ENIGMI, MISTERI E PARADOSSI -settima parte- (parole magiche)

Secondo il filosofo neoplatonico Giamblico (“I Misteri dell’Egitto”, VII, 4-5), -vissuto dal 275 al 330 circa-, uno degli esponenti della corrente mistico-magica di questa filosofia (1), le parole strane usate nelle formule magiche non sarebbero affatto termini barbarici e/o privi si significato, ma i nomi assiri ed egiziani degli dei, che sarebbero quelli con i quali gli dei preferiscono essere chiamati e invocati. Essi sarebbero i nomi più antichi e venerandi, che meglio convengono alla loro natura, e dunque i più appropriati per rivolgersi ad essi, non perché siano Egiziani o parlino la lingua egiziana (poiché essendo oltre la natura umana, non si esprimono certo nelle lingue umane), ma per il fatto che, -sempre secondo il misticismo magico di Giamblico-, gli Egizi avrebbero per primi ricevuto in dono la possibilità di comunicare con gli dei (e pertanto sarebbero una sorta di “popolo eletto”), cosicché questi ultimi sarebbero mossi da una speciale predilezione per le formule rituali con le quali vengono da essi invocati. Il filosofo aggiunge ancora che se i nomi fossero attribuiti in forza di una semplice convenzione -ovvero fossero solo un “flatus vocis”- non avrebbe importanza usarne uno piuttosto che un altro; ma “se essi sono intimamente legati con la natura degli esseri che designano, quelli che più vi sono prossimi sono i più graditi agli dei”: per tale ragione appare preferibile impiegare i nomi delle lingue parlate dai popoli “sacri” (ossia gli Assiri e gli Egizi, che secondo Giamblico -il quale tra l’altro discendeva dai re-sacerdoti di Baalbeck- erano quelli che avevano meglio compreso l’essenza degli dei), poiché una traduzione non riuscirebbe a mantenere il medesimo significato. Dunque il filosofo condivide l’idea presente nell’ermetismo e nella mistica ebraica (che si svilupperà poi nella Qabbalah) del valore mistico ed ontologico e del carattere pregnante della parola, che non è una mera etichetta, ma esprime l’intima realtà dell’oggetto che designa.

S’intende che l’impiego dei nomi sostenuto da Giamblico si riferisce al campo della religione e della “teurgia” (la magia bianca avente lo scopo di elevare l’anima umana alla divinità, come abbiamo detto nella nota n. 1), e non certo a quello della “goezia” (la magia nera), a defissioni, sortilegi e altre perniciose pratiche stregonesche; ma il principio da lui esposto -il valore e la potenza intrinseca dei nomi magici- vale anche per queste ultime.

Ma le defissioni e gli altri malefici avevano, o potevano davvero (o possono, dato che queste sono tuttora praticati) avere effetto? La risposta a questa domanda esula dalla nostra ricerca, anche se tenteremo di azzardare delle ipotesi più oltre, trattando della questione se e in quali termini e limiti i fenomeni “occulti” possano essere “reali”.

Nel passato, e talora pure nel presente in certi ambienti (che non sono necessariamente quelli considerati arretrati sul piano sociale e culturale), si attribuivano ad incantesimi e maledizioni tutti i malanni, le sciagure e le sventure che sembravano sfuggire ad una spiegazione naturale e razionale (come una malattia improvvisa, un deperimento inspiegabile, un imprevisto rivolgimento di fortuna, una situazione economica che da florida diventava critica in modo repentino, ecc., nonché quelle che ai giorni nostri si definirebbero forme depressive).

Scatola metallica usata per contenere figurine di esecrazione.

Quando si sospettava che fosse stato lanciato un maleficio, l’unico modo per farne cessare gli effetti era trovare e distruggere la tavoletta o l’oggetto tramite il quale esso fosse stato compiuto. Ma il più delle volte l’impresa non era affatto facile, poiché il “defiggente” -o lo stregone- aveva cura di nascondere in luoghi reconditi la lamina (o il simulacro) tramite la quale aveva compiuto la sua tenebrosa opera. Dato che, come abbiamo detto nella parte precedente, le “defixiones” venivano poste di preferenza nei sepolcri dei deceduti prematuramente o di morte violenta, era in questi ultimi, specie se mostrassero segni di essere stati violati, che si cercavano le tracce dell’avvenuto maleficio.

