SUGLI ANGELI E SUI DEMONI -prima parte-

Nella lunga trattazione su “L’Asino e il Bue nel presepe”, ed in altri articoli, abbiamo spesso incontrato entità spirituali minori (in relazioni ai grandi dei e soprattutto a Dio-Uno inteso come principio assoluto e necessario) che sono qualificate nell’ambito culturale greco-romano e poi cristiano europeo, come “angeli” e “demoni”, o ad essi assimilate quando appartengano ad altre tradizioni religiose e spirituali. Nella presente esposizione tratteremo in modo approfondito di esse, nonchè delle somiglianze e differenze, non di rado tutt’altro che definite, tra queste due categorie di esseri, cercando altresì di comprendere la distinzione tra essi e gli “dei”.

Nell’antica Grecia il termine ricorrente per designare tali esseri in posizione intermedia tra la sfera degli dei propriamente detti e quella umana e terrestre è “daimones” (mentre il sostantivo “anghelos” = “messaggero”, pur essendo attributo di alcune divinità “messaggere” di Zeus, in specie di Hermes, l'”anghelos” per eccellenza, si trova riferito ad una categoria di entità semidivine solo in epoca assai tarda). Codesto termine (“daimon”) tuttavia sia nello svolgimento temporale della civiltà ellenica, e di quelle da essa direttamente o indirettamente influenzate, sia nell’impiego fattone da filosofi, pensatori e teologi, ha subito una notevole differenziazione. Nei tempi più remote l’idea espressa da “daimon” era abbastanza nebulosa, e non distinta in modo chiaro da “theos”, “dio”, indicando entrambi i termini entità spirituali o comunque soprannaturali presenti ed agenti nel mondo: possiamo affermare che in effetti “daimon” si avvicina assai all’analoga nozione di “numen” dei Latini (1), o di “mana”, propria delle lingue polinesiane. L’etimologia di “δαιμον” è incerta, ma quella ritenuta più probabile la connette al verbo “daiomai, daiesthai”, che significa “suddividere, distribuire, dispensare”, a sua volta derivante dalla radice indoeuropea “DA”, contenente la nozione primaria di “dividere, ripartire, separare”: pertanto il sostantivo designerebbe colui che dispensa o distribuisce (il destino), così che sembra preludere o comprendere uno dei significati principali assunti nel periodo classico.

Nei poemi omerici i termini δαιμων e θεòς, -come già osservò Plutarco in “Il tramonto degli oracoli” (cap. 10)-, appaiono oscillanti e talora interscambiabili a testimonianza di una distinzione ancora non ben definita tra le entità animiche e soprannaturali che operano e si manifestano nella natura e nell’uomo. Secondo una ricerca fatta da K. F. Nägelsbach (“La teologia di Omero”, Norimberga, 1861) “daimon” è impiegato con il significato di “theos”, cioè attribuito ad una divinità olimpica, per cinque volte nell’Iliade e una nell’Odissea, mentre per indicare un “numen divinum”, una entità impersonale, è citato sei volte nell’Iliade e ben undici volte nell’Odissea; nelle opere omeriche “daimon” non esprime mai la valenza di entità intrinsecamente malefica. Osserviamo invero che quando parla di una divinità olimpica Omero con l’impiego di “theos” si riferisce alla personalità di un dio, mentre con “daimon” esprime la natura del suo operare.

Nelle varie epoche in cui si sviluppò la civiltà ellenica dopo Omero il termine assunse poi diversi altri significati, ma non viene più usato per designare gli dei, -ossia le entità superiori-, in particolare quelli olimpici. I “daimones” appaiono come anime divinizzate di antenati umani sommamente meritevoli, ai quali in premio delle loro virtù Zeus ha concesso uno stato di eterna beatitudine, e che nella loro nuova condizione proteggono i loro discendenti, accordando loro prosperità e fortuna. Esiodo (“Le opere e i giorni”, 122 e seg., 251 e seg.) qualifica con tale denominazione lo stato assunto dagli umani vissuti nella mitica Età dell’Oro, i quali dopo un’esistenza serena e pacifica, si addormentarono e i loro furono inghiottiti dalla terra (“E poi che tale progenie sparita fu sotto terra,/ Demoni sono adesso, secondo il volere di Giove,/ buoni, che stanno sovra la terra custodi ai mortali./ Sono custodi ai mortali, dell’opere pie, dell’inique:/ son circonfusi d’aria, frequentano tutta la terra,/ partiscon le ricchezze, chè n’hanno privilegio regale” traduzione di E. Romagnoli); ma più oltre aggiunge che essi sono “tre volte diecimila, prefissi da Giove ai mortali,/ che la giustizia sempre sorvegliano, e l’opere inique,/ e girano, vestiti di nebbia, per tutta la terra”: sembra dunque che secondo la concezione espressa da Esiodo ai “daemones” sia assegnata la funzione non solo di protettori, ma anche di punitori dei malvagi per conto di Zeus. L’idea espressa da Esiodo sui demoni è poi ripresa da Socrate nel dialogo platonico “Cràtilo” (397-398), in cui il filosofo cita l’antico poeta, mostrando di far propria la tesi da lui sostenuta, accogliendo peraltro anche l’idea che fa del “daimon” un’entità che agisce nell’interno dell’animo umano. Per gli Orfici il demone è l’essenza dell’anima imprigionata nel corpo per una colpa compiuta, e da cui ella si sforza di liberarsi.

