OSSERVAZIONI SULLA NASCITA DEL CRISTIANESIMO – appendice seconda (la “santa Sindone”) – terza parte

La prima testimonianza sulla sindone ora conservata a Torino (la quale, come vedremo oltre, non è che una delle molte pretese sindoni che godettero di venerazione nei secoli del ME e dell’età moderna, ma che in pratica è rimasta l’unica riconosciuta in forma più o meno ufficiale a partire del XIX secolo), risale al 20 giugno 1353 (ma la data non è del tutto certa), allorché il cavaliere Goffredo di Charny donò ad una chiesa di Lirey, -cittadina della Francia settentrionale, distante tre leghe da Troyes, di cui era signore-, un lenzuolo che egli dichiarava essere quello che avrebbe avvolto il corpo di Gesù Cristo dopo la deposizione dalla croce. La preziosa reliquia sarebbe stata trafugata da Gerusalemme nel 70, dopo la conquista della città ad opera di Tito susseguente alla rivolta ebraica anti-romana; attraverso vie non accertate sarebbe poi giunta in Persia, donde nel 614 sarebbe tornata in Palestina quando i Persiani dell’Impero Sassanide erano avanzati in territorio bizantino fino ad occupare buona parte della Siria: pertanto se questa versione fosse attendibile, la sindone avrebbe compiuto il percorso inverso di quello della “vera croce”, che, come abbiamo visto nella parte precedente, proprio nella circostanza della presa di Gerusalemme da parte di Cosroe II, Re dei Re, sarebbe stata portata a Ctesifonte in Mesopotamia.

Dalla Palestina sarebbe giunta in Francia al tempo delle crociate (si ignora precisamente di quale); tuttavia un presunto accenno alla sindone si trova nella cronaca degli eventi ai quali aveva partecipato e assistito il cavaliere francese Robert de Clari, il quale nel 1204 aveva partecipato alla IV crociata -che, com’è noto, si era risolta non nella liberazione della Terra Santa, ma nella conquista e nel sacco di Costantinopoli-. Costui afferma di aver visto nella chiesa delle Blacherne (il quartiere principale di Costantinopoli, sede degli edifici più importanti) un sudario di Cristo che “ogni venerdì si ergeva in posizione verticale così da mostrare la figura di NSGC”. In effetti codesto passo è di controversa interpretazione poiché per alcuni vorrebbe significare che il telo si sollevava da solo per effetto di un miracolo ricorrente; per altri, -e questa è l’interpretazione di gran lunga più probabile-, che veniva esposto alla pubblica devozione in posizione verticale, così da poter osservare per intero l’immagine che vi era impressa. Si ritiene peraltro che il drappo di cui parla Robert de Clari sia da identificare piuttosto con il “Mandylion” o con il fazzoletto della Veronica, piuttosto che con la sindone, e comunque non con quella poi finita a Torino. Questa ipotesi è avvalorata dal fatto che Giovanni Damasceno, il famoso teologo (676-749) (1), nella sua “Epistula ad Theophilum imperatorem de sanctis et venerandis imaginibus” parla dell’immagine di Cristo conservata ad Edessa, -capitale della regione siriaca dell’Osroene-, che sarebbe stata inviata al re Abgar per guarirlo dalla lebbra come di una striscia o un drappo di forma stretta e allungata e non come un fazzoletto quadrato (che è la forma attribuita a tale reliquia dalla tradizione attestata); il teologo però afferma esplicitamente che tale immagine, come tramandato dalla tradizione, sarebbe stata fatta mentre Gesù era vivo e non dopo la morte, né tanto meno che fosse il suo sudario funebre.

IL “MANDYLION”

