BREVE STORIA DELLA GALLINA E DEL GALLO DOMESTICI -settima parte-

In tema di leggende sui galli, un’altra credenza curiosa, ma ampiamente diffusa e accreditata fino a tempi relativamente recenti, è quella sulla pietra che si sarebbe trovata nel ventriglio, oppure nel fegato o ancora nel cervello, del nostro pennuto, la cosiddetta “pietra alettoria”, alla quale erano attribuite straordinarie virtù.

La prima testimonianza su tale pietra la troviamo nel solito Plinio il Vecchio, il quale nella “Naturalis Historia”(XXXVII, 144) così afferma: “Alectorias [lapides] vocant in ventriculis gallinaceorum inventas crystallina specie, magnitudine fabae, quibus Milonem Crotoniensem usum in  certaminibus invictum fuisse videri volunt” (“Chiamano “alettorie” le pietre rinvenute nel ventriglio dei gallinacei, dall’aspetto cristallino, aventi la grandezza di una fava: di esse si vuole si servisse Milone di Crotone per essere invincibile nelle gare”)(1).

“Il gallo e la pietra preziosa” -affresco di Jan Soens in una sala del palazzo del Vaticano (1560 circa)-.

Isidoro di Siviglia (Etymologiae, XVI. 13, 8) sull’alettoria, riprendendo il testo di Plinio, si limita a riferire che tale pietra era grossa come una fava e che, a detta dei maghi -ma il dotto prelato fa trasparire il suo scetticismo al riguardo ( “si credimus”)-, assicurava l’invincibilità: “Electria, quasi alectoria: in ventriculis enim gallinaceis invenitur, crystallina specie, magnitudine fabae. Hac in certaminibus invictos fieri magi volunt, si credimus”. Da notare tuttavia che l’autore, forse a causa della somiglianza dei nomi, identifica la pietra alettoria con l’elettro, ossia con l’ambra, -di solito chiamata però in latino “succinum”-.

Essa viene citata in tutti i principali lapidari medioevali -quali il “Liber Lapidum” del vescovo Marbodo di Rennes; il “De Lapidibus” di Ildegarda di Bingen; il “De Mineralibus” di Alberto Magno- e nelle opere enciclopediche sulla Natura, -come lo “Speculum Maius” di Vincenzo di Beauvais e l'”Imago Mundi” di Onorio di Autun-; secondo il trattato di Pietro Ippolito Lunense, -erudito vssuto nel XV secolo-, che riassume le qualità attribuite allo straordinario minerale dai più reputati autori antichi e medioevali, la pietra alettoria, detta anche “alestrio”, si trova nel ventriglio dei galli, è simile ad un cristallo oscuro e può giungere al massimo alla dimensione di una fava; secondo i maghi dona agli uomini che la indossino l’invincibilità in battaglia; aumenta il vigore fisico e stimola la facondia; attira inoltre l’amicizia di persona importanti e tenedola in bocca spegne la sete.

In età posteriore si ritenne che la pietra alettoria si potesse formare anche nel fegato dei galli: Georg Bauer (1494-1555), insigne medico e mineralogista tedesco, noto anche con il nome latinizzato di “Georgius Agricola” (poichè “bauer” in tedesco significa agricoltore), così afferma nella sua opera “De Natura Fossilium” (1550): “Le alettorie pur se di rado si generano anche nel ventriglio e nel fegato di Galli e Capponi. Ma di solito quelle che rinvengonsi nel fegato sono di maggiori dimensioni. Infatti non molto tempo addietro in un cappone ne fu trovata una lunga un’oncia, larga un dito e spessa un’oncia e mezza (2). La parte inferiore, che è più larga, presenta delle piccole cavità; nella parte superiore, più stretta, appare un rigonfiamento volto a destra; verso sinistra è più scura e sottile, mentre la sua rimanente parte è candida con macchie scure. Nello stomaco non di rado ne sono state rinvenute con l’aspetto e della grandezza di un lupino oppure di una fava, di colore biancastro tendente al cinereo, talora scure, ma in modo sfumato, con aspetto cristallino e venature rossastre. Il tipo di alettoria di consistenza cristallina qualora dopo essere stata levigata venga posta tra l’occhio e la palpebra inferiore e venga spostata da una parte all’altra arreca danni all’occhio, al medesimo modo che avviene per altre gemme lavorate, quali lo zaffiro e l’onice, purchè di modeste dimensioni”.

