PETER PAN E PINOCCHIO (ottava parte)

Per quanto attiene ai pellirosse, appartenenti alla tribù dei “Piccaninny”, la rappresentazione di essi è alquanto convenzionale e superficiale, e a nessuno viene assegnato un rilievo particolare, -pur se di alcuni si cita il nome, come “Pantera il Grande” e “Lupo Magro”-; salvo che a Giglio Tigrato, la loro leggiadra e altera principessa, “ora fredda ora ardente”, alla cui mano tutti i pellirosse aspirano, ma che rifiuta sdegnosamente ogni pretendente, non solo per il suo carattere indomito, ma anche perchè è invaghita di Peter Pan; il suo sentimento verso di lui era dovuto non solo all’indomita fierezza del giovane eroe, che esercitava un fascino irresistibile, ma pure perchè egli l’aveva salvata dal soccombere a una triste sorte. La principessa dei Piccaninny infatti, fatta prigioniera dai pirati, -i quali erano loro acerrimi nemici, oltre che dei “Lost Boys”-, era stata condotta, legata e imbavagliata, allo “Scoglio degli Abbandonati”, per esservi lasciata a perirvi miseramente, quando le acque dell’alta marea avessero sommerso l’isolotto. Il prode Peter Pan, nascosto dietro le rocce, imitando con abilità la voce del capitan Uncino, aveva intimato ai pirati di liberare la fanciulla, ordine che questi ultimi sebbene perplessi, avevano eseguito prontamente: in tal modo l’intrepido ragazzino, oltre che a liberare Giglio Tigrato, era riuscito a farsi beffe del suo nemico. Ella dopo l’attacco a tradimento di capitan Uncino riesce a fuggire insieme a “Pantera il Grande” e allo sparuto drappello di indiani scampati alla strage compiuta dai pirati; a questo punto se ne perdono le tracce e di lei non si fa più alcun cenno nella storia.

Giglio Tigrato.

A causa di tale simpatia, ricambiata da Peter Pan, pur nei limiti della superficialità e incostanza dei sentimenti propria dell’eterno fanciullo, peraltro intimamente connesse alla sua natura, Giglio Tigrato era oggetto della sfrenata gelosia di Campanellino, così come lo era Wendy: in entrambe, ma soprattutto in quest’ultima, che era stata eletta a compagna di Peter Pan, la capricciosa fatina vedeva delle pericolose rivali, e per tale ragione non esitava a mettere in atto contro di esse le più spietate vendette. Campanellino riprende il tipo delle fate che dimoravano nei giardini di Kensington e che avevano accudito Peter Pan nella prima parte della sua vita fuori dal tempo, ma, a differenza di quanto avveniva nei giardini di Kensington, è l’unica con la quale Peter Pan intrattiene un rapporto speciale , -pur se nell'”Isola che non c’è” ne vivono molte altre-.

La morbosa gelosia che Campanellino prova per Wendy è tale che ella cerca sempre di escogitare il modo per liberarsi di quella che per lei è solo un’odiosa rivale, -e non certo una mamma e un’amica come Peter e i “lost boys”-; e quando Wendy, rimasta isolata dagli altri dallo spostamento d’aria causato dallo sparo del cannone dei pirati, giunge sull’isola, precedendo Peter Pan e i fratellini, dove i “ragazzi smarriti” la scambiano a tutta prima per un bianco uccello, la perfida fatina non esita a dire ai “ragazzi smarriti” che il loro capo vuole che essi la uccidano.

Gli ingenui fanciulli non hanno il minimo dubbio che si tratti davvero di un uccello e che l’ordine venga davvero da Peter e si affrettano ad imbracciare arco e frecce; Flautino, che già aveva con sè le armi, si rallegra di poter essere il primo ad ubbidire così al presunto ordine della sua guida e scocca la freccia che colpisce Wendy al petto. Ma una volta che lo strano “uccello” cade al suolo essi si rendono conto dell’errore commesso, e si disperano di aver ucciso la probabile madre che Peter Pan aveva condotto loro, soprattutto Flautino, il quale, davanti all’ira del capo, nel frattempo sopraggiunto, mostrando un cuore generoso e impavido, esorta Peter a colpirlo con la freccia estratta dal petto della fanciulla. Ma egli viene trattenuto dalla mano di Wendy: ella infatti era solo svenuta: la freccia si era conficcata nella ghianda che Peter le aveva donato e che aveva poi appeso alla sua collana, salvandole così la vita in quella circostanza.