Sembra però che talora, specie nelle età più antiche, non si reputasse sufficiente il ritrovamento e la distruzione dell’oggetto malefico, ma si ritenesse opportuno anche procedere allo smembramento del cadavere o dello scheletro del defunto al quale era stato demandato il compito di tormentare la vittima della defissione.

A volte il modo onde sventare e neutralizzare gli effetti di un incantesimo malefico era rivelato da un’ispirazione provvidenziale. Il retore Libanio (2) ad esempio, come egli stesso ci narra nella sua autobiografia, nel momento culminante di una luminosa carriera cominciò a soffrire di lancinanti emicranie, alle quali si aggiunse poi una fastidiosa artrite, che gli impedivano di dedicarsi alla sua opera di conferenziere, docente e studioso. Quando ormai non riusciva più a sopportare quella dolorosa situazione ebbe un sogno che gli rivelò che era vittima di un maleficio; alcuni suoi amici si impegnarono in accurate ricerche e alla fine scoprirono nell’aula ove teneva le sue lezioni e conferenze un camaleonte morto ripiegato in modo che la testa toccasse le zampette posteriori, mentre delle anteriori una mancava e l’altra era posta sulla bocca in segno di silenzio. Non fu trovata alcuna lamina di piombo, ma il macabro ritrovamento dell’animaletto ignobilmente ucciso per compiere il sortilegio era indizio sufficiente della maledizione che era stata lanciata contro Libanio. Ed in effetti dopo la scoperta del camaleonte, l’oratore guarì rapidamente e potè riprendere le sue abituali occupazioni.

E una simile soluzione del maleficio viene narrata da un testo agiografico della prima età bizantina, la “Narratio miraculorum  S.S. Cyri et Iohannis sapientum anargyrorum”, opera di Sofronio di Gerusalemme (560-638) (3), da cui apprendiamo che un certo Teofilo, abitante ad Alessandria, il quale soffriva di insopportabili dolori alle mani ed ai piedi, ricevette in sogno una rivelazione dai due santi a cui era devoto. Essi gli consigliavano di mandare degli uomini a gettare le reti in riva al mare e di farsi portare quel che avrebbero pescato. Costui seguì l’indicazione che gli era stata comunicata in sogno ed i pescatori trassero dalle acque una scatola contenente una statuetta di bronzo a lui somigliante, trafitta da quattro chiodi negli arti. Dopo che gliela ebbero consegnata, ne furono estratti i chiodi uno dopo l’altro e ad ogni chiodo levato Teofilo era liberato dal dolore nell’arto corrispondente.

Medico che cura una ferita ad un fanciullo in un rilievo attico del IV sec. a. C.

Talvolta, specie quando si trattava di eventi di ordine collettivo, l’indicazione sul modo di sciogliere l’incantesimo e allontanare la maledizione veniva da un oracolo. Un esempio di questo tipo è attestato da un’epigrafe proveniente da Efeso, -ma che si riferisce ad un’altra città dell’Asia Minore non identificata-, dove si dice che a seguito della grande peste che si era diffusa in diverse parti dell’Impero Romano, -prima in oriente e poi anche a occidente, probabilmente propagatasi al seguito dell’esercito di Lucio Vero di ritorno dalla Mesopotamia (4)-, fu consultato l’oracolo di Apollo Claro. Il suo responso fu che si sarebbe dovuta portare una statua d’oro di Artemide da Efeso tenente due torce nelle mani; nel corso di un rito celebrato davanti al simulacro della dea con le torce accese, i cittadini dovevano dare alle fiamme, -provenienti dalle torce nelle mani della dea-, le figurine di cera plasmate da uno stregone. Non si sa però se esse furono effettivamente rinvenute e bruciate come aveva indicato l’oracolo.

Le pratiche stregonesche peraltro, -in particolare la somministrazione di filtri e pozioni per coartare la volontà di una persona (soprattutto onde soggiogarla alle proprie brame amorose)- e i riti e le formule incantatorie tesi a procurare nocumento sia ai singoli, sia alla comunità-, furono sempre sottoposte a pene assai severe in tutti gli ordinamenti giudiziari dell’antichità ed oltre, fin oltre le soglie dell’età moderna (5).

