PETER PAN E PINOCCHIO (settima parte)

Prima di continuare nelle nostra ricerca, ritengo opportuno mettere in risalto un aspetto della storia di Pinocchio che a mio giudizio non è stato adeguatamente preso in considerazione dai molti commentatori dell’opera collodiana, e che invece a mio avviso è di fondamentale importanza per illuminare sia il significato profondo delle avventure del celebre burattino umano, sia in generale le concezioni antropologiche, sociali e anche politiche del Collodi.

La prima cosa a cui Geppetto pensa, una volta sedate le prime intemperanze della sua irrequieta creatura, è quella di mandarla a scuola, e questo nonostante la miseria in cui il buon uomo viveva, tanto che per comprargli l’abbecedario non esita a vendere la sua vecchia casacca di fustagno, tutta toppe e rimedi. Per comprendere e apprezzare adeguatamente il valore della scelta di Geppetto, si deve tenere presente che negli anni in cui Collodi scriveva le sue opere letterario-pedagogiche, pochi anni dopo il conseguimento dell’Unità, il tasso di analfabetismo in Italia era altissimo. Uno dei primi obiettivi che la classe politica liberale si proponeva per rinsaldare lo stato unitario era proprio quello di aumentare l’istruzione delle classi popolari che le retrive dinastie fantoccio e la chiesa cattolica si erano sforzate in ogni modo di mantenere nella totale ignoranza, per preservare il proprio potere, incompatibile con lo sviluppo economico e sociale che nel corso del XIX secolo, sia pure spesso con gravi difetti e disuguaglianze, era divenuto inarrestabile in Europa e ormai non poteva più essere impedito neppure in Italia. Ma oltre a questo chiesa e reazionari erano convinti che l’istruzione del popolo avrebbe turbato l’ordine sociale, poichè un “povero” dotato di un certo grado di istruzione non avrebbe più accettato passivamente la sua misera sorte e avrebbe aspirato a migliorare la propria condizione e partecipare in qualche misura alla vita sociale, cosa che avrebbe provocato il definitivo collasso degli ormai del tutto anacronistici stati pre-unitari, e soprattutto indebolito l’influenza del clero. Numerosi sono gli interventi di religiosi che esecravano la scolarizzazione di massa, specie se riguardante anche le bambine, poichè l’unica cosa che i “plebei” dovevano imparare è seguire docilmente le direttive dei preti (sarebbe eccessivo dire gli “insegnamenti” poichè la maggior parte di costoro non si preoccupava neppure di impartire un vero insegnamento religioso, ma si limitava ad assecondare le grossolane superstizioni del volgo)(1).

Michele Coppino promotore della legge che nel 1877 rendeva obbligatorio il ciclo della scuoa elementare.

Nell’età illuministica, nella seconda metà del XVIII secolo, e poi nel periodo napoleonico, erano state tentate alcune timide riforme scolastiche per estendere l’alfabetizzazione al popolo e per sottrarre al clero l’egemonia sull’istruzione (che era totale nello stato pontificio e nel regno di Napoli); ma dopo la restaurazione tali riforme furono abbandonate e in pratica solo con la ricostituita unità d’Italia si ebbe un lento e faticoso  miglioramento dello stato dell’istruzione, allora disatroso, specie per quanto riguarda l’istruzione elementare. La legge Casati, -per l’esattezza “regio decreto legislativo”, che prese il nome da Gabrio Casati (1798-1873), ministro dell’istruzione (2)-, del 13 novembre 1859, che rendeva obbligatorio, oltre che gratuito, il primo biennio della scuola elementare fu la prima disposizione legislativa organica che disciplinava le scuole di ogni ordine e grado e nel suo impianto generale rimase in vigore fino alla riforma di Giovanni Gentile nel 1923. Pur con tutti i limiti e le carenze che lo contraddistiguevano, tale provvedimento segnò l’inizio della scolarizzazione di massa nel nostro paese e fu perfezionata dalla successiva legge Coppino (dal nome del proponente Michele Coppino), emanata il 15 luglio 1877, ossia pochi anni prima della pubblicazione delle “Avventure di Pinocchio” e del “Cuore” di De Amicis. Quest’ultima legge, ispirata dalle teorie del filosofo e pedagogista Aristide Gabelli (1830-1891), positivista moderato, -nel senso che era laico, ma non materialista e non antireligioso-, allungava l’obbligo scolastico all’intero ciclo elementare e prevedeva l’irrogazione di sanzioni penali per i genitori inadempienti. L’applicazione pratica di queste leggi fu però gravemente ostacolata sia delle molteplici difficoltà organizzative e finanziarie (tra l’altro l’onere del funzionamento delle scuole gravava sui comuni, spesso afflitti da perenne deficit), sia dalle misere condizioni economiche di ampie fasce della popolazione e dalla scarsa sensibilità di queste ultime all’importanza dell’istruzione, che rendevano assai difficile rendere effettivo l’adempimento dell’obbligo scolastico, soprattutto tra il proletariato e sottoproletariato rurale (mentre tra i ceti popolari urbani si faceva strada una maggiore consapevolezza non solo del valore formativo della cultura, ma anche della sua utilità pratica, e dell’elevazione sociale che essa poteva, se non dare “ipso facto”, aiutare a conseguire).