Peter allora si adirò con Campanellino, che piangeva per il fallimento del suo piano, e la scaccia dicendole che non sarebbe più stato suo amico; ma poi mitiga la sentenza: “Non per sempre ma per una settimana intera”.

La buona Wendy peraltro non manifesta mai il minimo risentimento per il malcelato astio che la fatina nutre verso di lei e spesso le dimostra apertamente, ed anzi intercede per colei che aveva tramato la sua morte. Campanellino però non era del tutto cattiva, qualche volta era anche buona, come tutte le fate, le quali “sono sempre o tutte cattive o tutte buone, perchè, essendo così piccole, disgraziatamente non hanno posto che per un sentimento alla volta”. Come abbiamo visto nella prima e nella seconda parte le fate che compaiono nei romanzi di Barrie, -quelle che allevano Peter in “Peter Pan nei giardini di Kensington” e Campanellino in “Peter Pan e Wendy”, sono esseri capricciosi e gelosi, che non hanno nulla in comune e con le fate della tradizione fiabistica, nelle quali si ritrova un riverbero delle Parche, delle antiche signore del destino dalle quali sono derivate, e men che meno con la Fata di Pinocchio, ma che rientrano nella categoria degli “spiriti della natura”.

Questi tre personaggi femminili evidenziano il rapporto di Peter Pan, oltre che con la femminilità, con le emozioni e l’affettività, che l’eterno ragazzo di norma vive solo nell’immediato e non proiettata nell’insieme della sua coscienza, e che non rimangono nella sua memoria; con l’importante eccezione di Wendy: per lei, che incarna il rimpianto per la figura materna, tanto profondo e struggente, quanto negato con vana ostentazione, -rimpianto che è l’unico sentimento davvero radicato nel suo animo-, egli prova un affetto davvero stabile e autentico.

Ma il fascino ammaliatore esercitato da Peter Pan sulle figure femminili è attestato anche dalla sua amicizia con le Sirene, esseri infidi e dispettosi, -e per tale ragione simili alle Fate-, che si mostravano ostili e scontrose con tutti gli abitanti dell’Isola che non c’è, e in particolare con Wendy, verso la quale provavano anch’esse l’antipatia e la gelosia che una donna innamorata nutre per le sue rivali vere o presunte, e che solo da lui si lasciavano impunemente avvicinare, manifestandogli un intenso affetto, che per nessun altro avevano.

Gli animali, che nel romanzo di Collodi rivestono un’importanza fondamentale, tanto per la loro funzione nella trama narrativa, quanto per il simbolismo allegorico quasi esopiano di cui alcuni di loro sono caricati, non hanno altrettanta importanza nella storia di Peter Pan e Wendy (1), dato che solo due vi svolgono una parte significativa: Nana, la cagna di razza Terranova, che i signori Darling, nell’impossibilità di assumerne una umana, avevano eletto quale bambinaia per i loro tre figli -e che già abbiamo visto coprotagonista dell’episodio in cui il signor Darling cerca di rifilarle la medicina che lui dovrebbe prendere-; e l'”Uccello che non c’è” (/”Never-Bird”), il cui nome richiama ovviamente quello dell'”Isola che non c’è”-(2): questo strano volatile, -del quale non si fa una precisa descrizione, ma che è di certo femmina, e probabilmente simile a un corvo (come il corvo Salomone, che era stato guida e maestro di Peter Pan nei giardini di Kensington), a ragione del fatto che il suo verso è definito un “gracchiare”-, fa la sua apparizione nell’VIII capitolo, allorchè il capitan Uncino per spiegare a Spugna che cosa sia una madre (dato che il pirata mostra non solo di non aver mai conosciuto l’affetto materno, ma di ignorare del tutto perfino il significato della parola) indica un nido in balia delle acque in cui la madre uccello continua a covare le uova, incurante del pericolo: “Quella è una madre! -esclama il capitano- Quale lezione! Anche se il nido è caduto nell’acqua, mai la madre abbandonerebe le uova!”.

Peter Pan e l”Uccello che non c’è”.