L’ Aldrovandi, che cita questo passo di Agricola nel libro XIV della sua “Ornithologia”, dedicato alle “Pulverizantes (o Pulveratrices) Aves”, aggiunge che Ercole Butrigario, studioso ed erudito da lui assai stimato, avrebbe trovato una pietra alettoria nello stomaco di un cappone di tre anni, di forma sferica, ma lievemente compressa ai lati, di colore scuro e consistenza cristallina, priva però delle minuscole cavità segnalate dal mineralogista tedesco, avente il peso di 28 carati (3). Il naturalista bolognese, riprendendo quanto leggesi nel “De metallicis” di Alberto Magno (II, 17), -mostrando invero di nutrire qualche dubbio in merito-, fa menzione di un’altra pietra descritta dal dotto vescovo e filosofo, da quest’ultimo chiamata “radais” o “donatide”, che troverebbesi nella testa del gallo e sarebbe nera e lucente; a tale riguardo Alberto Magno riferisce che allorchè una testa di gallo giaccia negletta a terra e diventi preda delle formiche dopo molto tempo (“post multa tempora”) produrrebbe tale pietra, la quale avrebbe l’eccezionale virtù di fare ottenere qualsivoglia cosa a chi la possieda. L’ Aldrovandi propende ad identificare la “radais” di Alberto Magno con la pietra alettoria, avendo sia l’una sia l’altra il medesimo potere e riporta a sostegno dei poteri della pietra un aforisma in versi latini di autore ignoto che, -tradotto un po’ liberamente (da me)-, suona più o meno così: “Rende essa pietra l’orator facondo,/ e il favellare suo giocondo./ Di Venere gli ardori bene aumenta/ e il vigore assai incrementa./ Alla sposa invero servirà/ che al marito attraente esser vorrà./ Ma onde tanti benefici ottèngansi/ racchiusa in bocca è mestier tèngasi”. (4). Sia l’Aldrovandi sia il Gessner, -il quale, come abbiamo detto nella nota 4 fu la fonte principale dell'”Ornithologia” dell’Aldrovandi-, segnalano che secondo Matteo Silvatico la pietra alettoria, sempre se tenuta in bocca, rende invincibili i re, i guerrieri e i gladiatori e ha pure la virtù di togliere la sete (5).

Tra gli altri naturalisti che menzionano la pietra alettoria è utile ricordare Andrea Bacci (1524-1600), il quale nella sua opera “Le XII pietre preziose le quali per ordine di Dio nella santa legge adornavano ivestimenti del sommo sacerdote. Ecc.”, così si esprime: “Alcune gemme dicono ritrovarsi negli animali di maravigliose proprietà. L’Alectorio, così detto in voce greca quasi pietra del gallo, dice Plinio ritrovarsi nel ventricello del gallo antico [=vecchio], grande quanto una fava e di specie cristallina. E che a portarla fa diventar l’uomo vittorioso contra i suoi inimici per la virtù che in essa domina il Sole. Dioscoride ne fa menzione nel secondo libro [del “De materia medica”], al capitolo 43. E senza altro nome dice essere una sottil membrana dura che si ritruova nell’ultimo ventricello del gallo trasparente a guisa del corno et che giovi pigliata in polvere a confortare lo stomaco”.

