ENIGMI, MISTERI E PARADOSSI -sesta parte- (le “defixiones”)

Queste enigmatiche parole hanno ricevuto diversi tentativi di spiegazione e interpretazione più o meno fondati.

Clemente di Alessandria nella sua opera “Stròmata” (V, 8) ci fa sapere che: “Un discepolo di Pitagora, Andròcide, dichiara che lettere chiamate “Efesie”, universalmente conosciute, sono degli autentici “simboli”: “Askion” significa “l’oscurità” [α intensivo + σkiα = ombra], perché in effetti l’oscurità è piena di ombre. “Kataskion” significa “la luce”, poiché essa dissolve l’oscurità, le tenebre e le ombre. “Aix”, capra, è un antico appellativo della Terra. La parola “Tetrax”, il quaternario, designa per allegoria l’anno, che è suddiviso in quattro stagioni. “Damnameneus” è il Sole, il quale per la sua possanza irresistibile è detto “il domatore” [“δαμαζων”]. “Aisia” è la voce della verità [poiché derivante, o connesso, con l’aggettivo αiσιoς = propizio, di buon augurio]”. L’autore riferendosi a quanto ha riferito sul significato degli “Ephesia Gràmmata” espone poi una definizione quanto mai appropriata di “simbolo” come strumento di espressione di contenuti filosofici e teologici: esso per lui altro non è che “un ornamento del quale si riveste la scienza delle cose divine, come ad esempio le tenebre confrontate con la luce, il Sole con l’anno, la Terra con la generazione di tutti gli enti della Natura” (1).

In effetti l’interpretazione ispirata ad un simbolismo mistico e metafisico proposta da Androcide e accettata da Clemente alessandrino è poco probabile; un’ipotesi più verosimile è quella in cui “askion” ( con l’alfa iniziale interpretato come privativo, anzichè intensivo, “privo di ombre”,e dunque “luminoso”) e “kataskion” (ombroso, scuro; e pertanto il contrario dell’aggettivo precedente) siano riferiti a Damnameneo, che a sua volta sarebbe il nome di un’antica divinità ctonia, poi inserita nel novero dei Dattili Idei; “aix” (o “lix”) e “tetrax” sarebbero alterazioni rispettivamente di “tris” e “tetrakis”, -“tre volte” e “quattro volte”-, mentre “aision” (o “aisia”), “benevolo, propizio” andrebbe riferito in senso predicativo allo stesso Damnameneo. E quindi il significato delle sei parole, che sarebbero pertanto una frase di senso compiuto, potrebbe esser il seguente: “Luminoso, oscuro, tre volte, quattro volte, Damnameneo, (siimi) favorevole”, che si potrebbe interpretare nel modo seguente: “O Damnameneo, luminoso ed oscuro, aiutami per tre e quattro volte”.

Tuttavia in seguito il pristino significato andò smarrito e la potenza delle lettere Efesie fu attribuita alla ieratica sacralità avvertita in esse dal popolo: il potere di cui sono dotate è insito nel suono e dunque, come tutte le “parole magiche”, non risultano efficaci se non vengono pronunciate nel modo corretto. Come le precedenti che abbiamo visto, venivano impiegate a fine essenzialmente apotropaico, per stornare da sé sia maledizioni o demoni maligni, sia per allontanare disgrazie e malattie. Plutarco -in “Quaestiones convivales, 706, d-, asserisce che i sacerdoti recitavano queste parole per esorcizzare le vittime di possessione demoniaca; mentre in una commedia del IV sec. a. C., “Lyròpoios” (“Il fabbricante di lire”) di Anàssila, -poeta comico delle cui opere sono rimasti solo testimonianze e frammenti-, le portava incise sulla cintura, come è riferito da Ateneo (“I Deipnosfisti”, XII, 548).

Con il trascorrere del tempo il numero delle parole e formule misteriose dai suoni “barbari” (e per tale ragione, oltre che per la provenienza in genere estranea all’ambito greco-romano, dette anche “barbarikà onòmata”) si moltiplicò e si ampliò notevolmente in tutti i territori compresi nell’Impero Romano. Il loro impiego si ebbe soprattutto nel tipo di incantesimi detti in greco “katadèsmoi” e in latino “defixiones”: essi consistevano nel “consacrare” a divinità infere, demoni, spiriti di defunti il corpo, -o talora parti del corpo- e talvolta anche l’anima di persone che ritenevano nemiche o da cui si era convinti di aver subito torti e ingiustizie, oppure fossero pericolosi rivali che potevano essere superati solo con l’ausilio di potenze occulte. Le motivazioni dell’incantesimo dunque erano ben poco nobili: l’odio e l’invidia.

Oltre a questi che, come vedremo, sono la categoria più numerosa, sono attestati in grande quantità anche i malefici amatori, con i quali il “defiggente” sperava di riuscire a conquistare l'”amore” di una persona mostratasi fino ad allora a lui indifferente.