La storia del “Mandylion” (diminutivo di “mandyas”, -o “mandye”, tipo di drappo o mantello in uso in particolare nell’area persiano-anatolica) è già stata esposta in breve nella nota n.9 alla quinta parte di “Le Amazzoni, guerriere della Luna”, del 26 ottobre 2015; ma, dato lo stretto legame con l’argomento che stiamo trattando, è forse opportuno richiamare la leggenda riguardante codesta reliquia quale è riportata da Evagrio Scolastico, scrittore bizantino del VI secolo (536-600 circa) nella sua “Storia Ecclesiastica”. Il re dell’Osroene, Abgar V Ukkama (il “Nero”), -che regnò dal 13 al 50 d. C.-, essendo affetto dalla lebbra ed avendo inteso parlare delle eccezionali virtù taumaturgiche di Gesù, inviò in Palestina il suo archivista Hannan, perchè gli conducesse il maestro, sperando di essere da lui guarito dal morbo che lo affliggeva. Poiché questi non potè, o non volle, recarsi a Edessa, la capitale dell’Osroene, Hannan incaricò un pittore di eseguire il ritratto di Cristo, ma l’artista non riuscì a portare a termine la sua opera a causa della gloria e dello splendore divini che brillavano sul suo volto e che non potevano essere adeguatamente risaltare in un ritratto. Allora Cristo si applicò sul  viso un fazzoletto (“mandylion”) di lino sul quale rimase impressa la sua effige e mandò quello ad Abgar, il quale non solo guarì ma credette alla divinità di Cristo. La leggenda contenuta nell’opera di Evagrio riprende peraltro quanto è narrato negli apocrifi “Atti di Taddeo”, nei quali il messo è chiamato Anania, e si precisa che Cristo avrebbe usato per asciugarsi un fazzoletto ripiegato in quattro parti -che evidentemente in tale versione più che un fazzoletto doveva essere un telo-, e pertanto detto “tetradiplon”-, sul quale l’immagine del suo viso sarebbe rimasta impressa quattro volte; Taddeo, uno dei 72 discepoli di cui parla nel vangelo di Luca (X, 1-24), fu inviato al re dopo la resurrezione quando egli era già stato guarito per la virtù del “mandylion” (2).

Il “mandylion” tra le mani di re Abgar in una icona bizantina del X secolo,

Ma il figlio di Abgar, omonimo del padre, non si mantenne nella fede abbracciata dal genitore, e così il vescovo di Edessa (e dall’esistenza di un  vescovo si dovrebbe dedurre che fin da allora esistesse nella città una comunità cristiana, ma, come si è detto, questa storia è ampiamente leggendaria) fece occultare il miracoloso fazzoletto, che non fu ritrovato anche dopo che il Cristianesimo era divenuto religione ufficiale dell’Impero Romano (al quale l’Osroene era stata annessa fin dal 212 dall’imperatore Caracalla, diventando provincia romana, salvo una breve parentesi a metà del III secolo in cui tornò al potere gli Abgaridi, ma in condizione di vassalli dell’Impero Romano).

Del “mandylion” parla anche nelle sue opere Efrem il Siro (306-373), -il quale trascorse ad Edessa l’ultima parte della sua vita-, e a cui sembra risalire la leggenda che abbiamo riferito nella nota sopraddetta, ove l’episodio si arricchisce di particolari avventurosi come l’attacco dei predoni, e il salvataggio della divina immagine nel pozzo.

Un’altra fonte importante in cui appare tramandata e sviluppata la leggenda della miracolosa effigie di Cristo è la “Narratio de Imagine Edessena”, attribuita all’imperatore Costantino VII Porfirogenito -(regnante dl 912 al 959), che fu anche letterato e teologo-, ma probabilmente opera di qualche erudito della sua corte. In essa, oltre della corrispondenza epistolare tra Abgar e Gesù, al tentativo non riuscito del pittore di ritrarre il viso di quest’ultimo e dell’imprimersi prodigioso dell’immagine sul panno, leggiamo che Taddeo allorchè si presentò al re di Osroene pose il “mandylion” sulla sua stessa fronte; quando Abgar lo scorse entrare da lontano gli parve di vedere una luce sfolgorante che si irradiava dal missionario. Egli allora comandò di asportare la statua di una divinità che si trovava sopra la porta della città e di porre al suo posto l’effigie miracolosa, fissata a una tavola lignea e incorniciata d’oro. Il figlio omonimo di Abgar si uniformò alla fede del padre, ma suo nipote una volta salito al trono tornò alla pristina religione e come suo nonno aveva tolto di mezzo il simulacro, così lui voleva riservare il medesimo trattamento al “mandylion”; per impedire questo, il vescovo sottrasse  e nascose il panno, ricoprendolo con una tegola e ponendovi davanti una lampada, che furono poi murati.

Questo telo dopo essere rimasto celato per secoli in un segreto anfratto nelle mura della Birtha, la cittadella di Edessa, affinché fosse protetto da eventuali furti e profanazioni, sarebbe stato ritrovato nel VI secolo. Sembra, -secondo quanto tramanda lo storico Procopio di Cesarea-, che la circostanza del rinvenimento sia stata un’inondazione del Daisan, il fiume che attraversa la città siriaca, nel 525, dopo che, per ordine di Gustiniano, erano iniziati i restauri della chiesa di S. Sofia, fatta erigere dal vescovo Qona al tempo di Costantino nei pressi della sorgente Calliroe: in seguito a tali eventi tornò quindi alla luce la nicchia in cui il “Mandylion” era custodito.

