BREVE STORIA DELLA GALLINA E DEL GALLO DOMESTICI -sesta parte-

“E’ nato prima l’uovo o la gallina?”: questa domanda divenuta prototipo di questione insolubile, e in fondo oziosa, risale all’antichità: a quanto risulta, il primo a porsi il problema fu Aristotele, il quale introduce una distinzione tra il “prima”, ossia l’anteriorità, in senso cronologico (in base alla quale verrebbe prima l’uovo) e l’anteriorità in senso biologico (per la quale è invece la gallina, -o comunque l’animale adulto- ad avere la precedenza): egli afferma infatti (“De partibus Animalium”, II, 1, 646a) che il divenire, lo sviluppo dinamico, si contrappone all’essenza, -da un punto di vista logico, ovviamente-, per cui quello che è posteriore nell’ordine della generazione, -ossia in una sequenza temporale-, è anteriore secondo la natura, -e quindi l’essenza-, e quello che viene primo per natura è l’ultimo a manifestarsi. Solo l’animale adulto, che abbia completato il suo sviluppo e abbia conseguito in atto le potenzialità della sua specie, potrà essere la causa efficiente della generazione di un altro essere della sua specie; un essere ancora imperfetto come un infante non lo può, altrimente si dovrebbe concludere che qualcosa di imperfetto ha la possibilità di far nascere un essere perfetto, cioè completo, cosa impossibile, pure se, seguendo la sequenza temporale, abbiamo l’impressione che avvenga uno sviluppo dal meno al più, verso la perfezione, l’essere “finito” (s’intende che i termini “perfezione” e “perfetto” sono qui intesi nel senso etimologico di completezza, e di “completo, finito, ultimato”, non nel senso di esente da qualunque manchevolezza o difetto). Il ragionamento di Aristotele segue dunque il principio generale della sua metafisica, che si incentra sui concetti di “atto” e “potenza”, per cui l'”atto” precede la “potenza”, iniziando da quello che è l'”atto puro”, che anche la “causa prima”, il “motore immobile” e l”ente necessario”, ovvero Dio. L’uovo quindi non è altro che una gallina in potenza, e non può esistere che atraverso di essa (ovviamente il ragionamento vale per qualunque animale oviparo): è la gallina la causa efficiente dell’uovo e non il contrario.

Lo Stagirita in effetti intendeva confutare le teorie materialistiche e meccanicistiche per le quali il mondo e gli esseri che lo compongono hanno la loro origine in una causalità cieca, mentre per lui ciascun essere nasce in seguito ad una certa causa e in vista di un determinato fine; e confermare la sua tesi che tutti gli esseri dell’Universo rispecchiano e incarnano dei modelli eterni e immutabili, i quali di fatto coincidono con le idee platoniche, e che preesistono al mondo materiale ai singoli individui delle varie specie, la cui esistenza è aleatoria e accidentale, mentre le specie di cui sono la manifestazione sono eterne, identificandosi con i “modelli” predetti; pur se gli individui si sforzano nel loro sviluppo terreno di realizzare, o quanto meno di approssimarsi all’ideale perfezione della propria specie: i “modelli ideali” sono dunque tanto la causa efficiente quanto la causa finale dei concreti individui.  E nella “Historia Animalium” (o “Generazione degli Animali”),-II, 1, 731b-, Aristotele aggiunge: “Dal momento che tra tutti gli esseri alcuni sono eterni e divini mentre altri hanno un’esistenza limitata e tale che partecipa al bene quanto al male; come l’anima è migliore al corpo materiale e l’essere animato superiore all’inanimato, possedendo l’anima; come l’essere è preferibile al non-essere e il vivere al non vivere, la natura fa sì che l’essere vivente che viene al mondo solo in una certa misura sia eterno: ossia non lo può come individuo, ma lo può come specie: ecco perchè possiamo affermare che siano dotati di eterna esistenza il genere umano, quelli dei vari animali e delle diverse piante”.

