BREVE STORIA DELLA GALLINA E DEL GALLO DOMESTICI -terza parte-

Nell’Antico Testamento non appaiono citazioni chiare ed univoche che possano essere riferibili al Gallo e/o la Gallina; ed in particolare il pollo domestico non compare nelle liste di volatili e altri animali elencate nel Levitico (cap. XI) e nel Deuteronomio (cap. XII, che in pratica è una ripetizione dell’elenco presente nel Levitico), dove si precisa se ciascuno di essi sia da considerare “puro”, e in tal caso edibile, o “impuro”, le cui carne e talora la cui stessa vicinanza erano proibite (1). Questa lacuna è spiegabile con la circostanza che al tempo in cui furono composti i libri del “Pentateuco”, -sebbene alquanto posteriore a quello in cui era vissuto Mosè, al quale la tradizione ebraica e cristiana li attribuì-, questi uccelli non erano ancora noti agli Ebrei, o comunque erano assai rari e dunque non furono presi in considerazione nella stesura della lista.

Tuttavia dalla stessa Bibbia ebraica si sa che i bastimenti di Salomone, il quale fu re di Israele all’incirca tra il 970 e il 930 a. C., salpavano dai porti palestinesi alla volta dei regni dell’Arabia meridionale, come quelli dei Minei e dei Sabei, e di altri paesi posti sulle coste del mar Rosso e dell’oceano Indiano, dai quali tronavano carichi di oro, argento, avorio, scimmie e pavoni (si veda il primo libro dei Re, X, 22), per cui è lecito pensare che tra gli animali esotici da essi trasportati potessero esservi anche Galli e Galline, allora considerati volatili da ornamento e non “da reddito”.

In un passo del I libro dei Re (V, 2-3) si dice che il vettovagliamento giornaliero per rifornire le laute mense del sovrano ebraico comprendeva 30 “kor” di fior di farina (ossia farina “doppio 00”), 60 “kor” di farina comune (semi-integrale)(2), 10 Vitelli, 20 Buoi da pascolo e 100 Pecore, nonché un numero imprecisato (e dunque variabile da giornata a giornata) di Cervi, Gazzelle e “Barburim”. Quest’ultimo termine è stato tradotto in greco nella “Bibbia dei LXX”(3) con σιτευτα’, “[animali] nutriti con orzo”, dal che si è ipotizzato trattarsi con ogni probabilità di volatili cosiddetti “da cortile” (Galli, Faraone, Anatre, Oche e simili; -“volatili da stia” traduce la Bibbia della CEI-). Talora “Barburim”, plurale di Barbur, -vocabolo derivato, o comunque connesso con il caldeo “Barur”, avente il medesimo significato-, è stato interpretato come “uccelli ingrassati”, facendo pensare a disdicevoli pratiche di nutrimento forzato dei poveri animali, di cui però non vi sono testimonianze chiare prima dell’età romana, per cui l’ipotesi è poco plausibile. Dobbiamo peraltro osservare che codesta parola è un “hapax legòmenon” nei testi biblici (cioè non compare in alcun altro passo dell’A. T.), ed anzi il singolare “barbur” non risulta nemmeno attestato; nella “Vulgata” di S. Gerolamo essa viene resa con “Avium altilium”, = “[di] Uccelli allevati”; pertanto se ne deve dedurre che il significato più probabile sia in effetti quello di volatili domestici nutriti e allevati a fini alimentari , -e non procurati con attività venatorie-. Tuttavia non è chiaro quali potessero essere, dal momento che le prime testimonianze certe e incontestabili della abituale presenza di gallinacei in Palestina come “animali da reddito” non risale a prima del VII secolo a. C., come conseguenza degli scambi commerciali con l’Egitto e con la Fenicia, dove l’allevamento di questi animali, come abbiamo visto in precedenza, era già praticato da lungo tempo.