Già nel famoso “Codice di Hammurabi” (6), all’articolo primo, si commina la condanna a morte per gli stregoni che abbiano lanciato malefici, mentre con il secondo articolo si prescrive di sottoporre l’accusato all’ordalia per mezzo dell’acqua qualora, pur sussistendo il forte sospetto dell’attività illecita, non si siano trovate prove irrefragabili della sua colpevolezza.

Anche nelle “Leggi delle XII tavole”, il più antico corpus giuridica romano, per quanto è possibile ricostruirne il contenuto dalle citazione degli autori successivi (7), il “crimen” di stregoneria, -che viene preso in esame in specie nell’ottava tavola-, è fatto oggetto di precise sanzioni penali: Plinio il Vecchio, ad es., -in Nat. Historia, XXVIII, 17-, si chiede: “Quid? non et legum ipsarum in XII tabulis verba sunt QUI FRUGES EXCANTASSIT et alibi QUI MALUMA CARMEN INCANTASSIT?” (“Come? Non si leggono proprio nelle leggi delle XII tavole le seguenti parole “Chi con incantesimi avrà fatto passare le messi dall’altrui campo nel proprio” e in altro punto “Chi avrà pronunciato una formula di maledizione?”) (8).

Osserviamo che accanto al verbo “in-cantare” ovvero apportare un effetto nocivo, un danno, con un “malum carmen”, un incantesimo malefico (che, come dice il termine, aveva una forma metrica e veniva pronunciato in modo cantilenato o quanto meno cadenzato), viene impiegato anche “ex-cantare”, cioè fare sparire qualcosa con mezzi occulti e nella fattispecie trasferire i raccolti (“fruges”) di un vicino nel proprio campo (9).

Al “malum carmen” si contrappone quello che Plinio chiama “carmen auxiliare”, ma che in epoca anteriore si trova designato anche come “cantio”, ovvero la formula volta a provocare o propiziare eventi favorevoli o contrastare quelli negativi, quali malattie e incidenti, e di cui sono esempio le frasi usate a fini terapeutici che abbiamo citato nelle parti precedenti della presente trattazione.

Tuttavia alla fine della Repubblica e poi per tutto il periodo imperiale la disposizione penale che puniva e reprimeva il “crimen magiae” e quindi le defissioni, era la “lex Cornelia de sicariis et venèficis” fatta approvare e promulgata da L. Cornelio Silla nell’81 a. C., entro la quale ricadevano tutte le forme di azione dolosa perpetrate contro la vita, l’incolumità e la libertà dei cittadini, sia quelle compiute tramite violenza (“per vim”) da “sicarii” (che ha qui il senso generico di autori di crimini violenti) -e quindi omicidio, aggressione, lesioni personali, rapina, ecc.-, sia quelle derivanti da pratiche subdole e messe in atto attraverso inganni e raggiri (ed i cui responsabili sono definiti “venèfici”). In quest’ultima categoria, che comprendeva in primo luogo gli avvelenamenti, rientravano anche tutte le pratiche occulte volte sia a nuocere, sia a forzare la volontà di uno o più individui per compiere azioni che di propria iniziativa non avrebbero eseguito.

Particolare di una “tabella defixionis” risalente al IV-V secolo, conservata nel Museo Archeologico di Bologna. Vi è impressa una figura femminile dal cui capo escono sei serpenti (Ecate?).

Si tenga presente che non esistendo nell’antichità le analisi tossicologiche (né le analisi cliniche in genere) era assai difficile stabilire le cause della morte quando questa non derivasse da violenza o da manifesta malattia, per cui il “veneficium” si aveva sia in caso di vero e proprio avvelenamento in senso moderno, sia quando, non risultando chiaro l’agente mortifero, specie in caso di decesso improvviso -o di morbo fisico o mentale insorto in modo repentino-, si attribuiva la causa dell’evento a un filtro magico (“poculum”) o a un incantesimo.

Notiamo inoltre che il termine latino “venenum” corrispondente a quello greco “phàrmakon”, indica qualunque tipo di sostanza minerale, vegetale e animale in grado di agire sul fisico e sulla mente di uomini e altri animali, sia in positivo (medicina), sia in negativo (veleno, filtro); medici e giuristi operavano dunque una distinzione empirica tra “venena”(“pharmaka) “ad sanandum, ad occidendum, amatoria”.