Appare poi l’accezione di “daimones” per indicare sia degli esseri semidivini, sia divinità minori legate a determinati luoghi o ambienti, o al seguito di alcune delle divinità maggiori, -quali Ninfe, Satiri, Tritoni, Coribanti, ecc.; sia intermediari tra gli uomini e gli dei superi, latori della volontà di questi ultimi (mentre, come vedremo in seguito, fino alla tarda antichità non viene usato per tale funzione il termine “anghelos”, “messaggero”, che ha sempre significato profano e solo eccezionalmente viene applicato a qualche divinità,-Hermes-). Nel “Simposio” platonico (202e) si concepiscono i demoni, i quali stanno tra dei e uomini, come interpreti e ministri, aventi l’ufficio di riferire in cielo le preghiere e le suppliche degli uomini e di recare sulla terra gli oracoli e le grazie degli dei. Eros in un celebre passo di quel dialogo (202c) è descritto come un grande “daimon” intermediatore, poiché, essendo figlio, -secondo Platone-, di Penìa, -la Povertà-, e di Poros, -l’Abbondanza, sia in senso materiale (prosperità, ricchezza), sia senso mentale (ingegno, senno)-, ed essendo quindi in una condizione incerta e instabile, né divina, né umana, incarna le l’aspirazione dello spirito a elevarsi al di sopra della stato attuale in cui si trova: non è né ignorante, né sapiente, ma “filosofo”, colui che non possiede la saggezza, ma la ama e la ricerca; l'”Eros” platonico non è l’amore terreno, e tanto meno un turbamento sensuale o una crisi emotiva, ma lo slancio verso la contemplazione della bellezza e dell’armonia celesti  Peraltro la concezione platonica di Eros è essenzialmente filosofica ed alquanto estranea a quella religiosa e mitologica, e vuole più che altro rendere la concezione platonica su questo tema.

Il filosofo Senocrate di Calcedonia (396-314 a. C. circa), discepolo diretto di Platone, e terzo maestro dell’Accademia, qualifica anch’egli i demoni come mediatori tra gli umani e gli dei, meno potenti di questi ultimi, ma assai superiori agli uomini. Tuttavia mentre gli dei sono sempre buoni, i demoni possono essere animati da pulsioni negative: pertanto secondo il filosofo i miti quando narrano di divinità che agiscono sotto la spinta di impulsi sensuali attribuendo loro passioni terrene intendono demoni e non dei. Anche per Senocrate inoltre tra i demoni si devono annoverare pure anime umane disincarnate, le quali però non si sono affrancate dall’attaccamento alle cose materiali, e dunque continuano ad errare senza pace.

Ma i “daemones” vengono anche concepiti come energie psichiche e mentali personificate che operano nell’interno dell’uomo: Socrate sente nel suo “daemon” una guida che lo assiste e lo illumina, analoga per certi aspetti all'”angelo custode” cristiano, il quale induce il suo intelletto a riflettere e lo aiuta in varie circostanze ad operare una scelta ponderata, trattenendolo dal compiere azioni affrettate: “Ed è una cotale voce, che, sino da fanciullo, sento io dentro. E tutte le volte che io la sento, mi svolge da quello che son per fare” (Platone, “Apologia di Socrate”, 31d); “C’è un che di demoniaco, che non so per quale sorte divina mi segue fin da fanciullo. E’ una voce che, ogni qual volta si verifica, mi manifesta una dissuasione dal compiere quanto mi accingo a compiere e mai mi spinge” (“Teagene”, 128d) -traduzione di Francesco Acri-: dalle parole di Socrate sembrerebbe dunque che il demone sia, forse più che una sorta di “voce della coscienza”, -come si è detto talora-, un “sesto senso” che lo trattiene dall’intraprendere azioni che potrebbero poi rivelarsi fonte di problemi e di preoccupazioni. E nel già citato passo del “Cratilo”, Socrate afferma ciascun uomo savio essere inabitato dal proprio daimon che lo assiste quale recondito consigliere.

Questa concezione è poi ampiamente sviluppata da Platone in altri dialoghi in particolare nel decimo libro della “Repubblica”, dove per mezzo del racconto di Er, guerriero redivivo che narra quanto ha potuto vedere nell’al di là, espone la sua versione della sorte ultraterrena, -o per meglio dire una delle versioni da lui formulate su di essa-. In questa narrazione, -che abbiamo già esaminato nella quarta parte de “L’anima e la sua sopravvivenza” del 23 novembre 2016-, il filosofo per bocca di Er riferisce che a ciascuna anima che si appresta ad incarnarsi dopo aver potuto scegliere quale sarà la sua prossima esistenza, la moria Làchesi assegna il proprio “daimon”, una sorta di guardiano a cui è demandato il compito di far sì che essa compia il suo destino.