Secondo lo zoologo israeliano Aharon Shulov (1907-1997) -il quale studiò a fondo le corrispondenze e le identificazioni degli animali citati nella Bibbia (e istituì anche uno “zoo biblico” a Gerusalemme)-, con tale vocabolo sarebbero da intendersi i Cigni, cosa invero piuttosto strana poiché questi uccelli figurano, -o figurerebbero-, tra gli animali “impuri”, di cui è vietato il consumo alimentare in Levitico, XI, 18 (mentre nel parallelo elenco del Deuteronomio questo animale non è citato); in realtà però il termine interpretato come “Cigno” nelle traduzioni greche, -come quella dei LXX- (κυκνος), e latine, -come la “Vulgata”- (“cygnus”) nel testo biblico è “Tinshemet”, -e non “Burbur”, che come abbiamo detto compare solo nel I libro dei Re (ma che designa il Cigno nell’ebraico moderno, o neoebraico)-. Lo studioso ritiene che il “Tinshemet” non sia affatto da identificare nel Cigno (Cygnus cygnus -Cigno selvatico- e Cygnus olor -Cigno reale-), bensì nel Barbagianni (Tyto alba) e pertanto Salomone imbandendo “Burburim”, -che sarebbero stati cigni- alla sua non parca mensa non avrebbe infranto in alcun modo la legge mosaica, tanto più che, secondo i principi generali dei tabù alimentari ebraici, -che abbiamo illustrato nella nota n.1-, essendo il Cigno, al pari delle Oche e delle Anatre, un uccello acquatico con le zampe palmate nulla avrebbe dovuto ostare al suo utilizzo culinario.

Purtuttavia sembra improbabile che il Cigno (sia il Cigno reale, ma ancor più il Cigno selvatico) potesse comparire con frequenza sulle mense palestinesi, poiché sebbene la sua presenza sia accertata nelle aree dell’Egitto e del Vicino Oriente, le specie eurasiatiche del genere Cycnus sono use a frequentare di solito, -sia come stanziali, sia come nidificanti-, latitudini più settentrionali, e sono da considerarsi erratiche in quelle contrade. Nondimeno le testimonianze iconografiche che sono rimaste dall’Antico Egitto fanno presumere che questo volatile godesse di una notevole popolarità nel paese del Nilo: particolarmente significativa, oltre che bella e valida a livello estetico, è la figura di un Cigno, -presumibilmente un “Cygnus cygnus”, un Cigno selvatico-, che si può ammirare nella “mastaba” (la tomba a forma di tronco di piramide) ove è sepolto Ptahotep, visir del faraone Isesi (2414-2375 a. C. circa), della V dinastia, autore di un celebrata raccolta di massime morali rivolta al figlio; dall’iscrizione che accompagna l’incisione sappiamo che il suddetto visir possedeva ben 1225 cigni, dal che si deduce che fin da quell’epoca lontana gli Egizi praticavano l’allevamento di questo uccello (4)(5). Si potrebbe dunque pensare che l’utilizzo della carne del nobile Cigno nei banchetti palestinesi sia stata introdotta da qualcuna delle numerose principesse straniere condotte da Salomone nel suo harem, e in particolare la figlia del faraone Siamon (978-959), della XXI dinastia (vedasi I Re, III, 1).

Nell’AT si trovano poi citati altri vocaboli che sono stati talora letti, interpretati e tradotti come “gallo”, “pollo” e simili, ma non senza dubbi e discussioni in merito. In Giobbe, XXXVIII, 36 compare il termine “Secheui”, tradotto con “gallus” nella “Vulgata” (“Quis dedita gallo intelligentiam?”), ma la maggior parte degli esegeti ebraici dissente da tale interpretazione e attribuisce a “secheui” il significato di “cuore”, mentre altri considerano tale voce un sinonimo di “Tarnegul”, la parola, di probabile origine sumera o accadica (“Tarlu-gallu”), che nel Targum di Gerusalemme (la versione aramaica della Bibbia affermatasi nel periodo post-esilico) e poi nell’uso ebraico medioevale e moderno è impiegata correntemente ed in modo inequivoco per indicare il gallo domestico. Nella “Bibbia dei LXX” quel passo biblico è reso con una frase del tutto diversa (“Chi ha dato alla donna l’abilità nella tessitura?”), che si rifà ad un’altra lezione ora non più conosciuta.