Tuttavia, mentre si hanno ampie testimonianze nelle fonti storiche e letterarie di processi e/o di condanne per atti di magia (“magica maleficia”), compiuti soprattutto attraverso filtri e pozioni, -oltre a veri e propri venefici, che, come abbiamo dianzi detto, non erano distinti in modo netto dai precedenti- (10), non sono attestate specifiche condanne per defissione, sebbene sia lecito pensare che talvolta qualcuno di coloro che praticavano questo genere di operazioni sia stato colto sul fatto (11).

Ma, come abbiamo accennato sopra, questo tipo di pratiche occulte non era certo nato in Grecia, ma aveva i suoi immediati precedenti nelle “formule di esecrazione” in uso nel Vicino Oriente, e soprattutto in Egitto e in Mesopotamia fin dai tempi più antichi. Il principio di fondo che sta alla base di questa concezione è che un determinato oggetto (in genere coccio, lamina o statuetta antropomorfa), debitamente inscritto con il maggior numero di dati identificativi di una o più persone, -in primo luogo il nome-, e se possibile corredato pure qualche residuo organico o effetto personale (quello che nella terminologia magica greca fu poi chiamato “ousìa”, cioè “essenza” o “sostanza”, a sottolinearne l’importanza determinante), potesse costituire un sostituto della persona medesima, e dunque che i “trattamenti”, sia fisici (trafittura, bruciatura), sia simbolici (iscrizione di formule esecratorie) inflitti all’oggetto avessero effetto su colui o colei che era da esso rappresentato. Tuttavia questi oggetti in oriente non avevano efficacia di per sé, -pur essendo un elemento necessario-, ma solo se accompagnati dalla recitazione di testi più o meno lunghi e dall’esecuzione di specifici atti, consistenti nello sfregio di essi, -potevano essere calpestati, frantumati, trafitti con spilli o chiodi, seppelliti o subire insieme tutte cotali azioni-.

Figurina inginocchiata con testo di esecrazione in scrittura ieratica (Museo reale di arte e storia di Bruxelles).

Talora poi il sostituto, specie in Egitto poteva essere un animale vivente, che veniva scelto di solito tra quelli “tifonici” cioè messi in relazione con divinità considerate ostili in particolare Seth, il rivale e uccisore di Osiride (come ippopotamo, coccodrillo, maiale, asino, orice): in tal caso il rito di esecrazione assumeva la forma di un sacrificio e poteva essere celebrato in un tempio. Una variante di tale rito di esecrazione è l’usanza del “capro espiatorio” praticata dagli Ebrei e descritta in Levitico, XVI, 8-10; 22-26. In questi passi si prescrive che nel “giorno dell’espiazione” (“Yom Kippur”),celebrato nel decimo giorno del mese di “tishrì” (o “tishrìn”)(12), – il sommo sacerdote prenderà due capri: uno, il “capro espiatorio” in senso proprio, verrà immolato a Dio nel cortile del Tempio e con il suo sangue si ungeranno l’ara e gli stipiti della porta del tempio per purificarli; mentre l’altro, il “capro emissario”, chiamato Azazel nel testo biblico, dopo essere stato “caricato” con l’imposizione delle mani del sacerdote dei peccati e delle colpe di tutto il popolo, ed identificato con l’omonimo demone, sarà mandato nel deserto per farvi una triste fine (ovvero essere condotto sopra una rupe isolata per essere gettato senza pietà dall’alto di essa).

Fra i tipi di maleficio più diffusi ed attestati nell’antico Egitto sono quelli perpetrati per mezzo di figurine di prigionieri inginocchiati e con le mani legate dietro la schiena, che recano la formula di maledizione inscritta nel torso e spesso sono trafitte da chiodi. Un’altra forma di incantesimo volto al fine di nuocere consisteva nel ridurre in cocci recipienti di argilla dipinti di rossiccio (operazione che pertanto era detta per l’appunto “rompere i vasi rossi”), sui quali erano state incisi testi di esecrazione. Si noti che il rosso tendente al bruno o all’arancio, quello proprio della terra del deserto, considerato simbolo di infertilità e di condizioni naturali avverse -in contrapposizione al nero proprio del limo lasciato dall’inondazione del Nilo che nutriva la terra consentendo cospicui raccolti e garantendo così la vita dell’Egitto-, era il colore di Seth, il fratello malvagio di Osiride: i capelli e/o la carnagione rossa erano attribuiti dagli Egizi a persone e animali che essi consideravano avversi e malefici (si veda a proposito di Seth quanto abbiamo detto nella III e IV parte della trattazione sull’Asino e il Bue nel presepe pubblicate rispettivamente il 6 e 17 gennaio 2016).

