I PIU ANTICHI CODICI MINIATI – (quarta parte)

Volgeremo ora la nostra attenzione ad un altro venerando codice di grande valore storico, artistico e documentario -o per meglio dire a quanto ne rimane, poiché allo stato attuale è costituito soltanto dalle miniature e dai brani di testo ad esse collegate-: l’ “Iliade Ambrosiana”, detta anche “Ilias Picta Ambrosiana”, o “Omero Ambrosiano”. Di questo codice, -che secondo i più attendibili studi risalirebbe alla fine del V secolo o agli inizi del VI, e sarebbe stato prodotto ad Alessandria d’Egitto- rimangono 51 frammenti membranacei con 58 scene che illustrano alcuni passi dell’Iliade; le miniature sono tutte inquadrate entro una cornice di forma rettangolare e di dimensioni variabili e furono ritagliate da un codice contenente il poema di cui recano frammenti sul retro e più di rado al di sopra o al di sotto. I primi studi effettuati nel 900 indussero ad attribuire le miniature al sec. III  (1); poi l’epoca di composizione fu spostata al IV, ed infine al periodo intorno la 500 d. C. Questa datazione è stata confermata, per vie indipendenti, sia dalle accurate indagini paleografiche di Guglielmo Cavallo, il quale ha rilevato nella grafia con cui fu scritto il codice, accanto ad influenze di una scrittura con testimonianze papiracee del I-II secolo e a forme desunte da modelli del IV secolo, aspetti e moduli grafici databili agli inizi del VI sec., (caratteristiche che si incontrano per la prima volta nel “Dioscorides Vindobonensis”, -del quale abbiamo già ampiamente trattato-, codice che, secondo l’unanime parere degli studiosi, -come avemmo modo di ricordare in precedenza-, è datato al 512); sia dall’approfondita analisi storico-artistica di Ranuccio Bianchi Bandinelli, il quale pur riconoscendo la sostanziale aderenza dell’opera ai caratteri, ai canoni e agli stilemi dell’arte ellenistica, riscontrò anche evidenti connessioni di gusto con opere d’arte bizantine del VI secolo.

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Ilias Picta Ambrosiana: miniatura X: “Concilio degli dei”.

Angelo Mai, che le studiò agli inizi del XIX secolo e ce ne ha lasciato un’efficace descrizione, ne loda il chiaroscuro, le delicate sfumature, l’appropriato uso delle tinte, e non tanto l’eleganza del tratto, quanto l’espressione dell’antichità e dell’antico costume. Si osserva talvolta in questi quadri una maestosa dignità classica, forse rimembranza di miniature ora perdute; il Toesca (2) le ritiene derivate “da modelli ellenistico-orientali di remota età, dei quali conservano il comporre largo, il pastoso colore impressionistico, il movimento”.

Le vicende del codice originario sono in gran parte oscure, ma si sa con certezza che giunse nell’Italia meridionale, presumibilmente in Sicilia o in Calabria, dove nel corso del XII secolo le illustrazioni furono ritagliate e incollate su un piccolo codice cartaceo contenente materiale omerico (argomenti e riassunti dei poemi omerici, commenti di carattere narrativo ed eziologico, ecc.), che era forse un testo didattico, una specie di sussidiario o di libro di lettura per uso infantile, o comunque per dare un’informazione sommaria sui poemi omerici, soprattutto per mezzo di figure.

Sopra e accanto alle cornici che inquadrano le miniature furono apposte didascalie e nomi dei luoghi e personaggi rappresentati, mentre con una sottile striscia ritagliata da una delle cornici fu rinforzato il dorso del libro. La carta utilizzata e la scrittura usata nelle note dai due copisti che confezionarono il codice consentono di collocare l’epoca nella quale fu composto nel sec. XII e di ritenere che provenga dall’area calabro-sicula. E’ verosimile che a questo periodo risalga anche la numerazione da I a LVIII delle scene miniate contenute nei 51 ritagli: in sei di essi un solo ritaglio riporta sovrapposte sullo stesso lato due scene (VI e VII, XVI e XVII, XX e XXI, XXXI e XXXII, XLIV e LXV, XLIX e L); in un caso due scene (XXVIII e XXIX) sono sovrapposte ciascuna su un lato del ritaglio.

Le successive peregrinazioni del codice sono ignote, fino a che nel secolo XVI compare nella collezione dell’umanista e bibliofilo Gian Vincenzo Pinelli, che nel 1609 fu acquistata dal cardinale Federigo Borromeo (1564-1631), arcivescovo di Milano di manzoniana memoria, per la ragguardevole cifra di 3000 scudi; al seguito della collezione del Pinelli, il codice che recava incollate le preziose miniature entrò a far parte della Biblioteca Ambrosiana, fondata dal cardinale l’anno precedente, divenendone uno dei gioielli, onde il nome con il quale è tuttora noto di “Iliade Ambrosiana”.