“Sarsir”, o “Zarzir”, ricorre in Proverbi XXX, 31 ed in effetti è stato tradotto con “Alektor” dai Settanta e con “Gallus” (“Gallus succinctus lumbus”) nella Vulgata, ma per altri indicherebbe un altro animale, ossia la Pantera maschio (che peraltro è usualmente designata con “Nemer”), interpretazione senza dubbio giustificata, dato che il termine appare in un contesto in cui sono citati il leone e altre fiere selvatiche. Nel passo di Isaia XXII,17 troviamo invece “Gaber” (o “geber”) che S. Gerolamo rende con “Gallus gallinaceus”, mentre per i Settanta e nella maggior parte delle traduzioni moderne (compresa quella ufficiale della CEI) sarebbe da intendere come “(uomo)spavaldo”: pertanto quest’espressione sarebbe equivalente all’uso metaforico di “galletto”, presente anche in italiano, nel senso di giovanotto impudente, baldanzoso e galante con le donne, che confida troppo in sé stesso e le cui infondate sicurezze sono destinate ad essere distrutte dalla potenza divina (ovvero dalle fatalità negative dell’esistenza): “Ecce Dominus asportari te faciet, sicut asportatur gallus gallinaceus”.

Secondo John P. Peters, cha affrontò l’argomento sulla sua fondamentale monografia “Il Gallo” (1913), però nessuno di questi termini corrisponderebbe al nostro volatile ed essi avrebbero i significati che abbiamo dianzi esposto.

Gallo raffigurato in una tomba di Sidone del III sec. a. C.

Le prime testimonianze iconografiche della presenza del Gallo in Palestina sono assai tarde: ad es. un sigillo di onice risalente al VI sec. a. C. ritrovato a Mizpah in Israele e riportante sull’iscrizione il nome di un certo Jazanìa, raffigura un gallo che lotta; questo sigillo ricorda quelli coevi di area fenicia ed egizia, come il piccolo sigillo in diaspro del VII secolo a. C. proveniente da Tharros, -colonia fenica  in Sardegna-, in cui appaiono incisi due figure di uomini in abbigliamento egiziano, insieme a una pianta di loto e a un gallo (e pertanto è difficile stabilire se si tratti di un manufatto egizio importato dai Fenici, ovvero sia stato prodotto in Fenicia ad imitazione dello stile egiziano, -cosa peraltro assai frequente-)(6).

Anche nel Talmud, -il complesso dei commenti esegetici ai libri sacri giudaici elaborati in un periodo che va dal III sec. a. C. al V d. C.- troviamo menzionati alcune volte i gallinacei (con il termine che abbiamo sopra detto di “Tornegul” o “Tornegal”). Da esso apprendiamo che il Gallo, oltre a possedere valenza apotropaiche, volte cioè ad allontanare malanni e sventure, era considerato pure un emblema di fertilità tanto che, -almeno dal I sec. a. C.-, era diffusa la consuetudine di celebrare le nozze alla presenza di un Gallo e di una Gallina, ai quali era attribuito un significato beneaugurante nei confronti dei novelli sposi. Di probabile origine persiana, -poiché come abbiano visto nella prima parte della presente trattazione il gallo rivestiva un’importanza carica simbolica nella religione mazdaica essendo strettamente legato al Sole e alla Luce (e dunque ad Ahura Mazda), che dissolvono le tenebre-, l’usanza di elevare una preghiera a Dio udendo il canto del gallo, pronunciando parole di benedizione che aveva concesso al sagace volatile la facoltà di discernere il giorno dalla notte -e il bene dal male-.