Secondo un’altra versione, più romanzesca, il “mandylion” sarebbe riapparso nel 544 durante l’assedio di Edessa da parte dell’esercito dell’imperatore sassanide Cosroe (Kushraw) I Anushirwan (“Anima Immortale”), regnante dal 531 al 579. In quel drammatico frangente il vescovo della città Eulalio avrebbe ricevuto in sogno l’indicazione del luogo ove era celata la reliquia che così potè essere recuperata dagli assediati. L’esercito persiano allora tolse l’assedio, probabilmente a causa di un incendio scoppiato nell’accampamento; ma gli abitanti della città attribuirono lo scampato pericolo all’intervento miracoloso del venerato telo.

Due colonne antiche si ergono sulla fortezza di Urfa, l’antica Edessa.

Stando al racconto di Evagrio (“Storia Ecclesiastica”, IV, 27), poiché gli sforzi di Cosroe di conquistare Edessa risultavano vani, il sovrano sassanide pensò di far tagliare nelle selve circostanti un grande quantità di legna che fece trasportare presso le mura della città. Con la legna raccolta gli assedianti eressero un grande tumulo che fu riempito di terra nel suo interno, costruendo così una piattaforma dalla quale intendevano prendere la città dall’alto  Per sfuggire all’insidia gli abitanti di Edessa scavarono dei cunicoli sotterranei per raggiungere dal basso la piattaforma ed appiccarle fuoco; ma l’impresa non riuscì perché la legna per mancanza d’aria non si infiammava. Non sapendo come respingere l’assedio, portarono la sacra immagine attraverso uno dei cunicoli, versarono dell’acqua su di essa e poi gettarono tale acqua, -che doveva aver assorbito le virtù del “mandylion”-, sul fuoco che avevano acceso: così le fiamme cominciarono a divorare i tronchi, causando la fuoriuscita di un nero e denso fumo. Gli assediati però lanciarono anche sulla piattaforma delle boccette piene di zolfo e di stoppa per far credere ai Persiani che il fumo da quelle provenisse. Solo il terzo giorno questi ultimi si resero conto dell’incendio che covava sotto la costruzione e stava per divampare rovinosamente. Allora cercarono di spegnere l’incendio con getti d’acqua, ma questi, anziché placare le fiamme, le alimentavano così che in breve tempo la piattaforma fu interamente distrutta. Fu così che, in seguito all’evento miracoloso, Cosroe dovette desistere dalla sua impresa e tornare in patria sconfitto (3).

Dopo che nel 546 Giustiniano ebbe stipulato una tregua con i Persiani, i lavori di consolidamento dell'”Haghia Sophia” poterono essere completati; in quella circostanza il “mandylion” fu mostrato all’imperatore, che fece apporre l’immagine ad una tavola incorniciata d’oro. Nelle riproduzioni pittoriche posteriori che ne sono state lasciate, l’icona è rappresentata con la forma di un largo rettangolo, al centro del quale spicca il volto di Cristo entro una sorta di nimbo spostato verso l’alto; esso appare una griglia a losanghe, ciascuna delle quali porta un fiore al centro, ai lati della quale si scorgono le frange di un tessuto.

In seguito però il “mandylion” fu nuovamente nascosto dai cristiani allorché la città fu conquistata dagli Arabi nel 638. Dopo la controffensiva bizantina al tempo dell’imperatore Romano I Lecapeno (imp. dal 920 al 944), con la quale la Siria settentrionale fu in parte riannessa all’Impero Bizantino, nel 944 il generale armeno Giovanni Kurkas, in cambio della liberazione di 200 prigionieri musulmani, e del versamento di 12.000 dinari d’argento, riuscì a farsi consegnare dagli abitanti di Edessa la sacra immagine, che fu inviata a Costantinopoli, dove giunse il 15 agosto di quell’anno circondata dall’accoglienza trionfale di tutto il popolo. Il “basileus” Costantino VII Porfirogenito la fece collocare in primo tempo nella chiesa di S. Maria delle Blacherne, ma il dì seguente con una solenne processione la preziosa effigie fu traslata in S. Sofia; venne poi portata nel palazzo imperiale del Bukoleon e infine ebbe la sua sede definitiva nella chiesa della Theotokos (“Madre di Dio”) di Pharos, (4). Stando però alla testimonianza contenuta in un’orazione di Gregorio Referendario, arcidiacono di S. Sofia, -che conferma quella di Giovanni Damasceno-, il drappo avrebbe contenuto non solo il viso, ma una figura intera, di Gesù Cristo e pertanto non corrispondeva affatto alla tradizione. In ogni caso dopo quella data dal de Clari non risultano altre notizie su tale drappo e non se ne seppe più nulla in seguito. Nella sua testimonianza il prelato afferma anche l’origine soprannaturale dell’ immagine, che non sarebbe stata prodotta da mano umana con colori artificiali, ma dallo splendore divino impressosi sul telo con il sudore.