La “consacrazione” del nemico (o dei nemici, poiché spesso questa pratica nefanda era rivolta a più persone contemporaneamente) era inscritta su una laminetta di metallo, che poteva essere stagno, bronzo, in rari casi pure oro o argento, ma il più delle volte era di piombo (2); sono state trovate anche defissioni scritte su pietra o su cocci, e si sa per certo che veniva impiegato anche il papiro, ma, data la deperibilità del materiale, non si sono conservate tranne che in Egitto, dove le condizioni del clima, particolarmente secco, hanno impedito il loro deterioramento.

Il testo comprendeva il nome della persona, o delle persone, “defisse”, sempre indicato con molta cura, di cui venivano precisati maternità (più raramente la paternità, talora vengono indicati anche altri familiari), professione, indirizzo, e tutto quanto potesse servire per designare con precisione l’identità della vittima del maleficio, poichè un’indicazione vaga o errata ne invalidava l’efficacia. Il fatto che, a differenza di quanto avveniva di solito nei documenti ufficiali o sulle epigrafi tombali, dove prevaleva la dichiarazione del padre del soggetto, fosse indicato di preferenza il nome della madre non è stato spiegato con certezza, ma si suppone che tale uso fosse motivato dalla circostanza che la madre, come recita un famoso aforisma giuridico latino, è “semper certa”, mentre il padre non sempre lo è.

Seguivano i nomi di una o più spesso più divinità infere alle quali veniva dedicato il destinatario della defissione; tuttavia in genere, pur se venivano citati numerosi nomi di divinità o di demoni, la “consacrazione” della vittima riguardava solo una di esse, o un gruppo di entità demoniache: le più rappresentate sono Plutone, Persefone, Ecate, Caronte, le Erinni, i Mani ma non mancano neppure Hermes Psicopompo, Adone, gli egizi Thoth e Anubi, e addirittura Ereskhigal, la regina degli Inferi babilonese, che riappare in laminette ateniesi di età ellenistica, dopo secoli che il suo nome era sparito nelle testimonianze epigrafiche; non mancano neppure Ananke (la Necessità) -il che potrebbe sembrare strano a prima vista, dato il suo carattere di divinità astratta ed allegorica, ma che si può spiegare nel quadro dell’invocazione di un fato ineluttabile-, le Ninfe, nonchè angeli ed arcangeli (specie Michael) negli esemplari della tarda antichità; appaiono inoltre citati nomi di demoni che talora sono degli “hapax legòmenon” ( “detto una sola volta”, ovvero parola o locuzione di cui non sono attestati altri esempi). In una tavoletta trovata a Pella in Macedonia e risalente al IV o III sec. a. C., con la quale una certa Dàghina voleva impedire a un’altra donna, Theotima, di sposare Dyonisophon, l’uomo di cui era innamorata, è invocato il nome di Makron, il quale insieme ad altri demoni di cui non è fatto il nome dovrebbe aiutare la dedicante a conseguire il suo scopo. Talora in area orientale viene citato anche Iao (Iαω) che, -come abbiamo già visto è il nome ellenizzato del dio ebraico Iahweh-, come ad es. in una lamina di piombo del III secolo rinvenuta in un pozzo ad Antiochia, dove il dio viene invocato contro un certo Babila, figlio di Dionisia, facendo menzione delle punizioni da lui inflitte agli Egiziani.

Ci si potrebbe domandare come si potesse credere che gli dei si prestassero a compiere queste opere malvage, che nella migliore delle ipotesi dovevano far giungere un castigo celeste a un colpevole spesso sfuggito alla giustizia umana; ma questo rientra nella stoltezza umana che pretendeva di assoggettare divinità, ed entità superiori in genere, ai desideri umani. Su tale argomento torneremo però più innanzi quando spiegheremo in che senso e in che limiti si possa parlare di “realtà” delle pratiche magiche e stregonesche.

La “tavola di Pella”.

La “consacrazione” veniva espressa usando spesso il verbo “katadeo” (lego) in greco e “defigo” (conficco) in latino, -da cui i termini “katàdesmos” e “defixio”, in cui i due prefissi derivati da preposizioni (“katà” e “de”) indicano un movimento dall’alto verso il basso-; ma si trovano pure “katagrapho”, “anatìthemi” (da cui “anatema”) (3), “horkizo”, “exhorkizo” (questi due ultimi verbi specie nell’Africa settentrionale) in lingua greca;”alligo”, “demando”, “denuntio”, “dedico” in  lingua latina; in tal modo si voleva consegnare la vittima alle divinità perché fosse da queste punita o tormentata. Questa parte è chiamata “logos graphòmenos kai diokòmenos” (testo scritto e completato), in cui spesso vengono invocate sulle vittime le più tremende disgrazie e sono in genere collocati gli “ephesia grammata”; ad essa fa seguito nelle defissioni più complesse l'”exaìtesis”, la preghiera di congedo, lo “scongiuro” in senso stretto. Il più delle volte. ma non sempre, appare anche il nome di colui, o colei, che opera il maleficio. Si osservi che non di rado venivano consacrate alle potenze infere anche singole parti del corpo dei defissi, in particolare quelle che avevano compiuto o potevano compiere materialmente le azioni infauste, o comunque contrarie ai desideri del soggetto, quali soprattutto le mani e la lingua, ma anche occhi, orecchie, gambe… perfino le unghie! nonché l’anima alla quale era spesso augurata l’eterna dannazione (4).