La questione dell’anteriorità dell’uovo o della gallina torna poi nelle “Questioni Conviviali” di Plutarco di Cheronea (1); ma in effetti come risulta dalle argomentazioni addotte dagli eruditi commensali che, nel solco dell’antica tradizione del convito filosofico-letterario, discutevano durante la cena diverse questioni, il quesito non era sentito così ozioso come potrebbe sembrare e venivano tirate in ballo le teorie dei filosofi e dei naturalisti per dare ad esso un’accettabile soluzione. La discussione nasce in seguito alla decisione presa dall’autore di astenersi dalle uova, così come dalla carne, in ossequio ai precetti di Orfeo e di Pitagora, che suscita le ironiche critiche di alcuni dei presenti al banchetto. L’epicureo Alessandro cita un verso attribuito a Pitagora che paragona il nutrirsi di fave al cibarsi delle carni di un genitore, poichè attraverso la metafora del legume, si presume che il filosofo volesse intendere le uova, poichè consumare uova equivale a mangiare l’animale al quale esse sono destinate a dar vita (2). Plutarco anzichè cercare di sostenere la sua tesi, -ben sapendo che non avrebbe potuto essere compresa dal suo interlocutore-, coglie l’occasione per proporre la questione se sia venuto prima l’uovo o la gallina. Firmo, -un altro dei presenti- osserva che se i piccoli elementi, gli atomi, vanno a costituire i grandi corpi, e quindi li precedono, sembra del tutto ragionevole ammettere che l’uovo, la cui struttura è indubbiamente più semplice, abbia preceduto la gallina, così come in qualunque cambiamento di stato l’essere che diviene qualcos’altro deve essere di necessità anteriore a quello di cui viene ad assumere la forma. Firmo conclude la sua breve dissertazione citando Orfeo, per il quale l’uovo non solo precede la gallina, ma è di gran lunga l’essere più antico, dal quale ogni cosa ha tratto origine (3); senza contare il fatto che la maggior parte degli animali, sia terrestri, sia acquatici, sia volatili, nasce da uova, per cui ben si addice all’uovo il rappresentare l’Essere Supremo dal quale ogni cosa deriva e che le contiene tutte in sè stesso. Le osservazioni enunciate da Firmo esprimono quindi da un lato, nella prima parte, la tesi degli atomisti e degli epicurei, dall’altro, nella seconda, quella degli orfici e dei pitagorici.

Proprio da quest’ultima osservazione Senecione, un altro dei convitati (4), prende le mosse per confutare la tesi di Firmo: se l’Universo nel suo complesso ha preceduto tutti gli altri esseri, si deve di necessità dedurre che l’anteriore sia più perfetto di quanto segue, l’intero al mutilo e il tutto alla parte; ed è illogico pensare che una parte possa esistere prima dell’unità da cui deriva e in cui si trovava. Non si dice infatti “la gallina dell’uovo”, ma “l’uovo della gallina”, poichè l’uovo è un essere incompleto che trova il suo prefezionamento allorchè schiudendosi apre alla vita un essere completo. Per rafforzare la sua tesi, l’interlocutore ricorda come mai nessun uovo sia sorto dalla Terra, la quale invero talora fa nascere dal suo grembo come topi, serpenti, rane e cavallette (5). Secondo Senecione, come per molti degli antichi naturalisti e filosofi, i primi esseri animati, ed anche l’uomo, sarebbero nati direttamente dalla terra, con o senza un intervento divino, ed in seguito avrebbero iniziato a riprodursi per mezzo di uova o di piccoli già formati, e dunque risulta ovvio che sia nata prima la gallina. Il fatto che alcuni animali, anche di una certa complessità come le anguille o i topi, nascano già formati per generazione spontanea dal limo dei fiumi e delle paludi, dimostra, a suo giudizio, che l’uovo sia comunque un elemento venuto in secondo tempo, come uno stato intermedio, rispetto all’animale al quale dà vita, la cui specie però sarebbe comparsa per prima, al momento della creazione, o poco dopo, pur se in seguito, a differenza di quelle che hanno continuato a perpetuarsi per generazione spontanea dal grembo della terra, hanno cominciato a riprodursi per mezzo di uova. Infine Senecione conclude la sua dissertazione affermando che, come disse Platone, non è la Terra che imita la femmina, ma quest’ultima che imita la Terra. Con questo intervento viene dunque proposta la tesi contraria di origine platonico-aristotelica, che Plutarco sembra condividere.

Il quesito sull’uovo e la gallina torna a ripresentarsi in un’opera della tarda antichità, i “Saturnalia” di Macrobio, che anch’essa si inserisce nel genere delle dotte discussioni conviviali, e nelle intenzioni dell’autore si ispira espressamente al “Simposio” di Platone. La questione viene posta in tono faceto da Evàngelo, -uno dei convitati, al quale nell’opera di Macrobio è spesso demandato il compito di porre quesiti e sollevare dubbi e perplessità intorno ai quali si sviluppano poi le trattazioni sottili ed erudite degli altri commensali-(6), al quale Disario risponde che, nonostante la questione sia stata posta in tono vagamente canzonatorio, essa merita di essere affrontata (e pertanto è probabile che per Macrobio l’aver inserito tale argomento nella sua opera sia dovuto all’influenza di Plutarco, il quale è certamente una delle sue fonti). Tuttavia a differenza di quanto avviene nelle “Questioni Conviviali”, nei “Saturnali” ad esprimere i due diversi punti di vista sull’anteriorità rispettivamente dell’uovo e della gallina, non sono due diverse persone, ma una sola, il citato Disario, il quale dichiara di lasciare giudicare poi ad Evàngelo quale delle due opinioni sia più probabile ed attendibile.

Per sostenere che sia venuto prima l’uovo, Disario adduce l’argomento che un ente complesso, -come è la gallina, o un qualunque volatile-, debba seguire e svilupparsi da uno più semplice; e che gli elementi, le “rationes seminales” da cui prenderà forma la gallina siano tutte già presenti allo stato embrionale nell’uovo, così com’è per tutti gli animali che nascono da uova, ovvero la maggior parte di quelli che si generano dal connubio dei genitori [cioè non per divisione o per generazione spontanea] in particolare quelli che strisciano, volano e nuotano.