Questo è lo stato dell’istruzione in cui va inquadrato il rapporto ambivalente di Pinocchio con la scuola; ambivalente poichè l’indole scapestrata del burattino non lo porta certo ad amare lo studio, ma nel medesimo tempo egli comprende l’importanza dell’istruzione e della scuola, non solo al fine dell’arricchimento personale, ma anche per la realizzazione sociale. Abbiamo visto come la guida di Giannettino, il dottor Boccadoro, avesse intrapreso la sua “missione pedagogica” perchè convinto che nell’educazione dei giovani risiedesse primariamente il progresso morale e civile della nazione: nelle vicende di Giannettino e Minuzzolo l'”iter” pedagogico è incentrato su ragazzini di estrazione borghese; in Pinocchio il cammino del burattino vuole prefigurare anche il riscatto degli strati più umili della società.

Uno dei tratti in cui può legittimamente riscontrarsi un’analogia tra la storia di Pinocchio e quella di Peter Pan (per quanto sia improprio considerare la vicenda di quest’ultimo una vera “storia”, poichè pur essendovi nel romanzo dei mutamenti nel personaggio, non vi è in essa un processo di evoluzione personale) è l’assenza della figura paterna: in apparenza non sembrerebbe così, poichè Geppetto è a tutti gli effetti il “padre” di Pinocchio, pur se adottivo; ma in realtà a ben guardare il comportamento e la funzione di quest’uomo sono tutt’altro che “paterni”, se si considera il “padre” una figura sostanzialmente autoritaria, che impone il suo volere spacciandolo, a torto o a ragione, per il bene del figlio, e che pretende di esercitare su di lui una potestà indiscutibile. Al contrario egli mostra sempre una grande, anzi una eccezionale pazienza e accondiscendenza nei confronti di Pinocchio, non usa mai la forza, non lo punisce mai per le sue birichinate, non lo redarguisce mai in modo aspro, e nonostante i molti dispiaceri che deve subire da quel discolo si limita solo a dispensargli consigli e blandi rimproveri, -ragion per cui il suo comportamento potrebbe definirsi proprio più di una madre che di un padre, almeno secondo gli schemi familiari correnti-. Riferendoci a quanto abbiamo osservato nella parte precedente, in un’ottica teologica si potrebbe dunque identificare Geppetto in un dio paziente e misericordioso che lascia all’uomo anche la libertà di peccare, e che è pronto a riaccoglierlo quando, dopo aver percorso la via perigliosa e dolorosa della disobbedienza e della trasgressione, una volta temporaneamente o definitivamente rinsavito, questi si decide come un “figliuol prodigo” a tornare alla “casa del padre”.