Da quanto dice il capitano traspare un lampo di forte nostalgia verso la figura materna e si intuisce che anch’egli abbia avuto un legame forte, ma al contempo doloroso, con la propria madre, il che è un ulteriore elemento che ne fa una sorta di “umbra” di Peter Pan (vedremo oltre in che senso ed entro quali limiti si possa parlare di “umbra” per il ragazzino): “La sua voce si spezzò, come se per un momento egli ricordasse i giorni innocenti della sua infanzia, ma si liberò della debolezza con un colpo d’uncino”; non è dato conoscere quali siano stati i “giorni innocenti” dell’infanzia di Giacomo Uncino, nè che cosa abbia messo fine ad essi per farlo diventare un terribile pirata. Ma è certo che anch’egli, in un passato forse neppure troppo remoto, aveva vissuto il dramma o di aver perso la madre, o di essersene sentito abbandonato o respinto: Uncino è dunque un uomo che sotto la ferocia cela una profonda insicurezza, e si potrebbe per questo considerare la trasposizione dell’adulto che non ha saputo fare tesoro della propria infanzia, o a cui l’infanzia sia stata negata, a  causa di un abbandono o di un rifiuto vero o presunto da parte dei genitori, ovvero perchè la sua parte più autentica sia stata soffocata da un’educazione rigida ed esteriore. E quanto egli si sforzava di apparire feroce e privo di di qualunque sentimento gentile, tanto il suo nostromo, Spugna, si mostrava amabile e bonario, con i suoi occhiali e la sua abilità in mansioni casalinghe, come quella di cucire, che ne fanno una figura dai lati “materni” (pur non sapendo egli che cosa fosse una madre), quasi una diligente massaia, tanto che i ragazzi di Peter Pan non solo non lo temevano, ma quasi gli volevano bene.

L'”Uccello che non c’è” ricompare poi nel IX capitolo, di cui è protagonista: Peter Pan, il quale dopo la battaglia con capitan Uncino nella laguna delle Sirene, era rimasto isolato su uno scoglio che stava per essere smmerso dall’alta marea, avvista nella laguna qualcosa che reputa essere un pezzo di carta, forse un aquilone, e che sembra lottare contro le onde. Ad un sguardo più attento riconosce in esso l'”Uccello che non c’è”, il quale tentava di raggiungere Peter per metterlo in salvo nel suo nido: nonostante il ragazzino gli avesse fatto talvolta anche dei dispetti, l’istinto materno di cui era dotato, -poichè come abbiano detto trattavasi di una mamma uccello-, lo induceva a prendersi a cuore la sorte del fanciullo, forse perchè aveva ancora i denti di latte.

Segue un difficile dialogo tra i due, in cui l’uccello si sforza di far capire a Peter, articolando a suo modo alcune parole, che vuole nuoti verso il nido, perchè egli era troppo stanco per poter andare da lui sullo scoglio. Alla fine l’uccello si alza in volo e il ragazzino comprende che lo invita ad entrare nel nido. Peter allora depone le due uova che vi si trovavano nel cappello incerato appeso da Starkey, uno dei pirati, a un bastone sull’isolotto, oggetto dal quale era segnato il punto ove era stato sepolto un antico tesoro; “poi entrò nel nido, piantò in esso il bastone come un albero, e vi appese come vela la sua camicia”, mentre l’Uccello che non c’è scende a posarsi sul cappello, il quale fungeva ora da ricettacolo, per continuare a covare le sue uova.

L’episodio che vede protagonista l'”Uccello che non c’è” riprende in modo scoperto l’analoga situazione  che troviamo nel terzo capitolo di “Peter Pan nei giardini di Kensington” (si vedano la prima e la seconda parte della presente ricerca), in cui il fanciullino aveva costruito una barchetta a forma di nido, alla quale aveva sovrapposto la sua camicina a mo’ di vela, allo scopo di attraversare su di essa il laghetto intorno all’isola Serpentina (a sua volta prefigurazione dell'”Isola che non c’è”). In tale episodio riaffiora da un lato la natura di uccello che caratterizza il Peter Pan “prima versione”, -ma che non viene meno per quanto non se ne parli diffusamente neppure in “Petr Pan e Wendy”-, e nel medesimo tempo si insinua il richiamo della maternità, che il fanciullo dell'”Isola che non c’è” quanto più cerca di allontanare da sè, tanto più avverte prepotente e che ora si ripresenta nelle spoglie del volatile, il quale nella sua attitudine materna gli rimembra la sua antica natura.