A difendere la tesi opposta, il convitato osserva come affermare che l’uovo esista prima della gallina sia un po’ come sostenere che il seme di un animale non oviparo (tra cui l’uomo) esiste prima dell’animale stesso che l’ha prodotto. A somiglianza di Senecione nel testo di Plutarco, Disario ricorda poi come molte creature nascano dal fango già formate, mentre mai si sono viste nascere uova dalla terra, a dimostrazione del fatto che la natura non produce nulla di manchevole e imperfetto, mentre gli esseri procreati da essa possono a loro volta riprodursi attaversando uno stadio intermedio, poichè se tutti gli esseri quanto alla specie sono stati creati perfetti, il modo con il quale si riproducono varia secondo le singole specie.

A questo punto Evangelo dovrebbe decidere quale delle due tesi sia da considerare più probabile, se non certa, ed ovviamente giustificare a sua volta la sua scelta con opportuni argomenti; ma quest’ultimo, al quale come si è dianzi detto nell’opera di Macrobio è affidato il compito di stimolare il dibattito tra gli astanti e l’approfondimento delle questioni da essi trattate con le sue domande e le sue obiezioni, si esime dall’esprimere la sua idea (poichè presumibilmente non sa quale partito scegliere) proponendo invece al suo interlocutore un altro quesito (7).

Le argomentazioni esposte da Disario a favore dell’una e dell’altra tesi sono dunque le medesime che si trovano nell’opera dello scrittore greco a conferma della probabile dipendenza di Macrobio da quest’ultimo, sebbene non si possa escludere che, pur essendo tramandato soltanto in questi due autori, il tema dell’uovo e della gallina fosse stato affrontato anche da altri in scritti di cui non è rimasta traccia, e fosse quindi una sorta di esercizio tra il retorico e il filosofico con cui, prendendo a pretesto la questione dell’uovo, si mettevano a confronto in modo sintetico due opposte concezioni della natura. Noi non entriamo nel merito della discussione e, come Disario, lasciamo scegliere ai lettori quale tra le due tesi ritengano più probabile (o nessuna delle due, e seguano una diversa teoria)(8).

Molti secoli più tardi il celebre naturalista Ulisse Aldrovandi (1522-1605), delle cui osservazioni e intuizioni abbiamo trattato negli articoli dedicati alla tassonomia del regno animale e vegetale (in specie quello del 20 marzo 2017), nella sua opera “Ornithologia” accenna di nuovo alla spinosa questione, dichiarando di attenersi a quanto trovasi scritto nella “Genesi” (forse anche per non attirare su di sè le sgradite attenzioni degli inquisitori, sempre pronti a reprimere qualunque manifestazione della ricerca scientifica e filosofica che potesse apparire solo minimamente in contrasto con il dogma cattolico), ove si afferma che tutti gli animali furono creati da Dio già completi e perfetti, -e quindi pure la gallina, come tutti i volatili-, e soltanto dopo cominciarono a riprodursi secondo la loro specie. Tuttavia lo scienziato bolognese ricorda ai suoi lettori che volessero approfondire la questione quanto sull’argomento scrissero Plutarco e Macrobio.

E giacchè siamo in tema di uova, giova ricordare la leggenda che attribuisce la nascita del Basilisco, -favoloso rettile che poteva dare la morte con lo sgurado, oltre che con il fiato velenoso-, ad un uovo deposto da un gallo di sette anni che sia stato covato da un rospo per nove anni (nella versione più comune della leggenda; ad altre versioni accenneremo nel corso della nostra trattazione). In effetti che il misterioso serpentello (il cui nome significa “reuccio”, perchè dotato di una sorta di corona sul capo che mostrava il suo “status” di “re dei serpenti”) nasca in questo modo è attestato soltanto a partire dal medioevo, mentre i numerosi autori antichi che lo descrivono non accennano ad una sua nascita prodigiosa.

Il Basilisco è citato dal poeta Lucano (39-65) nel nono libro del poema “Pharsalia” -noto anche come “De Bello Civili”-, che tratta della guerra civile tra Cesare e Pompeo, nell’ambito di una descrizione delle numerose specie di rettili velenosi che infestano la Libia, ove erano sbarcate le truppe dei pompeiani, guidate da Catone e Bruto, dopo la sconfitta a Farsalo del loro capo, il quale aveva poi trovato la morte in Egitto (Pharsalia, IX, 619-733). La presenza di così tanti serpenti in quella regione, sulla scorta degli antichi mitografi, come già nelle “Metamorfosi” di Ovidio, è attribuita dal poeta latino al sangue di Medusa, che, gocciolando dalla testa mozzata del mostro mentre Perseo, reduce dalla sua leggendaria impesa, sorvolava il deserto della Libia, ne aveva generato un gran numero, poichè da ogni goccia che si mescolava alla sabbia nasceva un rettile.

