BREVE STORIA DELLA GALLINA E DEL GALLO DOMESTICI -ottava parte-

Anche a Pietrabbondante, in Molise, si tramanda di una chioccia coi pulcini d’oro, il cui numero a seconda delle fonti varia da sedici a trenta, celata in una cavità del monte Saraceno, raggiungibile attraverso un lunghissimo cunicolo che inizia nell’area dei ruderi di età sannitica e romana. Una particolarità di questo tesoro è che ogni qualvolta un temerario si accingeva a scavare per tentare di trovare il cunicolo che conduce ad esso,  immancabilmente e immediatamente scoppiano violenti temporali con tuoni, fulmini e saette, quasi a significare la contrarietà degli spiriti abitaori di quei luoghi al compimento di tale azione sacrilega.

Veduta del lago Maggiore.

In quel di Sesto Calende, in provincia di Varese, l’enigmatica chioccia d’oro è invece inserita entro una strana e suggestiva leggenda, che vede come protagonista un pescatore che esercitava la sua professione sul lago Maggiore, il quale una sera in cui come al solito, dopo aver attraccato la sua barchetta, si accingeva a tornare a casa dalla consorte e dai due figli, vide emergere dal bagliore sfolgorante del pianeta Venere, che si stagliava all’orizzonte, una figura di donna. La figura, -che era poi la dea Venere in persona-, si mosse verso di lui e tra essi nacque una passione che travolse entrambi, inducendoli ad incontrarsi tutti i giorni al tramonto e facendo dimenticare al pescatore la sua famiglia. Ma una mattina il pescatore, che si era recato sul lago, pronto ad iniziare il suo lavoro, scorse una nuvola nera e minacciosa che si avvicinava a lui. Da essa uscì Giove il quale, adirato dopo aver scoperto il colpevole amore tra il pescatore e la dea, voleva punire il mortale che aveva avuto un tale ardire. E il castigo terribile che il sommo nume inflisse al pescatore fu trasformarlo in drago.

Quando al vespro Venere giunse per incontrare il suo amante, trovò al suo posto la terribile creatura; ella capì però immediatamente quanto era successo e, disperata e furente per la punizione subita dal pescatore, concepì una indomabile brama di vendetta. Accarezzandogli la testa, diede da mangiare al drago delle erbe misteriose, che attizzarono il fuoco che egli teneva nelle viscere. Poi comandò all’animale di distruggere tutto quanto sorgeva sulle rive del lago. La creatura si librò da terra e cominciò a sputare fuoco su alberi e case.

Le fiamme giunsero a lambire anche la dimora del pescatore e i bambini terrorizzati volevano scappare prima di fare una triste fine, ma la madre, preoccupata per il suo sposo che non era ancora tornato, voleva rimanere un altro po’ di tempo ad aspettarlo. Alla fine, di fronte all’avanzare dell’incendio si decisero a fuggire per sottrarsi ad una tremenda fine; ma ormai le fiamme avevano circondato la casa e la madre nel disperato tentativo di salvare i suoi figli li coprì con il proprio corpo, come avrebbe fatto una chioccia con i pulcini; ma inutile fu il suo gesto, poichè tutti e tre furono divorati dalle fiamme.

Per tre giorni la tempesta di fuoco divampò in quelle contrade, e solo il quarto giorno, finalmente, i roghi si spensero. I profughi del paese tornarono a quello che rimaneva delle loro case, nella speranza di trovare qualche sopravvissuto e di recuperare qualcosa delle loro povere cose, e scorsero sul suolo abbruciato, tra la cenere, il cadavere della povera donna ancora accovacciata per proteggere i suoi bambini (un po’ come accadde a Pompei dopo l’eruzione del Vesuvio). Ma all’improvviso una luce abbagliante colpì i loro occhi, i corpi della donna e dei due bambini erano scomparsi e al loro posto si vedeva una enorme chioccia d’oro e due piccoli puclini anch’essi d’oro. Memori di questa leggenda, a Sesto Calende le mamme quando i bambini chiedono loro in che modo sono venuti al mondo, rispondono (o rispondevano…) di averli trovati sotto una chioccia d’oro.