Dopo aver inciso, o scritto, il testo sulla lamina metallica o su papiro o pergamena, questi ultimi venivano ripiegati o arrotolati e poi trafitti da uno o più chiodi, dopo di che venivano introdotti nel sotterraneo di un tempio dedicato a una divinità ipoctonia, in un pozzo, in una sorgente di acqua termale, ma nel caso di gran lunga più frequente, specie nell’età tarda, dal II secolo in poi, in un sepolcro, ovvero in luoghi in comunicazione con il mondo infero. Si è riscontrato peraltro che la scelta delle tombe ove celare la “tabella defixionis” non era casuale, ma erano nettamente preferite quelle di soggetti deceduti per morte prematura, talora anche infanti, -gli “aoroi” (i “prematuri”)-, o di morte violenta, -i “biaiothanatoi” (da “biaios”, violento e “thanatos”, morte): questo perché si riteneva che, a differenza dei periti in circostanze “normali”, per malattia o per vecchiaia, fossero ancora attaccati alla vita materiale, che avevano dovuto lasciare anzitempo, e animati da passioni terrene e soprattutto da risentimenti per la loro sorte ingiusta, che li rendevano disponibili ad assecondare le malvage intenzioni dei “defiggenti” (5).

Veduta dei resti del cimitero del ceramico ad Atene.

A queste categorie, alcuni aggiungono anche gli “ateleis” e gli “atèlestoi”, cioè i defunti che non avevano ricevuto adeguate onoranze funebri dopo la morte o che comunque erano stati dimenticati dai loro discendenti, e dunque anch’essi risentiti ed astiosi (tale ipotesi è avvalorata dal fatto che si sono trovate tavolette o statuette -poiché anche con queste ultimo si poteva compiere la “defixio”- in tombe risalenti ad epoche assai anteriori, talvolta di secoli, rispetto a quella in cui fu operato il maleficio). Spesso inoltre le anime dei defunti venivano espressamente invocate insieme ai demoni e/o alle divinità infere, per cui i loro sepolcri non erano solo dei punti comunicazione tra mondo terreno e mondo ipoctonio, ma erano scelti poichè erano invocate per compiere un’azione punitrice le anime di coloro che vi erano sepolti. Certamente le anime che potevano essere incaricate di una “missione” così perniciosa non erano senza dubbio quelle che si trovavano nei Campi Elisi, bensì quelle provenienti dal “Prato degli Asfodeli”, o addirittura quelle dannate nel Tartaro!

Molto più raramente potevano essere nascosti nella dimora o nel luogo di lavoro della vittima, e in tal caso presentano forti analogie con le “fatture” moderne. In generale le “tabellae defixionum” avevano dimensioni modeste, mediamente dell’ordine di 10×5 cm (e di norma erano scritte nel senso della lunghezza), ma ne sono venute alla luce alcune dalle misure ragguardevoli, come ad es. la citata “tavola di Pella”, lunga 30 cm x 6 cm di larghezza; comunque avevano quasi sempre forma lunga e stretta. Spesso erano “opistografe”, ovvero scritte su entrambi lati; il testo il più delle volte era breve e sintetico (salvo l’enumerazione delle “parti” del nemico che venivano defisse e l’elenco delle disgrazie che gli si auguravano), ma talora poteva avere un breve sviluppo retorico e/o narrativo. La lingua non di rado è scorretta o intrisa di espressioni gergali o locali, il che denota la scarsa cultura della maggior parte degli autori di queste epigrafi.

A volte queste esecrabili opere di magia nera erano compiute direttamente dagli interessati, ma spesso erano commissionate a stregoni e fattucchiere “professionisti”, i quali per mezzo dei riti ciarlataneschi che abbinavano al manufatto assicuravano la riuscita dell’incantesimo. All’intervento di costoro è da attribuire in massima parte l’inserimento dei “barbarikà onòmata”, delle parole magiche, alla fine o nell’interno del testo di maledizione,- frequenti, per non dire immancabili, nelle defissioni di età imperiale romana, mentre mancano in genere negli esempi più antichi di area ellenica- che, come tutto il resto della maledizione, venivano recitate mentre le si incideva sulla tavoletta.