Plinio il Vecchio così descrive lo straordinario animale nella sua “Naturalis Historia” (VIII, 77-79): “Presso gli Etiopi occidentali [ossia le popolazioni melanoderme abitanti nele regioni dell’Africa a sud della Numidia e della Mauretania] si trova la fonte Nigride, che i più reputano essere la sorgente del Nilo (9)[…]. In quei luoghi vive un animale selvatico, chiamato Catoblepa, nell’insieme di modeste dimensioni e innocuo, ma dotato di una testa pesantissima, tanto che è costretto a tenerla sempre reclinata verso terra [da tale caratteristica deriva il nome, che in greco significa “che guarda in basso” -da “katà” = in basso e “blepo, blepein” = guardare]; se non tenesse sempre il capo rivolto verso il basso sarebbe esiziale per l’umano genere, poichè tutti coloro che l’hanno fissata negli occhi sono periti immantinente.

Della medesima qualità è dotato il serpente Basilisco, il quale vive nella provincia Cirenaica. Codesto animale non è più lungo di dodici dita [poco più di 22 cm](10) ed è contraddistinto da una candida macchia sul capo, che risalta quale un diadema. Con il suo sibilo mette in fuga tutti gli altri serpenti; non muove il suo corpo come questi ultimi, strisciando con una serie di volute, ma avanza stando alto e diritto sulla metà del corpo [in modo simile al cobra]. Ha il potere di seccare gli arbusti non solo toccandoli, ma anche con il suo stesso alito, con il quale brucia le erbe e spezza e le pietre: tale è la forza malefica posseduta da questo pericoloso animale! Si dice che una volta un uomo a cavallo uccise un basilisco con un giavellotto, ma il veleno dell’animale, assorbito dall’arma, si propagò sia al cavaliere sia la cavallo, provocando la morte di entrambi.

A questo strano essere tuttavia […] risulta essere esiziale il sentore delle donnole: in tal modo la natura volle che nessuna influenza malefica fosse priva di antidoto. [I cacciatori cirenei] introduco le donnole nelle tane dei basilischi, che esse riconoscono con facilità dalla bava che si osserva sul suolo all’intorno. Anche le donnole però, pur uccidendo i serpenti con l’odore, a loro volta muoiono a causa del fiato pestifero di essi, e così termina in parità la sfida tra qeste insolite creature della natura [e dunque, si potrebbe aggiungere, a causa dell’intervento dell’uomo ci rimettono sia gli uni sia le altre]”.

Alla descrizione riportata nella “Naturalis Historia”, Claudio Eliano (170-235 circa) scrittore latino, ma che scrisse le sue opere in greco, autore di una rinomata opera “Sulla Natura degli Animali” in 17 libri, aggiunge la seguente notizia (De Natura Animalium”, III, 31): “Il gallo incute terrore al leone, e si dice sia temuto anche dal basilisco, che trema come una foglia al suo cospetto e, qualora lo oda cantare, viene preso da violente convulsioni, in seguito alle quale muore. Per tale ragione coloro che debbano attraversare le regioni dell’Africa ove vive codesto rettile, portano con sè un gallo come compagno di viaggio, affinchè in caso di necessità li liberi da cotanta disgrazia”. Quella di Eliano, il quale afferma che il basilisco sia terrorizzato dal gallo e schianti udendo il suo canto, è la prima attestazione che leghi in qualche modo questo animale fantastico (pur se nella descrizione di Plinio ancora abbastanza realistico) al gallo, pur se non si accenna ad una presunta origine dell’uno dall’altro. D’altro canto non è difficile vedere in questo antagonismo un significato simbolico: il gallo, come abbiamo visto, è un animale strettamente collegato al Sole, alla luce, sia in senso fisico, sia spirtuale, ed è pertanto logico che la sua stessa presenza e il suo canto combattano ed annientino le forze delle tenebre incarnate dal serpentello malefico.

Un’altra opera in cui si parla del Basilisco è “Collectanea Rerum Memorabilium”, -raccolta di notizie storiche, geografiche e naturalistiche-, di Caio Giulio Solino, autore latino vissuto nel III secolo, di cui ben poco si conosce. Solino riprende in sostanza la descrizione di Plinio, ma aggiunge che gli animali uccisi dal suo morso e le piante avvizzite per il suo alito venivano rifiutate da qualsivoglia quadrupede o volatile; e che la sua potenza malefica non viene meno neppure dopo la morte, asserendo che i Pergameni [gli abitanti della città di Pergamo, nell’Asia Minore] avevano acquistato a caro prezzo le spoglie di un basilisco per appenderlo in tempio, opera di Apelle (11), onde allontanarne i ragni e gli uccelli (12).