I riferimenti ai gallinacei non mancano neppure nel NT: il più noto è quello in cui egli, con il suo canto mattutino, appare quale testimone del triplice rinnegamento di Pietro (Matt., XXVI; Marco, XIV; Luca XXII). In questo episodio viene ancora una volta riconfermato il simbolismo solare di questo volatile, il quale con il suo verso annuncia il ritorno della luce, sia in senso fisico, sia in senso mistico: durante la notte (“prima che il gallo canti”) l’obnubilamento della mente produce il rinnegamento di Cristo, ovvero l’oblio del principio spirituale; il canto del gallo segna e arreca di converso la resipiscenza dell’apostolo, che si rende conto di aver smarrito sé stesso. Oltre a questa, che è la più rilevante presenza del pennuto nei vangeli, un’altra citazione l’abbiano in Marco, XIII, 35-36: “Vigilate adunque, perché non sapete quando il padrone della casa debba venire, se la sera tardi, o verso la mezzanotte, o al cantare del gallo, o la mattina, per timore che arrivando egli all’improvviso non vi trovi addormentati”. Sebbene in codesta esortazione il gallicinio sembri essere citato solo come uno dei possibili momenti in cui potrebbe giungere il “padrone della casa”, osserviamo che pure qui il nostro Gallo si lega al tema della “vigilanza” che deve caratterizzare colui che è sollecito del bene e della salvezza dell’anima, onde non si lasci sviare dagli inganni (e dai demoni) celati nelle tenebre, e appare ancora una volta simbolo solare e spirituale, secondo una tradizione che risale all’antica Persia di Zoroastro (nonché all’India vedica), ripreso poi nella religione mitraica, e che aveva esercitato un’influenza anche in Palestina. Tale simbolismo confluì poi ampiamente nel cristianesimo, specialmente nelle correnti gnostiche, come avremo modo di vedere meglio in seguito.

Infine, nel mezzo di una violenta invettiva contro Gerusalemme, che ha sempre respinto e perseguitato veri profeti, così come al presente stava facendo con lui, troviamo una similitudine in cui Gesù Cristo prende ad esempio la chioccia (“ornis”, termine generico ma che, anche nella forma più tarda “ornitha”, era correntemente usato per indicare la gallina domestica) che raccoglie i pulcini sotto la materna protezione delle sue ali, così come dio avrebbe voluto radunare i suoi figli, ma invano, essendosi la sua intenzione scontrata con la loro malvagità ed ignoranza. L’espressione impiegata per designare i pulcini è “νοσσìα”, plurale di νοσσìον (neutro), -che al plurale indica in senso collettivo la covata o la nidiata di un uccello-, simile ad altre usate per i nidiacei, -e che equivalgono al latino “pullus”-, come νεoττòς, νεoττìα, νoσσα’ς-.

A questa tradizione presente nell’ebraismo mistico, che, come abbiamo detto, l’aveva senza dubbio tratta dalle religioni persiane, si può ricollegare anche il “Cantico del Gallo silvestre”, una della più celebri “Operette Morali” del Leopardi , il quale si era certamente ispirato per questa sua raffigurazione poetica ad una voce del “Lexicon chaldaicum, talmudicum et rabbinicum” dotta opera dell’ebraista Johannes Buxtorf (1564-1629) -Basilea, 1640- dove si cita un passo dei “Targumim” a commento del profeta Isaia in cui si parla di un immenso gallo cosmico che con il suo canto esorta i mortali a compiere le loro quotidiane fatiche e a riflettere sulla dura condizione della loro esistenza (“Et Gallus sylvestris, cuius pedes consistunt in terra et caput eius pertingit in caelum uaque, cantat coram me”). Già questo testo esprimeva una intuizione pessimistica, peraltro comune, sia pure con diversi accenni ,a pressoché tutte le tradizioni spirituali, quelle gnostica, manichea, buddistica, ma pure quelle ebraica ortodossa (si pensi ai libri biblici di “Giobbe” e dell'”Ecclesiaste”, di cui abbiamo parlato nella prima parte di “L’Anima e la sua sopravvivenza” del 12 ottobre 2016), nonché nel espressioni mitiche proprie della religiosità, considerata con sciocca presunzione “pagana”, di molte popolazioni antiche da quelle mesopotamiche a quelle germaniche, in cui l’intrinseca realtà del mondo, della natura e dell’uomo appare come dolorosa e destinata a corrompersi e a dissolversi inesorabilmente. Questa concezione negativa però viene superata nell’elevazione e nella contemplazione dell’Essere eterno, -sia esso considerato personale o impersonale (anzi talora superando questa dicotomia illusoria che appartiene all’ottica umana)-, concepito come Spirito e Luce, unica autentica realtà incondizionata che dura in eterno, al di là della sue manifestazioni inferiori transeunti o delle sue degradazioni transitorie.