A Longobucco, provincia di Cosenza, invece la storia si incentra su una sposa che fu rapita e poi uccisa da una banda di briganti in una caverna dove essi avevano occultato un inestimabile tesoro, frutto delle loro scorrerie, e il cui ingresso era chiuso da una enorme pietra, detta “Pietra della Sposa”, a cagione di colei che era stata vittima della crudeltà dei briganti, e che si poteva aprire solo per mezzo di misteriose operazioni magiche (e pertanto ricorda un po’ la celebre storia di Alì Babà). Nel tesoro è compresa anche la chioccia d’oro con sette pulcini che talora appare all’esterno delle caverna: qualora si riuscisse ad acchiappare anche uno solo dei pulcini, la pietra che chiude l’ingresso della caverna si aprirebbe consentendo così di rinvenire il tesoro dei briganti. In altre versioni però per impossessarsi dei preziosi si dovrebbe sacrificare sulla pietra il primo figlio maschio: ritroviamo quindi anche qui l’idea che l’avidità induce a compiere qualunque misfatto e a calpestare i più elementari principi di umanità; oppure trasportare una pentola colma d’acqua bollente dal paese fino alla montagna senza che l’acqua smetta di gorgogliare.

La leggenda che si tramanda a Grimaldi, paese anch’esso, in provincia di Cosenza, presenta la particolarità che in essa, oltre alla chioccia, compare anche un gallo. Si narra infatti che nelle viscere della montagna detta della “Santa Lucerna”(1) si troverebbe un favoloso tesoro, nascostovi da una misteriosa regina, -che si potrebbe forse identificare con Teodolinda-, custodito da un enorme serpente (e il serpente o il drago sono per eccellenza i custodi dei tesori, sia in senso materiale, che in senso simbolico, -si vada quanto abbiamo detto nella parte precedente-) dotato di un alito pestifero, una doppia fila di denti aguzzi e la coda biforcuta. Allo scoccare della mezzanotte in tempo di plenilunio sulle pendici della montagna, in una località chiamata “Pizzone”, appare un gallo straordinario con le piume e le penne d’argento, le zampe e la cresta d’oro e gli occhi di zaffiro. Il gallo canta per tre volte, dopo di che si allontana e giunge allora una chioccia con sette pulcini d’oro tempestati di pietre preziose, il quali però si trattengono anch’essi solo per pochi minuti e indi spariscono. Chi riuscisse a catturare il gallo, la chioccia e i pulcini nel poco tempo a disposizione, dopo aver vinto il terribile serpente, potrà conquistare il tesoro nascosto; ma finora nessuno vi è riuscito.

Ancora diversa è la tradizione che ambienta la vicenda della chioccia a Monfalcone (Gorizia), in una rocca un tempo circondata da una folta selva chiamata, a cagione del timore che essa incuteva, “bosco del diavolo”. Qui viveva un uomo violento e malvagio, il quale con le sue esecrabili ribalderie aveva accumulato un cospicuo tesoro. Per meglio custodire il suo tesoro, il castellano strinse un patto col diavolo, che, in cambio dell’anima di lui, trasformò gli uomini della sua banda in lupi; per poter conservare in poco spazio il suo oro, lo fuse poi dandogli la forma di un falco e di una chioccia con tredici pulcini.

Ma gli abitanti del luogo, non sopportando più i soprusi e e le scorrerie di quel tirannico signore, dicesero di ribellarsi al suo potere e un gruppo di uomini si diresse alla fortezza e, oltrepassando con l’ausilio di una croce benedetta lo sbarramento dei lupi, riuscì a penetrare nel maniero. Il feroce individuo tentò la fuga, ma venne trascinato via dal diavolo. La compagnia di giovani che era entrata nel castello trovò il falco d’oro, ma non la chioccia coi pulcini, nè altri oggetti preziosi custoditi in quella dimora, e si dice che nelle notti tempestose si oda tuttora l’ululato dei lupi a guardia del tesoro.

Ma la versione più nota della leggenda della chioccia con i pulcini d’oro celati in un luogo misterioso nelle viscere della terra è quella toscana che la attribuisce a Porsenna e che fu narrata con abile piglio narrativo dallo scrittore Idilio Dell’Era (pseudonimo di Martino Ceccuzzi)(1904-1988) nel suo libro “Leggende toscane” del 1934:

La famosa “chioccia con i pulcini” appartenuta alla regina Teodolinda che si trova nel Duomo di Monza. Da tale opera trassero probabilmente origine le numerose leggende legate alla “chioccia d’oro”.