Per quanto riguarda la nutrice a quattro zampe dei signori Darling, la fida Nana, di ella si dice che era una imponente cagna di Terranova e che i Darling si erano imbattuti in lei nei giardini di Kensington (ossia nel medesimo luogo da cui proveniva Peter Pan), dove trascorreva la maggior parte del suo tempo guardando dentro alle carrozzine, “facendosi odiare dalle balie negligenti che poi accompagnava fino a casa, lagnandosi di loro presso le padrone”: ella dunque controllava che i bambini ci fossero ancora, poichè, come aveva detto Peter, spesso a causa della negligenza delle bambinaie i neonati cadevano a terra, andando poi a ingrossare le fila dei “ragazzi smarriti” dimoranti nell”Isola che non c’è” (3). Avendo notato la sua premura e il suo amore per i bimbi, e non potendo d’altro canto permettersi una bambinaia umana, i signori Darling decidono di assumerla per tale compito, che la buona cagnolona assolveva egregiamente , tanto che era quasi una seconda mamma per i fanciulli Darling. E’ Nana che richiudendo velocemente la finestra dalla quale era scappato Peter Pan, aveva strappato via la sua ombra: pertanto al suo intervento si deve la situazione dalla quale prende inizio la trama del romanzo.

A questi due animali deve aggiungersi il grande coccodrillo marino che aveva ingoiato la mano di capitan Uncino, mozzatagli da Peter Pan e avendola trovata di suo gradimento stava assiduamente alle calcagna del pirata, nelle speranza di poter completare il pasto con il rimanente del corpo di Uncino. Il terribile rettile aveva anche inghiottito la sveglia del pirata Spugna e pertanto dalla sua pancia si udiva provenire un incessante ticchettìo, dal quale si poteva percepire la sua vicinanza: nell’udire quel suono inquietante Uncino trasaliva, poichè aveva un terrore incontrollabile del coccodrillo, che sembra quasi incarnare una nemesi che perseguita il capo pirata. Nel fatto che avesse inghiottio l’orologio potrebbe vedersi espressa in modo metaforico la “fine (o la consumazione) del tempo”, forse perchè nell'”Isola ce non c’è” i fanciulli non crescevano mai, e presumibilmente pure gli altri strani abitanti di quel mondo fantastico, -ma non troppo-, rimanevano sempre nella medesima età e condizione. Tuttavia anche in quel luogo si producevano molti avvenimenti e mutamenti, -come ad esempio i combattimenti, i rapimenti, le morti in battaglia o per altre cause accidentali-, per cui non si può affermare fosse fermo in una immobile fissità fuori dal tempo e dallo spazio, come pure sembrerebbe significare il suo nome (“Isola che non c’è”): lo spazio entro cui i personaggi si muovono ha una ben precisa e concreta valenza geometrica e tutti i protagonisti e le comparse delle tragicommedia ideata da Barrie non si spostano in esso con l’irreale evanescenza di un esperienza onirica, ma lo misurano quotidianamente con i loro passi (o i loro voli); così come il tempo, inteso sia come durata, sia come mutamento delle condizioni iniziali, scandisce in una sequenza precisa le loro esistenze, vi è un “prima” e un “dopo”, e non un indifferenziato ed eterno presente in cui tutte le esperienze mentali e fisiche si giustappongono e si accavallano come in un sogno. Pertanto il nome “Isola che non c’è” non sembrerebbe del tutto appropriato, se non nel senso che esiste al di fuori dell’esperienza quotidiana, in uno spazio e in un tempo interiori e non fisici.