Di certo però questa teoria, per quanto poi elaborata e inserita da Platone nel contesto della sua visione metafisica, era certamente un’idea piuttosto comune di derivazione orfica e ne abbiamo echi pure in altri testi letterari, ad esempio in unframmento di Menandro (500K),che così recita: “Presso ogni uomo alla nascita un demone prende posto per iniziarlo ai misteri della vita; un buon demone poiché non si deve credere che ve ne sia uno cattivo che nuoce all’anima”.

Il “demone di Socrate” di cui aveva parlato Platone suscitò la curiosità di diversi autori successivi che vollero approfondire l’argomento e divenne così oggetto di dotte trattazioni in opere quali “Il demone di Socrate” di Plutarco e il “De deo Socratis” di Apuleio. Nel dialogo di Plutarco, che si immagina avvenuto tra alcuni dei discepoli e degli amici dell’antico filosofo (Cafisia, -fratello del famoso condottiero tebano Epaminonda-, Filolao, Polimnide, Galassidoro, Teocrito e Simmia -nella cui dimora si svolge la disquisizione-), uno degli interlocutori, Teocrito, afferma che una divinità si congiunse allo spirito del filosofo per guidare la sua vita, e che questa lo assisteva al modo in cui Atena stava sempre al fianco di Ulisse, conferendogli una sorta di preveggenza (2); e per confermare la sua tesi e illustrare come si manifestasse tale ispirazione, narra un episodio del quale riferisce di essere stato testimone. Mentre lui con Socrate e altri loro amici si stavano recando a casa dell’indovino Eutifrone  [nel testo non è precisata la ragione di quella visita], all’improvviso il maestro si ferma e rimane per alcun tempo pensieroso; indi cambia il suo percorso richiamando i suoi compagni che stavano avanzando in quella strada. Ma alcuni di essi non ascoltano il suo consiglio e proseguono il loro cammino e si imbattono così in un gregge di maiali che correndo in modo disordinato li travolse facendoli cadere e sporcare di fango. Galassidoro obietta che forse non di preveggenza si trattava ma di attenzione ad alcuni segni, per quanto appena percettibili, che potevano mettere in guardia dal pericolo, poiché per una mente acuta come quella di Socrate anche un minimo indizio poteva recare il presagio di un evento importante. Un altro dei presenti avanza l’ipotesi che il presunto “doppio” soprannaturale di Socrate non fosse altro che lo starnuto, -che, com’è risaputo, presso molti popoli era considerato uno dei segni divinatori per eccellenza-: se avesse starnutito una persona posta alla sua destra, questo l’avrebbe indotto a mettere in opera quanto aveva in mente; al contrario se lo starnuto proveniva da sinistra ne l’avrebbe distolto; se poi avesse starnutito lui medesimo, ciò lo confermava nella sua intenzione se fosse già stata presa, mentre l’avrebbe cambiata se fosse stato ancora incerto su di essa.

A un certo punto giunge in casa di Simmia anche lo stesso Epaminoda che conduce seco un certo Teànore, proveniente da Crotone, il quale riferisce che quando molte delle cerchie pitagoriche presenti nell’Italia meridionale furono perseguitate e i loro membri dispersi, uno dei loro membri più autorevoli riuscì a fuggire, ma di lui non si seppe più nulla. Dopo molto tempo però il “demone” di Liside rivelò in sogno a Teanore come avesse potuto mettersi in salvo e il luogo dove, una volta defunto, era stato collocato il suo cadavere così che i suoi amici poterono dargli una onorevole sepoltura. Lo straniero aggiunge poi che, sempre in sogno, aveva appreso che l’anima che l’anima di Liside, entrando dopo la morte in un altro ciclo vitale, ossia reincarnandosi, era stata affidata a un altro demone (3). Su invito di Simmia si torna indi a trattare del tema principale della discussione ed egli espone la sua teoria circa il demone di Socrate in un discorso complesso e a volte farraginoso, ma che in sintesi si può riassumere nel modo seguente: l’ispirazione divina, che dai comuni mortali può essere captata solo quando l’anima sia distaccata dai sensi e dal tumulto delle passioni corporee, -e quindi in uno stato di raccoglimento, di forte concentrazione, o più comunemente nel sonno-, Socrate, data l’elevatezza del suo spirito e della sua intelligenza, aveva il dono di poterla ricevere anche nello stato di veglia. Secondo Simmia, un oracolo avrebbe consigliato al padre del filosofo, lo scalpellino Sofronisco, di lasciare il figlioletto libero di seguire il suo genio e la sua inclinazione, senza imporgli o proibirgli alcunché, e limitarsi a pregare per lui Zeus e le Muse, poiché egli aveva dentro di sé una guida migliore di qualsiasi pedagogo.

L’antico discepolo di Socrate narra poi la storia di Timarco, il quale desiderando conoscere la potenza del demone del maestro, poiché “era un giovane coraggioso, e aveva provato il gusto della filosofia”, decide di recarsi alla famosa “grotta di Trofonio” per interrogare in merito l’oracolo che aveva sede. In questo luogo tenebroso egli ha una visione dell’al di là e gli viene spiegato in qual modo si compia la reincarnazione delle anime. Di quanto apprese Timarco tuttavia abbiamo già trattato nella quinta parte de “L’anima e la sua sopravvivenza” del 9 dicembre 2016, dove è riassunta questa parte del dialogo di Plutarco. Osserviamo invero che sebbene penetrare più a fondo la natura del “demone di Socrate fosse stata la motivazione dell’impresa di Timarco, di questo argomento stranamente non si parla più.