Dobbiamo peraltro precisare che a seguito delle controversie religiose che agitarono l’Impero Bizantino durante i secoli IV-IX ( si veda al riguardo la trattazione sulla “Storia minima dell’idea di Dio nel primo millennio cristiano”, in particolare le parti I-IV, -luglio-agosto 2017-), il possesso del “mandylion”, era rivendicato, oltre che dalla comunità ortodossa melchita (di lingua siriaca ma fedele al patriarcato di Costantinopoli), anche da quella nestoriana e da quella giacobita (di credo monofisita), le quali sostenevano ciascuna che il proprio fosse quello autentico e gli altri copie. Dopo che Giovanni Kurkas era riuscito a entrare in Edessa, tutte e tre i teli furono mostrati al vescovo di Sàmosata Abramio, il quale era stato incaricato dall’imperatore di ricevere la reliquia, e questi sentenziò che la vera icona fosse quella che veniva conservata sotto l’altare maggiore della cattedrale di Edessa officiata dai Melchiti.

Osserviamo inoltre che secondo fonti musulmane, come lo storico arabo-persiano Al-Masudi (5), il telo conservato a Edessa sarebbe stato quello che era servito per asciugare Gesù di Nazareth, allorché uscì dal Giordano dopo essere stato battezzato.

L’esistenza di codesta miracolosa icona, che dimostrava, a loro dire, la possibilità di rendere in qualche modo nella materia terrena della sostanza divina di Cristo, fu argomento spesso usato dagli iconòduli per confutare gli iconoclasti, che invece negavano tale possibilità, nel lungo periodo in cui l’Impero Bizantino fu agitato dalla furiosa controversia tra i due partiti, ed il “mandylion” di Edessa fu espressamente citato nel II concilio di Nicea con il quale si ebbe il ristabilimento (temporaneo, come abbiamo visto nell’articolo del 6 ottobre 2017) del culto delle immagini. Ed in effetti è probabile che numerose immagini spacciate per “acheropite” siano state messe in circolazione in quel periodo proprio per sostenere le tesi degli iconòduli (un altro esempio famoso di icona “acheropita” è quella conservata a Roma in S. Giovanni in Laterano di cui abbiano parlato nella nota n.12 della sesta parte della “Storia minima, ecc.” del 23 settembre 2017).

Tuttavia nel primo racconto della conversione di re Abgar, che appare nella “Storia Ecclesiastica” di Eusebio di Cesarea non si fa alcuna menzione di un ritratto o di una immagine di Cristo rimasta miracolosamente impressa su di un telo. In questa versione si dice soltanto che il re dell’Osroene avrebbe pregato Gesù tramite un suo messaggero affinchè si recasse da lui per guarirlo dal grave morbo da cui era affetto. Il maestro non acconsentì alla richiesta, perché, stando alla leggenda avrebbe dovuto prima provvedere alle pecorelle smarrite di Israele; promise però che dopo la sua resurrezione avrebbe mandato ad Edessa uno dei suoi discepoli. Ed in effetti così fu: il primo a predicare in Osroene sarebbe stato Tommaso, -il quale secondo una tradizione extra-canonica sarebbe poi giunto fino in India-; ma la guarigione e la conversione del re non furono opera direttamente dell’apostolo, bensì, come abbiamo visto sopra, di Taddeo (Addai in lingua siriaca), mandato da Tommaso. Questo miracolo è testimoniato anche da due brevi lettere in siriaco, che rientrano nel “corpus” degli scritti apocrifi del NT, risalenti al II secolo, ma che sono riportate in traduzione greca anche nella “Storia Ecclesiastica” di Eusebio di Cesarea: la prima contiene la richiesta di aiuto di Abgar, mentre nella seconda Gesù promette che avrebbe inviato un suo discepolo.

Il “mandylion”, sia per le contrastanti notizie che se hanno, sia per l’origine dichiaratamente ben diversa dalla sindone, -sudario funebre-, non può in alcun modo indentificarsi con quest’ultima (a parte tutte le motivazioni elencate nella parte precedente del presente articolo che ostano in modo assoluto all’autenticità della reliquia). Del panno di Edessa (posto che di uno solo si trattasse, e non di più di uno, tenuto conto delle complicate vicende del cimelio e delle contraddittorie descrizioni che ne sono state date) dopo l’arrivo a Costantinopoli non si hanno più notizie certe. Tuttavia in alcune chiese europee vengono conservate immagini “acheropite” (cioè supposte “non dipinte da mano umana”) di Cristo, ivi giunte per vie ignote, o comunque assai dubbie, e di cui la presenza in loco è attestata solo da epoca assai tarda. Le principali di queste sono quelle conservate a Roma in S. Silvestro in Capite, nella chiesa di S.Bartolomeo degli Armeni a Genova -che sarebbe stata donata dall’imperatore bizantino Giovanni V Paleologo (1332-1391) al doge Leonardo Murialdo (1319-1384)-, e a Manoppello, cittadina in provincia di Pescara.