“Poresenna, il re di Chiusi, o, come lo chiamavano tutti, il re degli Etruschi, era ormai di molto vecchio. Sentendo che gli anni gli pesavano sulle spalle, tornava con la mente al tempo glorioso delle sue imprese di guerriero e di re […] e voleva lasciare di sè un ricordo immortale, un bel carro d’oro trainato da dodici cavalli d’oro, dentro vuoto a guisa di sarcofago, e con sopra, scolpita in oro, la sua statua in posa di trionfo, come gli antichi conquistatori romani”. A tal fine il sovrano convoca nel suo palazzo i più valenti artefici del circondario e affida loro l’esecuzione del suo ambizioso progetto. “Dopo parecchie settimane, il lavoro fu finito e tutti potevano venire alla reggia ad ammirare il magnifico cocchio d’oro. I dodici cavalli infatti erano più bello dell’altro. Mandavano fiamme dalle narici e scalpitavano all’aria come una fuga trionfale. E la statua somigliantissima del re si ergeva in alto con le mani conserte sul petto, e lo sguardo scintillante. Pareva piuttosto un mausoleo di qualche deità etrusca, che il monumento di un re mortale.

Porsenna, che dalla gioia si sentiva ringiovanito di cinquant’anni e non finiva più di rimirare quel capolavoro, volle che gli orafi dessero a lui un’altra prova della loro valentìa e genialità: -Voi mi dovete fare -disse- una bella chioccia d’oro con cinquemila pulcini tutti d’oro-“. Gli orefici allora per accontentarlo “presero dalle mani del re lunghe verghe d’oro grezzo e massiccio, di quello che il locumone teneva celato nei sotterranei profondi della reggia, lo buttarono sui carboni fiammanti dei bracieri, e le verghe cominciarono a piegarsi, a scintillare, diventando morbide e duttili come la cera. Poi, con graziosissimi ferri e soffietti, gli orefici modellarono su quella materia incandescente e calda una bellissima chioccia che pesava più di cinquanta chili, ed aveva le ali un poco ciondoloni, e il becco sporgente in atto di chiamare i pulcini. E i pulcini piccoli come un pugno di fanciullo erano tutti di un taglio e di una misura. Alcuni storcevano il collo, altri lo piegavano fino a terra in atto di beccare, altri se ne stavano accovacciati come rattrappiti, altri ancora spalancavano le alucce quasi volessero inseguire un insetto che ronzasse nell’aria. Erano un minutissimo e graziosissimo esercito di piccoli batuffoli d’oro e volevano significare che anche nel regno animale il re aveva il suo impero. E il vecchio Porsenna ne era veramente soddisfatto. Chiesta infatti agli dei la virtù taumaturgica di comandare a quelle creature di metallo, gli venne subito concessa. Ed egli appena si levava, sentiva la misteriosa chioccia croccolargli allegramente intorno, e tutti i pulcini svolazzavano e gemevano: -Pio, pio, pio!-. Poi gli andavano lietamente incontro e chi gli saltellava su un ginocchio, chi gli montava in cima alle spalle, sulla testa, sul naso, facendo sgambetti e svolazzi graziosi. Quando pigolavano tutti assieme, la reggia pareva tutta un gemito di voci piccoline come un bosco carico di nidi a mezza estate.

E la sera, prima di coricarsi, il re contava, con una premura da massaia, ad uno ad uno tutti i pulcini, si faceva da loro beccare la punta delle dita; poi, mormorando un saluto, se ne andava a dormire, convinto che anche per un re è più facile comandare alle bestie che agli uomini”.

Sentendo appressarsi la fine, Porsenna volle farsi costruire una degna sepoltura, sotto la quale comandò fosse scavato “un labirinto capriccioso e impenetrabile con tante celle una dentro l’altra, e volte e pilastri grandiosi, come si conveniva ad un re […]. Pensava che non avrebbe più dormito nella sua reggia, ma dentro il suo bel carro d’oro, giù giù dentro le celle nella terra tepida e tenebrosa. E la chioccia e i pulcini li avrebbe portati con sè laggiù perchè col loro pigolìo gli avrebbero allietato l’eterno sonno. Forse avrebbero continuato ogni mattina a svegliarlo nel regno degli Elisi ed egli avrebbe sentito quel suono di piccole voci viventi come un lieto saluto umano, ed avrebbe pensato alle cose lontane come sommerse in un sogno di luce.