La pietra alettoria, con il nome di “pietra del gallo”, compare anche nella narrativa popolare, dove le qualità che le sono attribuite sono ancora più miracolose; la testimonianza più significativa che ne abbiamo, sebbene letterariamente rielaborata, è la fiaba intitolata appunto appunto “La pietra del gallo”, che costituisce il primo “passatempo” della quarta giornata del “Pentamerone”, o “Cunto de li Cunti” (Racconto dei Racconti) di Gian Battista Basile (1566 o 1575- 1632). In essa il protagonista, tale Mineco Aniello, ormai di età avanzata e sprovvisto di beni di fortuna, promette a due maghi di vendere loro un gallo, nel quale consisteva tutta la sua ricchezza. Mentre i futuri acquirenti si incamminavano verso la casa di lui, ove dovevasi concludere l’affare, il buon uomo li ode parlare tra di essi rallegrandosi per le immense fortune che avrebbero ottenuto per mezzo della pietra contenuta nella testa del volatile, la quale poteva esaudire qualunque desiderio Mineco allora corre a casa sua, tira il collo al povero gallo e, trovata la pietra prodigiosa, la fa incastonare in un anello d’ottone. Per mettere alla prova le virtù della gemma, egli chiede subito di tornare giovinetto di diciotto anni. Constatato che il suo primo desiderio era stato esaudito, il nostro domanda all’anello di possedere un palazzo meraviglioso e di poter sposare la figlia del re: anche questi desideri vengono esauditi: egli si ritrova in una dimora principesca, piena di opere d’arte e sfavillante di oro e di argento, per la qual cosa non ha difficoltà a farsi concedere dal re la mano della di lui figlia, Natalizia.

Qualche tempo dopo però i due maghi, che erano stati involontaria causa della sua fortuna, seppero di quanto era successo a Mineco Aniello ed escogitarono un piano per carpirgli l’anello magico. Con le loro arti costruirono una sorta di automa che aveva l’aspetto di una bambola e che sapeva sonare e ballare e, travestitisi da mercanti, si recarono dalla figlia di Mineco, a cui era nome Pentella; a costei promisero di cedere la bambola, che le era assai piaciuta, in cambio del permesso di poter fare una copia dell’anello del padre. La fanciulla accettò la proposta e, riuscita a farsi prestare l’anello dal genitore, lo consegnò poi ai maghi, i quali, non appena ne furono in possesso, fuggirono come il vento. Giunti in un bosco, i due comandarono all’anello che fossero annullati gli effetti di tutti i desideri espressi da Mineco: e così quest’ultimo di punto in bianco non soltanto si ritrovò povero, ma tornò pure vecchio, così che il re lo fece cacciare via malamente.

Saputo dalla figlia come fosse stata raggirata da quei lestofanti, decise di partire tosto alla loro ricerca e giunse così nel regno di Bucocupo, abitato dai topi, ove fu scambiato per una spia dei gatti e condotto indi al cospetto di re Rosicone, al quale racconta le sue disgrazie. Il re, commosso dalla sua storia, chiede allora ai suoi consiglieri più vecchi e saggi se per caso avessero notizie dei due maghi. Due di essi, esperti delle cose del mondo, dissero che trovandosi in un’osteria (l'”Osteria del Corno”) ebbero modo di udire due avventori che discorrevano tra loro di un raggiro da essi teso a un vecchio di Grotta Nera con cui erano riusciti a sottrargli un anello fatato.

Mineco ottiene di essere accompagnato dai due topi al paese dei due ladri (“Castel Rampino”), dove giungono alla loro dimora. Poichè l’anello era indossato da uno dei due maghi, il quale mai se lo toglieva dal dito, uno dei topi, Ròdolo, durante la notte, per fare onore al suo nome, andò a rosicchiare il dito con l’anello, così che il mago per il fastidio si tolse l’anello, che fu tosto afferrato dai topi e restituito a Mineco. Non appena rientrato in possesso dell’anello, l’uomo espresse il desiderio che i due ladri fossero trasformati in asini: egli ne cavalcò uno e caricò l’altro di provviste per i topi del regno di Bucocupo, che l’avevano aiutato nell’impresa. Dopo di che, si diresse a Grotta Nera, dove, tornato giovane, fu riaccolto dal re e dalla di lui figlia.