Ma oltre che il “padre” in senso stretto non si ravvisa in entrambi i romanzi una forte figura maschile di riferimento -intendendo per “maschile” che sia in possesso delle qualità, vuoi psicologiche, vuoi culturali attribuite di norma all'”uomo”: la forza, sia fisica, sia psichica, la determinazione, la combattività, la capacità di imporsi-. Peter Pan sente un forte, pur se ambivalente, legame emotivo e affettivo solo con la madre, e nei libri di cui è protagonista del padre non si fa neppure cenno. Quanto al padre dei ragazzi Darling, di cui pure viene citato il nome proprio, -George-, a differenza della mamma, designata sempre e solo come “signora Darling”, è una figura, che sebbene abbastanza trascurata nei commenti e nelle analisi dell’opera del Barrie, riveste una certa importanza all’inizio (nel cap. II) e alla fine del romanzo (nel cap. XVI), ma di certo non ha il profilo del tipico padre e tanto meno del “vero uomo”, ed anzi l’autore lo presenta come una persona piuttosto maldestra, scarsamente sicura di sè e dai tratti infantili, -nonostante in apparenza fosse “uno di quegli uomini molto seri, che si intendono di titoli e di azioni”, o per meglio dire si servisse di codesta presunta competenza in materia finanziaria per ottenere la considerazione altrui, specie quella femminile-.

E un comportamento puerile il signor Darling dmostra nella scenetta comica che è il cuore del secondo capitolo, quando per convincere Michele a prendere la sua medicina finge di dargli il buon esempio: infatti egli aveva nascosto la boccetta del medicinale che avrebbe dovuto assumere per evitare di doverlo prendere, ma, purtroppo per lui, essa era stata scoperta e rimessa al suo posto da Lisa, la cameriera, e Wendy gliela porta trionfante, così che non può sfuggire la prova e dopo un ridicolo tira e molla su chi debba prendere per primo la medicina tra lui e suo figlio, alla fine si vede costretto a trangugiarla insieme a Michele; ma ancora una volta cerca di evitare in extremis di l'”amaro calice” (che per la verità egli definisce un'”orribile dolce cosa appiccicosa”), rovesciandola dietro di sè; il suo meschino trucco viene però subito scoperto, facendogli fare una pessima figura coi suoi figli. Per uscire dall’imbarazzante situazione, gli viene in mente la brillante idea di mettere lo sciroppo nelle ciotola di Nana, -la grossa cagna di Terranova che fungeva da bambinaia dei Darling, di cui riparleremo poi-; la buona cagnolona si accosta sì alla ciotola, ma resasi conto che non di latte si tratta, come aveva voluto farle credere il padrone, se ne va lanciando al signor Darling un triste sguardo di compatimento: in tal modo il povero George rimedia un’altra figura barbina di fronte alla sua prole e irritatosi per le carezze e gli abbracci che venivano tributati a Nana, -e a cui pensa di avere lui più diritto (“Nessuno coccola me! Oh, no! Io sono quello che lavora per tutti qui, non so proprio perchè dovrei essere coccolato!”), decide di relegare la cagna-bambinaia nel cortile allontanadola dalla cuccia nella camera dei bambini, con grande cruccio di questi ultimi che l’adoravano.

Ritroviamo il signor Darling nel XVI capitolo, -“Il ritorno a casa”-: in seguito alla punizione da lui inflitta alla premurosa Nana, -ingiusta e dettata solo dalla sua meschina gelosia per il solerte animale-, senza la quale l’intervento della pelosa bambinaia avrebbe probabilmente impedito la fuga di Wendy dei suoi fratelli insieme Peter Pan alla volta dell'”Isola che non c’è”, egli sente in colpa e pertanto si autoimpone di rimanere in castigo nel canile di Nana fino al ritorno dei bambini. Questa situazione assume una piega comica e surreale nella narrazione di Barrie, poichè si dice che il buon uomo non si staccava mai da quell’umile abitacolo che tutte le mattine veniva posto su una carrozza con la quale era condotto all’ufficio, donde tornava a casa alle sei di sera. In principio lo strano comportamento del normalmente ineccepibile signor Darling suscitò la comprensibile curiosità e ilarità del popolo, ma poi subentrò un sentimento di commozione e financo di ammirazione: “la folla seguiva la carrozza applaudendo freneticamente; le belle ragazze si arrampicavano per chiedere un autografo; apparvero interviste nei migliori giornali; e l’alta società lo invitò a pranzo”. E addormentato nella cuccia, con indicibile sorpresa, lo trovano Wendy, Gianni e Michele quando tornano a casa.