LA SINDONE DI LIREY (E POI DI TORINO)

Non si sa come Goffredo di Charny sia venuto in possesso della sindone, ma egli sosteneva che grazie ad essa e all’intervento di due angeli era stato miracolosamente liberato dalla prigionia, che egli aveva subito per quattro anni, dopo essere stato catturato dagli Inglesi nel 1342 nel corso della battaglia di Morlaix durante una della fasi della lunga “Guerra dei Cent’anni”, combattuta tra Francesi e Anglosassoni che si contendevano il possesso delle terre franco-galliche (6)(7).

In un primo tempo la reliquia non incontrò affatto il favore della chiesa: infatti Enrico di Poitiers, vescovo di Troyes -nella cui diocesi si trovava Lirey-,  non avendo trovato alcuna prova dell’autenticità del drappo che si pretendeva fosse quello in cui era stato sepolto Cristo (8), proibì che fosse esposto come oggetto di devozione e per ventiquattro anni di esso non si ebbe più notizia; fino a che nel 1378 il figlio di Goffredo non riuscì ad ottenere il permesso da un legato pontificio di esporre di nuovo la reliquia nella chiesa della cittadina.

Ma la decisione non fu accettata dal nuovo vescovo di Troyes, Pierre d’Arcys, il quale, come il suo predecessore, vietò l’ostensione della sindone, sotto pena di scomunica; per parte sua il re Carlo VI, detto “il Folle” (1368-1422, regnante dal 1380) dichiarava di consentirne il culto (consenso che però fu poi revocato con un editto del 4 agosto 1389, su richiesta del d’Arcys che sosteneva che le venerazione per la pretesa sindone era da considerarsi un’idolatria). A sua volta lo Charny tentò di opporsi al diniego del vescovo e poi anche del re,  per cui ne nacque una controversia, per dirimere la quale la questione fu sottoposta all’antipapa Clemente VII (Roberto di Ginevra)(9), residente in Avignone.

Il papa avignonese Clemente VII (1378-1394).

Questi, attraverso l’emissione di ben quattro bolle, il 6 gennaio 1390, dì dell’Epifania, sentenziò quel telo non doversi reputare l’autentica sindone di Cristo; ma nel medesimo tempo ne consentiva l’ostensione alla pietà dei fedeli, seppure priva di solennità, ed espressamente dichiarando che “la suddetta raffigurazione […] non è il vero sudario di NSGC, ma una pittura fatta ad imitazione di esso”. Tuttavia alcuni mesi più tardi con un’altra bolla emanata il 1° giugno 1390 Clemente VII concesse delle indulgenze a coloro che avessero divotamente fatto visita alla sindone ospitata nella chiesa di Lirey.

Nel 1418 Umberto de la Roche, che aveva sposato Margherita, nipote di Goffredo di Charny, in una delle fasi più acute della “Guerra dei cent’anni” trasferì il sudario dalla chiesa di Lirey al suo castello di Montfort, per metterlo al sicuro dalle bande di malfattori che imperversavano nella regione. Dopo la morte di costui, i canonici di Lirey cercarono in tutti i modi di convincere la vedova a restituire il drappo, ma la corte di giustizia di Besançon non assecondò le loro pretese, lasciando la reliquia a Margherita, la quale la portò seco durante le sue peregrinazioni, fino a che il 22 marzo 1453 la cedette in cambio di un castello, -quello di Varambon-, ad Anna di  Lusignano, figlia del re di Cipro e consorte di Ludovico II, duca di Savoia. In seguito a questa cessione la sindone giunse a Chambery, la capitale del ducato sabaudo, ove fu custodita in una cappella appositamente edificata ed elevata a chiesa collegiata da papa Paolo II (Pietro Barbo)(1464-1471) nel 1467. Sappiamo che tra il 1471 e il 1502 la preziosa reliquia venne spostata con notevole frequenza in diverse città degli stati soggetti all’autorità dei Savoia, -Vercelli, Torino, Ivrea, Avigliano, Pinerolo, Rivoli e Nizza Marittima,- soprattutto per favorire la devozione ad essa e consentire ai fedeli di poter accedere al suo cospetto: infatti il lenzuolo funebre in possesso dei Savoia aveva allora non poche concorrenti nelle sindoni mostrate e venerate in altri luoghi, principalmente quelle di Besançon, di Compiegne e di Cadouin (delle quale torneremo a parlare in seguito); fino a che, l’11 giugno 1502, per ordine del duca Filiberto II il Bello, la reliquia non trovò una sistemazione definitiva a Chambery in una nuova cappella appositamente edificata per accoglierla, dove fu affidata alla custodia delle monache clarisse, essendo conservata in un drappo di seta rossa entro uno scrigno di legno ornato di borchie in argento dorato e ricoperto di velluto cremisi, con una serratura d’argento che si poteva aprire con una chiave del medesimo metallo.

