedevano nel Risorgimento una sorta di “rivoluzione tradita”, che non aveva portato a quel rinnovamento e a quel rivolgimento economico, politico e sociale che essi auspicavano, critiche poi riprese in un contesto del tutto diverso negli anni 60 e 70 -nell’ambito del grande “sbandamento” a sinistra della cultura italiana-; tuttavia tali critiche, -peraltro ingiuste e dettate solo da un estremismo ideologico volto ad instaurare un regime utopico i cui fondamenti la storia del XX secolo ha tragicamente dimostrato illusori ed errati e che ignorava o sottovalutava il grande miglioramento delle condizioni dei ceti popolari in Italia dopo l’unità, tenendo conto delle obiettive condizioni storiche-, non negavano l’esistenza della nazione italiana, nè tanto meno esaltavano o rimpiangevano gli stati fantoccio preunitari, nè consideravano le strutture sociali ed economiche arcaiche e più o meno anacronistiche sulle quali essi si fondavano “migliori” di quelle dello stato unitario costruito nella seconda metà dell’800, -come i vari “anti-unitari” e “anti-risorgimentali” odierni-.

Ma dal finire degli anni 80 del XX secolo, anche sull’onda della rozza propaganda di partiti politici volti, almeno a parole, a perseguire un disegno separatistico, fondato più sulla sempre maggiore insofferenza del popolo alla corruzione e alla mediocrità della classe dirigente italiana che su un vero progetto politico e sull’affermazione di inesistenti “identità locali (o “nazionali”)”, in larghi settori intellettuali si è cominciato a mettere in discussione non solo il Risorgimento, quale concreto processo storico, ma l’esistenza stessa della nazione italiana (considerata una mera costruzione ideologica, avulsa dal comune sentire, e subita passivamente dalle popolazioni della penisola), con il corollario che l’unità del paese venne e viene tuttora rappresentata come una condizione del tutto artificiosa, ispirata e motivata da interessi politici contingenti, nel quale non avrebbero alcuna parte nè gli ideali patriottici, nè l’aspirazione al rinnovamento della società e degli stati in senso liberale, comune a tutta l’Europa nel XIX secolo (e stravolgendo così l’interpretazione della storia contemporanea propria non solo dei liberali e dei nazionalisti, ma degli stessi partiti socialisti e del cattolicesimo liberale e democratico, che aveva ripudiato in modo più o meno esplicito il temporalismo del papato), dando luogo a una copiosissima produzione pubblicistica e saggistica pseudo-storica e pseudo-sociologica volta a diffondere tali tesi. Tesi al cui fondamento stanno “ricerche storiche”, -se si possono così chiamare-, che avevano ed hanno il preciso intento non già di accertare ed interpretare eventi, se non con assoluta obiettività, -il che è forse impossibile per gli esseri umani-, almeno con spirito critico e onestà intellettuale, ma di sostenere e avvalorare tesi precostituite. Da parte degli “autori” (non certo degni di essere definiti storici) di questi libercoli si è giunti anzi al punto di concepire e presentare l’unificazione come una “conquista coloniale” operata da una parte del paese, ossia del Regno di Sardegna, a danno degli altri territori, e segnatamente del meridione, dipinto dalla propaganda anti-risorgimentale e anti-italiana come uno stato florido e ricco, socialmente e culturalmente avanzato, che sarebbe stato depredato e impoverito dal “nord”, e assoggettato agli interessi politici ed economici di quest’ultimo.

Statua che rappresenta l’Italia turrita a Milano.