Molto meno attestate a livello documentario ed archeologico sono le pratiche magiche nocive nell’area assiro-babilonese, probabilmente a ragione del fatto che esse erano represse con severità e punite con la morte. La credenza nelle operazioni malvage degli stregoni, -effettuate anche qui attraverso oggetti come tavolette e simulacri-, si arguisce soprattutto dalla diffusione di testi e riti di esorcismo, attraverso i quali si intendeva combattere gli influssi malefici e allontanare le disgrazie causate da essi. Di questi testi esistevano delle importanti raccolte quali il “Maqlu” assiro e lo “Shurpu” babilonese. Da questi testi si deduce, che a differenza dell’Egitto, gli strumenti materiali della maledizione per essere resi efficaci dovevano deposti nelle tombe, come sarebbe accaduto poi in Grecia e a Roma.

Il primo di essi, il “Maqlu” (“Ardente”), è una sorta di manuale liturgico che illustra ed insegna la celebrazione degli esorcismi, costituita da dieci tavolette. Nella prima parte, comprendente le tavole I-V, dopo un’invocazione alle divinità infere e notturne, viene delineata la procedura per una sorta di processo allo stregone che aveva causato la possessione demoniaca -o presunta tale, poiché si trattava non solo di turbe psichiche, ma spesso di malattie puramente fisiche (come l’epilessia)(13)-, in seguito al quale viene pronunciata una “sentenza di condanna”; la seconda parte (VI,1-VIII,57) descrive il rituale da eseguirsi nelle ore oltre la mezzanotte nel cubiculo dove giace l’ossesso -o il malato-: in primo luogo si dava alla fiamme un simulacro che rappresentava lo stregone responsabile del maleficio, dopo di che quanto rimaneva era immerso in un liquido nero e poi deposto con il viso a terra ed ivi schiacciato, mentre venivano recitate le formule liturgiche di scongiuro; infine si provvedeva a purificare la dimora del paziente con la fumigazione di una pianta aromatica e resinosa detta “ata’ishu”, di incerta e difficile identificazione (14), cui seguiva una specie di massaggio del malato con appropriati unguenti; la terza parte (dalla tav. VIII, 58 alla fine) tratta del rito conclusivo che si svolgeva all’alba davanti alla soglia della casa: dopo un’invocazione del dio Nusku, “lume di protezione nella notte”, si salutava il sorgere del Sole, la visibile incarnazione del dio Shamash, che segnava la vittoria della luce sulle forze del caos e dell’oscurità e un amuleto appositamente confezionato veniva offerto al soggetto liberato dalla possessione demoniaca: questi si specchiava in una coppa di acqua pura e rivolto ad essa diceva: “Tu rimandi la mia immagine… Tu sei mia e io sono tuo! Che nessuno possa conoscere il tuo segreto, che nessun male possa toccarti!”.

Questo rito lungo e complesso, del quale si ha la prima notizia in una lettera scritta dall’esorcista Nabu-nadin-shumi al re assiro Assarhaddon nel mese di “abu” (luglio-agosto) (15) del 670 a. C., era operato da un medico-mago chiamato “ashipu”, e di preferenza negli ultimi giorni del mese di “abu”.

Quanto allo “Shurpu” (così detto da un termine presente nel primo versetto dell’opera: “Enuma nepese sa shurpu t-usu” =”Quando si eseguono i rituali del tipo ‘Brucia’”), esso fu compilato nel periodo babilonese medio (circa 1350-1050 a. C.) raccogliendo singoli incantesimi risalenti ad età assai più antica; vi è contenuta una lunga serie di peccati, offese rituali, violazioni involontarie di precetti sacri, infrazioni di norme morali e sociali, utile anche quando il devoto potesse essere incerto su quale atto od omissione tale da offendere gli dei potesse essergli ascritto. Il “corpus” comprende nove tavolette d’argilla collegate tra di esse in modo che l’ultima riga di ciascuna tavola è anche la prima di quella seguente.