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) in tale opera egli si era espresso in favore della liceità e dell’opportunità del culto delle immagini durante la lunga controversia sull’iconolatrìa e l’iconoclastìa che lacerò, con alterne vicende, l’Impero Bizantino tra l’VIII e il IX secolo, e della quale abbiamo trattato nelle parti quarta-ottava della “Storia minima dell’idea di Dio nel primo millennio cristiano”; di Giovanni Damasceno, che fu anche condannato nel sinodo pro-iconoclasta di Hieria del 754, si è detto in particolare nella quinta parte del 10 settembre 2017.

2) tuttavia nella menzione fatta da Giovanni Damasceno non si accenna mai ad un ripiegamento dell’immagine custodita e venerata ad Edessa.

3) è probabile che codesta leggendaria narrazione adombri l’impiego del “fuoco greco”, -del quale abbiano parlato anche nota n. 4 alla quinta parte della “Storia minima dell’idea di Dio…” del 10 settembre 2017 da parte degli eserciti bizantini. Com’è noto questa miscela di zolfo e olio minerale, più altri ingredienti variabili nelle proporzioni, la cui ricetta rimase segreta per diversi secoli, consentì ai Bizantini di conseguire importanti vittorie e di godere un’indiscussa supremazie sui mari per tutto l’Alto Medioevo. La principale caratteristica del “fuoco greco” era proprio quella non solo di bruciare sull’acqua, ma di essere anche ravvivato, anziché spento da quest’ultima.

4) sembra che l’emiro di Edessa prima di accogliere la richiesta di Giovanni Kurkas abbia dovuto superare la contrarietà sia degli Edesseni cristiani che non volevano separarsi dalla loro reliquia, sia degli stessi musulmani, che consideravano anch’essi miracoloso il drappo, e a tal fine abbia consultato il califfo di Baghdad Al-Muttaqi.

5) Abu al-Hassan Alì al-Masudi (897-957), autore di una vasta enciclopedia in lingua araba, “Muruj al-Dhahab”, nota in Europa con il titolo “Le Praterie d’Oro”.

6) le cause della “guerra dei Cent’anni” che sconvolse la Francia dal 1337 al 1453 risiedono nel fatto che i sovrani d’Inghilterra detenevano in qualità di signori feudali molti e vasti territori dipendenti dalla corona francese. Una simile situazione si era creata poiché il duca di Normandia Guglielmo (1028-1087) nel 1066 aveva conquistato il regno d’Inghilterra vincendo nella battaglia di Hastings l’ultimo sovrano sassone Edoardo il Confessore: era quindi diventato sovrano di un regno, ma rimanendo nel contempo vassallo del re di Francia. Tale stato di cose si aggravò allorché Enrico (1133-1189), figlio di Goffredo duca d’Angiò, altro importante feudatario della corona di Francia, divenne a sua volta re d’Inghilterra nel 1054, -in quanto nipote di Enrico I Beauclerc, per il tramite di sua madre Matilde (figlia del suddetto Enrico I)-, e dando così inizio alla dinastia degli Angiò-Plantageneti; e come se non bastasse, sposando Eleonora di Aquitania, vedova di Luigi VII di Francia, ricevette in dote da costei un vastissimo territorio nella Francia centro-meridionale, di cui ella era erede, cosicché lui e i suoi discendenti si ritrovarono a governare una parte della regione franco-gallica ben più ampia di quella direttamente soggetta al sovrano francese. L’anomala situazione causò più volte conflitti tra i due regni, ma l’evento che fece scoppiare una guerra tanto lunga e sanguinosa fu il rifiuto di Edoardo III d’Inghilterra di prestare l’omaggio feudale a Filippo VI di Francia; il sovrano inglese osò anzi proclamarsi re di Francia, -della quale in effetti dominava una larga parte-, suscitando così le ire del cugino e rivale, il quale nel 1337 invase l’Aquitania dando inizio alla disputa più che secolare. Il conflitto, -che si configurò da un lato come una guerra tra stati, dall’altro come una guerra civile, poiché il partito inglese contava numerosi seguaci anche alla corte del monarca francese-, fu caratterizzata peraltro dall’alternarsi di fasi acute e violente, intervallate da tregue durature, e si intrecciò più o meno strettamente, -dati anche i legami dinastici tra i contendenti e con le altre casate regnanti d’Europa-, con i fattori di tensione che provocavano altre guerre “locali” (come si direbbe oggi) in diverse regioni europee (conflitti tra Angioini e Aragonesi in Sicilia; tra Navarra e Castiglia nella penisola iberica; Grande Scisma d’Occidente). Si può dire che durante la prima fase della guerra vi fu un’alternanza di successi e di sconfitte per entrambi i contendenti, per cui nel complesso l’esito fu di sostanziale equilibrio tra i due paesi; con la seconda invece dal 1415 in poi si ebbe una serie di rovesci francesi che portarono i sovrani di quel paese sull’orlo di una totale disfatta, poi evitata anche grazie all’intervento di figure particolarmente energiche e animate da ardore patriottico, come la famosa Giovanna d’Arco. In tal modo le sorti del conflitto si capovolsero e il monarca francese Carlo VII riuscì a riconquistare e a ridurre sotto la sua autorità quasi tutti i territori che rientravano nei suoi domini feudali. La “guerra dei Cent’anni” terminò di fatto, -ma non “de iure”-, nel 1453 con la conquista di Bordeaux da parte dei Francesi; solo dopo il fallito tentativo di Luigi XI di Francia di impadronirsi di Calais, -l’ultima città rimasta in mano agli Inglesi, e che appartenne ad essi fino al 1558-, il 9 agosto 1475 fu firmata a Piquigny una tregua -non un trattato di pace-. Tuttavia ancora per secoli i re d’Inghilterra -e poi di Gran Bretagna- continuarono ad attribuirsi il titolo di “re di Francia”, al quale rinunciò solo Giorgio III di Hannover nel 1802 all’atto della pace di Amiens stipulata con Napoleone Bonaparte.