D’altro canto si potrebbe interpretare il terrore di capitan Uncino verso il suo persecutore, come la paura del tempo che passa inesorabilmente, di cui il coccodrillo, quasi un Leviatano che si fa annunciare dal lugubre ticchettìo della sveglia, è una pittoresca metafora; e dunque anche da tale elemento constatiamo che il capo pirata è il “pendant” di Peter Pan: come questi è un eterno ragazzo che vive in una dimensione atemporale, così Uncino vive nel costante timore di una fine improvvisa e ingloriosa, di un annientamento definitivo che cancelli la sua presenza in quel mondo in cui è finito non si sa se per caso o per scelta; come Peter Pan ha vinto il tempo, conquistando l’eterna giovinezza, una condizione divina, -e per questo egli si può considerare una vera e propria divinità mitologica, come Hermes o Eros, più che Pan, di cui pure porta il nome-, uno status più che umano, così capitan Uncino viene sconfitto e inghiottito dal tempo, che per lui, come per quasi tutti gli umani che non sappiano eternarsi nella scoperta dello spirito, “fugit inreparabile”, -come cantava Virgilio (Georgiche, III, 284: “Sed fugit interea, fugit inreparabile tempus”)-; e non è certo un caso che l’orologio inghiottito dal coccodrillo si fermi nell’imminenza della sua fine, quasi a significare che il tempo della sua vita era ormai giunto al termine.

Dopo la battaglia finale tra i pirati e la banda di Peter Pan, il coccodrillo può finalmente soddisfare la sua brama, poichè il capitano sconfitto dal suo audace antagonista, mentre sta tentando un’ultima, disperata e sleale (com’è nel suo stile e nella sua indole) difesa, con un poderoso calcio del nostro eroe viene gettato in mare, dove il rettile, nel quale la sveglia nel supremo momento si era fermata, lo aspetta a bocca aperta: così, tra le fauci del suo persecutore, egli termina la sua vita più infelice che scellerata. Egli ha però la soddisfazione di essere sopraffatto dal gesto plebeo e per nulla elegante di Peter Pan (il calcio), mentre egli per parte sua conserva fin alla fine le buone maniere e la compostezza esteriore alle quali tanto teneva.

Ma con la fine del suo nemico Peter Pan perde anche una parte di sè stesso, quella parte che non accettava e che combatteva, ma che in fondo dava un senso alla sua esistenza, e viene da chiedersi quale fosse mai la vita dell’eterno fanciullo dopo che l'”Isola che non c’è” era rimasta priva sia della sua banda di fanciulli smarriti, i quali avevano ripreso il cammino interrotto della loro fanciullezza in una famiglia “normale” per giungere al porto di una rassicurante, pur se banale, vita adulta, sia dei pirati. Quale poteva essere la sua vita in quel luogo divenuto così innaturalmente vuoto, silenzioso e tranquillo? Barrie non lo spiega, e forse non si è posto il problema, ma dovremmo pensare che fosse triste e tanto più avvertisse la nostalgia di una madre, che egli incessantemente torna a cercare di generazione in generazione (da Wendy a Jane, sua figlia, e poi la figlia di quest’ultima Margherita) per insegnare a volare a tutti coloro che credono la fantasia aiuti a crescere, e ad essere davvero sè stessi; e a cercare la sua ombra ovunque vi siano delle madri e dei bambini.

L’ombra che Peter Pan aveva lasciato nella casa dei Darling quando vi si intrufolava furtivamente per ascoltare le fiabe narrate dalla madre di Wendy rimembra senza dubbio l'”umbra” junghiana; ed in effetti è abbastanza naturale vedere in essa il simbolo di quella parte di sè che il fanciullo, rifugiatosi in un mondo di fantasia, -ma non certo placido e in cui la vita è tutt’altro che comoda (come nell'”inconscio” psicanalitico e nel “mondo astrale” teosofico)-, perchè respinto e nello stesso tempo spaventato dall'”arido vero”, dal quale non vuole essere travolto e inghiottito, sembra voler allontanare da sè, per conservare la sua autenticità. E questa parte nascosta, alla quale, nonostante le sue orgogliose affermazioni di indipendenza, era profondamente legato, continuava ad avvertire in modo pressante il bisogno delle cure di una famiglia, e soprattutto dell’amore materno, di cui nessun fanciullo può fare a meno (4). Quando la signora Darling, che stava dormendo, si destò all’improvviso e scorse nella sua stanza Peter Pan, che subito riconobbe per averlo visto in sogno (5), “mandò un grido e , come in risposta a una scampanellata, la porta si aperse e Nana entrò , di ritorno dalla sua uscita serale”. La bambinaia a quattro zampe si slancia sul ragazzo per acchiapparlo, ma egli lesto fugge saltando dalla finestra; la signora Darling crede si sia gettato di sotto e corre in strada, ma non trova nulla e “nel buio della notte potè vedere soltanto ciò che credette fosse una stella cadente”. Tornata nella sua camera da letto, si avvede che Nana tiene qualcosa in bocca: l’ombra di Peter Pan: mentre lui saltava dalla finestra per spiccare il volo, la cagnolona l’aveva chiusa in fretta, ma non abbastanza per riuscire a trattenerlo; la sua ombra però non aveva fatto in tmpo a uscire e “la finestra chiusa di colpo l’aveva strappata via”. Nana, la quale si comportava, pensava e talora parlava come un umano, appende l’ombra fuori dalla finestra, poichè non ha dubbi che il piccolo clandestino sarebbe tornato per riprendersela; ma la signora Darling non approva questa decisione, poichè l’ombra messa a quel modo “pareva un cencio steso ad asciugare, ed abbassava il tono della casa”: per questo la ripiega con cura e la ripone in un cassetto, in attesa che si presenti l’occasione di restituirla al proprietario. Così l’ombra lasciata nella casa che Peter Pan amava di nascosto frequentare, -perchè in essa percepiva quel calore che invano aveva tanto desiderato-, lega indissolubilmente la sorte di Wendy e dei suoi fratelli a quella del ragazzo senza età.