Dopo essere sceso nell’antro Timarco ha una visione suggestiva e singolare: parecchie isole luminose si muovono alla superficie di un mare etereo; ma poi quando volge il suo sguardo verso il basso vede sotto di sé un enorme abisso circolare dal quale ode provenire strazianti urla e pianti di donne e uomini, vagiti di infanti, gemiti di animali. Sconvolto da quanto ha visto e sentito, il giovane ode una voce misteriosa che gli chiede che cosa brami sapere; alla sua risposta di voler essere illuminato su ogni cosa, la voce lo avverte che avrebbe potuto contemplare e conoscere solo quanto spetta al dominio di Persefone, ma non quello che pertiene alle regioni degli dei superi: pertanto si può arguire che tale voce appartiene senza dubbio a un demone.

Da essa apprende che quattro sono i principi da cui discendono tutte le cose: la vita, il movimento, la generazione e la dissoluzione; la Monade unisce il primo principio (la vita) al secondo (il movimento) nella regione dell’invisibile; l’Intelletto la seconda (il movimento) alla terza (la generazione) in quella del Sole; la Natura la terza (la generazione) alla quarta (la dissoluione)  nel cielo della Luna. A loro volta a codesti tre legami sovrintendono le Moire, le dee del Fato, figlie di Ananke (la “Necessità”): Atropo al primo, Cloto al secondo e Làchesi al terzo. La Luna è la dimora dei demoni terrestri, i quali sono preposti alle anime che dal regno dell’Ade cercano di risalire lungo lo Stige. Le anime degli empi però non possono essere accolte dalla Luna, la quale vedendole appropinquarsi scaglia lampi contro di esse lanciando grida spaventevoli per allontanarle e ricacciarle nel ciclo fatale delle rinascite. Ogni anima possiede intelligenza e ragione, ma quando viene immessa nel corpo fisico e si mescola alla carne e ai tumulti delle passioni, si allontana dalla ragione e tende verso l’insensatezza (per il riassunto completo della rivelazione avuta da Timarco si veda l’articolo de “L’oasi di Tammuz” citato sopra).

Statua di Agatodemone dei primi anni del II secolo.

Secondo Teanore i demoni sono le anime di coloro che sono riusciti a distaccarsi del tutto dalla corporeità e a liberarsi così dal ciclo delle rinascite, ma che nella loro nuova condizione semidivina cercano di guidare al bene le azioni degli uomini e in particolare di quelli virtuosi, i quali, dopo aver trascorso diverse esistenze terrene, sono orami prossimi al compimento dei loro sforzi, che li hanno condotti alle soglie dei mondi superiori, ma che abbisognano dell’aiuto dei demoni: se ascoltano le loro esortazioni, al termine della vita terrena giungeranno alla sospirata meta; altrimenti saranno risospinti nella catena delle esistenze. Questa funzione “pedagogica” sembra avvicinare la concezione dei demoni agli angeli cristiani, e soprattutto alle varie classi di spiriti contemplati dalle dottrine teosofiche e dall’antroposofia di Rudolf Steiner, che furono umani duranti i  “periodi cosmici”, precedenti quello attuale, -ovvero le incarnazioni dell’Universo-, e che hanno il compito di aiutare l’evoluzione degli umani.

Nella successiva speculazione codesto demone personale che si affianca a ciascun umano per infondergli giovevoli ispirazioni prede il nome di “agathos daimon”, rappresentato spesso quale leggiadro giovanetto tenente una cornucopia e una scodella nella mano destra e un papavero e una spiga di grano nella sinistra, ma talora con aspetto di serpente, considerato in simbolo di rigenerazione; in questa seconda forma divenne un’incarnazione del potere fecondante della terra (4). Egli incarna anche la “buona fortuna”, le attitudini, le virtù, le possibilità e le occasioni propizie che l’esistenza riserva all’individuo che assiste e che sono inesorabilmente stabilite dalla nascita, anche se sta all’individuo stesso valorizzarle e sfruttarle. In opposizione al “buon demone” (o “buon genio”), -contraddicendo all’idea espressa da Menandro che abbiamo riferito sopra-, si concepisce però anche un “kakos daimon”, un demone cattivo, che è la cattiva sorte, le debolezze, i vizi, che generano sciagure e disgrazie ove l’individuo non sappia validamente contrastarle. Il “cacodèmone” era immaginato, pur se rare sono le sue raffigurazioni, come un fanciullo o un uomo deforme, ma in genere con notevoli attributi fallici, talora associato al malocchio, che egli attrae o che provoca in altri.

Il “Cacodemone” seguito dal “malocchio” in un mosaico di Antiochia del II secolo.