Si potrebbe dire che George Darling è un “bambino cresciuto”, più che un vero adulto, e lo stesso Barrie non manca di osservare la sua puerilità (“avrebbe potuto esser preso per un ragazzo, se fosse stato capace di liberarsi della sua calvizie”), che peraltro si rivela ampiamente nella sua ingenua vanità e nella gelosia per un cane; pur se la sua bonarietà ed onestà lo rendono un genitore coscienzioso e comprensivo verso i figli, pur senza possedere la sensibilità e la sottigliezza psicologica della signora Darling. In sostanza egli è un buon padre piccolo-borghese anglo-sassone dei primi del 900, che non ha, nè può, nè vuole avere l’austera autorità del “pater familias”, o il “carisma” del saggio educatore, esempio di virtù (sul tipo del signor Boccadoro), e nemmeno la determinazione e la saldezza di propositi dell'”uomo che non deve chiedere mai”. E’ uno dei tanti genitori che insegnano ed esigono dai figli cose che essi evitano di fare, e alle quali in fondo non credono, ma che cercano di imporre, o di proporre, per conformismo e adesione ai modelli sociali e culturali prevalenti. Per queste ragioni è una sorta di antitesi di Peter Pan, ed i suoi figli maschi, specie Michele, mostrano di avere molti tratti in comune con lui,  fino a che il periodo della loro vita trascorso con Peter Pan non  li rende più consci di sè  stessi e più sicuri delle loro capacità.

La signora Darling si dimostra assai più matura del marito, così come Wendy si rivela più matura dei suoi fratelli, e non solo per una questione di età, ma soprattutto per indole e perchè incarna una femminilità che si sostanzia nella missione di madre; pur se, da vera “mamma”, Wendy tende ad imporre a a pretendere l’esercizio di solide virtù e il rispetto dei valori della casa e della famiglia da parte dei suoi “figli”, tra i quali rientrano i sui fratelli, che in breve, come i “lost boys”, la considerano la loro vera madre, mentre il ricordo della famiglia originaria svanisce a poco a poco dalla loro mente e dal loro cuore. Ella infatti si immedesima subito e con molta naturalezza nella parte di “madre”, quasi le fosse intimamente connaturata; ma nel medesimo tempo, proprio per il profondo senso della famiglia che la sostiene e la anima, si sforza in tutti i modi di mantenere non solo il legame dei suoi fratelli con i loro genitori, ma pure di ridestare la nostalgia dei “ragazzi smarriti” per le mamme che hanno lasciato nel mondo, cercando di convincerli che esse continuino ad amarli. E sono le sue insistenti pressioni a far sì che non solo i fratelli Darling, ma pure gli altri fanciulli, con notevole disappunto di Peter, tornino al “mondo reale”, ad una famiglia “vera”, pur se non è quella in cui sono venuti alla luce, e si adeguino ai doveri propri del civile consorzio, visti non come esteriori e innaturali imposizioni, ma come realizzazione delle proprie qualità umane, morali e intellettuali. In questo senso ella assomiglia molto alla Fata dai capelli turchini, che è prima “sorella” e poi “mamma” di Pinocchio, ma in realtà si mostra un po’ l’una e un po’ l’altra durante tutto il romanzo, spronando sempre il burattino a un comportamento serio e responsabile.

Di fronte al quasi eroico sforzo di Wendy soltanto Peter Pan si mostra apparentemente refrattario all’opera educatrice di lei, ostentando sempre uno sprezzante cinismo verso i valori familiari che ella difende con profonda convinzione.

Pur se potrebbe sembrare paradossale, forse l’unica vera figura “paterna”, che si riscontra nel romanzo di Barrie è quella di Peter Pan, che per i “ragazzi smarriti” è un capo, un “duce” (e così in effetti viene definito dall’autore), che provvede ad essi, ma li comanda anche con certa presuntuosa rudezza, e “papà” cominciano a chiamarlo anche i bambini della sua banda, in parallelo alla “mamma” Wendy, per finta, ma fino a un certo punto.