7) Goffredo di Charny cadde poi combattendo valorosamente a Poitiers nel 1356, in una delle battaglie principali della lunghissima guerra, in cui i Francesi subirono una rovinosa sconfitta e il loro stesso re, Giovanni II il Buono (1350-1364) fu fatto prigioniero dagli Inglesi.

8) in effetti il vescovo aveva interpellato una commissione di teologi, i quali avevano saggiamente sentenziato che qualora l’immagine di Gesù fosse rimasta impressa nella sindone, gli evangelisti non avrebbero certo trascurato di menzionare un simile miracolo, -cosa che non è stata fatta-; sembra inoltre, per espressa dichiarazione di Enrico di Poitiers, che un pittore abbia ammesso in confessione di essere stato l’autore della figura impressa nel telo; ma, poichè il vescovo avrebbe saputo dell’inganno perpetrato “sub sigillo confessionis”, il nome di costui non venne mai reso noto.

9) da non confondersi con il Clemente VII (Giulio de’ Medici), papa dal 1523 al 1534. Roberto di Ginevra era stato eletto papa nel 1378 in contrapposizione a Urbano VI, ritenuto legittimo pontefice, salito anch’egli al soglio di Pietro in quello stesso anno. Dopo la morte di Gregorio XI, ultimo papa avignonese, che nel 1377 aveva riportato a Roma la sede papale, in un primo tempo i cardinali del tempo (quasi tutti francesi) elessero l’arcivescovo di Bari Bartolomeo Prignano che prese il nome di Urbano VI (1378-1389), -papa legittimo secondo l'”Annuario Pontificio”- (ricordiamo tra l’altro che costui fu l’ultimo dei pontefici ritenuti legittimi a non essere cardinale quando fu eletto). Ma poco dopo, sostenendo che l’elezione fosse stata estorta dal popolo romano, -che non voleva un nuovo papa d’oltralpe (dopo che tali erano stati gli ultimi sette pontefici, dal 1305 in poi, i quali avevano in genere risieduto ad Avignone in condizioni di sudditanza al re francese)-, e dunque illegittima, riunitisi nuovamente nella cittadina di Fondi nel Lazio meridionale, scelsero il cardinale Roberto di Ginevra. Questi non potendo entrare a Roma, dove regnava Urbano VI, fu costretto a rifugiarsi ad Avignone in Provenza: in tal modo ebbe inizio il “Grande Scisma d’Occidente”, che si protrasse fino al 1417, -poichè a ciascuno di questi due papi allorché morirono fu dato un successore-, intrecciandosi strettamente con le turbinose vicende politiche e militari di quegli anni. Per tentare di porre fine allo scisma nel 1409 si era riunito a Pisa, sotto gli auspici del “re dei Romani” (titolo che avevano gli aspiranti al titolo di imperatore del SRI non ancora incoronati tali) Roberto del Palatinato (1352-1410) e del re di Francia Carlo VI, un concilio di cardinali e alti prelati, i quali in precedenza avevano sostenuto ciascuno dei due pontefici, -il romano (Gregorio XII) e l’avignonese (Benedetto XIII)-; codesta adunanza di prelati elesse allora un terzo papa, Pietro Filargo (o Filarghis), detto anche Pietro di Candia, di origine cretese, arcivescovo di Milano e cardinale del titolo dei Santi XII Apostoli (che già era stato di Roberto di Ginevra), che assunse il nome di Alessandro V. Ma gli altri due papi non ne riconobbero l’autorità e continuarono a proclamarsi ciascuno legittimo capo della chiesa cattolica, e così lo scisma non cessò, anzi si complicò ulteriormente; fino a che alcuni anni dopo, nel 1414, non fu convocato un altro concilio a Costanza che mise fine, sebbene non del tutto, alla lacerazione. Infatti in seguito alle pressioni del re dei Romani Sigismondo di Lussemburgo (poi imperatore) il papa pisano Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa), succeduto ad Alessandro V, indisse la nuova assemblea che