Nel 1811 Angelo Mai, prefetto della Biblioteca Ambrosiana, fu incaricato di iniziare uno studio approfondito di questa testimonianza dell’arte tardo-antica di così grande valore; a tal fine egli staccò le pergamene dai fogli di carta sui quali erano incollate, di modo che furono recuperati i brani dell’Iliade posti sull’altra facciata, -che in origine erano il “recto” della pergamena-, le fece riprodurre, trascrisse e collazionò i frammenti del testo e infine nel 1819 pubblicò i risultati della sua opera di recupero e restauro delle miniature e delle righe di scrittura che le accompagnavano (“Iliadis fragmenta antiquissima cum picturis, item scholia vetera ad Odysseam”, alla quale seguì nel 1835 l’edizione romana: “Homeri Iliados picturae antiquae ex codice Mediolanensi Bibliothecae Ambrosianae”).

Della rilegatura del codice medioevale sopravvivono due fogli di cartoncino non numerati, che si suppone fungessero da copertine; su uno dei lati maggiori del primo cartoncino si notano brandelli di frammenti pergamenacei, che rinforzavano il dorso, nonché di spago e di cuoio marrone. Sul “recto” del primo foglio in alto al centro trovasi una croce sotto la quale si può vedere un’annotazione appostavi da mano cinquecentesca che recita in lingua greca: “Parti di pitture delle battaglie combattute in Ilio tra Greci e Troiani, usate per riportarle al pristino stato”.

Miniatura XXIV: "Ettore incontra Ecuba e Laodice" (gruppo A).
Miniatura XXIV: “Ettore incontra Ecuba e Laodice” (gruppo A).

Un poco più sotto Grazio Maria Grazi, letterato e segretario di F. Borromeo, e incaricato da quest’ultimo di reperire volumi e manoscritti con i quali dotare la Biblioteca Ambrosiana, scrisse un’altra annotazione: “Pitture d’un Homero anticho, congiunte con gli argumenti de’ libri, et alcuni scholii”.

Tra questa nota e la precedente appare un asterisco vergato in giallo ocra al centro del foglio. Sul verso del secondo cartoncino la medesima mano cinquecentesca ha annotato, sempre in greco: “Parti delle battaglie di Greci e Troiani in Troia utilizzate per il restauro e parti di storie”; insieme ai due cartoncini si conserva un foglio cartaceo, inserito nel codice come guardia, che al centro reca la nota: “Homeri argumenta cum picturis antiquis”. R. Bianchi Bandinelli presume che sul primo foglio dell'”Ilias Picta” fosse riprodotta un’immagine di Omero.

Dagli anni ’70 del Novecento le pergamene sono conservate in 51 teche di plexiglas; i 38 fogli superstiti del codice cartaceo sul quale erano incollate sono stati inseriti a due a due in 19 teche analoghe nell’anno 2000, mentre una cartella custodisce i resti della legatura.

Miniatura XLVII: "Achille invoca la salvezza di Patroclo", esempio del gruppo B.
Miniatura XLVII: “Achille invoca la salvezza di Patroclo”, esempio del gruppo B.

Il celebre storico dell’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, che studiò in modo assai approfondito l’opera (3), sostiene che l’autore delle miniature non riproduca un codice precedente, e neppure che si sia liberamente ispirato ad altre opere d’arte, ma che abbia desunto lo schema iconografico delle sue miniature da quelle presenti in vari altri codici, i quali, con buona dose di probabilità, dovevano contenere non l’intera Iliade, ma un numero limitato di canti del poema ed essere di età e provenienza diverse.

Miniatura XLII: "Idomeneo trascina il cadavere di Otrioneo" (gruppo C).
Miniatura XLII: “Idomeneo trascina il cadavere di Otrioneo” (gruppo C).

Nondimeno, pur essendo unico l’artista che dipinse le illustrazioni, il Bianchi Bandinelli distingue le miniature in cinque gruppi (che a loro volta suddivide in alcuni sottogruppi), in base ai loro caratteri stilistici e iconografici:

1) gruppo A, -il più numeroso-, “maniera del ròtulo”, derivante da archetipi figurativi che risalgono al I sec. a. C. e al I sec. d. C., e che sembrerebbe indicare l’esistenza di una edizione illustrata dell’Iliade attribuibile alla metà del sec. III e di derivazione pittorica;

2) gruppo B, “maniera del fregio dipinto di età ellenistica”, che presenta elementi più antichi, propri della tradizione della pittura greca di età classica ed ellenistica;

3) gruppo C, “maniera della pittura ellenistica del III sec.”, in particolare dell’area orientale dell’Impero Romano, e che appare connesso con la pittura romana del I-II secolo;

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Miniatura XXXVII: “Patroclo nella tenda di Nestore” (gruppo D).