Se consideriamo le vicende esistenziali, sia di J.M.Barrie, sia di Collodi, possiamo osservare che entrambi erano assai legati alla madre (Margaret Ogilvy per il primo e Angela Orzali per il secondo), mentre assai labile fu il legame e l’influenza del padre, entrambi non ebbero figli (Collodi non si sposò neppure, mentre Barrie fu sposato per qualche tempo con l’attrice Mary Ansell, matrimonio che a detta dei biografi non fu probabilmente neppure consumato), ma avvertirono fortemente il fascino per il mondo dell’infanzia, e vitale fu per essi relazionarsi con i fanciulli pur se il loro approccio fu alquanto diverso: Collodi si prefisse di essere un educatore a distanza e con i suoi testi arguti che mescolavano l’utile al dilettevole, nello spirito oraziano del “docere delectando”, sperava di contribuire a farne persone e cittadini onesti; Barrie per parte sua volle essere soprattutto un amico, che desse voce alle loro aspirazioni ed esigenze più autentiche, e attraverso la figura di Peter Pan, mostra, anzi ostenta una sorta di maliziosa complicità con essi, nella convinzione che mantenere un legame con l’infanzia fosse fondamentale e che non può diventare davvero “adulto”, nel senso migliore del termine, cioè dotato di sensibilità e comprensione per le esigenze e i sentimenti altrui, chi non rimanga un po’ bambino. E guardando all’opera complessiva dei due autori, constateremo che in esse si riscontrano figure maschili di una certa importanza, le quali assolvono a una fondamentale funzione di guida e di sostegno ai protagonisti fanciulli, come il capitano W. in “L’Uccellino bianco” di Barrie, e il signor Boccadoro e il signor Quintiliano rispettivamente in “Giannettino” e in “Minuzzolo” di Collodi, figura più romantica e sognatrice il primo, più “pedagogici” i secondi, sebbene in modo illuminato e abile a captare e comprendere la psicologia infantile, personaggi nei quali essi vollero probabilmente, per non dire di certo, rappresentare sè stessi (3); ma queste figure sono alquanto lontane dall'”archetipo” (o dallo stereotipo) del “padre”, ed anzi, come abbiamo detto testè, i “padri” veri e propri hanno nei loro libri una parte assai marginale. Si direbbe quindi che sia Barrie sia Collodi non nutrissero una grande fiducia nella figura e nella funzione del “padre” tradizionale e si affidassero piuttosto all’amico, allo zio, al fratello maggiore, -quali vollero essere loro stessi-, da affiancare alla madre quale guida, educatore e maestro di vita per i fanciulli.

Di primo acchito i personaggi “minori” di “Peter Pan e Wendy”, -i fratelli di Wendy, i “ragazzi smarriti”, i pirati, gli indiani-, ad eccezione di Campanellino, sembrano non rivestire un significato autonomo e possedere un rilevante spessore, e ci si potrebbe chiedere se la loro funzione non  sia solo quella di arricchire la trama del romanzo, apportando con la loro presenza e le loro iniziative più ampi sviluppi narrativi ad una storia che sarebbe di per sè abbastanza esile, e soprattutto di mettere in risalto le qualità di Peter Pan. Di certo è difficile vedere in essi la pregnanza archetipica e il simbolismo etico, di stampo quasi esopiano, che troviamo nelle avventure di Pinocchio; ma pur tuttavia anche queste figure mostrano una loro peculiare caratterizzazione ed espressività, e si può attribuire loro una precisa corrispondenza nell’universo infantile delineato da Barrie, così diverso dal mondo collodiano.

Wendy narra le storie che parlano dei genitori ai “ragazzi smarriti”.