In base alle finalità della defissione, le “tabellae” si possono dividere in due classi principali:

1) quelle amatorie con le quali l’autore,-trice o committente, sperava di conquistare l’interesse di una persona e di attrarla a sé, eventualmente allontanandola da un’altra alla quale fosse in precedenza legata;

2) quelle ostili, volte a nuocere a una persona sia sul piano fisico (provocandole malattie e disgrazie), sia in campo economico (fallimento, rovina), sia con la perdita della reputazione e/o di qualità necessarie all’esercizio della sua attività o professione (ad es. della voce o della memoria per un oratore); entro di esse si possono a loro volta distinguere due categorie principali:

α) le defissioni “di giustizia”, -o meglio “di vendetta”-, con le quali il, -o la-, “defigens”, che si sentiva vittima di torti, ingiustizie o raggiri, intendeva punire colui o coloro che gli avevano arrecato patimenti e sofferenze (ladri, truffatori, calunniatori, superiori troppo duri e severi -specie in ambito militare-, prepotenti in genere) (6);

β) le defissioni di rivalità, tra le quali rientrano soprattutto le “defixiones iuidiciariae”, rivolte contro gli avversari in un processo ai quali si augurava qualche malanno per impedire loro di continuare e/o portare a termine l’azione giudiziaria e sono frequenti soprattutto nell’Atene del V e IV sec. a. C. (ma se ne trovano di varie epoche e luoghi); e le “defixiones agonisticae”, attestate in particolare nell’Africa settentrionale durante l’età imperiale romana (e rinvenute anche nei recessi di circhi e anfiteatri) che spesso atleti, gladiatori ed aurighi dedicavano ai loro colleghi per indebolirli e/o causare loro accidenti che ne pregiudicassero le prestazioni agonistiche; o anche per rancore verso di essi qualora ritenessero che avessero conquistato ingiustamente la vittoria (e se pensavano di essere vittime di comportamenti scorretti le defissioni potevano dunque configurarsi anche nella categoria “di vendetta”).

Sebbene in senso lato il ricorso ad incantesimi volti ad eliminare o punire un nemico, ad assicurarsi il successo nelle proprie intraprese anche a scapito di altri e a conquistare un ascendente o un’attrattiva erotica presso altre persone si riscontri nei tempi e luoghi più diversi e distanti, -e sia dunque una manifestazione dell’egoismo umano che quando non trovi altri mezzi cerca di ottenere i suoi poco onorevoli scopi con operazioni occulte-, la pratica dei “katadesmoi” e delle “defixiones” nelle forme che abbiamo illustrato è circoscritta prima nell’antica Grecia (e nelle colonie greche) a partire dal VI sec. a. C., per estendersi poi a Roma, -dove l’uso sarebbe giunto per il tramite della popolazione degli Osci-, nell’età ellenistica e ancor più nei primi secoli dell’era volgare, quando si estese a tutti i territori compresi nell’Impero Romano.

Moltissimi “katadesmoi” sono stati trovati nel cimitero del Ceramico ad Atene, nei sotterranei del tempio di Demetra a Cnido e del santuario della “Malòphoros” a Selinunte (7). Negli esempi dei primi secoli sono quasi sempre assenti i “barbarikà onomata”, che invece sono sempre più frequenti ed anzi pressochè immancabili nelle defissioni dell’età imperiale romana. Per quanto riguarda questo periodo, i luoghi che offrono le più cospicue testimonianze di questa pratica sono, oltre la città di Roma, l’Africa settentrionale, soprattutto l’Africa proconsularis, dove predominano le “defixiones agonisticae”, e alcune aree della Gallia e della Britannia.

In quest’ultima regione nel 1979 furono scoperte numerose tavolette in due santuari che dovevano godere di notevole rinomanza: il tempio consacrato alla dea Sulis, identificata con Minerva, intorno ad una sorgente termale, nella cittadina chiamata appunto Aquae Sulis, -l’odierna Bath, che conserva anch’essa il ricordo della sorgente-; e un tempio dedicato a Mercurio nei pressi di Uley. Nel primo di questi luoghi, ad Aquae Sulis, sono venuti alla luce in gran copia interessantissimi oggetti dell’epoca romana tra cui 12.000 monete, vasi e arredi di bronzo, “paterae” e 130 “tabellae defixionum”; il secondo invece ha restituito un ragguardevole deposito di monete, placchette votive, -delle quali alcune a forma di foglia-, ex-voto anatomici e 140 laminette. In entrambi questi luoghi la maggior parte delle “tabellae” contiene maledizioni contro i ladri, che a quanto sembra dovevano trovarsi numerosi in quei luoghi.

Per quanto riguarda le Gallie, un discreto “corpus” di laminette fu rivelato dagli scavi effettuati nel 1908 nel sotterraneo dell’anfiteatro di Augusta Treverorum (l’attuale citta di Treviri, Trier in tedesco, ora in Germania, ma allora capoluogo della Gallia Belgica); esso comprende una trentina di esemplari di piombo, databili per la maggior parte al IV e V secolo, dunque ad un’epoca assai tarda, quando però la città per la sua posizione godeva di una notevole importanza strategica come avamposto contro le popolazioni germaniche.