Il pessimismo cosmico del Leopardi, che si esprime nelle considerazioni e negli inviti che egli attribuisce al Gallo silvestre, appare invece deprivato dello sbocco spirituale che gli davano le dottrine mistiche e al quale in esse è intimamente connesso, per cui il mondo, la vita, acquistano un significato proprio perché il loro senso è quello di essere trascesi e annullati in uno slancio verso la totalità dell’Essere in un inarrestabile moto di ascesa e di degradazione, di elevazione e di discesa. In effetti il grande poeta seppe proporre nelle sue opere una diagnosi quanto mai esatta e lucida della condizione umana e di tutti gli esseri viventi, della sostanza dell’Universo, ma non riuscì a concepire il vero significato dell’esistenza (o se vogliamo dir così che il significato dell’esistenza è proprio quello di cercarne il senso che però non potrà mai essere raggiunto in modo definitivo, certo e inoppugnabile). Non si deve però dimenticare che egli fu un  poeta e non un filosofo e che le sue sconsolate riflessioni hanno valore in quanto materia di poesia e non come analisi metafisiche (7).

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) i criteri secondo i quali veniva stabilito il carattere “puro” o “impuro” di un animale (e dunque l’opportunità di servirsene quale cibo) sono spesso poco chiari. Tuttavia in linea di massima possiamo dedurre che erano considerati impuri tutti gli Invertebrati terrestri (e molti di quelli acquatici: tra questi ultimi erano ammessi solo alcuni Molluschi e Crostacei che in qualche modo erano assimilati ai Pesci); tutti i Vertebrati “inferiori”, -che cioè non siano né Mammiferi né Uccelli-, ad eccezione dei Pesci; tra i Mammiferi e gli Uccelli sono impuri tutti quelli predatori; sono altresì considerati “impuri” gli Uccelli acquatici le cui zampe non siano palmate e gli Erbivori con lo zoccolo non fesso (ovvero i Perissodattili); inoltre erano ascritti tra gli “impuri” i quadrupedi e i bipedi, che per loro abitudini di vita erano considerati “sporchi”, -in primis il Maiale-. Alla luce di codesti principi risulta che i Polli domestici, a cagione della loro abitudine di razzolare, anche nei letamai, e di nutrirsi anche di animaletti quali vermi e insetti, -tra i più alieni delle costumanze alimentari ebraiche-, non dovrebbero rientrare tra gli animali “puri”. Tuttavia in quella che dovette essere la successiva evoluzione della dottrina, -oltre alle diverse e talora discordanti interpretazioni adottate dalla scuole rabbiniche- le carni dei Polli e dei Galliformi domestici in genere furono ammesse come “kasher”, a patto che come ogni altro tipo di carne fossero state accuratamente dissanguate. Questa crudele prescrizione legalistica, -così come molti altri aspetti e concezioni teologiche e antropologiche-, accomuna l’ebraismo all’Islam (religioni che sono assai più simili tra di loro di quanto l’ebraismo non lo sia al cristianesimo).

2) il “kor” era una misura di capacità equivalente all’incirca a 220 litri (o kilogrammi), il cui nome deriva dall’accadico “kurru”, o “gur”, termini designanti un’analoga misura di capacità, che ebbe valore variabile in Mesopotamia e in Siria, a seconda dei tempi e dei luoghi, da 120 a 300 litri. Pertanto, stando al testo biblico, nelle cucine e nei triclini di Salomone si sarebbe consumata la spropositata quantità di sei tonnellate e sei quintali di fior di farina e 13 tonnellate e 2 quintali di farina comune, -per l’ammontare complessivo di quasi 20 tonnellate-, “pro die”!