Codesta operazione predatoria sarebbe poi stata attuata e accompagnata da eccidi e spietate repressioni contro la popolazione (oltre che contro le bande di malviventi, considerati gli animatori di una resistenza contro gli occupanti), talmente estese e feroci da essere definite dai pretesi divulgatori della “vera storia” addirittura come un “genocidio”, paragonabile, per metodi e dimensioni, a quello degli Ebrei durante la seconda guerra mondiale; ed anche in seguito i meridionali sarebbero stati e continuerebbero ad essere vittime di una sorta di “segregazione razziale” da parte dei settentrionali. Non si riesce però a capire per quali misteriose ragioni questo presunto “genocidio” sia stato ben presto dimenticato e rimosso dalla coscienza di coloro che ne sarebbero stati vittime, tanto che solo negli ultimi anni, grazie alla “preziosa” opera di questi storici improvvisati, sarebbe stato “riscoperto”; nè come uno staterello piccolo e arretrato come quello sabaudo abbia potuto muovere una “guerra coloniale” e conquistare ed  annettersi senza molta fatica un regno così avanzato e potente (sarebbe come se gli USA fossero stati conquistati e sottomessi dal Messico…); e nemmeno le accuse di “razzismo” che regnerebbe nello stato unitario italiano, dal momento che non solo i meridionali sono sempre stati parte attiva nella vita delle istituzioni e dello stato, -e quindi corrensponsabili nell’indirizzo politico e nella gestione della cosa pubblica-, ma anzi, almeno dalla fine dell’800, si riscontra una netta prevalenza dell’elemento centro-meridionale nella pubblica amministrazione, nella magistratura, nella diplomazia, nelle forze armate e di polizia, -e a tutti i livelli, non solo nelle fasce gerarchicamente inferiori-, per cui tale accusa risulta palesemente assurda e in evidente contrasto con la realtà sociale del nostro paese. A questi assunti principali si accompagna poi un quasi quotidiano stillicidio di polemiche spicciole ispirate dalle più disparate questioni, da quelle importanti e serie come la caduta del ponte “Morandi” a Genova o l’epidemia di Covid ,a quelle futili come il percorso del giro d’Italia, poichè questa gente non perde occasione per attaccare e denigrare, in modo spesso ridicolo, l’unità d’Italia e il “norde”; fino a giungere a sconclusionate dissertazioni pseudo-genetiche e pseudo-etnologiche in un crescendo di spropositi sempre più sconcertanti.

Queste tesi e queste recriminazioni, per quanto evidentemente assurde e contraddittorie, grazie alla loro orecchiabilità e allo schematismo semplicistico con cui si contrappongono “buoni” e “cattivi” (e secondo tale “narrazione” i “cattivi” sono ovviamente Cavour, Garibaldi, Mazzini) hanno trovato ampio credito e consenso presso il pubblico più sprovveduto, e in quello che, pur non sprovveduto, aveva tutto l’interesse a sostenerle. Pertanto l’opera diffamatoria e disgregatrice, in quanto volta a fomentare un vero e proprio odio razziale (ed il loro sì è in effetti razzismo), di codesti individui, per lo più mediocri giornalisti o scrittorucoli di terz’ordine, -spesso “convertitisi” per convenienza alla causa “sudista”-, è stata attivamente supportata e talora anche direttamente ispirata da una parte della classe dirigente centro-meridionale (e per “classe dirigente” intendo non solo i politici, ma anche intellettuali, imprenditori, categorie professionali) che attraverso di essa aveva l’opportunità di attribuire le proprie colpe all’Unità d’Italia e al Risorgimento, facendone il capro espiatorio dell’incapacità, avidità e inadeguatezza di cui aveva dato prova; nonchè un ottimo strumento per sollecitare un “risarcimento” per i presunti torti subiti, in particolare sotto forma di “interventi” a sostegno dell’economia meridionale, interventi peraltro di assai dubbia efficacia, data la scarsa affidabilità della predetta classe dirigente.

E’ d’altro canto evidente che tutti i grandi fenomeni storici, dato il carattere prevalentemente conflittuale dei dinamismi umani, da quelli interpersonali a quelli tra gruppi, tra clan, tra classi sociali, tra stati hanno sempre comportato una componente, più o meno accentuata ed aspra, di violenza e di scontro, per cui non è stato difficile per i profeti della “vera” storia trovare elementi, episodi, circostanze che, isolati ed estrapolati dal loro contesto, travisati, ingigantiti e generalizzati a rappresentare in modo semplicistico la sostanza del Risorgimento italiano, hanno loro fornito l’appiglio sul quale edificare il loro castello di menzogne, e offrire ai loro seguaci una ricostruzione a dir poco arbitraria; poichè una menzogna per quanto madornale ed assurda, per essere creduta e mantenersi a lungo, deve avere un pur minimo fondo di verità, ed un fenomeno complesso come il Risorgimento italiano, che ha dovuto incidere in profondità e scalzare istituti sociali e interessi economici, superati e anacronistici, ma assai radicati, soprattutto in alcune parti del paese, non poteva essere del tutto indolore.