Un’altra fiaba popolare in cui compaiono le virtù magiche del nostro volatile è “Il gallo e il mago” che troviamo nella raccolta di “Fiabe mantovane” di Isaia Visentini (1843-1909). In questo caso però non si tratta di una pietra, poichè all’interno del corpo del gallo si cela un anello. Prima del trapasso un uomo raccomanda a i suoi tre figli un suo armadio, dicendo loro che se si fossero trovati in difficoltà finanziarie avrebbero dovuto aprirlo e servirsi di quanto conteneva. Dopo che ebbero esaurito l’eredità paterna, i figli seguirono il consiglio del genitore ed andarono ad aprire l’armadio; ma vi trovarono solo il corpo di un gallo morto. Tuttavia, nonostante la loro delusione, mandarono un servo al mercato per vendere il pennuto, che venne acquistato da un mago ad un prezzo giudicato eccessivo dal dipendente, il quale si insospettisce, e racconta ai suoi padroni che il mago aveva inviato a sua volta un valletto a far cuocere il gallo in un forno. Il fornaio avrebbe consegnato il gallo cotto a chi si fosse presentato a suo nome. Udito questo il minore dei tre fratelli si reca a ritirare il volatile affermando di essere stato mandato dal mago. Il gallo però dopo la cottura era diventato così duro che il ragazzo per romperlo deve usare una pietra; una volta aperto trova al suo interno un anello arrugginito. Pur se l’aspetto del gioiello era poco attraente, egli prova a lisciarlo e scopre così che l’anello parla, chiedendogli che cosa desideri. In possesso di un oggetto così portentoso, decise di andare alla ventura per il mondo e giunse in una città il cui re aveva promesso la propria figlia in sposa a colui che gli avesse donato un palazzo tutto d’oro. Per mezzo dell’anello il protagonista della storia potè senza sforzo alcuno adempiere alla condizione posta dal sovrano e sposare quindi la principessa.

Ma mentre il giovane si trovava a caccia insieme al re suo suocero, il mago, avendo saputo che si era impadronito dell’oggetto delle sue brame, giunse anch’egli in città e travestito da mercante andava in giro dicendo che comprava vecchi anelli. La principessa pertanto, ignara del valore dell’anello del marito, lo vende al mago, il quale immantinente fa trasportare il palazzo d’oro e la fanciulla su un’isola deserta. Il re non ritrovando più nè il palazzo, nè la figlia adirato con il genero, gli dice che se non gli riporterà sia l’uno che l’altra lo farà giustiziare. Questi allora parte alla ricerca dei suoi beni perduti ed incontra il Re dei Pesci, al quale chiede notizie in merito, ma nè lui nè alcuni dei suoi sudditi ha visto nulla. Più oltre incontra il Re degli Uccelli, al quale pone la medesima domanda; quest’ultimo raduna tutti gli uccelli e l’Aquila dice di aver sorto su un’isola lontana il palazzo d’oro entro il quale una fanciulla piangeva sconsolata. Il giovane scrive una lettera alla sua sposa in cui le spiega come dovrà narcotizzare il mago e, approfittando del suo torpore, sottrargli l’anello magico. Seguendo le istruzioni datele, la principessa per mezzo dell’anello si sbarazza del mago e fa tornare il palazzo nel regno di suo padre, dove si ricongiunge al suo sposo (6).

Rimanendo in tema di tradizioni popolari, un’altra leggenda affascinante che affonda le sue radici in una remota antichità è quella che vuole all’interno del sepolcro che custodiva le spoglie mortali di Porsenna, locumone etrusco di Chiusi, famoso nella storia romana per il lungo assedio da lui portato alla città di Roma per rimettere sul trono dell’urbe Tarquinio il Superbo che era stato cacciato a causa delle sue soperchierie, esservi stati una chioccia d’oro insieme a 5.000 pulcini parimenti aurei, oltre ad un cocchio ugualmente fatto del prezioso metallo, trainato da dodici cavalli, sul quale sarebbero state deposte le spoglie del re. In effetti Plinio il Vecchio nella “Naturalis Historia” (XXXVI, 19, 7-9), parla della tomba del re etrusco, al di sotto della quale egli riferisce vi fosse un labirinto di cunicoli più intricato di quello di Creta (7). Tale monumento era però del tutto scomparso al tempo dell’autore latino, il quale si rifà espressamente alla descrizione datane da Marco Varrone. Di tale misterioso monumento e del suo significato tratteremo tuttavia in un prossimo articolo.