3) la traduzione della Bibbia in greco eseguita secondo la tradizione, riportata in particolare nella “lettera di Aristea” del II sec. a. C., da una commissione di 72 dotti ebrei (poi per semplicità tramandati come “settanta”), -sei per ciascuna tribù di Israele-, su richiesta di Tolomeo II Filadelfo, re d’Egitto, della dinastia dei Lagidi, dal 285 al 246 a. C., che la volle includere nella “Biblioteca di Alessandria”. Si tenga inoltre presente che nella lingua ebraica antica spesso le parole presentavano una notevole pluralità di significati, da cui la difficoltà di intenderle in modo corretto e di conseguenza le difficoltà di interpretazione e le discordanze degli esegeti e dei traduttori che vengono segnalate nel presente articolo.

4) altre notevoli testimonianze artistiche del Cigno nell’antico Egitto sono le statue di legno (rappresentanti dei Cigni reali, poiché è chiaramente visibile l’escrescenza nera alla base del becco che caratterizza questa specie di Cigno) rinvenute nelle rombe di tre principesse della XII dinastia, i cui nomi sono Itiwert, Khnemt e Sithathormeret; e le immagini, -dipinte o a bassorilievo, come nel sepolcro di Horemheb-, che compaiono nelle tombe dei faraoni Tuthmosi III (1478-1458 a. C.), Horemheb (1323-1295 a. C.) -XVIII dinastia-; e Sethi II (1203-1196 a. C.) -XIX dinastia-.

5) le testimonianze sull’impiego gastronomico del Cigno e sull’appetibilità delle sue carni (che a detta di alcuni sarebbero squisite e di altri scure, stoppose e pressoché immangiabili) sono piuttosto oscillanti e contradditorie. Premesso che l’uomo per soddisfare la sua gola e la sua brama immoderata e malsana di sempre nuovi piaceri sensuali che sostituiscano quelli venutigli a noia, non ha mai avuto alcuna remora a uccidere e a sottoporre a crudeli torture e sofferenze anche le più miti e indifese creature, dobbiamo osservare che nell’antichità e anzi fin oltre le soglie dell’età moderna, la lista degli animali che comparivano sulle mense umane, specialmente dei ricchi, era assai più lunga di quanto non sia ai giorni nostri (nei paesi europei, poiché in aree dell’Estremo Oriente e dell’Africa nera si continuano a consumare le specie più svariate) e in essa figuravano gli animali più disparati dalle Gru ai Pappagalli, dai Ghiri (giudicati una vera prelibatezza dagli antichi romani e allevati allo scopo di venire imbanditi sulle loro non frugali tavole) ai Fenicotteri, ai Pavoni, ecc. Plinio, Palladio (trattatista di agricoltura del IV secolo, autore di un “Opus Agricolturae” in trenta libri) e Apicio, -il famoso autore di una delle più riputate opere di cucina dell’antichità, il “De re coquinaria”-, non accennano nei loro scritti alla carne di Cigno. L’Aldrovandi e il Gesner pur non annoverando il nobile e candido volatile tra gli animali commestibili (il primo nel “Cycni Encomium”, il secondo nel III libro della già citata “Historia Animalium”), citano alcuni autori di parere contrario, in particolare Ateneo di Naucrati -erudito greco-egizio vissuto tra il II e secolo-, il III, il quale lo menziona tra le portate d’onore presenti nel corso del convito che fa da sfondo alla sua opera enciclopedica, -“I Deipnosofisti”-, in cui diversi dotti discutono di svariati argomenti storici e letterari; nonché le tradizioni alimentari di alcuni paesi nordici, come la Frisia e la Moscovia. Sembra peraltro che durante il ME nei paesi dell’Europa centro-settentrionale fosse in uso sulle mense, stando ad una delle poesie (la n. 130) dei “Carmina Burana”, -celebre raccolta di carmi medioevali venuta alla luce nell’800 in un’abbazia tedesca-, il “Lamento del Cigno arrostito”, in cui il povero animale lamenta la sua triste sorte: “Olim lacus colueram,/ olim pulcher exiteram,/ dum ego cygnus fueram./ Miser, miser!/ Modo niger/ et ustus fortiter!/ Eram nive candidior,/ quavis ave formosior./ Modo sum corvo nigrior./ Miser! Miser!…” (“Un tempo abitavo i laghi,/ un tempo risplendevo in tutta la mia venustà,/ mentre ancora ero Cigno!/ O me misero e infelice!/ Ora sono tutto nero/ e bruciacchiato!/ Ero più candido della neve,/ più leggiadro di qualsiasi altro uccello./ Ora sono più nero di un corvo./ Misero me!…”).