Mentre il “Maqlu” aveva lo scopo di combattere la magia nera (“kishpu”), lo “Shurpu” insegna come neutralizzare le maledizioni (“mamitu”) -e dunque quello che nel mondo greco-romano erano i “katadesmoi” e le “defixiones”-, applicando sulla presunta vittima una sorta di impiastro o di pasta (in modo similare ad una “maschera di bellezza”) che doveva assorbire le “energie negative” e veniva poi asportata e distrutta; ed altresì come mondarsi dalle conseguenze dei suoi peccati e trasgressioni, volontarie e involontarie, coscienti e inconsapevoli, che venivano trasferiti su oggetti (che spesso potevano essere spicchi d’aglio e bucce di cipolla, oppure fiocchi di lana e lembi di tessuto) a sua volta gettati poi tra le fiamme fino a che non fossero arsi del tutto, mentre veniva pronunciata la seguente formula: “La mia malattia, la mia stanchezza, la mia colpa,[…]/ La malattia che è presente nel mio corpo, nella mia carne e nelle mie vene/ Sia consegnata alle fiamme come lo è l’aglio/ Che ora il Dio-Fuoco, l’Ardente, consuma!/ Che la maledizione si allontani e io possa vedere la luce!”.

Note

1)in polemica con Porfirio di Tiro, Giamblico difese e giustificò quella forma di magia detta “teurgia”, che non mirava al conseguimento di “poteri” eccezionali, più o meno autentici, e di benefici materiali, ma al contatto con la divinità con mezzi e in modi simili a quelle dello spiritismo moderno per ricevere rivelazioni mistiche ed elevare lo spirito. Infatti il titolo esatto dell’opera citata è “Risposta del maestro Abammone alla lettera indirizzata da Porfiro ad Anebo e soluzione delle difficoltà che vi si trovano”, che fu scritta per confutare le critiche rivolte da Porfirio ai culti misterici orientali e alla teurgia, dei quali il filosofo denunciava e smascherava le puerilità, le incoerenze, nonché la crudeltà dei sacrifici cruenti (abbiamo visto come fosse un convinto assertore dei diritti degli animali) ed i trucchi più o meno ingegnosi di cui si valevano i presunti “teurghi”. La “Lettera ad Anebo -o Anebone-[il quale era un sacerdote egiziano]” è considerata il “pendent” della sua opera contro i Cristiani, nella quale parimenti rilevò le contraddizioni e le ambiguità della dottrina cristiana.

2) nativo di Antiochia, vissuto dal 314 al 393 circa, fu maestro di diversi altri oratori e intellettuali della tarda antichità come gli autori ecclesiastici Giovanni Crisostomo e Basilio di Cesarea, -per quanto egli fosse avverso al cristianesimo-, e amico dell’imperatore Giuliano.