Isidoro di Siviglia,nel capitolo dedicato ai Serpenti della sua opera enciclopedia, “Etymologiae”, torna a ripetere in sintesi quanto aveva detto Plinio (Etym., XII, IV, 6-9); nella sua breve descrizione troviamo peraltro altre due notizie, che egli di certo dovette trarre da qualche altra fonte ora smarrita, ossia che qualunque volatile venga colpito dallo sguardo mortifero del rettile, pur se si trovi a notevole distanza, precipita a terra immantinente, quasi fulminato, venendo poi divorato dal basilisco; e che i basilischi, come gli scorpioni, dimorano abitualmente in luoghi aridi (cosa peraltro ovvia, essendo animali tipici del deserto libico) e qualora si appropinquino all’acqua (non è chiaro se bagnandosi o semplicemente avvincnandosi ad un fiume o ad un lago) divengono furiosi e impazziscono (13). Rabano Mauro (780-856) nel suo “De rerum naturis” riprende quasi letteralmente la descrizione di Isidoro e sulla scorta di quanto si dice nel salmo 90 (v. 13), -“Super aspidem et basiliscum ambulabis,/ et conculcabis leonem et draconem”-, fa del rettile un’immagine e una metafora del diavolo che uccide gli incauti con il veleno della sua nequizia, ma viene vinto e sottomesso dalle armi del Cristo. E riferendosi a tale passo già S. Ambrogio aveva chiosato (“Enarratio in psalmos”, II, 9): “Rex est serpentium Basiliscus, sicut Diabolus rex est daemonium”.

Fino a tutto l’alto medioevo il Basilisco, pur essendogli attribuite alcune caratteristiche “fantasiose”, nelle descrizioni datene dagli autori e naturalisti che lo citano nelle loro opere appare nel complesso come una creatura priva di macroscopiche abnormità, probabilmente da indentificare con un serpente reale (e il candidato più accreditato ad essere identificato nel basilisco è l’Echis pyramidum); ma a partire dal X secolo il nostro rettile comincia ad essere descritto ed evocato nei numerosi bestiari apparsi tra l’XI e il XIII secolo come un “monstrum”, un essere eccezionale tanto per nascita, quanto per aspetto e qualità.

Sembra che il primo documento nel quale si sostiene che il basilisco uscirebbe da un uovo deposto da un gallo di sette anni, e in seguito covato da un rospo sia la “Physica” di Ildegarda di Bingen nel capitolo dedicato ai rettili (VIII, 12); in conformità a tale nascita, il basilisco viene ora immaginato non più come un serpente nell’insieme normale, a parte l’eccezionale pericolosità, ma come una serpe alata con la testa di gallo, o addirittura con il corpo di gallo, un lungo e affilato rostro da rapace e la coda di serpente. E’ probabile che tale stravagante affermazione trovi il suo discutibile fondamento in un passo biblico, e precisamente in Isaia, 59, 5: “Ova aspidum ruperunt,/ et telas araneae texuerunt./ Qui comederint de ovis eorum, morietur;/ et quod confotum est, erumpet in regulum” (“Schiuderanno le uova degli aspidi,/ e tesseranno le tele del ragno./ Chi si sarà cibato delle loro uova, morirà;/ e l’uovo che è stato covato, farà uscire un “reuccio” -un basilisco-“) e viene poi ripetuta con alcune varianti da autori successivi quali il domenicano fiammingo Tommaso di Cantimpré (1201-1272), che tratta del basilisco nell’VIII libro (dedicato ai serpenti) del suo “De Natura Rerum”, e il bestiario di Pierre di Beauvais (14), risalente anch’esso al XIII secolo. Secondo quest’ultimo il primo basilisco (e dunque si potrebbe pensare che in seguito gli altri siano nati con modalità più normali) sarebbe nato da un uovo deforme di gallina (e dunque su questo il testo è più “realistico”) covato da un rospo per nove anni: per tale ragione l’aspetto dello strano animale rimembra entrambi i suoi genitori (considerando tale anche il rospo), poichè avrebbe testa di gallo, corpo di rospo e coda di serpente. Alessandro Neckam trattando del gallo (De Naturis Rerum, I, 75, “De gallo gallinaceo”) asserisce che quando il volatile giunge alla vecchiaia, talvolta depone un uovo, che poi un rospo si incarica di covare e dal quale esce infine un basilisco; il dotto religioso interpreta l’evento come un ammonimento per l’uomo nel senso che chi coltiva l’avarizia nella vecchiaia cove in sè una disonesta preoccupazione e si procura da sè stesso molti dispiaceri.