I due fratelli di Wendy, Gianni e Michele -a cui, come abbiamo osservato nella prima parte Barrie diede i nomi di John e Michael Llewelyn-, come abbiamo già rilevato, nella loro psicologia mostrano affinità soprattutto con il padre George Darling; tuttavia Gianni è dotato di una certa intraprendenza ed attrazione per il mondo dell’avventura, qualità che si acuiscono con la vita movimentata nell’Isola che non c’è e soprattutto stando insieme a Peter Pan. Quest’ultimo all’inizio non dimostra una grande considerazione per Gianni e Michele, sembra accettarli più che altro per compiacere la sua “sorellina-madre” adottiva e li tratta con una certa brusca ruvidezza, così come d’altronde è uso comportarsi nei confronti dei membri della sua banda di ragazzini; ma in seguito assume un atteggiamento più positivo verso di loro, così che essi si integrano rapidamente nel gruppo nei “ragazzi smarriti” e si assimilano ad essi quasi del tutto, al punto che, nonostante non siano certo stati abbandonati e non abbiano avuto negative esperienze con i genitori, dimenticherebbero anch’essi la famiglia di origine se la loro sorella maggiore non si premurasse si tenerne vivo il ricordo. Tuttavia, a conferma dell’istinto materno di Wendy, che la nuova situazione in cui si trova a vivere porta prepotentemente alla luce, a Michele viene assegnata quale giaciglio, a differenza del grande letto in cui dormivano insieme tutti i fanciulli, una sorta di culla appesa al soffitto della casa sotterranea dimora di Peter Pan e dei “lost boys”: questo perchè la ragazzina voleva avere un piccino di cui occuparsi con speciali cure, -sebbene il fratellino, pur se piccolo (avendo circa cinque anni), non fosse certo un neonato-.

I sei “bambini smarriti” (4), dei quali Peter Pan è capo e guida tanto premurosa, quanto autoritaria, -poichè non ammette che qualcun altro possa avere idee o prendere iniziative diverse dalle sue, e soprattutto che possa sapere cose o avere abilità che egli non possiede (pur se si mostra meno caparbio e più accondiscendente dopo l’arrivo nell isola di Wendy, la quale riesce con la sua amabilità ad ammorbidirne la presunzione e la sbruffonaggine)-, posseggono caiscuno una personalità definita e la loro indole è rispecchiata ed evocata dal nome. Essi nel capitolo IV del libro vengono presentati mentre avanzano in fila indiana in un incessante giro dell’Isola che non c’è, nel quale ciascuno dei principali gruppi in cui si dividevano gli abitatori dell’isola (ad eccezione delle Sirene) era nel medesimo tempo inseguitore e inseguito: “I ragazzi smarriti cercavano Peter, i pirati cercavano i ragazzi smarriti, i pellirosse cercavano i pirati, e le belve cercavano i pellirosse”. Ecco dunque apparire per primo Flautino (“Tootles”)(5), il più umile e sfortunato, il quale aveva partecipato a un minor numero di avventure poichè, essendo di solito colui che apriva la formazione in cui si movevavno i ragazzini, egli si trovava sempre troppo avanti e poteva intervenire solo quando ormai la battaglia stava per concludersi; di lui si dice però che “la sua sfortuna aveva dato al suo aspetto una gentile malinconia, e invece di irritarlo, gli aveva addolcito il carattere”. Dopo di lui troviamo Pennino (“Nibs”), “gaio e cortese”, il quale nel prosieguo della storia si mostra il più nostalgico nei confronti della madre, di cui tuttavia ricorda pochissimo, e il più sensibile alle esortazioni di Wendy sul ritorno a casa; egli “è seguito da Piumino (“Slightly”), che taglia zufoli dagli alberi e balla in estasi al suono delle sue stesse melodie” ed è il più presuntuoso del gruppo (dopo Peter Pan); Ricciolino (“Curly”) è un vero monello, il quale, a causa delle reiterate mancanze e disubbidienze agli ordini di Peter, in richiesta di una dichiarazione di colpevolezza, si autoaccusa di ogni marachella anche quando non ne sia davvero l’autore; infine troviamo i Gemelli (“Twins”), “che non possono essere descritti, perchè non si saprebbe mai con sicurezza quale si descrive”.

Le figure degli altri abitanti dell'”Isola che non c’è” sembrano attingere più che altro dall’immaginario proprio dei romanzi avventurosi (pirati, pelirosse) e da quello mitologico-fiabistico (sirene), non senza una possibile influenza di quell’elemento in parte fantasioso e in parte realistico alimentato dalle imprese coloniali dell’impero britannico, e che sostanziano l’opera di altri autori compatrioti e contemporanei del Barrie, in primis R. Kipling.