Tuttavia nella descrione del mausoleo di Porsenna, e del sottostante labirinto, data degli autori latini citati non si fa cenno nè della chioccia con i pulcini, nè del cocchio; codesti suggestivi manufatti aurei compaiono solo nelle leggende medioevali, secondo le quali essi sarebbero stati collocati al centro del labirinto; ma in altre versioni il luogo in cui sarebbero celati la preziosa chioccia con i suoi rampolli sarebbero una necropoli etrusca nelle adiacenze di Prato, oppure in altre località toscane, quali Artimino e Malmantile. E altre narrazioni leggendarie diffuse in varie parti d’Italia collocano la sede di tale artistica scultura nelle ambientazioni più disparate, perdendo del tutto il legame che essa aveva con Porsenna; tanto che in realtà, come poi vedremo, è probabile che la leggenda, sorta presumibilmente in età longobarda e tramandata con molte varianti in diversi luoghi, abbia messo in relazione la chioccia con ruderi di edifici di cui non si conosceva più la reale funzione e la storia o ambienti naturali misteriosi venendo quindi adattata alle caratteristiche dei singoli territori. 

Alle pendici del monte Cònero, -ad esempio-, nei pressi di Ancona, non lontano dal paese di Camerano, noto per le misteriose grotte che si snodano sotto di esso, aprendosi in larghe sale, si può osservare una stretta cavità che sembra inoltrarsi nelle viscere della montagna e a cui è stato dato il nome poco rassicurante di “buco del diavolo”. Questa cavità sarebbe in effetti l’apertura di un cunicolo facente parte di un sistema idraulico scavato nella roccia e risalente ad epoca romana (o forse pre-romana). Ma la leggenda locale vuola che esso sia l’accesso ad un tortuoso labirinto che conduce ad una grande sala ipogea, una sorta di tempio, in mezzo alla quale si trova un’altare al cui interno sarebbe calata una chioccia d’oro circondata da dodici pulcini d’argento. Ma chi riuscisse a giungere in questo luogo tenebroso e tentasse di appropriarsi del tesoro, non riuscirebbe a uscirne vivo, a meno che non sappia indovinare il nome del demone che dimora in quei cunicoli ed è il custode del tesoro e a scriverlo con il proprio sangue sull’altare.

Il “Fonte Pliniano” di Manduria.

Un’altra leggenda interessante ci porta in Puglia, a Manduria, in provincia di Taranto, antica città di origine messapica, nelle cui vicinanze scaturisce una sorgente naturale chiamata “Fonte Pliniano”, poichè fu descritta dal grande naturalista latino nel secondo libro della “Naturalis Historia”, -quello in cui sono trattati i fenomeni astronomici e geologici- , in in passo ove si dice che lo specchio d’acqua da essa creato, pieno fino all’orlo, non diminuisce mai per quanta acqua se ne attinga, nè aumenta o trabocca qualora se ne aggiunga. Essa si trova in una grotta larga 18 metri per otto metri di altezza a cui si può accedere attraverso una larga scalinata a due rampe di venti gradini ricavati nella roccia in temi antichissimi; al centro della caverna è collocata una vasca cinta da un muro rotondo di grosse pietre squadrate, una sorta di pozzo, entro il quale sgorgano le acque della sorgente. A rendere il luogo più suggestivo contribuisce il grande lucernario che si apre alla sommità della volta della caverna, incorniciato da blocchi di pietra risalenti all’età messapica. Si ritiene che la grotta fosse un luogo di culto consacrato a qualche ignota divinità dei Messapi, la popolazione di probabile origine illirica che abitava la penisola salentina (8) che ebbe a lottare a lungo contro le colonie greche che si erano stabilite in quell’area e soprattutto contro Taranto. Si tramanda che i guerrieri messapici prima di combattere si recassero nella grotta per compiere un rito propizitorio bagnandosi nelle acque della fonte, dalle quali avrebbero ricevuto la bendizione degli dei. E proprio ad una delle guerre combattute tra Tarantini e Messapi si rifà la leggenda riguardante la chioccia, poichè questi ultimi avrebbero nascosto nella grotta sacra quale “ex-voto” una chioccia d’oro con dodici pulcini sottratta ai loro nemici dopo una battaglia vittoriosa. Secondo un’altra versione invece il prezioso manufatto sarebbe stato parte di un tesoro che una regina messapica avrebbe portato con sè quando si gettò nella fonte, non sopportando l’umiliazione di una sconfitta. Comunque sia, stando a quanto riporta lo studioso Giuseppe Gigli in “Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto” (Firenze, 1893), il tesoro può essere rinvenuto solo sacrificando sul pozzo un fanciullo di non più di cinque anni, ovvero, in una variante meno truce, che entri nella grotta una donna gravida tenendo in grembo una serpe: il rettile, sgusciando allora dalle braccia della donna mostrerebbe il punto in cui è celato il tesoro (9).