Un altro nutrito gruppo di circa 40 laminette fu rinvenuto, insieme a monete di bronzo e ossa di animali, in fondo ad un pozzo profondo venti metri poco distante da una villa sita nei pressi della cittadina di Rauranum in Aquitania, nel territorio della tribù dei Sàntoni (8). Tra queste è degna di nota soprattutto una scritta in uno strano linguaggio che per alcuni potrebbe essere una commistione di latino e di una lingua celtica, mentre per altri si tratterebbe di una lingua artificiale usata specificamente in cerimonie magiche. In effetti è dubbio che questa epigrafe sia una vera e propria “defixio” poiché sembra più una preghiera a tre divinità celtiche -poco note- (9), senza che appaia un vero intendimento punitivo o vendicatorio verso qualcuno: essa comincia con le seguenti parole: “Apre cialli carti, eti-heiont, Caticatona, demtis sie clotuvla; se demti tiant. Bi cartaont, Dibona! Sosio, deei pia! sosio pura! sosio govisa!…”, che dovrebbero significare: “Per l’amore dello spirito, che tu sia, o Caticatona, un’onda per i tuoi servitori, un’onda potente! sii clemente, o Dibona! dea gentile, dea pura, dea lieta!…”.

In Italia le due più cospicue raccolte di “tabellae defixionum” di età imperiale provengono dalla capitale. La prima fu scoperta nel 1850 in un colombario (cioè un cimitero ove sono riposte urne cinerarie in loculi simili a cellette per i nidi dei colombi, da cui il nome) nei pressi di S. Sebastiano; consta di 48 tavolette trovate piegate o arrotolate all’interno delle urne, inscritte per la maggior parte in greco (solo cinque esemplari sono in latino) e contenenti maledizioni contro aurighi del circo e i loro cavalli, ai quali si augurano disgrazie e accidenti di ogni sorta. Queste tavolette sono state chiamate “sethianae”, poiché vi sono invocate divinità egizie, soprattutto Seth-Tifone, il rivale e uccisore di Osiride, -ma anche lo stesso Osiride-; un’altra loro particolarità è che in molte di esse sono presenti immagini rozzamente delineate sia delle entità divine o demoniache invocate, sia delle vittime, spesso circondate di elementi che esprimono in modo visibile le sciagure incombenti su di essi (serpenti che le avvinghiano, lame che le trafiggono, ecc.); a tali elementi si aggiunge la quasi costante presenza di “characteres”, ovvero di segni grafici dalla valenza simbolica privi di una corrispondenza fonetica, e che neppure dovevano richiamare entità reali o immaginarie, ma dotati, secondo gli autori, di una intrinseca potenza magica, e che si ritrovano spesso anche negli amuleti contemporanei, tra i quali uno dei più frequenti è la tripla S sbarrata; per completare il quadro si trovano spesso le sette vocali greche in ordine crescente (α; εε; ηηη; ιιιι; ooooo; υυυυυυ; ωωωωωωω) (10). Questa tipologia espressiva ed iconografica, oltre al fatto che si tratta per la maggior parte di “defixiones agonisticae”, accomuna le maledizioni setiane a quelle coeve dell’Africa settentrionale.

L’altro importante gruppo di iscrizioni venne alla luce nel 1999 durante gli scavi compiuti nei pressi dell’attuale piazza Euclide tra i ruderi dell’antico santuario consacrato ad Anna Perenna (11), una delle divinità più venerate nella Roma arcaica, e alle sue ninfe (“Nimphis sacratis Annae perennae”). In una cisterna accanto alla fontana del tempio apparvero numerosi oggetti di inestimabile valore storico, tra cui centinaia di monete, settanta lucerne, pigne, gusci d’uovo (12), un “càccabus” (una specie di pentola di rame) e una quarantina di defissioni, -quasi tutte in latino-, alcune su “tabellae”, altre scritte sopra recipienti di terracotta costituiti ciascuno da tre contenitori uno dentro l’altro ed ermeticamente chiusi. Nel più interno di questi contenitori si trova talvolta una figurina che rappresenta la vittima del maleficio.

Quale esempio di “defixio agonistica” possiamo citare una lamina risalente al III secolo ritrovata nel sotterraneo dell’anfiteatro di Cartagine ove viene preso di mira un gladiatore di nome Maurussus, figlio di Felicita (“quem peperit Felicitas”, che mise al mondo Felicita) (13): in essa vengono invocati i demoni Bachachuk, Iekri, Parpaxin, Nektukit, Bitubach, si augura alla vittima di perdere le forze, di non essere in grado di scampare agli assalti degli avversari e delle fiere, e di soccombere a tutti i morsi di queste ultime. Nel mezzo del testo sono aggiunte le “parole magiche” “MASKELLEI MASKELLO PHNOUKENTABAOTH OREOBARZAGRA REXTON IPPOKOTON RIPKTON [alcune lettere indistinguibili]… KERDEROSANDALE KATANEIKANDALE”. Si noti che mentre il testo nel suo complesso è in latino, i nomi dei demoni e i “barbarikà onòmata” sono in lettere greche.