Tuttavia alla base di codesta credenza vi può essere anche un fatto reale: com’è noto i gallinacei, tanto selvatici quanto domestici, vivono in gruppi più o meno numerosi i cui membri sono ordinati in modo gerarchico: alla sommità sta il maschio dominante, il gallo adulto, e poi le galline e talvolta i maschi giovani, dei quali ciascuno occupa un posto preciso. Qualora per qualsivoglia motivo venga a mancare il gallo dominante, ne prende le veci la gallina di più alto grado, che assume comportamenti e in parte aspetto maschili, pur mantendo la capacità di deporre le uova (ovvimente infeconde). Oltre a tale eventualità, si possono verificare, per quanto assai di rado, casi di “ginandromorfismo”, ossia di pseudoermafroditismo, per cui una femmina di Gallus gallus può manifestare, temporaneamente o stabilmente, caratteri di tipo maschile. Pertanto non è da escludere che esemplari femminili, -e che quindi potevano deporre uova-, scambiati per maschi abbiano contribuito ad accreditare questa leggenda. Inoltre la nascita da un gallo, ossia da un evento che andava contro l’ordine della natura voluto da Dio, evidenziava la carica malefica e sovvertitrice di un animale visto quale espressione del caos tenebroso. Quanto al rospo, era considerato uno degli animali legati alle streghe ed era dunque abbastanza logico farlo intervenire nella nascita di un essere demoniaco.

La fontanella del Basilisco a Basilea, inaugurata nel 1884. Il basilisco è uno degli emblemi araldici della città svizzera, dove tuttavia nel 1474 un gallo di undici anni fu condannato a morte perchè accusato di aver deposto un uovo; pertanto il povero animale fu decapitato e indi arso insieme al suo presunto uovo.

Ma non tutti gli autori dei secoli del basso medio evo mostrano di dare credito a codesta genealogia del Basilisco: ad esempio Bartholomaeus Anglicus (secolo XIII), autore anch’egli di un’opera enciclopedica sul mondo naturale, “De proprietate rerum”, in 19 libri, trattando del “re dei serpenti” nel XVIII libro, quello dedicato agli animali, mostra di rifarsi essenzialmente a Plinio e a Isidoro di Siviglia, senza accennare alla presunta discendenza del rettile da un gallo e da un rospo, ma ricordando peraltro il legame simbolico del basilisco con l’opera ermetica; mentre Alberto Magno, il quale, distinguendosi dalla maggior parte dei naturalisti e degli eruditi dei secolo medioevali e dimostrando di possedere spirito e ingegno di autentico scienziato (pur rimanendo legato all’ambiente culturale del suo tempo e fedele al dogma cattolico), pur credendo che il basilisco possa uccidere con lo sguardo, nega , o quanto meno dubita fortemente di questa credenza, che trova del tutto inverosimile e ingiustificata alla luce dei principi che Dio ha posto a fondamento dei fenomeni della natura. Infatti affermare che un gallo possa deporre un uovo, -come tre secoli dopo osserverà acutamente l’Aldrovandi nella sua “Ornithologia”-, sarebbe come pensare che un uomo, o un altro mammifero maschio, possa partorire; pur se la conformazione anatomica esterna pressochè identica tra maschi e femmine che, a differenza che nei Mammiferi, si riscontra negli Uccelli, possa rendere in apparenza “plausibile” tale evenienza.

Questo mutamento si inserisce invero in un processo generale per cui molti animali, specialmente quelle poco note e dimoranti in luoghi esotici, vengono concepiti e descritti nei “bestiari” con caratteristiche sempre più mirabolanti e fantasiose, di modo che dalle trattazioni rigorosamente scientifiche, almeno per i tempi in cui vissero, di Aristotele e di Teofrasto, attraverso le opere di Plinio, di Plutarco, di Eliano, di Solino, le cui descrizioni, pur se arricchite di particolari fantastici, sono ancora in sostanza attendibili, si giunge a testi che ormai di attendibile sul piano naturalistico hanno ben poco e che oltre a descrivere creature del tutto immaginarie, pur se di solito con un lontano fondamento in uno o più animali esistenti, anche a quelle reali attribuiscono qualità leggendarie. Tale modo di vedere la natura, agli antipodi di quello degli antichi filosofi e scienziati del mondo ellenico, che precorrevano il metodo scientifico, fondato sull’osservazione diretta, -che già aveva cominciato a incrinarsi nella trada antichità e che tornerà nel mondo occidentale solo nell’età moderna-, presuppone l’idea che il mondo della natura sia una sorta di “specchio” di una realtà superiore, che le conferisce il suo vero significato, e tutti gli esseri, a loro modo, comunichino all’uomo un insegnamento morale e/o anagogico, in pratica che abbiano il valore di simboli sia di virtù e di vizi, sia di realtà spirituali e metafisiche (15). Pertanto anche l’osservazione e l’esperienza diretta erano considerate un elemento secondario, se non del tutto superfluo, della “scienza”; e in questo senso si distinse tra gli altri il già citato Alberto Magno, le cui opere naturalistiche sono il frutto, almeno in parte, di studi e osservazioni personali, e pur considerando Aristotele la sua guida ne prese ad esempio soprattutto lo spirito di ricerca e la lucidità intellettuale.