Nelle dottrine pitagoriche e platoniche essi appaiono come due geni che ciascun individuo riceve in sorte fin dalla nascita e dei quali uno lo induce al bene e l’altro al male, ma nelle comuni credenze persero l’originaria caratterizzazione morale per divenire in pratica personificazioni della buona e della cattiva sorte. Nel tardo neoplatonismo si torna all’idea dell’unico demone personale: Olimpiodoro, filosofo del V secolo, nel suo commento al Fedro di Platone pur non negando l’esistenza dei demoni malvagi, ritiene che un demone benefico sia lo spirito che guida l’anima individuale.

Plotino affida al “daimon” che ci è stato assegnato il compito di guidare l’anima nella sua ascesa verso il sovrasensibile (“Enneadi”, IV, 3), per cui tale essere sembra assimilabile a un’ispirazione mistica, alla scintilla di uno spirito divino grazie al quale è possibile elevarsi dal piano fisico a quello intelligibile. Porfirio di Tiro, discepolo di Plotino, afferma che il suo maestro era assistito da uno di codesti demoni che sono prossimi agli dei; anzi nella sua “Vita di Plotino” (cap. 10) riferisce che un sacerdote egiziano, volendo dar prova della sua sapienza, si offrì di evoca il demone protettore del filosofo. Ma questi, una volta evocato, si rivelò essere non un semplice demone, ma un vero e proprio dio (5). Da questa esperienza Plotino trasse lo spunto per scrivere il trattato “Sul demone che ci ha avuti in sorte”, ove si studia di rendere ragione delle differenze tra i vari demoni che assistono gli umani.

Ma i “daimones” sono anche la personificazione delle forze cosmiche che governano gli elementi naturali e l’ordine del mondo, e sotto questo aspetto si possono accostare agli “Yazata” iranici: questa intuizione fu poi continuata e sviluppata nel cristianesimo gnostico e nel giudaismo mistico, fino a influenzare le complesse costruzioni dell’angelologia medioevale. Stando a quanto afferma Diogene Laerzio (“Vite dei filosofi”, IX, VI, 7), Eraclito sosteneva “ogni cosa esser piena di anime e di demoni”, convinzione ribadita dai Pitagorici, per i quali “tutta l’aria esser piena di anime, e queste considerarsi di demoni e d’eroi, e da queste mandarsi agli uomini i sogni ed i segni del male e della salute, non solo, ma eziandio a’ quadrupedi ed all’altre bestie” (“Vite dei filosofi”, VIII, XIX, 32); e pure gli Stoici condividevano la credenza nei “daimones”, poiché asserivano che “anche esservi alcuni demoni aventi simpatia cogli uomini, ispettori delle umane cose; ed eroi, che sono le anime dei buoni rimaste indietro” (Diog. Laerzio, VII, LXXIX, 151 -traduzione di Luigi Lechi-). Peraltro Eraclito, precorrendo la teoria platonica, concepisce anche il “daimon” come il destino che è legato, o è conseguenza, dell’indole individuale, per cui per il filosofo “ethos anthropo’ daimon” (fr. B119) (“il carattere di un uomo è il suo demone”), idea che sarà fatta propria anche dall’aristotelico Alessandro di Afrodisia, per il quale il daimon consiste nella natura medesima di un individuo, per cui più che uno stretto legame e un’interdipendenza tra i due, avremmo per lui una completa identificazione; su questa linea anche gli Stoici, per i quali il “daimon” diviene un’equivalente dell’anima intellettiva.

Nei primi secoli dell’era volgare si sviluppa, specie in ambito medio-platonico una complessa dottrina sui demoni, che, riprendendo le tesi di Senocrate, attribuisce loro  tutto quanto non si addice all’idea di Dio, entità suprema superiore a tutte le passioni e le bassezze umane, conciliando così le credenze della religione popolare con il concetto monoteistico di una divinità pura e inaccessibile. Plutarco nel suo trattato su Iside e Osiride (cap. 25-26) afferma di ritenere esatta l’opinione di quanti considerano le vicende narrate su Osiride, Iside e Tifone (che nell’interpretazione greca corrisponde a Seth il malvagio fratello e assassino di Osiride), non già le peripezie di dei o di uomini, bensì di grandi demoni (6); e mostra di approvare le tesi di filosofi quali Platone, Pitagora, Senocrate, Crisippo, che, seguendo in questo gli antichi scrittori di cose sacre, credono che i demoni siano dotati di forza sovrumana, ed oltrepassano di molto la nostra natura; ma l’elemento divino non si presenta mai in essi puro e incontaminato, ma partecipa delle attitudini sensoriali di un corpo, onde accoglie in sé piacere e travaglio. Tale contaminazione con i sensi corporei avviene però in diversa misura, maggiore per alcuni, minore per altri, così che pure per i demoni, come tra gli uomini esistono profonde differenze di qualità. Essi hanno natura composita e incostante, che determina anche le loro azioni; per questo Platone (“Leggi”, 717, a-b) attribuisce agli dei olimpici la destra e i numeri dispari e ai demoni la sinistra e i pari. Senocrate ritiene inoltre che i giorni nefasti e quelle feste in cui ci si sferza -cioè le pratiche cruente e orgistiche-, non siano volti ad onorare gli dei o i demoni buoni, ma a placare quelli tenebrosi e maligni.