3) di questi due santi, qualificati con l’attributo di “anargyri” (lett. “privi di denaro”), -più comunemente riferito ad un’altra coppia di santi, Cosma e Damiano-, si hanno notizie tarde  e incerte. Sembra che Giovanni fosse un soldato originario di Edessa, nella regione siriaca dell’Osroene, mentre Ciro sarebbe stato un medico di Alessandria, martirizzati all’inizio del IV secolo al tempo di Diocleziano. E’ probabile che l’attributo di “anargyros” si riferisse in principio al solo Ciro, che in qualità di medico non richiedeva alcun compenso per le se prestazioni professionali, in analogia a quanto facevano Cosma e Damiano, i più famosi “anargyri”, che erano fratelli e anch’essi medici. Ciro avrebbe svolto la sua opera di guaritore nella cittadina di Menouthis -sita non lungi da Alessandria in direzione nord-est-, dove sorgeva un santuario di Iside, al quale si recavano i malati per ottenere la guarigione, anche mediante l'”incubazione”, ovvero la pratica di dormire in un tempio onde ricevere consigli per mezzo di sogni inviati dalla divinità venerata in quel luogo. Tale pratica, diffusa nel mondo greco-romano nei santuari dedicati a divinità sanatrici e profetiche, quali Asclepio (o Esculapio), Apollo, Artemide, continuò talvolta anche in epoca cristiana. Al posto del tempio di Iside fu poi edificata una chiesa cristiana ove furono conservate le reliquie dei due martiri. Dopo la conquista araba dell’Egitto le reliquie furono trafugate e dopo fortunose vicende sarebbero giunte in Italia, dove a Roma sarebbero state deposte in una chiesa sulla via Portuense. Questi santi peraltro ebbero particolare venerazione nell’area costiera della Campania tra Napoli e Amalfi, tanto che divennero patroni della cittadine di Portici e di Vico Equense, con festa celebrata il 31 gennaio. In effetti anche in questo caso possiamo riscontrare un esempio di pietà rivolta a santi cristiani a cui sono attribuite caratteristiche di una precedente divinità e tributato un culto che riprende e continua le forme di quello “pagano”. Esempi ancora più chiari sono quelli dei sopraddetti Cosma e Damiano, i quali ereditarono le competenze dei Dioscuri (protettori dei naviganti, ecc.), o quello di S. Brigida, alla quale a Kildare in Irlanda dedicato un fuoco sacro, così come in precedenza lo era alla dea celto-britannica Brigantia.

4) si tratta della “peste antonina” (detta pure “di Galeno”) che infierì in diverse parti dell’Impero Romano, -con alternative di remissioni e di riprese-, tra il 165 e il 185 circa e della quale abbiamo parlato nella III parte de “Il declino dell’Impero Romano”, -del 21 giugno 2015-.

5) si tenga presente però che nei processi per stregoneria, oltre che la messa in opera di atti criminali attraverso operazioni occulte, si intendeva punire la venerazione e il congresso con entità soprannaturali (dei delle antiche religioni, spiriti degli elementi, spiriti dannati disincarnati, ecc.), e dal XVI secolo con lo stesso Satana. Pertanto il “crimen” di stregoneria in età cristiana comprendeva e partecipava sia della magia nera sia dell’eresia e dell’apostasia.

6) che secondo le ipotesi più accreditate regnò in Babilonia dal 1792 al 1750 a. C.

7) le tavole erano state collocate nel Foro Romano nel 450 a. C, ma andarono distrutte a seguito dell’invasione dei Galli di Brenno nel 390 a. C.

8) Plinio, pur mostrandosi fortemente critico nei confronti delle pratiche occulte e polemizzando con veemenza contro le “magicas vanitates” (le imposture magiche), nel XXX libro della Naturalis Historia delinea una interessante storia della magia, che per lui è una combinazione di medicina, religione e divinazione (ed in effetti si potrebbe osservare che la concezione sottostante alle pratiche occulte partecipa sia della scienza -conoscenza e utilizzo degli elementi del mondo fisico- e della religione -aiuto e/o asservimento di entità soprannaturali-). Peraltro secondo Plinio della magia non fanno parte le formule comprese nelle ricette di guarigione della tradizione romana (quella rappresentata nei trattati di Catone il Censore e di cui egli stesso fornisce diversi esempi nella sua opera).

9) di questa forma di “furto” commesso attraverso un incantesimo si fa cenno anche nelle “Naturales Questiones” di Seneca il Giovane,(IV, 7, 2): “Et apud nos in XII tabulis cavetur “ne quis alienos fructos excantassit”; e Servio nel suo commento all’VIII ecloga di Virgilio (v. 99: “Atque satas alio vidi traducere messis” = E vidi quando un buon raccolto agreste egli [Moeris, il protagonista dell’ecloga] a sé trasferì tolto d’altronde”): “magicis quibusdam artibus hoc fiebat, unde est in XII tabulis NEVE ALIENAM SEGETEM PELLEXERIS” in cui si riferisce ad un altro articolo del codice: “[trasportare le messi]: questi veniva compiuto per mezzo di certe arti magiche, per cui nelle leggi delle XII tavole si comanda :”Non lanciare un incantesimo sui raccolti altrui”).