4) gruppo D, “maniera dei mosaici di S. Maria Maggiore”, che mostra evidenti caratteri proto-bizantini, quali appaiono in opere della fine del IV sec. e degli inizi del V (messi  dallo studioso in rapporto con i mosaici coevi della famosa basilica romana);

5) gruppo EC, “maniera corsiva dell’artigianato bizantino”, espressione diretta dell’ambiente dove il codice fu redatto e decorato.

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Miniatura XLIII: “I Greci, con la testa di Ilioneo sopra una lancia, inseguono i Troiani” (gruppo EC).

In quest’ultimo gruppo il Bianchi. Bandinelli ritiene che si possa riconoscere un apporto personale del miniatore,-il quale nelle figure degli altri gruppi si sarebbe limitato a imitare i suoi modelli-, elemento di giudizio risultato determinante per stabilire l’epoca di redazione del codice.

Nel cercare di approfondire i legami e le reciproche influenze tra la pittura ellenistico-romana, lo storico dell’arte rileva come fra le miniature dell’Iliade Ambrosiana siano andate perdute proprio quelle ispirate ai soggetti più spesso rappresentati nelle pitture di tema omerico che sono rimaste (ad esempio quelle scoperte a Pompei, Ercolano ed altri centri della Campania); questa mancanza impedisce di istituire confronti più stretti. Ma è indubbio, secondo Bianchi Bandinelli, che le 58 miniature superstiti, di tutti i gruppi iconografico-stilistici nei quali egli le ha suddivise, intendano gareggiare con la pittura. Uno stile più propriamente illustrativo si può tuttavia trovare soprattutto nelle miniature del gruppo D e di quello EC, vale a dire nei due gruppi più influenzati dalle nascenti correnti artistiche bizantine (o pre-bizantine) contemporanee all’artista che le eseguì, nonché dalla personalità e dalle doti artistiche di quest’ultimo.

Gli altri due codici miniati che ci sono rimasti dalla tarda antichità, essendo riusciti a sfuggire alle ingiurie del tempo e egli uomini, che hanno fatti scempio di molti venerandi monumenti sia letterari, sia figurativi, sia architettonici, sono il Virgilio Vaticano e il Virgilio Romano, entrambi custoditi a Roma nella Biblioteca Vaticana.

Tuttavia, prima di prendere in esame questi due codici anch’essi,- come il Dioscoride e l’Ilias Picta, che abbiamo visto in precedenza-, affascinanti testimonianze e primi esempi di “libro” in senso moderno, accenneremo ad altri tre codici virgiliani, meno importanti dei due citati, perché non illustrati, ma comunque di inestimabile valore, sia per antichità sia per significato filologico e documentario.

Il “Virgilio Augusteo” è un codice che, secondo l’opinione prevalente degli studiosi, risale agli ultimi decenni del IV secolo: questa attribuzione cronologica si fonda tanto sulla scorrettezza della lingua, quanto sull’eleganza della scrittura , messa in relazione con la rinascita calligrafica del sec. IV e in particolare con la rinnovata eleganza delle iscrizioni del tempo di papa Dàmaso I (366-384). Di questo codice purtroppo sopravvivono solo 4 fogli conservati nella Biblioteca Vaticana e 3 nella Biblioteca nazionale di Berlino; un altro foglio fu visto dal Mabillon in Francia, ma ora non se ne ha più notizia. Il Pertz, che per primo lo ha studiato alla metà dell’800, credette fosse stato  scritto all’epoca di Augusto, colpito dall’eleganza delle lettere che ricordano le epigrafi di quel tempo e per questa ragione lo chiamò “Augusteo”.

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Virgilio Vaticano: miniatura dal II libro delle Georgiche.