Un’altra chioccia tutta d’oro con pulcini aurei tempestati di pietre preziose (sette in alcune versioni della leggenda, in numero imprecisato in altre) si troverebbe, insieme ad altri innumerevoli oggetti preziosi, in una sala posta sotto la chiesa di S. Maria a Randazzo (CT), alle pendici dell’Etna. Per giungere nella sala del tesoro si deve percorrere una lunga galleria nella roccia vulcanica il cui ingresso si apre in una grotta tenebrosa sita presso le balze intorno alla celebre “Gola dell’Alcantara”, -un pittoresco “canyon” scavato dal fiume Alcantara-, sotto il monastero di S. Giorgio. Nel corso della galleria si susseguono sette porte o cancelli, di ferro, custodite da terribili demoni (o draghi), porte che sono di solito chiuse ermeticamente e si aprono soltanto una volta all’anno, durante la messa di natale, al momento dell’elevazione dell’ostia sull’altare. Le porte rimangono tuttavia aperte, consentendo quindi a un eventuale viandante di attraversarle, solo per i pochi istanti entro i quali l’ostia viene sollevata dal sacerdote, così che il temerario che volesse impadronirsi del tesoro dovrebbe penetrare nella sala, sottrarre gli oggetti preziosi ed uscire dalla galleria entro un brevissmo tempo, impresa pressochè impossibile. Si narra che una volta un uomo volle tentare la folle impresa e la notte di Natale, dopo aver superato le sette porte, riuscì a giungere nella sala, ma rimasto abbagliato dalle immense ricchezze che giacevano in esse, si attardò nel contemplarle, per cui quando le porte si chiusero egli rimase imprigionato per sempre nella grotta e trasformato in una statua.

In questa leggenda al simbolismo legato alla chioccia, che è senza dubbio un’immagine della maternità e quindi un simbolo della Grande Madre Celeste e Terrestre che protegge i suoi figli, -archetipo divino presnte pressochè in tutte le religioni e le culture-, e a quello espresso dal “tesoro”, metafora dell’essenza spirituale che siamo chiamati a scoprire in noi stessi, è stato associato il simbolismo astronomico, poichè, come sappiamo, il solstizio d’inverno (in corrispondenza del quale cade il Natale cristiano) è il momento in cui il Sole, giunto nel punto più meridionale del suo cammino, in cui le ore di tenebre prevalgono su quelle di luce, sembra invertire il suo corso e, mentre il punto dell’orizzonte in cui l’astro diurno risorge torna a risalire verso nord, la luce diurna aumenta gradualmente. Non a caso, come abbiamo già visto più volte, il solstizio d’inverno per il pregnate simbolismo del ritorno della luce è stato riguardato come il momento della nascita di molte divinità redentrici e solari; e come il solstizio è il tempo, la grotta -immagine dei penetrali dell’interiorità e ambiente iniziatico per eccellenza-, è il luogo ove le divinità redentrici, come Dioniso, Mitra e Gesù Cristo, scelgono di incarnarsi. I demoni e i draghi sono i “guardiani della soglia” che sbarrano il cammino a chi intraprenda il cammino della realizzazione spirituale e che solo chi è degno di giungere alla fine del percorso interiore può vincere; le sette porte e i draghi che le sorvegliano rimandano anche all’idea dell’al di là degli antichi Egizi, soprattutto quella espressa nel “Libro delle Porte” e nel “Libro delle Caverne”, per la quale l’anima che aveva superato la “psicostasia” e il giudizio di Osiride doveva percorrere un lungo e periglioso cammino nel mondo sotterraneo (nei quali però le porte e le caverne sono dodici e non stte, corrispondenti alle dodici ore notturne), simile a quello che percorre il Sole nelle ore notturne tra il tramonto e la nuova alba, affrontare serpenti ed altri esseri terrificanti e superare terribili prove.