Apuleio, nel “De Platone et eius dògmate”, sostiene esistano tre categorie di dei: 1) il Dio supremo, unico, intangibile e incorporeo; 2) le stelle, i pianeti e gli corpi celesti -o meglio gli spiriti che li animano-; 3) i demoni, le entità che per intelletto, collocazione, potenza sono inferiori agli dei veri e propri, ma superiori agli uomini, spiriti che i Romani, a detta dell’autore, chiamano “medioximi” (cioè intermedi, sia per natura, sia per il luogo ove dimorano).

Nel “De deo Socratis” la classificazione proposta risulta invece un po’ diversa, poiché distingue “dei visibili” (luminari e pianeti) e “dei invisibili”, che sono i dodici “dei olimpici” dei Greci e i corrispondenti “dei consenti” della tradizione romana, i quali dimorano nelle sublimi plaghe eteree, lontani da qualunque contatto umano (cap. III): pertanto con codeste divinità, che appaiono distaccate dal mondo terreno quanto gli dei di Epicuro, si può comunicare solo tramite l’intercessione degli dei inferiori che agiscono da intermediari e sono costoro i demoni. Ad essi Apuleio attribuisce il compito di colmare l’immensa distanza tra dei e uomini, fungendo da messaggeri e da latori delle preghiere degli abitanti della terra agli dei e delle grazie e degli ammonimenti di questi ultimi per gli uomini (una funzione non dissimile da quella degli angeli e dei santi cristiani). Pure la loro collocazione spaziale e intermedia poiché la loro dimora abituale è negli spazi aerei, tra il cielo, sede degli dei, e la terra, ove vivono gli umani (cap. VII); la condizione dei demoni è intermedia anche perché pur essendo immortali come gli dei, sono soggetti a turbamenti, emozioni e passioni come gli uomini, e pertanto ve ne sono di buoni e di cattivi (cap. XIII).

I Lari a fianco del “pater familias”. Il serpente sottostante è l'”Agatodèmone”.

Al sommo di questa gerarchia, -che prelude a quelle ben più complesse elaborate dai neoplatonici greci del III-V secolo- sta il Dio trascendente, signore e autore di tutte le cose, il quale soltanto i sapienti e i filosofi che conducono una vita virtuosa ed ascetica, tutta rivolta alle cose dello spirito, possono sperare di conoscere, sebbene in modo imperfetto.

Secondo Apuleio i demoni hanno una sorta di “corpo eterico”, la cui consistenza egli paragona a quella delle nuvole, ma assai più sottile e puro di queste ultime, per cui essi sono di norma invisibili agli uomini, salvo che, per propria volontà o per comando di alcun dio, non vogliano mostrarsi loro (“De deo Socratis”, XI).

Tra i demoni l’autore distingue due categorie: i demoni che sono anime disincarnate di defunti, che riprendendo un termine schiettamente latino designa come “Lemures”: “fa parte dei demoni l’animo umano che compiuta la militanza di vita terrena si stacca dal corpo: questo animo trovo nella prisca lingua latina chiamato “Lemure” (“Hunc vetere lingua latina reperio Lemurem dictitatum”). Questa categoria di demoni il nostro la suddivide in tre ulteriori gruppi: buoni, da identificare con i “Lares”, i protettori della casa e della famiglia; cattivi, le “Larvae”, che, essendosi rese colpevoli in vita di empietà e nefandezze, sono condannate a errare per l’aria senza poter trovare pace; incerti, né buoni, né cattivi,-ovvero di coloro che pur non avendo commesso gravi misfatti, non si sono resi meritevoli di rientrare nella prima categoria-, che prendono il nome di “Manes” (7). Per Apuleio anche alcuni uomini straordinari, quali Anfiarao in Beozia, Mopso in Africa, Osiride in Egitto ed Esculapio ovunque, sono divenuti “demoni”, anime di uomini eccezionali, elevate al rango di divinità, ma che non sono tali in senso stretto (cap. XV)(8).

I demoni superiori, -l’altra categoria contemplata dallo scrittore nordafricano-, sono le entità che non hanno mai dimorato in un corpo fisico. Tra di essi rivestono particolare importanza i demoni custodi che assistono e guidano ciascun essere umano, e tra i quali, a giudizio dello scrittore, è da annoverare il “demone di Socrate”. Al demone custode (che si potrebbe senz’altro equiparare all'”angelo custode” cristiano) è attribuito poi un compito di fondamentale importanza: al termine della vita terrena egli trasporta l’anima che gli fu assegnata dinanzi al tribunale dell’al di là e l’assiste durante il giudizio che avviene colà (Apuleio non precisa quali siano i giudici di codesto tribunale); se l’anima mente, la redarguisce, se dichiara cose vere, le conferma, così che è la sua testimonianza che determina la sentenza finale. Secondo Apuleio dunque il demone custode assolve a una funzione di psicopompo, -funzione di solito attribuita a Hermes-Mercurio-, e di testimone come il “cuore” nella psicostasia (la “pesatura dell’anima”, ma in effetti in questo caso del “cuore”) davanti al tribunale di Osiride per gli Egiziani.