Ma a questo punto troviamo un’altro dato incontrovertibile che codesti autori trascurano o fingono di ignorare: studiando la storia dell’umanità, anche per sommi capi, fin dai tempi più antichi, ci si rende facilmente conto che quasi tutti, se non tutti, gli organismi statali e le entità nazionali, sono il risultato e il prodotto di occupazioni, invasioni, conquiste e violenze di ogni genere, talvolta anche di accordi, cessioni, trattative diplomatiche condotti sulla testa delle popolazioni, che fino all’800 non sono mai state prese in considerazione e non hanno avuto voce in capitolo nello sviluppo e nemmeno nella nascita degli stati: non mi risulta infatti che, ad esempio, siano stati indotti referendum per sapere gli abitanti del Lombardo-Veneto gradivano il dominio austriaco, o quelli del meridione la monarchia borbonica; e neppure se nel XII secolo fu chiesto a questi ultimi se preferissero essere governati dai Normanni piuttosto che dai Longobardi o dai Bizantini.

Se noi guardiamo all’evoluzione storica che portò alla nascita delle moderne nazioni europee e al costituirsi di queste ultime come stati nazionali, constateremo che i percorsi e gli eventi che segnarono le tappe della loro unificazione furono sempre tutt’altro che pacifici e indolori; al contrario furono segnati da guerre e conquiste spesso assai feroci e cruente: dalla cosiddetta “crociata contro gli Albigesi” in Provenza con la quale la nobiltà francese del nord soggiogò la parte merdionale del paese (e quella sì che fu una vera “conquista coloniale” che spense la civiltà provenzale!), alla “guerra dei Cent’Anni” sempre in Francia, che, oltre e più che una guerra tra Francesi e Inglesi, fu una guerra civile; dalla “Reconquista” degli Ispanici cristiani che distrusse i regni arabo-islamici in Spagna; alla fratricida “guerra dei Trent’Anni” in Germania, che non condusse nemmeno all’unità, ma sanzionò la divisione del paese tra il nord protestante e il sud cattolico…

E all’accusa che l’unità italiana sia stato un evento forzato e imposto dall’alto, risoltosi solo in una fragile costruzione politica, cui non corrisponderebbe una vera nazione, è strettamente connessa quella che vorrebbe non esservi alcuna reale comunanza di civiltà, di costumi, financo di stirpe tra gli Italiani (termine che per i sostenitori di tale tesi avrebbe un significato del tutto convenzionale, o che viene rifiutato anch’esso). Ebbene anche per rispondere a tale accusa direi che è fondamentale guardare agli altri stati europei, e in particolare ai nostri vicini d’oltralpe (non considero quelli extra-europei poichè dovremmo esaminare situazioni assai diverse da quelle dell’Italia e difficilmente raffrontabili con essa). Tralasciando la Svizzera, che è un caso tutt’affatto particolare, -uno dei pochissimi stati, forse l’unico, ad essere sorto da un contratto tra popolazioni assai diverse, tra le quali non esisteva, e non esiste tuttora un vincolo di lingua e civiltà, sul fondamento della difesa comune e del comune benessere-, se prendiamo in esame paesi come la Francia, la Spagna, la Germania, -che per estensione territoriale, pur essendo più ampi dell’Italia, sono ad essa comparabili-, osserveremo che in essi si riscontrano non minori varietà e differenze sia geografiche (clima, distribuzione dei monti, regime idrografico, ecc.), sia storico-culturali (lingue e dialetti, tradizioni, costumi) di quanto non rinvengansi in Italia: forse che tra la Bretagna e la Provenza, tra l’Alsazia e il Rossiglione (per non parlare della Corsica, che nulla ha a che vedere con la regione franco-gallica neppure sul piano meramente geografico), tra la Galizia e l’Andalusia, tra la Baviera e il Magdeburgo c’è meno differenza che tra il Piemonte e la Calabria? Quello che distingue tali paesi, -e soprattutto la Francia in cui da secoli è stato attuato un forte accentramento non solo politico-amministrativo, ma pure linguistico-culturale, e solo in tempi recenti, su pressioni europee, è stata introdotta un’articolazione regionale, sebbene più temperata che non in Spagna e in Italia-, dal nostro è che mentre in essi si esalta soprattutto il sentimento dell’unità nazionale, -per non dire orgoglio nazionalistico-, che prevale sulle differenze locali, da noi accade esattamente il contrario: si sottolineano e si enfatizzano sempre le peculiarità e le diversità locali, vere o presunte, ignorando o minimizzando invece i comuni fondamenti, dalla lingua e dalla letteratura all’arte, ai costumi, alle credenze e alle tradizioni, che fanno dell’Italia una vera nazione, e non un coacervo raccogliticcio di genti estranee, e contrapponendo in modo esplicito o implicito l'”eterogeneità” italiana alla presunta e comunque esagerata “omogeneità” di altre nazioni. Ed anche la stampa e l'”industria culturale” hanno spesso dato un deleterio contributo a codesta autodenigrazione: basti pensare al cinema, soprattutto comico, ma non solo, e alla televisione che molto spesso si si sono nutriti di goffi e superficiali stereotipi regionali, proponendo, o imponendo, una rappresentazione stucchevolmente banalizzata della realtà socio-culturale italiana.