Del “Virgilio Medìceo” solo un foglio è conservato nella Biblioteca Vaticana, aggiunto al codice del “Virgilio Vaticano”; il resto del manoscritto, che consta di 221 fogli, si trova a Firenze nella Biblioteca Laurenziana. E’ il codice più completo delle opere di Virgilio che sono in esso quasi tutte presenti (mancano solo le prime cinque Bucoliche), e molto importante perché contiene un esplicito elemento di datazione: infatti nello spazio, lasciato originariamente in bianco tra la fine della X Ecloga e il principio delle Georgiche appare un’annotazione di mano del console Turchio Rufio Aproniano, il quale dichiara di aver terminato la lettura e la correzione del codice a Roma il 21 aprile: poiché egli fu console nel 494 abbiamo un sicuro termine “ante quem”. E. Rostagno (4) lo attribuisce alla fine del sec. IV per l’aspetto della scrittura, le forme spontanee del tratto, la mancanza di elementi che rivelino una tendenza all’imitazione di altri codici. Il codice appartenne per lungo tempo al celebre monastero di Bobbio (Piacenza), dove rimase fino al 1470 circa, allorché fu portato a Roma nell’abbazia benedettina di S. Paolo fuori le mura. Alla fine del sec. XVI fu acquistato dal Granduca di Toscana Francesco I, il quale ne fece dono alla Biblioteca Laurenziana di Firenze dove si trova tuttora.

Ricordiamo che nel 1930, nella ricorrenza del bimillenario della nascita di Virgilio, questo testo fu riprodotto in forma del tutto simile all’originale, perfino nel taglio dei fogli e nelle irregolarità della pergamena, a cura dell’Istituto Poligrafico dello Stato. Di questa edizione anastatica furono fatte tre copie in pergamena, che furono offerte a papa Pio XI, al re d’Italia Vittorio Emanuele III e a B. Mussolini.

Virgilio Vaticano: "Lotta tra tori", dal III libro delle Georgiche.
Virgilio Vaticano: “Lotta tra tori”, dal III libro delle Georgiche.

Abbiamo infine il “Virgilio Palatino”, composto da 256 fogli e proveniente dalla Biblioteca Palatina di Heidelberg; in merito alla sua datazione le valutazioni degli studiosi hanno oscillato tra il III e il V secolo. E’ stato giudicato contemporaneo del Virgilio Romano, ma la scrittura è più elegante e mancano i compendi alla fine delle righe. R. Sabbadini  lo ritiene del IV sec. perché non presenta mai titoli, e neppure gli “incipit” e gli “explicit” al principio e alla fine dei libri.

Ma i due codici virgiliani più celebri e preziosi, non solo per l’alta antichità, ma anche per la ricca ornamentazione pittorica, sono il “Virgilio Vaticano” e il “Virgilio Romano”, entrambi di provenienza quasi certamente romana, come romana è di sicuro la temperie spirituale e culturale che ne ha ispirato la composizione e la decorazione pittorica. Il primo di essi è costituito di 75 fogli e comprende le Georgiche e l’Eneide, ma incomplete. Non si trovano in esso titoli, né abbreviazioni che possano servire come elementi per stabilire la data di composizione del codice, e dunque per ricavare un’indicazione cronologica ci si deve limitare all’aspetto della scrittura e all’esame delle miniature. La forma e il tratto delle lettere sono simili a quelli del Virgilio Mediceo, che, come abbiamo visto, fu scritto prima del 494.

Per le miniature l’Ehrle osserva che esse riflettono la maniera dei primi secoli dell’Impero e non potrebbero conciliarsi con i sintomi di imbarbarimento artistico che già si notano al principio del sec. V: per tale ragione egli fa risalire l’epoca della sua composizione al sec. IV.

Virgilio Vaticano: libro I: "Enea giunge a Cartagine".
Virgilio Vaticano: libro I: “Enea giunge a Cartagine”.

Il “Virgilio Vaticano” (Cod. Vat. Lat. Fulvianus 3225) fu posseduto da illustri personalità, quali Giovanni Pontano, -nel XV secolo-, che lo donò all’Accademia Napoletana da lui fondata (e che da lui prese in seguito il nome di “Pontaniana”). Appartenne poi a Pietro Bembo e infine a Fulvio Orsini (1529-1600), insigne letterato e archeologo del 500, il quale aveva riunito una ricca biblioteca nella quale erano confluite le raccolte librarie di Pietro Bembo e di altri famosi umanisti. Alla sua morte egli lasciò in eredità il suo patrimonio librario  alla Biblioteca Vaticana, di cui questo codice costituisce uno dei tesori più preziosi.

Esso contiene 50 quadri, di cui 9 illustrano le Georgiche e 41 i primi nove libri dell’Eneide; di essi 6 occupano l’intera pagina, mentre gli altri sono inseriti nel testo; tutti sono incorniciati da fasce rosse e nere intercalate da un filetto bianco, con losanghe dorate, come nell’Iliade Ambrosiana e nella pittura murale delle “Nozze Aldobrandini” dei Musei Vaticani. Il primo foglio appare suddiviso in 6 quadretti, come si riscontra non di rado nelle pitture murali, -in modo simile a quanto troviamo in altri codici, quali il Dioscoride di Vienna-. Esaminando con diligente attenzione queste miniature, si nota subito che non sono tutte attribuibili ad una medesima mano: un primo gruppo è costituito dalle miniature delle Georgiche; un altro dai quadri 10-24, il terzo dalle rimanenti.