Negli sgangherati pirati che complicano la vita di Peter Pan e dei “ragazzi smarriti”, rendendola sempre pericolosa e precaria, ma nel medesimo tempo la vivacizzano, appagando la sete di avventure dell’eterno fanciullo, si potrebbero ravvisare i “nemici dell’infanzia”, coloro che ne vorrebebro spegnere la spontaneità e gli entusiasmi; ma d’altro canto in essi è legittimo anche vedere una controparte dei “ragazzi smarriti”, poichè anch’essi sono privi di una madre, e in qualche modo ne sentono la nostalgia o il desiderio, e si affidano a un capo “carismatico” che ne monopolizza le energie.

I pirati si caratterizzano per la pressochè totale mancanza di lealtà e di spirito cavalleresco, -e per questo sono l’antitesi dei “lost boys”, così come il loro capo, Giacomo Uncino, è l’antitesi di Peter Pan-, ad onta del fatto che il capitan Uncino ostenti l’eleganza e la raffinatezza dei corsari del XVII secolo; il capitano nutre un odio implacabile per Peter Pan, non solo perchè questi lo ha privato di una mano, mozzandogliela durante un combattimento (così che il perduto arto è stato sostituito dall’uncino), ma soprattutto perchè incarna tutto quello che egli non è (e che avrebbe voluto essere) e perchè tremendamente irritato dalla baldanza di lui, dall’ingenua sicurezza di sè che il piccolo eroe esibiva in ogni circostanza e che a lui mancava. Di Giacomo Uncino si dice che si sentiva un gentiluomo, -e probabilmente lo era-, e che, nonostante la sua ferocia e slealtà, possedeva anche delle mirabili qualità: amava i fiori e la musica ed era un non mediocre sonatore di clavicembalo; era ossessionato dalle buone maniere e “conservava la distinta andatura che gli avevano insegnato a scuola”, per cui si sentiva solo, costretto com’era a vivere in mezzo a una masnada di filibustieri a lui assai inferiori per condizione sociale, educazione e doti intellettuali; e forse pure per questo invidiava e detestava Peter Pan.

Tuttavia le sue qualità positive non compensavano affatto la brutalità e la slealtà di cui dà spesso prova, come nell’aggressione a tradimento dei pellirosse, -i quali erano alleati di Peter Pan, poichè egli aveva salvato la loro principessa Giglio Tigrato, dalle sue grinfie-, nel meschino inganno teso ai fanciulli smarriti, facendo loro credere che i pirati fossero stati sconfitti dai pellirosse, e soprattutto nel tentativo di avvelenare Peter Pan.

Uncino, dopo aver sopraffatto i pellirosse, aveva dato ordine di sonare il “tom-tom”, il tamburo abbandonato da un pellirossa ucciso, come era abitudine della tribù in caso di vittoria: udendo quel suono i ragazzini, convinti che i pirati fossero stati battuti, erano usciti con Wendy dalla casa sotterranea e così erano stati sorpresi a tradimento dai loro nemici, che li avevano rapiti e condotti sul loro veliero. Il capitano scende allora nella dimora segreta, ormai non più tale, attraverso l’albero usato da Piumino, il più paffutello dei ragazzi smarriti (6), dove si trovava ancora Peter Pan addormentato, con l’intenzione di eleminare una volta per tutte il suo nemico. Quando vede il fanciullo che dorme come un angioletto, un palpito di compassione sembra insinuarsi nel suo cuore tenebroso; ma poi, osservando l’espressione spavalda e sicura di sè che appariva sul suo volto anche nel sonno, il suo antico rancore riebbe il sopravvento. Adocchiata la scodella che conteneva la medicina di Peter gli venne la perfida idea di avvelenarlo e a tale scopo versò in essa cinque gocce di un potente veleno che portava sempre con sè per evitare di essere catturato vivo, ove fosse stato sconfitto.