Il basilisco, come abbiamo accennato sopra, divenne anche uno degli animali smbolici più importanti dell’alchimia, poichè rappresenta la materia allo stato grezzo che poi attraverso l’opera, anzi la serie di opere, dell’alchimista dovrà trasmutarsi nell'”oro”, nella sublimazione dell’elemento spirituale in essa presente; ovvero la “putrefazione”, l'”opera al nero”, la prima fase di questo lungo percorso (che più di frequente è rappresentata dal nero corvo). Ma sovrapponendosi all’immagine del drago, incarna anche il custode dei tesori custoditi nelle viscere della terra, -e in una interpretazione mistico-esoterica-psicologica del vero “Sè” sepolto nelle tenebre dell’inconscio, il “guardiano della soglia”-, che non consente di penetrare nei recessi più profondi della terra e dell’animo ad alcuno che non ne sia degno e preparato.

In alcune ricette alchemiche tramandate sotto il nome di Ermete Trismègisto, il leggendario fondatore della scienza alchemica, -oltre che il rivelatore di una dottrina salvifica contenuta nel “Corpus Hermeticum”-, le ceneri di basilisco sono un ingrediente indispensabile per trasformare l’argento in oro, mentre in un’altra ricetta riportata nella “Diversarum artium schedula” del monaco benedettino Teofilo (al secolo Ruggero di Helmarshausen), scritta intorno al 1125, per produrre l’oro si dovrebbero utilizzare rame rosso, ceneri di basilisco, sangue di un uomo dai capelli rossi e aceto (è probabile che l’oro ottenuto in questo modo fosse solo un tipo di rame dall’aspetto lucente, non certo oro autentico).

Ricordiamo infine che in una novella di Andersen, intitolata “Il gallo del tetto e il gallo del pollaio” (“Gaardhanen og velrhanen”, tradotto anche con “Il galletto massaro e il galletto banderuola”), -e dunque di un epoca in cui ormai la credenza nel basilisco era tramontata del tutto-, il gallo del cortile afferma con presunzione che da un uovo di gallo, che ovviamente lui si ritiene in grado di deporre, nascerà un basilisco, assai temuto dagli uomini perchè il suo sguardo è letale.

Il nome “Basiliscus” fu attribuito da Linneo ad un genere di Rettili, appartenente all’ordine degli Squamati (sottordine Sauri) e alla famiglia degli Iguanidi, che vive nell’America centro-meridionale, che può raggiungere i 25 cm di lunghezza. Sebbene il rettile in questione non sia un serpente e sia del tutto inoffensivo, il nome gli fu attribuito in ragione della cresta, più o meno pronunciata a seconda delle specie, che porta sul capo nel qualesi è ravvisata una somiglianza, peraltro del tutto superficiale ed esteriore, con l’animale mitologico; l’uniche particolarità di tale lucertola è la capacità di correre velocemente sull’acqua e di potersi talvolta riprodurre per partenogenesi. Il genere Basiliscus comprende quattro specie: B. basiliscus; B. galeritus; B. plumifrons; e B. vittatus.

CONTINUA NELLA SETTIMA PARTE

Note

1) le discussioni, riguardanti svariati argomenti, che sono il tema dell’opera, non furono trattate tutte durante un solo convito, ma in diverse occasioni conviviali, che si svolsero, almeno nella cornice fittizia in cui sono immaginate, durante i primi tre giorni della festa dei Saturnali, -una delle più importanti di Roma antica-, dal 17 al 19 dicembre, nelle dimore di tre insigni esponenti dell’ambiente culturale di Roma nella seconda metà del IV secolo: di Vettio Agorio Pretestato la prima giornata; di Virio Nicomaco Flaviano la seconda; e di Quinto Aurelio Simmaco la terza.

2) in effetti una paraetimologia accostava il vocabolo greco che designa le fave (“κυαμoς”) con quello che indica la gravidanza (“κυησις”).

3) si tratta del ben noto mito dell'”Uovo cosmico”, che si ritrova in un gran numero di cosmogonie, da quella pelasgica, ove esso è deposto da una colomba in cui si era trasformata Eurinome, l’entità femminile primordiale, e che era stato covato dal serpente Ofione avvoltosi intorno ad esso con sette spire; a quella orfica, in cui è la Notte a deporlo nel grembo delle tenebre, e da cui nasce poi Fanete, mentre le due metà del guscio danno luogo quella superiore al Cielo e quella inferiore alla Terra (in altre versioni l’uovo deriva dall’Etere e dal Chaos, mentre la Notte nasce anch’ella insieme a Fanete e insieme a lui procrea diversi alri enti); a quella indù (nei Veda e negli Upanisad) dove l’Uovo d’oro (“Hiranyagarbha”) fluttua sulle acque primordiali fino a che l’ente ingenerato Prajapati non lo rompe creando con esso il Cielo, la Terra e il firmamento; e diverse altre.

4) Quinto Sosio Senecione, uomo politico e generale romano amico di Plutarco al quale le “Quaestiones” sono dedicate.

5) si tratta del ben noto principio della “generazione spontanea” che ebbe credito fino al XVII secolo quando gli esperimenti di Francesco Redi (1626-1697) dimostrarono come anche gli animali inferiori, -e a maggior ragione i Vertebrati- nascano da uova e non direttamente dal limo o da sostanze organiche in decomposizione.