Quando Peter Pan, dopo essersi introdotto furtivamente nella casa dei Darling, recuperata la sua ombra, tenta di riattacarsela, contrariamente alle sue aspettative non vi riesce, e sono proprio i suoi singhiozzi a destare Wendy. E è proprio la sua nuova amica che, con la premurosa competenza di una brava madre, gli riattacca l’ombra cucendogliela ai piedi, è lei che con la sua paziente disponibilità ricompone la personalità di Peter Pan, il quale aveva momentaneamente smarrito la sua affettività, -e che non sarebbe riuscito a portare a termina da solo l’operazione-, mostrandosi una sorta di celeste mediatrice, -quello che per Barrie, ma in fondo anche per Collodi, è una madre-, o di “guaritrice dell’anima”, come la Beatrice dantesca, che aiuta l’individuo a trovare sè stesso, ascendendo alle vette dello spirito: per questo, se non apparisse forse eccessivo, si potrebbe quasi vedere nella figura di Wendy una delle ultime incarnazioni della “donna angelo” degli stilnovisti, venuta “da cielo in terra a miracol mostrare”, tanto grandi sono la sua dolcezza, la sua comprensione, la sua bontà, anche verso i “nemici”, come Campanellino.

Ed in effetti il tema centrale su cui si incentrano i romanzi di cui è protagonista Peter Pan, soprattutto il secondo, -“Peter Pan e Wendy”-, è il legame profondo, ma per Barrie di certo anche assai complesso, tra madre e figlio: il sentimento ambivalente che Peter nutre verso la propria madre e con la figura materna in generale, produce opposte e contrastanti pulsioni: di sdegnosa e ostentata indifferenza dovuta al rifiuto che egli ritiene di aver subito dalla propria madre; ma al di sotto di questa ostilità più apparente che reale si cela in realtà una struggente nostalgia per l’affetto materno, che lo porta a insinuarsi di soppiatto nella dimora dei Darling per assaporare almeno il riverbero della serena vita familiare che a lui è stata negata, e poi a scegliere Wendy quale surrogato di mamma per lui e per i suoi amici. E Wendy si assume davvero, e con molto impegno, la missione di madre, accollandosi anche gli ingrati e faticosi compiti che le mamme devono eseguire, come cucinare, lavare e rammendare gli abiti (o per meglio dire le misere pelli con le quali quei fanciulli si ricoprivano), non solo per Peter Pan e per i “lost boys”, ma pure per i suoi fratellini, che, con il passare del tempo -che come abbiamo detto sopra passava anche nell’Isola che non c’è-, tendono sempre più a considerarla una vera madre, mentre il ricordo dei genitori che avevano lasciato in quel di Londra andava sempre più sbiadendosi nelle menti e nei cuori di questi ultimi, specie di Michele. E proprio per non far svanire del tutto l’immagine della loro vita passata la giudiziosa ragazzina, -per la quale la permanenza in quel luogo non era un fatto definitivo e irreversibile, ma una parentesi temporanea,  e che sperava sempre sarebbe tornata prima o poi dalla sua famiglia-, ha l’idea di impartire una sorta di lezioni ai suoi fratelli e agli altri ragazzini, ponendo loro loro numerose domande relative ai loro genitori e alla loro casa, del tipo: “Di che colore erano gli occhi della mamma? Chi era più alto, il babbo o la mamma? La mamma era bionda o bruna?”, alle quali i suoi “figli adottivi” dovevano rispondere per iscritto, o assegnando compiti che avevano come tema la rievocazione e la descrizione di eventi della vita familiare.