Ma il perfido piano fallì: infatti Campanellino aveva visto tutto e si era affrettata ad avvisare il suo amico, una volta ridestatosi; non solo, ma per impedire a Peter di assumere la mortifera bevanda, ella bevve il contenuto della tazza prima di lui, rischiando quindi di morire in sua vece. L’unico modo per prevenire la morte di una fata è credere in lei; e allora Peter Pan si sforzò di entrare con la mente nei sogni di bambini di tutto il mondo, per mezzo di una comunicazione telepatica, chiedendo loro se credessero nelle fate: una gran parte di essi risposero all’appello del fanciullo fatato e così Campanellino riprese le forze e fu salva. Durante il loro primo incontro Peter aveva spiegato a Wendy che ogni volta un bambino smette di credere alle fate, una di esse cade a terra morta: infatti smettendo di credere alle fate, il fanciullo rinnega il suo vero mondo, perde la sua spontaneità, uccide la fantasia e una parte di sè, la più autentica, per accettare le vuote e solo in apparenza razionali convinzioni e convenzioni del mondo adulto Ed inversamente la proclamata fede nell’esistenza delle fate porta a un rinnovato slancio verso la natura, all’immersione nell’energia psichica che pervade l’Universo: e dunque anche in questo caso torniamo al tema dell’infanzia, caro a Barrie, che vede tale età non come uno stato da superare, ma come una fonte di energia da mantenere e da conservare, pur se inquadrata e disciplinata dall’educazione, se si vuole giungere a una completa realizzazione umana (e pure spirituale).

CONTINUA NELL’OTTAVA PARTE

Note

1) in effetti vi fu una parte minoritaria  del clero che aveva abbracciato l’idea dell’unità nazionale e di un’evoluzione liberale della società, limitando o respingendo del tutto il potere politico della chiesa e del papato. Ma questa minoranza illuminata, oltre ad essere assai esigua e presente soprattutto nell’Italia settentrionale, e che in larga parte si può far coincidere con la multiforme corrente del “cattolicesimo liberale” (in cui rientrano il Manzoni ed il Rosmini), fu aspramente perseguitata dal papato. Ad esempio di questo si pensi alla sorte riservata ad Ugo Bassi ed ai tre sacerdoti (B.Grazioli, G.Grioli ed E.Tazzoli) condannati a morte tra i “Martiri di Belfiore” nel 1852, che erano attivisti mazziniani, e che furono sconsacrati alla vigilia dell’esecuzione. Nel complesso la chiesa cattolica ,che, per bocca di Gregorio XVI Cappellari (1831-1846) aveva definito la libertà di coscienza “frutto velenosissimo”, e con il “Sillabo” promulgato da Pio IX nel 1864 aveva condannato come esecrabili errori anche la richiesta e la concessione delle più elementari libertà personali e civili, fu un potente fattore di oscurantismo culturale e una nemica acerrima di ogni progresso morale e civile.

2) il conte Gabrio Casati era stato podestà di Milano e uno dei capi dei rivoltosi durante le “cinque giornate” del 1848; dopo il ritorno degli Austriaci a Milano si era trasferito a Torino dove rivestì una parte di primo piano negli avvenimenti che portarono alla prima guerra d’Indipendenza e all’Unità d’Italia.

3) ad essi si potrebbe aggiungere il capitano Ferrante, zio di Giannettino, che dà un contributo all’educazione del nipote, distogliendolo dal dare credito a credenze superstiziose.

4) l’autore precisa peraltro che “i ragazzi sull’isola variano naturalmente di numero, a seconda che vengano eliminati” nel corso di qualche combattimento o altra perigliosa impresa: il che significa che tutt’altro che facile e infantile era l’esistenza da essi condotta in quel luogo solo in apparenza fantastico, ma dove in realtà, come sulla terra, vigeva la dura legge della sopravvivenza, non temperata dalla rassicurante protezione che di norma i genitori offrono ai figli, e molti soccombevano negli abituali scontri con i loro nemici.

5) la resa in italiano dei nomi dei “Lost boys” è quella che si trova nella traduzione di Milly Dandolo, di cui mi sono servito per la presente ricerca.

6) ciascuno dei ragazzini poteva scendere nella casa attraverso un cunicolo scavato in un albero, che era “fatto su misura” e poteva servire solo per lui. Ma osservando Piumino, che era piuttosto paffutello, il capitano aveva capito che l’albero di cui egli si serviva poteva essere utilizzato anche da lui.

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