Insomma, tutte le argomentazioni addotte dai negatori dell’esistenza di una nazione italiana nella loro tanto velenosa quanto pretestuosa polemica contro l’Unità d’Italia, dovrebbero a maggior ragione valere per molti altri stati: gli Italiani non sono più diversi tra loro di quanto non lo siano al loro interno gli altri popoli d’Europa. Quello che da noi cambia è la percezione delle particolarità locali: in altri paesi prevale nettamente il sentimento nazionale e le differenze tra luogo e luogo, tra territorio e territorio sono subordinate ad esso e sentite come un’articolazione che valorizza e arricchisce l’unità; nel nostro paese, purrtoppo, avviene il contrario e a prevalere è l’esaltazione delle diversità, che spesso non sono poi nemmeno tali o così profonde come le si rappresenta, ma non di rado sfruttate per alimentare in modo più o meno artificioso conflitti, rivalità e ostilità reciproche, a scapito di tutto quanto unisce.

Statua allegorica dell’Italia turrita a Cosenza.

La celebre frase attribuita a Massimo D’Azeglio  (“Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”), spesso citata, in buona o in cattiva fede dagli avversari dell’Unità d’Italia, a sostegno della loro tesi che nemmeno i protagonisti del Risorgimento credessero davvero negli ideali patriottici in nome dei quali era risorto uno stato nazionale italiano e fossero in qualche modo “pentiti” di quanto avevano fatto, -e che peraltro in tale formulazione non si trova nei suoi scritti-, non significa certo che l’illustre patriota e scrittore, nonchè pittore, intendesse in modo implicito riconoscere l’artificiosità del nuovo stato unitario e tanto meno negare l’esistenza del popolo italiano; D’Azeglio esprimeva la consapevolezza che una vera coscienza civica doveva ancora essere costruita: “I più pericolosi nemici dell’Italia -così nell’introduzione a “I miei ricordi”, pubblicato nel 1867, poco dopo la sua morte- non sono gli Austriaci, sono gli Italiani. E perchè? Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gli Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono “ab antiquo” il loro retaggio”; e l’illustre statista si lamentava già al suo tempo che i nostri connazionali anteponessero i loro interessi individuali, familiari e locali a quelli della nazione e concludeva che “il primo bisogno dell’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri”. Ma d’altro canto dobbiamo ricordare che il D’Azeglio seguiva la linea federalista e gradualista nella realizzazione dell’indipendenza dell’Italia, e che quindi il suo pensiero e il suo approccio allo stato unitario era ben diverso non solo da quello di Mazzini -il più fervido e ispirato propugnatore di una piena e immediata unità-, ma pure da quello di Cavour; anche se era implicitamente costretto a riconoscere che gli staterelli pre-unitari non potevano conseguire e mantenere da sè stessi quel rinnovamento culturale e sociale indispensabile per una costruzione anche soltanto federalistica dello stato italiano.