Codeste esercitazioni “parascolastiche”, attraverso le quali Wendy mirava a non far svanire del tutto la memoria dei genitori dalla mente e dal cuore dei piccoli di cui era stata eletta madre adottiva, davano peraltro assai scarsi risultati. Ma Peter non partecipa a questi esercizi, sia perchè è l’unico a non saper nè leggere nè scrivere (6), sia perchè non sa e non vuole ricordare quella famiglia che l’ha abbandonato (o meglio non ha saputo accettare il suo modo di essere come un folletto, uno spirito della natura) e con la quale dichiara di non voler avere più nulla a che fare. Ed è oltremodo significativo che Barrie in proposito incorra in una palese (ma forse voluta) contraddizione: mentre nel primo incontro di Wendy con Peter, questi le dice di essere fuggito di casa perchè non era disposto ad accettare, e a subire, il destino fatto di scuola e poi di lavoro, la vita grigia e monotona che i genitori gli preparavano, distinguendosi così dalla conclamata nostalgia che gli altri ragazzi dell'”Isola che non c’è” provano per le loro madri, -soprattutto Pennino-; nell’undicesimo capitolo, -intitolato “La novella di Wendy”, in cui la ragazzina intende ravvivare nei fratelli il ricordo dei genitori con il racconto della loro vita prima che entrassero a fra parte del mondo di Peter Pan-, lo scrittore riprende la versione di “Peter Pan nel giardino di Kensington” e il suo eroe parla a Wendy del dolore provato quando, ritornato a casa dopo la sua scorribanda nel giardino in compagnia delle fate e degli uccelli, aveva avuto la sgradita sorpresa di trovare la finestra chiusa da un’inferriata e di dover constatare che era stato sostituito nell’affetto materno da un altro bambino: “Molto tempo fa -disse- credevo anch’io come voi che mia madre avrebbe tenuto sempre aperta la finestra per me; così io me ne stetti via per mesi e mesi e mesi, e poi tornai; ma la finestra aveva l’inferriata, perchè mia madre si era dimenticata di me, e c’era un altro ragazzino che dormiva nel mio letto”. Così il suo procrastinare l’ingresso definitivo in una famiglia umana, lasciando per sempre la condizione di “daimon”, di spiritello della natura, di uccello spensierato si era rivelato fatale, e gli aveva precluso quell’affetto materno al quale pure aspirava. Egli desiderava la libertà dell’uccello, dell’essere primordiale che vive a contatto con la natura, -ma che proprio per questo deve affrontare le difficoltà e le fatiche che tale condizione comporta-, e nel medesimo tempo il calore di un nido familiare, la rassicurante protezione del cuore materno, -che però necessariamente limitano la libertà sfrenata di cui godeva-. Nel primo romanzo Peter Pan sembra allora essere escluso sia dall’una sia dall’altra condizione, rimanendo in una sorta di limbo; nel secondo invece, pur non avendo certo smesso di rammaricarsi della mancanza della mamma, il piccolo eroe vive in un mondo di cui è il centro e l’indiscusso protagonista.

CONTINUA NELLA NONA PARTE

Note

1) molto più significativa è la presenza degli animali, e in specie degli uccelli, in “Peter Pan nei giardini di Kensington”. Secondo Luigi Santucci (in “La letteratura infantile”, Milano, 1958) i personaggi più importanti dei libri per l’infanzia sono gli animali, poichè l’infanzia conosce e si evolve, in tutto il campo intellettivo e psichico, attraverso di essi; “con la sua sconfinata gamma di aspetti e di costumi l’animale potrà fornire al fanciullo quell’insostituibile mezzo didascalico che è la personificazione”. Tuttavia mentre gli animali del Collodi hanno in genere una valenza simbolica e allegorica, personificando vizi e virtù, e pochi di essi sono privi di una precisa caratterizzazione individuale, -a parte il Gatto e la Volpe-  (il cane Alidoro, la lumaca domestica della Fata, il tonno che fugge con Pinocchio e Geppetto dal ventre del Pescecane); i pochi animali che si incontrano in “Peter Pan e Wendy” si presentano come figure più individualizzate, sebbene non privi anch’essi di un pregnante simbolismo (Nana e l'”Uccello che non c’è” dell’istinto materno; il Coccodrillo del Tempo che tutto divora).