Quanto al sette, esso è il numero magico per eccellenza, il numero che insieme al dodici, esprime la completezza e il cosmo, -somma del ternario e del quaternario, mentre il dodici ne è il prodotto-, e si ricollega ai sette cieli planetari che l’anima discende per incarnarsi sulla terra (“katabasis”) e poi risale per tornare al suo principio (“anabasis”) secondo la dottrina mitraica, cieli che si riflettono nei sette gradi dell’iniziazione mitraica (sulla religione mitraica si vedano gli articoli del 31 luglio, 26 settembre e 8 ottobre 2018), che riproducono e anticipano il cammino ascendente dell’anima; ma anche alla teoria delle sette intelligenze celesti attraverso le quali si irradia la potenza divina nell’aristotelismo platonizzante.

Assai simile alla tradizione popolare di Randazzo è quella che incontra ad Amendolara (CS), dove si crede che la vigilia di Natale, allo scoccare della mezzanotte, una grande roccia detta “pietra del Castello” si apra e mostri l’inestimabile tesoro contenuto al suo interno, che compende, oltre ad una chioccia con dodici pulcini d’oro, una tavola imbandita e diversi altri oggetti preziosi. Anche in questo caso però l’incantesimo dura pochi istanti, dopo di che la roccia torna a chiudersi imprigionando al suo interno chiunque avesse tentato di impossessarsi del tesoro.

CONTINUA NELL’OTTAVA PARTE

Note

1) tuttavia stando a quanto testimonia Claudio Eliano (Variae Historiae, XII, 22) fu sconfitto dal bovaro Titormo, che egli aveva sfidato (forse perchè durante quella gara non portava con sè la pietra alettoria). Titormo riuscì a scagliare un enorme masso alla distanza di otto orgìe (quasi 17 metri), -impresa che Milone non potè eguagliare-; e poi afferrò due tori uno con ciascuna mano, per cui il suo rivale dovette dichiararsi sconfitto esclamando: “O Zeus, ci hai mandato un altro Ercole!”.

2) “oncia” era chiamata anche una misura di lunghezza equivalente a un dodicesimo del piede; il dito equivaleva invece a un sedicesimo del piede.

3) il nome del carato deriva, attraverso l’arabo “qiràt”, dal greco “keràtion”, diminutivo di “keras” = “corno” (e dunque “cornetto”), con il quale si indicava la carruba, ossia il frutto allungato (siliqua) della “Ceratonia siliqua”, appartenente alla famiglia botanica delle Cesalpiniacee (o delle Papilionacee secondo altri). I semi delle carrube venivano usati come misura ponderale per oggetti alquanto piccoli, poichè si riteneva avessero un peso uniforme.

4) tali versi in lingua originale sono: “Hic oratorem facit disertum,/ constantem reddens, cunctisque per omnia gratum./ Hic circa Veneris facit inventiva vigentes;/ commodus uxori, quae vult fore grata marito./ Ut bona tot praestet, clausus portetur in ore”. si riscontrano anche nel terzo libro della “Historia Animalium” del celebre naturalista svizzero Conrad Gessner (1516-1565), -intitolato “De Gallo gallinaceo” e dedicata a questo uccello-. In effetti Ulisse Aldrovandi (1522-1605) nelle sue opere zoologiche attinse largamente dal Gessner, -il cui trattato fu pubblicato tra il 1551 e il 1558-, dal quale trae quasi immutate alcune parti.