6) il nome “Evàngelo”, che significa “buon messaggero” (ossia “annunciatore di buone novelle”) è forse attribuito a questo personaggio in senso antifrastico, poichè egli si dimostra spesso alquanto arrogante e presuntuoso. Non si sa se codesta figura sia ispirata a una persona reale o meno; egli appare comunque come la voce di coloro che criticano la cultura e la letteratura latina, ritendola inferiore a quella ellenica (e dunque, pure a prescindere dal nome greco, che di per sè non significa nulla, è probabile che incarni quella parte preponderante dell’intellettualità ellenica che guardava con sufficienza ai Latini, almeno sul piano culturale, ritenendoli nettamente inferiori ad essi, e tutt’al più degli abili imitatori). In particolare Evàngelo si segnala per le continue critiche a Virgilio, confutate con vigore dagli altri convitati e specialmente dai padroni di casa, per i quali al contrario il vate mantovano era la massima espressione della civiltà e del genio latino, e anche gli apparenti errori e inesattezze nelle sue opere indicati dal critico avevano una precisa ragione, e non erano dovuti a superficialità o ignoranza.

7) Evàngelo chiede perchè la carne dei cinghiali imputridisca assai più velocemente se siano stati cacciati di notte che di giorno; al che Disario risponde che il calore del Sole durante le ore diurne, diminuendo l’umidità delle carni, rallenta il processo di putrefazione; Eustazio, -un altro dei commensali-, aggiunge che la luce fredda della Luna, -astro umido per eccellenza-, infonde invece i suoi umori alle carni accelerandone la decomposizione. Da qui prende inizio una nuova discussione sulle fasi della Luna e la loro influenza sulle attività agricole, ma di essa non è rimasto nulla a causa di una lacuna nella parte finale dell’opera, che dunque, nella forma in cui ci è giunta, si conclude in modo brusco.

8) in base ai principi della genetica moderna, che presuppone l’evoluzione delle specie, è pressochè impossibile stabilire il momento in cui da un uovo deposto da un animale, nasca un animale che, pur essendo simile ai genitori, se ne differenzia tanto quanto basta per poter affermare che sia apparsa un’altra specie. Infatti il processo di “speciazione” avviene in tempi lunghissimi e con una estrema gradualità così che non si può definire un momento preciso in cui una specie si trasforma in un’altra.

9) della fonte Nigride come possibile origine del Nilo Plinio parla anche in Nat. Historia, I, 5, 8, così come pure Claudio Tolomeo (Geografia, I, 4, 5), ma entrambi in forma dubitativa; com’è noto, in realtà il Nilo ha due importanti rami sorgentiferi, il Nilo Bianco, emissario del lago Vittoria, e il Nilo Azzurro, emissario del lago Tana, e le origini del grande fiume africano furono conosciute con certezza solo dopo le esplorazioni dell’800 di David Livingstone (1813-1873) e di Henry M. Stanley (1841-1904). Già nel I secolo tuttavia i Romani avevano condotto alcune esplorazioni per scoprire la sorgente dell’imponente fiume, tra le quali ricordiamo in particolare quella compiuta nel 62 al tempo di Nerone che sarebbe giunta fino al lago Alberto. Da ricordare anche l’esplorazione compiuta agli inizi del II secolo dal mercante greco Diogene, il quale giunse fino alla catena dei monti Ruwenzori, da lui chiamati “Monti della Luna” ed identificati quali sede della sorgente del Nilo.

10) il dito corrispondeva a 1/24 di cubito. Il cubito romano, al quale Plinio quasi certamente si rifà, equivale a cm 44 e dunque il dito a cui si riferisce a cm 1,84 circa.

11) in effetti Apelle, vissuto nel IV secolo a. C., fu uno dei più famosi pittori dell’antichità, ma non risulta sia stato anche architetto.

12) questo impiego della pelle del basilisco collocandolo in un edifici sacro sembra precorrere quello analogo nel medioevo quando era uso appendere alle volte delle cattedrali coccodrilli o altri grossi rettili imbalsamati.

13) nel capitolo sui serpenti Isidoro cita ampiamente i versi di Lucano dove sono citate la diverse specie di serpenti della Libia, dando suna spiegazione sull’origine del loro nome.

14) non si confonda Pierre de Beauvais, di cui ben poco si conosce, oltre l’essere l’autore del bestiario che è stato tramandato sotto il suo nome, con il più noto ed autorevole Vincenzo di Beauvais (1190-1264), delle cui tante opere si ricorda soprattutto il monumentale “Speculum Maius”.

15) non si deve però confondere codesta visione della natura come “riflesso” di un “ordine”, e parimenti di un “disordine” metafisico in cui si, incarnano come allegorie concetti morali ed idealità religiose, -e il loro contrario-, con le concezioni spiritualistiche per le quali al modo materiale sottostà un sostrato metafisico, o addirittura la realtà fisica è solo la manifestazione infima e più degradata di un universo spirituale che si espande attraverso molteplici piani (mentali, psichici, eterici) e numerose classi di entità.

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