2) nella storia troviamo anche un “Albero che non c’è”, che cresceva, o meglio tentava di crescere, al centro del vasto ambiente ipogeo che costituiva la casa di Peter Pan e dei fanciulli smarriti, e il cui tronco tutte le mattine veniva segato a livello del pavimento. Esso tuttavia continuava a ricrescere e “all’ora del tè era sempre alto una settantina di centimetri, e i ragazzi ci stendevano sopra una porta” che diventava così il loro desco, e dopo aver sparecchiato, “segavano di nuovo il tronco, così c’era più spazio per giocare”.

3) è probabile che la cagna bambinaia riprenda alcuni tratti di Porthos, il cane S. Bernardo del capitano W. in “L’ Uccellino Bianco”.

4) com’è noto, nella psicologia analitica junghiana i contorni dell'”umbra” sono oscillanti e talvolta contraddittori. Tuttavia si può osservare che nelle prime formulazioni, conforme al significato del nome, l””umbra” rappresenta la parte nascosta della personalità, oscurata dall’Io cosciente, il quale, proiettandosi verso l’esterno, la fa rimanere in ombra, così come un corpo illuminato nasconde quanto si interpone tra esso e la fonte di luce. In pratica tale termine viene a designare gli aspetti e le qualità dell’Io che per varie cause, -sovrapporsi di circostanze esterne e condizionamenti psicologici interiori, scelte più o meno spontanee del soggetto, ecc.-, sono rimaste in ombra e non hanno avuto modo di svilupparsi, ma che riaffiorano in determinate situazioni: dunque le potenzialità psichiche e intellettuali non portate all’atto, o solo in minima parte, dal soggetto, che di solito albergano nel subconscio, ma che attraverso la riflessione e l’introspezione possono senza troppa difficoltà affacciarsi alla coscienza. In una fase successiva, quando il suo pensiero fu  influenzato dall’ermetismo e dallo gnosticismo, Jung diede una connotazione decisamente più negativa ed inquietante all'”umbra”, considerandola un insieme di impulsi oscuri e distruttivi che si annidano nelle profondità della psiche e che si manifestano, oltre che nei sogni, in pensieri e comportamenti in apparente contrasto con la personalità del soggetto e con i suoi valori morali; questi impulsi tenebrosi che costituiscono l'”umbra” nella successiva teoria dello psicanalista possono divenire autodistruttivi, qualora non siano portati alla luce e alla coscienza da un’analisi approfondita, che, se particolarmente intelligente e sensibile, il soggetto può compiere con le sue forze, ma che in generale, secondo l’illustre psicologo, necessita dell’aiuto “maieutico” di un esperto (ossia di un analista).

5) l’autore dice che nel sogno la signora aveva scorto l'”Isola che non c’è” appressarsi moltissimo alla Terra, e che da essa era venuto fuori uno strano ragazzo. “Non le fece paura, perchè credeva di averlo visto già da prima nel volto di molte donne che non hanno avuto bambini. Forse lo si può trovare anche nel volto di alcune madri”. Ma in quel modo Peter Pan aveva squarciato il velo che separa l'”Isola che non c’è” dal mondo terreno, così che i suoi figli, i piccoli Darling, ora avrebbero potuto penetrarvi.

6) il fatto che gli altri bambini sapessero leggere e scrivere, per quanto in modo rudimentale, sembra in contraddizione con quanto Peter Pan aveva dichiarato nel terzo capitolo, affermando che i suoi compagni erano bambini caduti dalle carrozzine a causa della distrazione delle bambinaie: se venivano trasportati nelle carrozzine si deve dedurre che fossero ancora infanti e quindi non avessero mai frequentato le scuole: pertanto stando alla logica neppure i “lost boys” avrebbero dovuto essere in grado di scrivere e quindi di eseguire gli esercizi assegnati da Wendy. Ma invero siffatte incongruenze sono tutt’altro che infrequenti nella narrativa.

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