Peraltro poco prima nella sua trattazione il Madaurense aveva asserito che può essere definita “demone” anche l’anima umana ancora dimorante in un corpo, e in questa accezione, -pure esprimendo qualche dubbio in proposito-, ritiene che si possa identificare con quello che nella tradizione latina è il “Genio”, il quale, pur essendo immortale, nasce insieme all’individuo con il quale è strettamente congiunto (“Eum nostra lingua, ut ego interpreto, haud sciam an bono […], poteris “genium” vocare, quod is deus, qui est animus sui cuique, quamquam sit immortalis, tamen quodam modo cum homine gignitur” = [quel demone] nella nostra lingua -non so se la mia interpretazione sia esatta- si potrebbe chiamare “Genio”, poiché questo dio, che è l’animo di ciascuno, sebbene sia immortale, tuttavia si può dire che nasce con la persona)(9). L’incertezza che Apuleio sembra esprimere sull’equivalenza tra “daimon” e “genius”, -che è comunque limitata solo al “daimon”, anima o spirito legato all’indole di un individuo, e non ai demoni superiori-, spiega anche la probabile ragione per la quale nel titolo di questo trattatello lo scrittore abbia impiegato il sostantivo “deus” – e non daimon o genius-: infatti il primo non era ancora divenuto usuale nel lessico filosofico latino; il secondo poteva tradurre daimon solo nel senso di demone-anima, intimamente legato a un essere umano, e non di “demone puro”, mai entrato in contatto con un corpo fisico, mentre come abbiamo visto per Apuleio il demone di Socrate apparteneva a questa categoria; pertanto deve avere usato “deus”, termine più generico. -entità superiore in genere-, che poteva nobilitare lo spirito che assisteva e proteggeva Socrate.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) il termine “numen” deriva dalla medesima radice presente nel verbo “nuo, -ere” (e nei composti “ab-nuere” = negare, e “ad-nuere” = assentire, annuire), e nel sostantivo “nutus”, = cenno di comando, che contiene l’idea di “fare un cenno”, per manifestare la propria volontà, di assenso o disapprovazione attraverso un segno esteriore (che nel caso dell’uomo è un movimento del capo verso il basso -“adnuere”, approvazione- o verso l’alto -“abnuere”, negazione-).

2) la cornice narrativa in cui, ad imitazione di molti dei dialoghi platonici, si inserisce la disputa filosofica prende inizio dal racconto che Cafisia narra quando viene ospitato ad Atene in casa di Archidamo. Egli riferisce del tentativo di alcuni esuli tebani, rientrati di nascosto nella loro città, di cacciare il presidio spartano che in quel periodo teneva Tebe sotto il suo dominio, episodio che avvenne nel 378 a. C. In seguito parte della comitiva si reca nella dimora di Simmia, ove si svolge gran parte del dialogo. Lo spunto che introduce la trattazione del tema del “demone” è la critica alle credenze superstiziose. In effetti, nonostante il titolo, in quest’opera di Plutarco si tratta del demone di Socrate solo nella parte centrale. Simmia, ex pitagorico divenuto discepolo di Socrate, è tra i protagonisti del “Fedone” platonico, dove propone una concezione dell’anima come “armonia” dellle funzioni vitali che risente dell’influenza di Pitagora.

3) il racconto di Teanore concorda con quanto aveva affermato Socrate nel “Fedone” platonico (cap. CVII): “E raccontasi questo, che come uno è morto, il demone suo, al quale toccò avere lui in custodia da vivo, prende a menarlo verso un tale luogo dove si hanno a ragunare le anime per essere giudicate, per andare poi in inferno, ciascuna con quella guida alla quale fu commesso d’accompagnare coloro che di qua partonsi. Poi, ricevuto quello che hanno a ricevere, e rimaste quanto bisogna, dopo molti e lunghi giri di tempo, altra guida le rimena qua nuovamente” (trad. di F. Acri). Sulla sorte ultraterrena delle anime quale è descritta nel “Fedone” si veda la seconda parte de “L’anima e la sua sopravvivenza” del 22 ottobre 2016.

4) nell’Egitto tolemaico e romano, e segnatamente ad Alessandria, l’Agatodemone divenne una vera propria divinità, identificata con Kneph, a sua volta denominazione tarda di Khnum, alla quale veniva tributato un culto religioso, in particolare il 25 del mese di Tybi (corrispondente all’incirca a marzo). Agatodemone fu anche assimilato con Aion-Plutonios, Serapide e Osiride, come abbiamo detto nell’undicesima parte de “L’Anima e la sua sopravvivenza” del 31 luglio 2018.