5) secondo gli autori citati, affinchè le mirabolanti virtù della pietra alettoria possano esercitarsi sarebbe indispensabile tenerla in bocca e tale fatto ha suscitato la perplessità degli esegeti moderni, alcuni dei quali hanno ipotizzato un errore di trascrizione per cui un originario “orbe” [“in orbe”], -“in giro”, sia divenuto “ore” [“in ore”], -“in bocca”. In effetti sarebbe assai più comodo e agevole portare la pietra in giro tenendola addosso che chiusa in bocca; d’altra parte non si può negare che proprio la difficoltà pratica di utilizzare il talismano avendolo in bocca spiegherebbe il fatto che ben pochi siano stati in grado di sfruttarne appieno le qualità, che altrimenti, se bastasse tenerlo in mano o in tasca, sarebbe troppo facile acquisire.

6) nella trama di queste due fiabe compaiono elementi che, oltre che in altre storie della tradizione fiabistica italiana ed europea, si ritrovano nella celeberrima “Storia di Aladino e della lampada meravigliosa”, -sebbene quest’ultima (della quale abbiamo parlato nella trattazione sugli “Uccelli nel mito” -III, IV e V parte, rispettivamente del 18 e 27 giugno e del 9 luglio 2014) sia ben più complessa sia nella trama, sia nei significati e nei simbolismi mistico-allegorici-: in particolare il tema dell’oggetto magico del quale il protagonista viene in possesso riuscendo ad apporpriarsene in luogo di qualcuno (il mago per Aladino e i maghi per Mineco) che voleva, -e doveva-, servirsi di lui per acquisire l’oggetto stesso; il mezzo fraudolento con cui quest’ultimo si impadronisce dell’oggetto sottraendolo al protagonista approfittando dell’ingenuità di una sua congiunta (la sposa in Aladino e la figlia in “La pietra del gallo”). Assai più simile a quella di Aladino è la fiaba “La lanterna magica” contenuta nella raccolta “Fiabe bergamasche” dell’etnologo e linguista Antonio Tiraboschi (1838-1883), in cui l’oggetto fatato è una lanterna che il mago recupera nel medesimo modo del mago di Aladino, ossia scambiando lanterne nuove con lanterne vecchie.

7) Plinio infatti introduce la sua descrizione del mausoleo trattando dei labirinti conosciuti dagli antichi, dei quali ne elenca quattro: il labirinto di Creta, il più celebre, il labirinto egiziano (di cui abbiamo parlato nella terza parte di “L’Asino e il Bue nel presepe” del 4 gennaio 2016), quello nell’isola greca di Lemno (l’unico del quale al tempo dello scrittore rimanevano esigue vestigia) e infine quello di Chiusi.

8) la popolazione messapica è designata nei testi greci anche come Jàpigi, mentre nei testi latini ricorrono gli etnònimi di Càlabri e di Sallentini (da cui l’attuale nome di Salento dato all’estremità meridionale della Puglia). Non è chiaro se tali nomi siano sinonimi per indicare la medesima popolazione, o, come appare più probabile, indichino diverse tribù del medesimo popolo. Sul perchè il toponimo “Calabria” sia passato a indicare la regione anticamente nota come “Brutium” si veda la nota n. 8 alla quinta parte della “Storia minima dell’idea di Dio, ecc.” del 10 settembre 2017.

9) la credenza che per impossessarsi del tesoro occorra sacrificare un fanciullo innocente si ritrova anche in altre versioni della leggenda della chioccia e dei pulcini d’oro, ad esempio in quella narrata a Nola, in provincia di Napoli. In tale credenza si può vedere un significato simbolico, ossia che chi desidera la ricchezza come scopo della vita, deve per forza sacrificare l’innocenza, -propria e altrui-.

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