La strana formula sopra riportata, -come molte altre che si incontrano nelle “defixiones”-, non è invero affatto peculiare di questo genere di operazioni occulte, ma compare in incantesimi di vario tipo: ad es. nei “Papyri Graeci Magicae” (un corpus di testi risalenti ad un periodo che va dal II sec. a. C. fino al V d. C.) la troviamo in un incantesimo per avere sogni di contenuto divinatorio (PGM, IV, 3172); in un incantesimo amatorio (PGM, XXXVI, 18), ecc. In genere queste espressioni derivano da appellativi ed epiteti di divinità,- talora invariati, ma più spesso variamente deformati e trasformati-, dei quali alcuni sono presenti già nel “Libro dei Morti” egiziano, ma di esse si era in gran parte obliterato il significato originario, ed erano impiegate come “parole di potenza”, efficaci in qualunque tipo di operazione magica, anche per il loro suono “barbaro”, che sembrava propiziare l’effetto che si voleva ottenere, tant’è vero che spesso ricorrono anche in amuleti volti a stornare da sé gli influssi malefici, le maledizioni e le defissioni.

Altre parole magiche che si incontrano con frequenza sono ACHRAMACHARI (con le varianti AKRAMACHAREI, AKRAMMACHAREI, ACHRAMMACHALALA, ecc.), -una delle più frequenti insieme ad ABLANATHANALBA e ai nomi di Dio di derivazione ebraica IAO, SABAOTH, ADONAI ed egizia ABRAXAS (o ABRASAX)-; ARARACHARARA, -palindroma, αραραχαραρα, (e abbiamo già ricordato che le parole palindrome sono ritenute dotate di intrinseche virtù occulte)-; SARBASMISARAB, -quest’ultima in genera affiancata da alcuni “characteres”, che a quanto parte le erano ritenuti strettamente legati e tali da amplificarne la forza-.

Trascrizione di “defixio” da Hadrumetum. Si osservino i caratteri magici nella prima riga (da “Defixionum Tabellae” di Auguste Audollent, 1904). I nomi citati sono dei cavalli ai quali si augurava di rimanere vittime di infortuni.

In una defissione erotica proveniente da Hadrumetum (l’odierna Sousse, in Tunisia), scritta in greco, una certa Septima, figlia di Amoena, chiede che Sestilio, figlio di Dionisia, diventi pazzo d’amore per lei, arda di passione, non riesca più a dormire, e altro; costei, dopo aver invocato varie divinità, delle quali alcune poco o per nulla note, sebbene di sicura origine egizia, -Pachnouphy, Pythipemi-, insieme ai nomi del dio ebraico -Abar, Eloe (<Elhoim), Sabaoth-, minaccia, se il suo desiderio non sarà stato esaudito, di scendere agli Inferi e fare a pezzi il sarcofago di Osiride.

Possiamo altresì osservare che queste parole nei primi secoli dell’era volgare tendono a divenire sempre più lunghe (sebbene già nel “Libro dei Morti” egiziano compaiano “nomina divina” ed epiteti di divinità alquanto sesquipedali -come ad es. “Aurauaaquersaanqrebathi”-), talora sfilze interminabili e impronunciabili di lettere (la più lunga che ho trovato finora consta di ben 59 lettere, ma non è escluso che ne esistano di più lunghe).

Dall’età ellenistica e poi sempre più nei secoli dell’Impero Romano, si fanno sempre più rare nelle “defixiones”, “katadesmoi” e “anathemata”, così come nelle operazioni magiche in genere, le invocazioni alle divinità del pantheon greco-romano, sia pure quelle infere, mentre compaiono più frequenti quelle a divinità e demoni di origine egizia e semitica, spesso poco note, o del tutto ignote da altre fonti, e di cui non di rado gli stessi “barbarikà onomata” sono epiteti o varianti del nome; divinità e demoni  ai quali probabilmente non veniva tributato un vero e proprio culto religioso, ma che venivano inseriti negli incantesimi per il valore pregnante ed evocativo che aveva il suono dei loro nomi. Questo deriva anche dal fatto che nella concezione propria delle correnti mistico-filosofiche, specie neoplatoniche (si pensi in particolare a Giamblico) sebbene gli dei ovviamente siano gli stessi per tutti, i nomi con i quali preferiscono essere invocati, quelli che meglio esprimono la loro autentica natura sono quelli egizi. Ma oltre a quelli egizi sono spesso presenti i “nomina divina” ebraici, che abbiamo visto più volte -Iao, Adonai, Sabaoth, ecc-, che hanno anzi una eccezionale diffusione, ben oltre l’ambito ebraico e orientale in genere; sono citati molte volte anche gli arcangeli, specie Michael, che appare il più invocato.