avrebbe dovuto risolvere definitivamente l’incresciosa situazione, e tale iniziativa ebbe l’avallo anche del papa romano Gregorio XII (Angelo Correr): i due pontefici romano e pisano abdicarono e così nel 1417 fu eletto papa Oddone Colonna come Martino V (1417-1431). Il papa avignonese Benedetto XIII (Pedro Martinez de Luna) non volle però rinunciare alla sua dignità e insistette nel proclamarsi legittimo pontefice, ma gli rimase il sostegno solo del re d’Aragona Alfonso V il Magnanimo, suo conterraneo (e dopo la sua morte altri antipapi gli succedettero, ma con scarsissimo seguito, poiché anche il re di Aragona si era sottomesso ai deliberati del concilio di Costanza). Non ci soffermiamo ora sui molteplici aspetti giuridici e teologici della complicata situazione che abbiamo testè brevemente decritto; ci limitiamo ad osservare che da essa risultò una posizione di indubbia e intrinseca debolezza del papato come istituzione e di carenza di legittimità di tutti gli attori della lunga controversia (ovvero dei vari papi); e che per uscire da codesto confuso intreccio fu necessario l’intervento dell’autorità civile, poiché fu l’imperatore a risolvere la questione anche se non convocò di persona il concilio (a differenza di quanto accadeva normalmente nell’Impero Bizantino, dove era sempre il sovrano a convocare i concili ecumenici e a pontificare anche sulle questioni teologiche e dogmatiche), ma forzò uno dei papi in conflitto ad indirlo. In pratica, secondo la visione cattolica, quello che distinse il concilio di Costanza rispetto a quello di Pisa e ne determinò la legittimità fu solo l’avallo del papa romano, -che sarebbe stato il solo papa legittimo-. Ma d’altra parte per prendere la sua decisione, di deporre i papi precedenti ed eleggerne un altro, il concilio dovette presumere da un lato l’illegittimità di tutti i pontefici coinvolti (e dunque pure di quello romano), dall’altro una forma di superiorità, o quanto meno di controllo del concilio stesso sull’operato del papa, per cui non si può non rilevare una patente contraddizione nel concilio di Costanza: ovvero trarre la sua legittimità dall’essere convocato da un’autorità che poi a sua volta viene dichiarata illegittima (infatti se Gregorio XII era “vero” papa eletto dallo Spirito Santo perché deporlo e non confermarlo, chiedendo semplicemente la rinuncia dei due rivali “falsi” pontefici?). Per cui se ne potrebbe trarre la conclusione che se era legittimo quest’ultimo avrebbe dovuto esserlo anche il precedente concilio di Pisa, o viceversa essere entrambe le assemblee ecclesiastiche illegittime. A questo si aggiunga che solo in età recente, dal 1947, i papi pisani furono espunti dalla lista ufficiale dei papi presente nell'”Annuario pontificio” -mentre quelli avignonesi furono sempre classificati “antipapi”-(ed infatti, com’è noto, quando Rodrigo Borgia divenne papa nel 1492 assunse il nome di Alessandro VI), dimostrando quindi la difficoltà per la chiesa cattolica di inquadrare in modo chiaro ed univoco quella spinosa e complessa situazione sia sotto il profilo giuridico, sia sotto quello teologico. Oltre che la ricomposizione dello scisma, durante il concilio di Costanza furono adottate severe disposizioni contro dottrine considerate eretiche, in particolare quelle formulate da Jan Huss (1371-1415) e Giovanni da Praga (1370-1416), che precorrevano il pensiero e la teologia di Martin Lutero (critica dei sacramenti e delle gerarchie ecclesiastiche, salvezza per la sola fede), e che procurarono ai due riformatori la condanna al rogo che essi subirono stoicamente.

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