Ed pure il Leopardi circa quarant’anni prima nel suo “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani”, constatando la frammentazione e la mancanza di slancio civile, la stagnazione sociale, culturale, economica dell’Italia del suo tempo -pur senza trarne esplicite conseguenze politiche a compiere l’unità d’Italia-, osservava:  “Lascio la totale mancanza d’industria e di ogni sorta di attività […] per cui l’uomo miri a uno scopo, e coll’aspettativa, coi disegni, colla speranza dell’avvenire rilevi il pregio dell’esitenza, la quale […] ristretta al solo presente, non può non parer cosa vilissima e di niun momento, perchè nel presente non hanno luogo le illusioni fuor delle quali non esiste l’importanza della vita (1). Or la vita degli Italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura”; egli rileva inoltre il carattere eccessivamente individualistico, particolaristico e quasi “anarchico” della società italiana: “Ciascuna città italiana, non solo, ma ciascun italiano fa tuono [=tono, carattere] e maniera a sè”. Tanto il grande poeta recanatese quanto lo statista piemontese non vedevano certo nelle peculiarità e negli egoismi municipali che caratterizzavano l”Italia dei loro tempi, -e purtroppo anche dei nostri tempi- una espressione di una miriade di piccole patrie, di ristrette nazionalità, di “identità” locali, -come si direbbe oggi-, ma al contrario come un limite da superare per poter affrontare le pressanti sfide portate dall’età contemporanea, sottolineando la necessità non solo ideale, ma anche pratica di costruire una società e uno stato fondato su basi più solide che non gli egoismi individuali e locali.

Se l’Unità d’Italia fosse stata una costruzione così forzata, innaturale e artificiosa, come pretendono i suoi detrattori, non si riesce a capire perchè lo stato unitario non si sia sfasciato dopo pochi decenni dalla sua costituzione, così come è successo alla Jugoslavia e alla Cecoslovacchia, che sono durate solo poco più di 70 anni (e solo perchè in precedenza tenute insieme dalla dittatura comunista, crollata la quale si è frantumata anche la loro fittizia unità). Di certo le occasioni per ridividere l’Italia non sarebbero mancate, soprattutto durante e subito dopo le due guerre mondiali, specie la seconda, quando nel corso delle tragiche vicende belliche l’unità del paese fu momentaneamente spezzata.

Sostenere che la fine dei regimi idolatrati dai “laudatores temporis acti”, compresi quelli travestiti da “progressisti”, e che la “conquista” del centro-sud e la conseguente l’unità d’Italia dalle Alpi alla Sicilia sia “colpa” di Cavour e di Garibaldi, posto che sia stata una “colpa”, è come affermare che l’Impero Romano d’Occidente cadde a causa dei cristiani e dei barbari: è chiaro a chiunque si occupi di storia, anche in modo superficiale, che l’irrompere di questi ultimi fu solo la causa scatenante e finale che accelerò un processo di decadenza già in atto (chi fosse interessato all’argomento può vedere il mio saggio “IL DECLINO DELL’IMPERO ROMANO (caduta o trasformazione?)”, la cui prima parte è apparsa il 4 giugno 2015); e così anche per il Risorgimento, senza nulla togliere a Cavour e Garibaldi, la loro opera fu il catalizzatore, l’elemento dinamico e scatenante che portò a compimento una evoluzione storica già in atto e che avrebbe condotto comunque all’unità d’Italia. Nel film “In nome del papa re” del regita Luigi Magni, del 1977, un personaggio afferma che lo stato del papa e il regno meridionale non sono caduti perchè giunsero gli Italiani, ma che essi furono conquistati perchè erano già finiti e defunti,  -di decrepitezza, non certo assassinati nel pieno del forze come vorrebbero gli attuali nostalgici di papa, Asburgo e Borbone-, vuoti gusci ormai privi di sostanza e di sostegno, che non fosse quello di una chiesa e di una parte della nobiltà centro-meridionale ostinatamente e pervicacemente aggrappate alla difesa di privilegi ormai del tutto anacronistici, e che per tale inutile difesa non esitavano ad allearsi e ad avvalersi della peggiore criminalità. La fine degli staterelli pre-unitari e dei loro regimi tirannici e asserviti allo straniero fu in sostanza un’implosione dovuto al fatto che essi ormai non erano più in sintonia con la storia e che avrebbe dovuto comunque avvenire, -un po’ come avvenne per l’URSS e gli stati comunisti dell’Europa orientale alla fine del XX secolo-; così come pochi decenni dopo anche il grande protettore e sostegno di essi, l’Impero Austro-Ungarico, sarebbe stato anch’esso spazzato via. Si ponga mente peraltro a un fatto importante e a mio giudizio non adeguatamento rilevato dagli storici, ossia che quando nel giro di due anni l’assetto della penisola italiana stabilito dal congresso di Vienna fu completamente stravolto e dopo molti secoli riapparve sulla scena europea uno stato italiano unitario (sebbene ancora incompleto), nessuna potenza europea, neppure l’Austria, intervennero per ristabilire quell’ordine che era definitivamente caduto perchè ormai la situazione era assai mutata erano rispetto alla prima metà dell’800 quando le rivoluzioni scoppiate in Italia e in Europa erano state represse con brutalità dai regnanti e in Italia non avrebbe più potuto essere restaurato quell’ordine dettato da potenze esterne che agli inizi del 900 con il primo conflitto mondiale sarebbe definitivamente crollato in tutta l’Europa.