CONTINUA NELLA SETTIMA PARTE

Note

1)in effetti il significato originario e primario della parola “symbolon” da cui il lat. “symbolum” e l’italiano “simbolo” (da συν = insieme + la radice del verbo βαλλω, -εiν = gettare, e dunque “gettare insieme”) è quello di contromarca, segno di riconoscimento, cioè tavolette o altri manufatti che servivano al riconoscimento tra persone che avessero contratto un vincolo di reciproca ospitalità, -oggetti detti in latino “tesserae hospitales”-. Di solito erano costituiti dalle due metà di un medesimo oggetto. Un altro significato che il termine aveva nel greco antico era quello di “raccolta di denaro, colletta”, fatta da una cerchia di persone per un obiettivo comune (in particolare da un gruppo di amici per organizzare un simposio). Dal primo di questi di questi significati si è sviluppato quello di carattere filosofico-religioso che ha tuttora (poiché la “metà materiale”, l’immagine sensibile, richiama la “metà spirituale”, l’dea astratta).

2) è probabile che sulla scelta del metallo influissero motivi economici, poiché evidentemente il piombo era più alla portata della maggior parte delle persone che non metalli più preziosi e costosi. E’ possibile però che alla scelta non fosse estraneo un motivo astrologico, dal momento che il piombo è il metallo di Saturno, il pianeta della “grande sfortuna”, delle difficoltà e delle prove e dunque adatto ad un maleficio.

3) oltre che defissione o maledizione in genere, il termine “anathema” indicava pure, -ed anzi quello era il suo significato prevalente e originario-, la tavoletta posta in un santuario come espressione di riconoscenza per la grazia ricevuta da una divinità, in pratica un “ex-voto”. In ambito cristiano e in età medioevale passò a indicare anche la “scomunica maggiore”.

4) ad es. in una tavoletta rinvenuta a Nomentum in Lazio di un certo Malcio vengono defissi: occhi, mani, braccia, unghie, capelli, testa, piedi, femore, ventre, ombelico, petto, collo, bocca, denti, labbra, mento, ecc.: insomma l’ignoto defissore non aveva tralasciato nessuna parte!!

5) ed in effetti tali categorie di defunti erano considerati anche i più predisposti a trasformarsi in “lemures”, “larvae”, fantasmi e vampiri, secondo una credenza pressoché universale. Si veda al riguardo quanto abbiamo detto nella prima parte della trattazione su “LA FESTA DI HALLOWEEN E LA COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI”, del 12 ottobre 2014 (in particolare la nota n. 8); nonché gli articoli su “L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA”, specie la seconda e la terza parte (4 e 23 novembre 2016).

6) a titolo di esempio possiamo citare un “katadesmos” rinvenuto a Cnido in Caria, regione dell’Asia Minore, dove un signore invoca la punizione di Demetra e Core su una banda di teppisti che lo aveva malmenato.

7) la “Malòphoros”, -nome che significa che porta frutti-, era un’antica divinità ctonia venerata in Sicilia e identificata con Demetra, ma pure con Ecate, la tenebrosa dea degli Inferi.

8) la provincia della Gallia Aquitania, che si estendeva dai Pirenei alla Loira, prendeva il nome dalla popolazione degli Aquitani che non era però celtica, anzi era affine a quella dei Vàscones (antenati degli attuali Baschi) che abitavano a sud dei Pirenei. Tuttavia in questa provincia erano comprese molte altre popolazioni propriamente galliche, come quella dei Sàntoni.

9) le tre dee Caticatona, -che dovrebbe significare “Bianchissima”-, della quale è citata anche l’ancella Potidunna; Dibona, -“Splendente”-; e Imona, -“Abitante negli abissi”, che, in qualità di signora delle profondità terrestri, doveva essere colei alla quale il pozzo, dove le tavolette furono trovate, era dedicato.

10) le sette vocali dell’alfabeto greco, unite ad altri segni, incise su lastre e gemme o inscritte su papiri dovevano soprattutto conferire il potere di combattere i demoni e ingraziarsi gli dei, nonché per sconfiggere i nemici e allontanare le influenza nocive,  poiché esse compendiano tutte le potenze celesti. Tuttavia, come tutti i caratteri e i nomi delle divinità venivano impropriamente usati dagli stregoni per tentare di compiere opere malvage.