5) in effetti quella a cui accenna Porfirio nella sua biografia sarebbe un’operazione “teurgica”, un’evocazione di entità spirituali allo scopo di ricevere delle rivelazioni, pratica che fu assai in auge in alcuni ambienti neoplatonici. Sappiamo tuttavia che Plotino era contrario a questo genere di esperimenti per cercare un contatto diretto con il divino ed anche Porfirio, dopo un’iniziale attrazione per la teurgia, l’abbandonò, ritenendola una pratica che portava a suggestioni illusorie e induceva ad abusi ciarlataneschi. D’altro canto nel medesimo capitolo della “VIta” porfiriana, si dice che il filosofo, essendo stato invitato a partecipare ad un rito religioso da uno dei suoi discepoli, Amelio, fervido seguace dei culti misterici e delle evocazioni teurgiche, ribattè che spettava agli dei andare da lui e non a lui recarsi da loro, risposta che riassume l’idea di Plotino in materia di religione: il modo migliore per elevarsi alla divinità è la ricerca filosofica, mentre la pratiche religiose sono un espediente per appagare un bisogno psicologico della gente e incanalare i confusi sentimenti che essa possiede.

6) più oltre, -nel cap. 30-, Plutarco afferma che Osiride e Iside si trasformarono da demoni buoni in dei. Diodoro Siculo (Bibliotheca Historica, I, 12-22) dava invece un’interpretazione evemeristica del mito di Osiride ed Iside, che furano secondo lui i primi sovrani d’Egitto, divinizzati dopo la morte.

7) in effetti dalle testimonianze che si hanno fino ad Apuleio “Manes” (Mani) è il nome generico che si attribuiva a tutti i defunti, specie quando, non essendosi segnalati né per virtù né per vizi, si ignorava la loro sorte ultraterrena, per cui in pratica corrispondevano oltre ai “Manes” di Apuleio, a quelli che egli designa come “Lemures”. Con quest’ultimo termine si intendevano le anime dei malvagi, o comunque dei vili, e in pratica era sinonimo di “Larvae”, sebbene quest’ultimo nome fosse riservato in genere agli spiriti più spaventosi e nocivi, specie quelli che potevano vagare di notte a spaventare i mortali. I “Lares” erano gli spiriti protettori dei campi e poi delle case e delle famiglie e furono poi identificati negli antenati; erano venerati in una piccola edicola, il larario, che si trovava sempre nell’atrio delle “domus” romane ove erano rappresentati quali due giovanetti abbigliati con una corta tunica, con una coroncina in testa e nelle mani quasi sempre un “rhyton” (una specie di imbuto), spesso una patera, una sìtula o una cornucopia. Secondo un mito riportato da Ovidio (“Fasti”, 583-616), essi erano figli di Mercurio e della ninfa Lara. Costei per aver svelato a Guinone l’infatuazione di Giove per la ninfa Giuturna, dovette subire il castigo di essere condotta agli Inferi da Mercurio. Durante il tragitto però l’intraprendente divinità -che certo secondo le teorie sugli dei e sui demoni che abbiamo testè esaminato, per cui gli atti poco edificanti attribuite agli dei olimpici dalla mitologia sarebbero in realtà opera di demoni,  è da considerare un “daimon”-, degno figlio di Giove, concupì la ninfa che ne concepì i Lari. Occorre osservare però che il nome Lara è quasi certamente una variante di Larenta, Larunta o Larenzia, un’antica divinità latina degli Inferi, e pertanto da questo mito, pur se rielaborato dal poeta latino, risulterebbe confermata la natura originaria dei Lari quali spiriti dei morti. Altri autori, come Varrone (“De lingua Latina”, IX, 38) e Macrobio (“Saturnalia”, I, 7, 35) attribuiscono ai Lari quale madre Mania, un’altra antica divinità italica associata alla morte, -il cui nome richiama i “Mani” di cui è signora-, consorte di Mantus, o Manth, il dio etrusco degli Inferi. Probabile, ma non certa, la loro connessione con le “Lase”, divinità minori etrusche spesso associate a Turan, la Venere etrusca, ma che avevano talora funzioni di “psicopompe”, di accompagnatrici dei defunti all’ultima dimora. Sul culto dei defunti nell’antica Roma si veda anche la prima parte de “La festa di Halloween e la commemorazione dei defunti” del 12 ottobre 2014.

8) Anfiarao era un famoso indovino che aveva partecipato alla guerra dei Sette contro Tebe e che scomparve inghiottito con il suo cocchio in un baratro scavato da un fulmine di Zeus, divenuto poi un nume risanatore e profetico.  A lui era dedicato un santuario con annesso oracolo ad Oropo, cittadina tra l’Attica e la Beozia, dove si andava per ottenere guarigioni a mezzo dell'”incubazione”, il sonno in cui il paziente riceveva in sogno l’indicazione del rimedio pel suo male. Mopso, figlio di Apollo e di Manto, indovina e figlia di indovino (Tiresia), era anch’esso un indovino cui, insieme al fratellastro Anfiloco, era consacrato un oracolo nella città di Mallo in Cilicia reputato più veridico di quello di Delfi. Questa figura non sembra aver avuto legami con l’Africa; è probabile che Apuleio intendesse un altro Mopso, pure indovino, membro della spedizione degli Argonauti e morto in Libia a causa di un serpente che gli aveva morso il tallone, poi identificato con una divinità locale invocata contro i morsi dei serpenti. Esculapio è il ben noto dio, o semidio, della medicina, figlio di Apollo e di Coronide, invocato come guaritore e nei cui santuari si ricorreva pure all’incubazione”.

9) del “Genius” torneremo a parlare nella seconda parte della presente ricerca.

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