Poi tranquillamente si addormentò una sera che erano mézzi di biondi grappoli i clivi e sulle valli del suo regno pascevano i greggi bianchi incantati in una perla di sole. I Silfi lo adagiarono dentro il suo cocchio d’oro, a notte. Apersero adagio la reggia e, seguiti dalla chioccia e dai cinquemila pulcini, sfilarono per le strade della città. E subito una nube salita dal lago, bianchissima, più della panna del latte, si posò sui tetti delle case, lungo le pendici, sulle vie. Nessuno poteva vedere il fantastico corteo che per virtù degli dei si svolgeva di nascosto e in silenzio.

Soltanto la mattina, quando il Sole, levandosi dalle pendici dell’Umbria, illuminò la terra fresca, i pàmpini verdi delle vigne, si videro sulla strada i segni minutissimi delle zampette dei pulcini d’oro e della chioccia d’oro, scintillanti come una brugliola di marenghi. Ma della tomba misteriosa nessuno seppe più nulla, neppure chi l’aveva scavata perchè il suolo si coprì di verdissime piante, sicchè fu smarrita ogni traccia”. Pur tuttavia, se in superficie non rimaneva più alcun vestigio del mausoleo e di quanto conteneva, ancora “dentro le viscere di una terra etrusca in riva a un lago, l’antichissmo re passeggia sopra il suo cocchio d’oro con cinquemila pulcini che lo seguono”.

Ma secondo un’altra tradizione locale toscana il tesoro di Porsenna sarebbe celato non già a Chiusi, bensì a Montepulciano, dove, come recita una filastrocca, “tra Totona e Totonella c’è la tomba del re Porsenna; tra Totona e Cappuccini c’è la chioccia coi pulcini”. E nelle notti di Luna piena, la chioccia con intorno tutti i suoi pulcini uscirebbero a sgambettare; ma nessuno è mai riuscito a prenderli, perchè non solo la gallinella difende con forza sè stessa e i suoi pargoli, ma, a quanto si dice, il suo solo sguardo farebbe impazzire.

E sempre rimanendo in terra toscana, nella leggenda che circonda l’abbazia di S. Rabano, in Maremma, a circa 15 km da Grosseto la chioccia con i pulcini si mostrerebbe invece ad intervalli di circa cento anni (ignoro se siano noti i periodi in cui dovrebbero aversi le apparizioni del meraviglioso pennuto), durante una notte di tempesta, per dirigersi verso il luogo ove è sepolto il tesoro. Finora la chioccia è sempre riuscita a fuggire, sottraendosi all’avidità degli inseguitori, ed anzi facendo perdere il senno, -similmente alla sua collega di Montepulciano-, a coloro che abbagliati dal suo splendore e dalla loro cupidigia, cercavano di catturarla.

Leggende simili che si incentrano su un tesoro nascosto di cui fa parte o al quale fa la guardia una chioccia con un certo numero di pulcini (numero che in genere varia da due a trenta, ma con una netta prevalenza di sette -e sul valore simblico di tale cifra già ci siamo soffermati-, con l’unica eccezione dei cinquemila che si troverebbero nella tomba di Porsenna) si trovano in località di tutta l’Italia: a titolo di esempio, oltre a quelle che abbiamo ricordato in precedenza, possiamo citare anche Azzano di Seravezza (Lucca); Cancellara (Potenza); Cerreto di Spoleto (Perugia); Cirò (Crotone); Lagonegro (Potenza); Nocera Superiore (Salerno); Nola (Napoli); Novara di Sicilia (Messina); Porto Santo Stefano (Grosseto); Roccabernarda (Catanzaro); ma l’elenco è certamente incompleto, e chiedo scusa a coloro che conoscano luoghi in cui si narrano leggende simili che non ho nominato (poichè non ne ho trovato notizia).