6) come abbiamo già rilevato, -nella IV parte della “Storia minima dell’idea di Dio nel primo millennio cristiano” del 25 agosto 2017-, le forme artistiche degli Israeliti non ebbero caratteri peculiari e originali, ma risentirono dell’influenza dei popoli con i quali furono più a lungo e più strettamente in contatto, in particolare dell’arte egizia e di quella mesopotamica.

7) in questa sede non è certamente il caso di trattare e di affrontare il pensiero, la sensibilità e la poetica del Leopardi; ci limitiamo però a rilevare l’ambiguità del concetto di “felicità”, sul quale, -o meglio sulla mancanza e impossibilità di essa-, si incentra tutta la riflessione del poeta di Recanati, non solo in lui ma in tutti gli autori che, in modo approfondito o a margine della loro ricerca, abbiano espresso le proprie considerazioni su tale tema: se si ritiene la “felicità” uno stato emotivo positivo e gratificante, è ovvio che essa non potrà mai esistere separatamente dal proprio corrispettivo negativo: non vi può essere letizia senza tristezza, gioia priva di sofferenza, non solo nella vita presente, ma pure in una ipotetica vita ultraterrena ed eterna, come riconosce il medesimo Leopardi affermando che l’esistenza non è che un alternarsi di dolore e di noia, e che l’uomo, di qualunque genere siano le sue esperienze esistenziali, è sempre insoddisfatto, o comunque le sue soddisfazioni sono effimere e quanto in un primo tempo sembrava poter offrire “felicità”, una volta conseguito, cessa ben presto di allietare. Quanto alla “felicità eterna” consistente nel tornare nel grembo dell’Essere Assoluto e/o partecipare a uno condizione divina, tale stato non può certo essere un'”emozione”: al contrario esso è proprio una soppressione, o quanto meno un trascedidimento, di sensazioni, emozioni, sentimenti, pensieri, sia che lo si concepisca come un annichilimento dell’individualità, sia come un’identificazione tra Io personale e Io cosmico. E’ pertanto assolutamente improprio nonchè contradditorio e aporetico, a mio giudizio, parlare di “eterna beatitudine”, -intesa come uno stato di ininterrotta gioia e appagamento,- in riferimento al compimento della dimensione spirituale dell’uomo e al suo ricongiungimento con la divinità. In pratica in tale stato è inconcepibile e inimmaginabile fino a che si vive l’esistenza terrena; alcuni affermano che si possa averne un'”anticipazione” durante estasi o altre esperienze mistiche (o pseudo-mistiche), ma, ammesso che siano reali, e non semplici stati alterati di coscienza, tali esperienze hanno una modesta durata e quindi non si possono in alcun modo considerare un anticipo, un preannuncio della futura “beatitudine” o “vita eterna”.

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Una risposta a “BREVE STORIA DELLA GALLINA E DEL GALLO DOMESTICI -terza parte-”

  1. Grazie di cuore. Oggi ho cucinato la Sofra, dolce tipico della tradizione ebraica tripolina. Ho molto da imparare. Emanuela

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