Virgilio Vaticano: libro II dell'Eneide: "Laocoonte e i suoi figli sono assaliti dai serpenti usciti dal mare".
Virgilio Vaticano: libro II dell’Eneide: “Laocoonte e i suoi figli sono assaliti dai serpenti usciti dal mare”.

Lionello Venturi (5) distingue poi anche una quarto gruppo.

Sembrerebbe a prima vista che questi tre o quattro gruppi siano dovuti ad artisti appartenenti ad età diverse, tanto sono differenti i caratteri che li contraddistinguono; ma è evidente che non si possono considerare le figure in modo indipendente dalla scrittura, che è stata eseguita tutta da una sola mano, e dunque dobbiamo concludere che l’opera sia stata compiuta da artisti non ugualmente valenti nel riprodurre il modello proposto, ma contemporanei, ed anzi appartenenti alla stessa scuola, poiché mostrano di usare la medesima tecnica pittorica.

Come caratteristica comune a tutte le miniature osserviamo la mancanza della prospettiva: solo con variazioni nelle tinte del fondo si cerca di rendere l’idea della profondità. Questo aspetto, di certo non secondario, fa sì che queste raffigurazioni, per quanto ancora legate sul piano stilistico e iconografico al naturalismo ellenistico-romano, preludano alla staticità dell’arte bizantina. Il panneggiamento delle vesti, ma soprattutto l’incarnato delle parti scoperte delle figure e l’espressione dei visi sono trattati con cura dalla prima mano, con grossolanità dalla seconda, in modo intermedio dalla terza.

E’ pure interessante rilevare come la tecnica impiegata differisca dalla miniatura medioevale e rinascimentale: il disegno non veniva preparato prima, perché non ne rimane traccia nemmeno nelle parti in cui il colore si è staccato, ma veniva prima disteso a guazzo su tutto il quadro il colore degli sfondi (del cielo, della terra o del mare); poi venivano sovrapposte le figure più grandi della scena, ad esempio costruzioni ed altri elementi architettonici, poi ancora le figure minori, come le persone, e infine gli oggetti più piccoli.

Così, se si voleva rappresentare un cavaliere a cavallo dinanzi ad una città, prima si stendevano i colori del fondo, poi si dipingeva per intero la città, sopra si aggiungeva il cavallo e infine su quest’ultimo il cavaliere.

Virgilio Vaticano: libro IV dell'Eneide: "Morte di Didone".
Virgilio Vaticano: libro IV dell’Eneide: “Morte di Didone”.

A causa di queste modalità di esecuzione i colori dei soggetti dipinti per ultimi si sono staccati più facilmente, mentre i colori distribuiti su un campo più esteso, essendo più aderenti alla superficie della pergamena, sono rimasti; da questo consegue che i quadri eseguiti dalla prima mano, che sono i più accurati, sono anche i meno conservati.

Le rappresentazioni seguono fedelmente il testo virgiliano nei minuti particolari, senza che l’artista vi abbia messo nulla di sua fantasia. Tutti gli oggetti, gli edifici, le vesti, le armi, le navi sono raffigurati come erano in uso nell’età classica, dal I al III secolo: nessun elemento si può attribuire a un periodo più tardo; i Troiani differiscono dai Greci nelle vesti, ma esse sono di tipo orientale, non barbaro. La vivacità del colorito e l’epica nobiltà che traspare dai personaggi della prima e della terza mano rimembrano la pittura romana dell’età augustea, e forse sono il ricordo di un archètipo di quell’età.

CONTINUA NELLA QUINTA PARTE

Note

1) in particolare si veda A. Ceriani- A. Ratti: “Homeri Iliados fragmenta Ambrosiana phototypice edita”, Milano 1915).

2) Pietro Toesca (1877-1962), “Storia dell’arte italiana. Il Medioevo”, Milano, 1927.

3) nel commento all’edizione fac-simile delle miniature del 1953 e in “Continuità ellenistica nella pittura di età medio e tardo romana”.

4) Enrico Rostagno (1860-1942), paleografo e filologo, da non confondere con Augusto Rostagni (1892-1961), filologo classico e storico della Letteratura latina.

5) in “Storia dell’arte italiana”, vol. I, Milano 1901.

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