Gli attuali nostalgici di papa-re, Asburgo e Borbone potranno anche legittimamente rimpiangere ed esaltare quei regimi tirannici, così come chiunque in uno stato democratico è libero di rimpiangere il Sacro Romano Impero, il feudalesimo, la santa inquisizione, ma non si può negare, alla luce di una onesta riflessione, che l’Italia unita sia l’esito ineluttabile di un lungo percorso storico, pur se per compiersi è stato ad esso necessario il declino dell’oscurantismo clericale e dell’assolutismo monarchico.

Non già che assai prima dell’età liberale e romantica siano mancati tentativi di unificare la nazione, come quelli portati avanti tra XIV e XV secolo prima da Gian Galeazzo Visconti (1351-1402) da nord e poi da Ladislao d’Angiò-Durazzo (1377-1414) da sud, il quali, approfittando della crisi in cui versavano le due massime istituzioni del ME occidentale, il Sacro Romano Impero e il papato, dilaniato quest’ultimo dal “Grande Scisma d’Occidente”, riuscirono ad occupare buona parte dell’Italia centrale, sperando di unificare tutta la penisola sotto il loro dominio; ma allora purtroppo i tempi si rivelarono non maturi per tale impresa, poichè codeste istituzioni e soprattutto la chiesa romana, pur se provata e lacerata dai conflitti interni e dalle opposizioni esterne, mantenevano ancora una forza di aggregazione e coagulavano interessi locali ed europei che cozzavano contro l’idea di un potente stato unitario nella penisola italiana (2). Più tardi la Riforma protestante avrebbe minato in modo irreversibile l’autorità dell’Impero e le pretese universalistiche della chiesa cattolica, ma ormai la nostra penisola era diventata preda delle potenze europee, -Francia, Spagna e poi Austria-, che se la contendevano senza alcuna considerazione o rispetto per le popolazioni che vi dimoravano, per cui si dovette aspettare il vento della rivoluzione francese, che aveva sconvolto le antiche strutture europee e che giunse a soffiare anche in Italia, perchè l’ideale patriottico ed unitario potesse alfine trionfare.

Proclamazione del Regno d’Italia, tempera di Carlo Bossoli (1815-1884).

E a tale riguardo giova ricordare quanto scrisse Mazzini nei “Doveri degli uomini” (capitolo VI, “Doveri verso la patria”): “A voi  uomini nati in Italia Dio assegnava, quasi prediligendovi, la Patria meglio definita d’Europa […]. Dio v’ha steso intorno linee di confini sublimi, innegabili: da un lato, i più alti monti d’Europa, le Alpi; dall’altro il mare, l’immenso mare […]. Vostre sono innegabilmente la Sicilia, la Sardegna, la Cosica e le isole minori collocate fra quelle e la terraferma d’Italia”.