11) Anna Perenna è un’antichissima divinità italica, il cui nome è probabilmente in relazione, -come si deduce pure dal nome-, con il principio e la fine dell’anno: ella era infatti invocata, -a quanto riferisce Macrobio (“Saturnalia”, I, 12, 6)- “ut annare perennareque commode liceat” (“onde si possa felicemente iniziare e concludere l’anno”), poiché con “annare” si intende l’entrare nel nuovo anno, mentre “perennare” indica condurre a buon fine quello uscente. Secondo altre ipotesi il suo nome sarebbe invece da riconnettere a una radice indoeuropea che significa “cibo” e si ritrova nel termine “annona”, nonché nella divinità indù e tibetana Anna Purna (dalla quale derivò la denominazione di una celebre montagne della catena dell’Himalaya). La festa principale in suo onore si celebrava alle idi di marzo ed era contraddistinta dal carattere gioioso e talora lubrico proprio di tutte le feste della primavera e di inizio do un nuovo ciclo  annuale (poiché in origine marzo era il primo mese dell’anno romano), -del tipo del “carnevale”-, in cui si ricrea una sorta di chaos primordiale (con temporanea sospensione delle regole sociali e morali), a cui segue la ricostituzione dell’ordine cosmico e umano. A Roma la festa si celebrava in un boschetto alle pendici del Gianicolo sulle rive del Tevere, da cui derivò una falsa etimologia del nome Anna Perenna che equivarrebbe ad “amnis perennis” (fiume perenne); i fedeli al mattino del dì della festa si recavano nel boschetto e dopo avervi costruito delle tende e tabernacoli improvvisati intonavano lieti canti e intrecciavano danze; in questa circostanza veniva arso un fantoccio detto “Mamurius vetus” (il “vecchio Mamurio”), che rappresentava l’anno vecchio e tutti i mali che aveva comportato e veniva simbolicamente distrutto (rito che assomiglia a quello del “rogo della Befana”, poi ad esso subentrato). Una tradizione di sapore evemeristico vuole che fosse una buona vecchietta che soccorse i plebei che si erano ritirati sul monte Sacro nel 494 a. C., al tempo della contesa con i patrizi, sfamandoli con le focacce che impastava quotidianamente con le sue mani e alla quale poi per gratitudine fu dedicata una statua e furono decretati onori divini. Il poeta Ovidio nei “Fasti”, -il poema incompiuto in cui descrive e spiega i riti e le tradizioni romane- (III, 523-710), a causa dell’omonimia la identificò con la sorella di Didone, -personaggio di rilievo nel quarto libro dell’Eneide-, con la quale però probabilmente non ha nulla a che vedere poiché quest’ultima porta un nome semitico, -Hannah-, significante “beneficio”, “grazia”, che appare, da solo o unito ad altri termini, in diversi antroponimi delle popolazioni semitiche -come in alcuni personaggi biblici, quali l’Anna madre di Maria Vergine; in Annibale < “Hannah-Baal” = “grazia di Baal” (il sommo nume cananeo), ecc.-. Secondo il poeta di Sulmona, dopo la morte della sorella Anna fuggì in barca da Cartagine con alcuni fedeli e giunse a Malta, ove fu benevolmente accolta dal re Batto. Ma Pigmalione, il fratello malvagio che aveva assassinato il marito di Didone e aveva costretto le sorelle all’esilio, si diresse alla volta dell’isola per catturare la fuggitiva. Il re, ritenendo di non essere in grado di respingere l’invasore, le consigliò allora di ripartire e ripararsi in un altro luogo. Una tempesta spinse il suo naviglio sulle coste del Lazio, ove già Enea aveva sposato Lavinia ed ereditato il regno di re Latino. E proprio nell’eroe troiano si imbatte Anna; Enea le offre la sua protezione ed ella sembra accettare la sua proposta, ma nel fondo del cuore non dimentica la triste fine di sua sorella Didone e l’abbandono di Enea che ne fu la cagione, e si allontana come invasata dalla dimora di lui. La si cerca seguendone le tracce per le selve ed i campi, ma senza risultato. Allora dal placido fiume Numicio una voce misteriosa mormora di essere la ninfa di quelle acque, il cui nome è Anna Perenna. Ovidio aggiunge che altre voci sostenevano che Anna Perenna fosse da identificare con la Luna che percorre il circolo dei mesi (“annus”, come “anus”=”anello”); oppure con Temi, la dea della giustizia;  per altri ancora ella sarebbe Io, la figlia di Inaco, mutata in giovenca; o Amaltea la ninfa che fu la prima nutrice di Zeus. In età tarda nella cripta del suo tempio furono spesso  gettate “tabellae defixionis” o altri oggetti per finalità di azione magica, di di cui sono testimonianza i reperti descritti nel presente articolo.

12) si pensava che il guscio d’uovo (forse perché l’uovo è universalmente considerato simbolo di vita e di rinascita) esercitasse una potente azione apotropaica (in grado di combattere gli influssi malefici) e spesso sono stati trovati gusci d’uova sotterrati accanto ai muri o alle porte delle case i cui proprietari si ritenessero vittime di malefici. A Sardi, antica capitale della Lidia, regione dell’Asia Minore, che fu quasi interamente ricostruita dopo il devastante terremoto del 17 d. C., durante gli scavi archeologici effettuati nel 2013 ne furono rinvenuti parecchi; in particolare sotto il pavimento di una casa vennero alla luce due recipienti di terracotta che contenevano ciascuno, oltre ad oggetti di bronzo -come chiodi e spilloni-, un guscio d’uovo e una moneta.

13) “Maurussus” è probabilmente una forma confidenziale o dispregiativa di Maurus o Mauritius.

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