L’origine della leggenda di cui è protagonista, o di cui fa parte, la chioccia coi pulcini d’oro, conosciuta, come abbiamo visto, in tutta l’Italia in diverse varianti, è probabilmente ispirata alla celebre chioccia circondata da sette pulcini custodita nel tesoro del duomo di Monza, detta “di Teodolinda”, -pur se non esistono esplicite testimonianze antiche che ricolleghino tale opera di orificeria alla regina longobarda–, oppure a un’altra opera non più esistente di cui essa sarebbe una derivazione o una copia. Com’è noto, il famoso capolavoro di orificeria tardo-antica o alto-medioevale consta di una gallina e di sette pulcini di argento dorato, fissati a un piatto di rame dorato avente il diametro di 46 cm mentre l’altezza della gallina è di 27 cm. La figura della chioccia è stata lavorata a sbalzo e rifinita a bulino e a punzone, mentre i pulcini sono stati ottenuti per fusione; gli occhi della gallina sono costituiti da rubini (o granati) e su quello di sinistra è incisa la figura di un guerriero, per cui è stato ipotizzato che fosse stato incastonato in un anello di produzione alessandrina del III o IV secolo, mentre per altri sarebbe un sigillo risalente alla fine del I secolo a. C.

La provenienza di questo mirabile gruppo scultoreo è controversa, ma si sa per certo che la gallina risale ad epoca anteriore a quella in cui furono plasmati i pulcini, i quali sono quasi concordemente attribuiti ad un orefice longobardo del VII secolo, che li aggiunse, per ordine di Teodolinda o di qualche altro ragguardevole personaggio, alla gallina, studiandosi di imitare lo stile di quest’ultima, con ogni probabilità per sostituirne altri che già in origine dovevano circondarla e che poi a causa di ignote vicende andarono distrutti o smarriti. La chioccia è invece di fattura tardo-romana o bizantina (tra i secoli III e V); ma vi è chi sostiene che risalirebbe addirittura ad età ellenistica (tra i secoli IV e II a. C.), adducendo a conforto della sua tesi, oltre ad alcune particolarità stilistiche, quali l’accuratezza con cui sono rese le piume, la gemma incisa posta come occhio sinistro di certo risalente ad poca antecedente l’era volgare (circostanza peraltro che di per sè non è una prova, poichè tale gemma potrebbe benissimo essere stata scelta per guarnire un’opera anche di molto posteriore).

Se si ammette dunque l’alta antichità e la fattura greca o ellenistica dell’oggetto, si potrebbe anche identificare la chioccia di Teodolinda con quella che, come abbiamo visto nella parte precedente, sarebbe stata posta nel “Fonte Pliniano” di Manduria dai Messapi dopo la vittoria sui Tarantini, e che sarebbe stata donata a Teodolinda, o comunque giunta alla corte longobarda, al tempo in cui il territorio di Taranto faceva parte del ducato di Benevento. In tal caso dunque la leggenda della chioccia d’oro, in tutte le sue numerose varianti, deriverebbe da questo episodio e si sarebbe diffusa in tutta l’Italia al seguito dei Longobardi, combinandosi ad altre tradizioni locali legate a edifici o ambienti naturali particolarmente suggestivi o impressionanti.

Quanto al significato da attribuire al gruppo della gallina con i pulcini, l’ipotesi più probabile è che esso sia una rapresentazione delle Pleiadi, le mitiche sette figlie del titano Atlante e  dell’oceanina Pleione, tramutate prima in colombe (2) e poi in stelle della costellazione del Toro per sfuggire alle brame del cacciatore Orione, che in molte tradizioni popolari europee sono chiamate “Gallinelle” o “Chioccette”. Da escludere invece, soprattutto se si accetta l’origine antica di tale opera, la tradizione che vorrebbe i sette pulcini rappresentare i ducati longobardi (tanto più che essi erano più di sette) riuniti sotto la monarchia; o quella che vorrebbe vedere nella chioccia il simbolo della chiesa che guida e protegge i fedeli.

CONTINUA

Note

1) il nome con cui noto il monte è dovuto al fatto che in una grotta in esso collocata visse per più di un secolo un eremita, alla cui morte si accese una fiammella che continuò ad ardere e a brillare fino a che il suo corpo esanime non fu ritrovato e seppellito.

2) e in effetti una delle interpretazioni del loro nome, oltre che come matronimico da Pleione, fa derivare quest’ultimo da “peleides” = colombe.

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