E le parole con le quali colui che forse il più ispirato “padre” della nostra patria metteva in guardia contro i pericoli di un esito federalistico della battaglia per l’indipendenza dell’Italia (soluzione che invero era chiaramente irrealizzabile tanto per la sudditanza degli staterelli italiani alla potenza austriaca e l’irrazionalità dei loro confini, quanto, e forse più, per l’ingombrante presenza del papato che, data l’anomala condizione del papa, nel contempo sovrano di uno stato terreno, pure se piccolo, e capo di una religione universalistica, non avrebbe mai potuto accettare di vedersi ridurre a semplice membro di una confederazione di stati) rifulgono ai nostri giorni di una luce profetica: “La Patria deve avere dunque un suo governo. I politici che si chiamano federalisti e che vorrebbero far dell’Italia una una fratellanza di stati diversi, smembrano la Patria e non ne intendono l’Unità. Gli stati nei quali si divide oggi l’Italia non sono creazione del nostro popolo: uscirono da calcoli d’ambizione di principi o di conquistatori stranieri, e non giovano che ad accarezzare la vanità delle aristocrazie locali, alle quali è necessaria una sfera più ristretta della grande Patria. Ciò che voi, popolo, creaste, abbelliste, consacraste con i vostri affetti, con le vostre gioie, con i vostri dolori, con il vostro sangue, è la Città, il Comune, non la Provincia o lo Stato [che ,trasposto nella situazione odierna, si potrebbe leggere “regione”][…]. Roma per tutto quanto rappresenta l vita italiana, la vita della Nazione; il vostro Comune per quanto rappresenta la vita individuale. Tutte le altre divisioni sono artificiali e non s’appoggiano sulla vostra tradizione nazionale”.

L’accorata esortazione del Mazzini all’unità e il richiamo in essa contenuto a superare gli interessi strettamente locali appaiono ai giorni nostri di straordinaria attualità, poichè dovrebbe ormai essere chiaro a tutti come la ristrutturazione dello stato italiano, -a mio avviso sciagurata-, in regioni ampiamente autonome impedisca, oltre l’effettiva uguaglianza dei cittadini, le soluzioni e i progetti di ampio respiro che i gravi problemi globali che ci troviamo di questi tempi ad affrontare esigono; ed in particolare l’emergenza dell’epidemia di Covid, richiederebbe l’adozione di un disegno unitario e non certo provvedimenti locali e regionali che servono solo per sottolineare l’autonomia rispetto allo stato centrale degli enti dai quali promanano, rivelandosi oltremodo farraginosi, irrazionali ed inutili, soprattutto tenendo conto della modesta estensione di tutte le regioni italiane in confronto a quelle spagnole e francesi, nonchè ai “lander” tedeschi. 

Per tali ragioni sarebbe a mio vedere assolutamente indispensabile, se non abolire le regioni, -cosa auspicabile ma allo stato attuale del tutto irrealizzabile-, ridurre l’ambito delle loro competenze per riportarle a quanto era previsto dalla Costituzione, prima che l’ordinamento regionale, e in generale il sistema delle autonomie locali, fosse stravolto rispetto alla concezione che aveva ispirato il dettato costituzionale da un serie di disastrose leggi di riforma (in particolare quelle 142/1990; 59/1997 e 248/2001), che hanno intaccato e snaturato il carattere unitario dello stato italiano.

Il futuro si presenta purtroppo assai incerto e periglioso e difficile è immaginare che ne sarà del mondo in cui viviamo, oppresso da una mole enorme di problemi sempre più gravi e angosciosi; e che ne sarà della nostra povera patria, così bella e così fragile… Tuttavia non vi è dubbio che a distruggerla non saranno certo quei poveri “untorelli”, -per citare il Manzoni-, quali borbonici, sudisti, venetisti e compagnia brutta, che non sono altro che inutili scorie di un triste passato, e che non hanno nè alcuna base culturale, nè alcuna prospettiva che non sia quella di cercare capri espiatori, alimentare gelosie e risentimenti tra Italiani e reclamare quattrini.

Note

1) com’è noto, per il Leopardi “illusioni” sono tutte le aspirazioni umane, tanto quelle della sfera personale quanto quelle che afferiscono la collettività, illusorie perchè destinate a non essere mai pienamente appagate o a risolversi in disillusioni, ma che tuttavia essendo le mete a cui gli individui e i gruppi tendono per realizzarsi costituiscono il fondamento della civiltà e della società umane.

2) sulla nascita dello stato pontificio si veda il mio articolo del 23 settembre 2017.

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