10) possiamo citare ad es. l’episodio riguardante un certo G. Furio Crèsimo, ricordato da Plinio il Vecchio (Nat. Historia, XVIII, 41-43), -ma avvenuto presumibilmente agli inizi del II sec. a. C.-, un contadino il quale pur possedendo un modesto appezzamento di terreno, riusciva ad ottenere da esso raccolti assai più abbondanti che non i suoi vicini proprietari di vasti possedimenti. Avendo per tale ragione suscitato l’invidia di questi ultimi, fu da loro accusato di essersi servito di “incantamenta” come quelli contemplati nelle leggi delle XII tavole. Secondo la testimonianza di Plinio però egli riuscì a vincere la causa intentagli dagli avversari. Famoso poi l’esempio di Locusta, una celebre fattucchiera del I secolo, che aveva collaborato prima con Agrippina Minore, e poi con Nerone, fornendo loro i veleni con cui furono eliminati prima l’imperatore Claudio e poi il figlio di questi e di Messalina, Britannico, erede al trono, che così andò a Nerone (vedi Tacito, Annales, XII, 66; XIII, 15-16; Svetonio, De vita duodecim Caesarum, Nero, XXXIII) e che fu fatta poi giustiziare da Galba nel 69 insieme ad altri favoriti del suo predecessore (Dione Cassio, Storia Romana, LXIV, 3-4). Ma l’episodio più noto è quello riguardante l’insigne letterato nord-africano Apuleio, il quale fu accusato di avere circuito con filtri amatori e riti magici eseguiti con misteriose statuette una ricca vedova, Pudentilla, onde farsi sposare da essa (e pertanto fu trascinato in tribunale da alcuni congiunti di lei che si sentivano defraudati dei beni di cui erano eredi). Dell’orazione pronunciata durante il processo lo scrittore lasciò una redazione letterariamente rielaborata, interessante anche per conoscere le opinioni correnti sulle operazioni magiche e sulla confusione tra la figura dello scienziato-filosofo e quella del mago-stregone che la gente spesso faceva.

11) tra gli esempi di “defixiones” che troviamo negli storici, segnaliamo la morte repentina di Germanico (15 a. C.-19 d. C.), il nipote acquisito di Ottaviano Augusto, che, come riferisce Tacito (Annales, II, 69), fu attribuita a un maleficio. Lo scrittore precisa che in seguito ad accurate ricerche vennero trovati sotto il pavimento del palazzo di Antiochia dove il decesso era avvenuto ossa di morti, formule incantatorie, piastre di piombo sulle quali era inscritto il nome di Germanico, ceneri ricoperte di sangue rappreso ed altre malie onde si reputa potersi consacrare le anime ai demoni dell’inferno che confermarono il sospetto sulla causa occulta della malattia improvvisa che aveva condotto a morte il giovane condottiero. Sempre in Tacito (Ann. XVI, 31) rileviamo che Servilia, figlia di S. Barea Sorano, fu accusata di aver lanciato malefici contro Nerone, che ella nega di aver compiuto, senza peraltro che questo valga ad evitare la condanna a darsi la morte inflitta a lei e a suo padre per una presunta congiura contro l’imperatore.

12) all’incirca tra settembre e ottobre; si tenga presente che il calendario ebraico come quasi tutti quelli antichi è luni-solare, ovvero i mesi corrispondono alle lunazioni, partendo dalla “luna nuova”, ma prendendo come punto di riferimento un passaggio astronomico, -in genere un equinozio o un solstizio-, dal quale viene fatto iniziare l’anno (nel caso degli Ebrei fu prima l’equinozio di primavera e in seguito quello d’autunno).

13) peraltro presso i Mesopotamici la causa principale o secondaria della malattia era sempre attribuita all’azione di un demone, il quale però a sua volta poteva operare su un individuo o su un gruppo solo quando quest’ultimo, a causa di un peccato o di una colpa, volontaria o involontaria, avesse perso la protezione degli dei.

14) tra le possibili identificazioni proposte vi sono l’Artemisia absinthium, la Melissa offcinalis, il Leonurus sibiricus, l’Opoponax chironium, e molte altre piante appartenenti alle famiglie delle Asteracee, -o Composite-, delle Rutacee e delle Labiate.

15) anche il calendario mesopotamico era luni-solare e dunque ciascun mese corrispondeva a una lunazione; “abu” era chiamato “ab” nel calendario ebraico e siriaco.

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *