L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -dodicesima parte (conclusione)-

Siamo giunti alla fine della nostra lunga ricerca, che in effetti si è estesa assai più di quanto non avessi programmato all’inizio, e con la quale abbiamo esplorato molti aspetti storici e mitologici e toccato molte correnti spirituali nelle quali si possono trovare le radici del cristianesimo. Siamo partiti da un esame delle figure del Bue e dell’Asino nell’iconografia del presepe, figure in apparenza poco importanti, legate in apparenza più alla tradizione folkloristica che ad un simbolismo mistico; ma analizzandole e cercando di illuminare i possibili e probabili significati che essi esprimono, siamo venuti a conoscenza ed abbiamo riflettuto su molte circostanze, su molti elementi mitici, cultuali e filosofico-spirituali presenti non solo nell’ebraismo ma in pure in diverse altre tradizioni religiose (in particolare egizia, mesopotamica e greca) dai quali il nascente cristianesimo trasse la sua linfa vitale.

Come abbiamo detto, il Bue e l’Asino non sono citati nei due vangeli canonici che descrivono, succintamente e con particolari che tradiscono comunque il carattere religioso-simbolico e non realistico di quell’evento, la natività. Purtuttavia, fin dalle prime raffigurazioni essi compaiono nella scena evangelica, testimoniando così come la presenza dei due animali fosse già accettata dai tempi più antichi, e pertanto questa tradizione rimase, si consolidò e fu ammessa dalla chiesa, sebbene non derivante dalle fonti canoniche. In seguito una certa interpretazione, -non ufficiale, ma ben accetta al clero-  ha voluto giustificare la presenza del Bue e dell’Asino nella scena della natività in quanto trattasi di animali umili e mansueti: peraltro non si può fare a meno di osservare che le loro virtù, esaltate in astratto con sdolcinata ipocrisia, non sono state certo ricompensate e onorate in modo adeguato dai cristiani, e in particolare dai cattolici, che non solo ne hanno avallato il più spietato sfruttamento, ma talora ne hanno consentito o addirittura promosso l’utilizzo in crudeli spettacoli durante deplorevoli feste patronali.

Infatti, sebbene nella teologia morale cristiana sia del tutto assente una specifica e approfondita riflessione sul rapporto tra l’uomo e gli altri animali e con il mondo della Natura in genere, la concezione prevalente nelle varie chiese, e in particolare in quella cattolica, è quella che vede in tutti gli esseri non umani, non viventi e viventi, null’altro che delle “res”, degli oggetti, assolutamente privi di diritti, che non hanno alcun valore e nessun significato morale, se non per le finalità che l’uomo assegna loro, e del quale egli può servirsi a suo piacimento, senza alcun limite o freno.

Questa tesi si fonda in primis su diversi passi dell’AT, ove non solo si afferma una rigida gerarchia di valore tra gli enti che costituiscono il Creato, ma altresì che l’uomo ne sarebbe il signore indiscusso, potendone disporre con l’unico limite dell’osservanza della legge divina (nella quale però anche gli esseri viventi non umani sono contemplati solo secondo la loro utilità, o nocività, pratica ed economica) (1).

La concezione antropocentrica espressa nell’AT venne poi corroborata anche dalla visione propria dello stoicismo, il quale a sua volta considerava gli animali degli esseri predisposti dalla provvidenza a esclusivo beneficio dell’uomo, il quale non aveva verso di essi alcun dovere morale, se non quello di uso accorto di “cose”, -sebbene dotate di anima sensitiva (ma non di anima razionale)-, che in sostanza non erano viste che come beni economici.

S. Tommaso d’Aquino accennò tuttavia al problema del rapporto uomo-animale nella sua poderosa “Summa Theologiae” (in particolare si veda la “quaestio LXIV in parte secunda partis secundae), nonvhè nella “Summa contra Gentiles” (III, 112, 7): per l’eminente teologo e filosofo la crudeltà gratuita verso gli animali è sì riprovevole, ma non perché abbiano dei diritti, o li ritenga dotati di anima razionale -in conformità alla tesi del suo maestro Aristotele (2)-, o manifestazioni dell’unico Spirito Divino, ma solo in quanto l’abitudine alla crudeltà e allo sfruttamento indiscriminato degli animali rende l’uomo incline a esercitare la medesima violenza su altri uomini, e dunque provoca l’abbrutimento dell’uomo, -secondo l’antico aforisma, attribuito al poeta Ovidio, “Saevitia in bruta est tirocinium crudelitatis in homines” e il principio giuridico “Utilitatem accipiens, crudelitatem ne exerceas”-.

Ma, nonostante l’autorità dell’Aquinate (3), la sua presa di posizione, pur ben lontana dall’idea di una dignità intrinseca dell’animale, non valse affatto a scongiurare o a impedire almeno lo sfruttamento più gretto, spietato e ottuso e la ferocia gratuita esercitata non di rado con il consenso di un clero scellerato. Anzi in pieno ‘800, allorché cominciavano a costituirsi in Europa, specie in Gran Bretagna e nei paesi germanici, le prime società per la protezione degli animali, in particolare quelli domestici, dallo sfruttamento indiscriminato e dalla crudeltà gratuita (4), papa Pio IX proibì la fondazione di un ente con tali finalità nel suo stato, con l’espressa motivazione che questo avrebbe significato riconoscere un qualche diritto agli animali.

Mosaico del IV secolo nel pavimento della basilica di Aquileia.
Mosaico del IV secolo nel pavimento della basilica di Aquileia.

Ma la vera, o probabile ragione dell’intervento dei due animali, che venerano devotamente il divino fanciullo, tramandata da fonti non canoniche è dovuta ad un simbolismo, in cui si sovrappongono diverse stratificazioni e che abbiamo cercato di illustrare nella presente ricerca. Abbiamo indagato il significato e la valenza di questi animali nei miti e nelle tradizioni più varie, estendendo il nostro esame a numerosi aspetti, dalle testimonianze letterarie, alle leggende fino ad esporre, a grandissime linee, concezioni metafisiche complesse che in qualche modo, anche in apparenza assai da lontano potessero legarsi al tema della nostra ricerca.

In particolare, è stato rilevato come queste figure di animali rimandino, sia per le documentate affinità, sia per il simbolismo quasi universale di coppia dialettica, a divinità quali l’egizio Osiride (e poi l’egizio alessandrino Serapide), il semitico Baal, l’anatolico Teshub (e le loro tarda evoluzione in Jupiter Dolichenus, per il Bue; a Seth, a Kronos-Saturno, a Dioniso, a Sileno, a Sabazio (divinità di origine tracia poi giudaizzata), a El-Giàbal (il “Dio della Montagna” adorato dall’imperatore Elagàbalo), oltre a divinità femminili, -quali la Grande Madre Cibele e Iuno Regina, compagna di Giove Dolicheno-, per l’Asino. E dunque in un certo qual modo sembrano sovrapporsi, tenendo anche conto dell’origine quasi certamente egiziana del testo che ce li presenta, alla dualità metafisica in cui si esprime e si evolve il dinamismo cosmico (femminile-maschile; cielo-terra; luce-ombra; spirito-materia), in una relazione inscindibile di conflittualità e di complementarietà che può essere superata e trascesa solo dalla nascita del Sé divino nella propria interiorità in una sintesi sublime che segna la consapevolezza dell’unità di Io cosmico e Io personale.

Naturalmente i brevi accenni da me fatti a dottrine filosofiche e teologiche di grande profondità, sulle quali sono stati scritti innumerevoli esposizioni e commenti, sono ben lungi dal darne un’idea esauriente, ma il nostro fine era di mostrare come molto spesso concezioni ed esperienze nate in ambienti, tempi e luoghi diversi e lontani possano contenere idee assai simili nella sostanza (e talora anche nella forma, nelle immagini simboliche e allegoriche alle quali l’uomo ricorre abitualmente per rendere in qualche modo accessibile quanto sarebbe difficile rendere con ragionamenti astratti) e giungere ad analoghe conclusioni ed additare una medesima via di realizzazione e di conoscenza di sé.

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Bue in una miniatura medioevale.

Abbiamo infine cercato di scoprire e di illuminare l’importanza e l’influenza dei testi, -in particolare dei vangeli-, apocrifi ed extracanonici; nonché l’artificiosità e la convenzionalità della distinzione tra libri “canonici” ed “extra-canonici”, che fu introdotta in età assai tarda, in diversi concili e sinodi del IV e V secolo (5). Tuttavia a compilare per primo un “canone” di scritti sacri fu proprio un autore considerato eretico dalla chiesa ufficiale, ovvero Marcione (85-160), il quale intorno al 140 elaborò un elenco nel quale incluse, il “Vangelo di Luca” (al quale aveva tolto alcune parti che riteneva interpolate) e dieci delle lettere di S. Paolo.

Ma senza alcun dubbio la stesa scelta del numero dei vangeli canonici ha una esplicita motivazione in un simbolismo cosmico-mistico, poiché, come afferma Ireneo di Lione (130-200 circa) nel suo “Trattato contro le eresie” (III, 11, 8): “Poiché il mondo comprende quattro regioni [le quattro parti del mondo contemplate dalla geografia e della cosmologia antica: Europa, Asia settentrionale, Asia meridionale, Africa, circondate dal grande fiume dell’Oceano] e quattro sono i venti principali …il Verbo creatore di ogni cosa, rivelandosi agli uomini ci ha dato un vangelo quadriforme, ma unificato da un unico spirito”.

A tal fine egli  per primo stabilì un legame tra i quattro evangeli divenuti poi canonici e i quattro “esseri viventi” descritti nella “visione” del profeta Ezechiele (I, 4), aventi l’aspetto di uomo, di leone, di bue (o vitello) e di aquila. Secondo Ireneo di Lione i quattro esseri manifesterebbero le qualità del Cristo: il leone la regalità e la vittoria; il vitello il supremo sacrificio per la redenzione dell’umanità (poiché il vitello, come l’agnello era la vittima sacrificale per eccellenza); l’uomo l’incarnazione e l’umanità; l’aquila l’effusione dal Cielo dello Spirito Santo. Solo più tardi però alla fine del IV secolo ad opera di S. Gerolamo ciascuno degli evangelisti “canonici” sarà identificato con uno dei quattro animali, secondo la corrispondenza divenuta poi tradizionale (Uomo=Matteo; Leone=Marco; Bue=Luca; Aquila=Giovanni).

Tuttavia tra gli autori cristiani dei secoli II-IV si notano notevoli discordanze, oltre che in campo dottrinale, anche nei loro punti di riferimento scritturali, poiché alcuni considerarono ispirati libri poi non inclusi nel canone ufficiale, mentre mostrano di respingere, o non citano, testi entrati poi classificati come “canonici”: ad esempio “Il Pastore di Erma”, -uno scritto di genere visionario e profetico, ascrivibile alla prima metà del II secolo (6)-, è ritenuto un testo ispirato o quanto meno altamente autorevole dai principali apologisti e scrittori ecclesiastici dei primi secoli (tra cui lo stesso Ireneo di Lione, Clemente di Alessandria, Origene, Tertulliano, Eusebio di Cesarea), sebbene la sua “ispirazione” sia stata in seguito negata; e così pure il Vangelo degli Egiziani, il V. degli Ebrei, il V. di Pietro, la “Lettera di Barnaba” furono spesso considerati testo sacri, specie nel cristianesimo orientale, anche se poi finirono per essere esclusi dal canone ufficiale dei libri canonici. E inversamente l'”Apocalisse di S. Giovanni”, -al pari di molte altre “apocalissi” fiorite nei primi secoli dell’era cristiana- in un primo tempo fu giudicata apocrifa ed esclusa dalla prima stesura di un canone dei testi sacri considerati tali dalla chiesa, che si ebbe nel sinodo di Laodicea al Lico, città della Frigia, tra il 363 e il 364.

La terza parte del “Decretum Gelasianum (o Pseudo-Gelasianum)”, attribuito a papa Gelasio I (492-496), sebbene redatto quasi certamente nel VI secolo, intitolata “De libris recipiendis et non recipiendis”, riporta un elenco di testi sacri che nella sostanza è quello che verrà confermato dal concilio tridentino. Su questo documento dobbiamo fare le seguenti osservazioni: innanzitutto il canone in esso formulato è proprio della chiesa latina, -non di quella greca-, nonostante che le due chiese fossero ancora unite(7): in effetti il canone del NT era ed è identico per la chiesa cattolica e quella ortodossa, ma quello dell’AT è differente tra le due poiché il canone ortodosso comprende alcuni libri respinti dai cattolici, -il cosiddetto “Esdra greco” (o III libro di Esdra), il terzo e quarto libro dei Maccabei, le “Odi” e altri minori (8)-. Inoltre in esso, accanto all’elenco dei testi ammessi, compare per la prima volta una lista di libri apocrifi, che non solo vengono giudicati “non ispirati”, ma di cui si proibisce espressamente la lettura ai fedeli, -a dimostrazione di quanto le strutture ecclesiali divenissero sempre più soffocanti e prevaricatrici verso la coscienza delle persone (le quali ormai erano costrette ad essere “fedeli” per forza)-.

Ma, nonostante le “epurazioni” e le condanne subite durante i secoli, anche i testi neotestamentari considerati apocrifi e rigettati dalla chiesa ufficiale perché giudicati più o meno “infetti” di pericolose eresie, hanno continuato ad esercitare un’influenza tutt’altro che trascurabile nella tradizione, nella pietà popolare e nel culto, -specie in area orientale, dove brani tratti da vangeli apocrifi ebbero un impiego anche liturgico-.

FINE

Note

1)tuttavia, in parziale contrasto con l’idea dell’uomo costituito signore e padrone di tutto quanto è stato creato da Dio, è attestata nell’AT anche la concezione che attribuisce all’uomo la funzione di custode degli esseri esistenti, per cui egli non sarebbe un signore assoluto, ma, per così dire, un “delegato fiduciario”, espressa ad esempio in Levitico, XXV, 23: “La Terra è mia [di Dio] e voi siete presso di me come forestieri e ospiti”. Tuttavia è la prima di queste impostazioni del rapporto uomo-natura che ha prevalso, anche perché di fatto pure nella seconda che contempla il “buon uso” delle terra e dei suoi beni, dati in “concessione” e non in piena proprietà, di certo non veniva inclusa la considerazione degli animali al di fuori della prospettiva utilitaristica. Inoltre, come abbiano più volte segnalato, nei libri dell’AT, e talora pure all’interno di uno stesso libro, ricorrono spesso oscillazioni ed incoerenze, -quando non vere proprie contraddizioni-, sia nell’ambito storico, sia in quello dottrinale.

2) si noti peraltro che Teofrasto, filosofo e naturalista, il più illustre discepolo dello Stagirita , si questo punto si distaccò dalla dottrina del maestro: infatti nella sua opera “Perì Eusebèias” (Sulla Pietà”) egli affermò la sostanziale unità di tutto il regno animale, es espresse contrarietà alla sfruttamento e all’impiego alimentare degli animali.

3) benché il tomismo, -né alcuna altra elaborazione teologico-filosofica-, sia mai stato  proclamato dottrina ufficiale della chiesa cattolica, di fatto esso è stato considerato la corrente filosofica più in linea con il suo edificio dogmatico, e tale preferenza fu confermata nell’enciclica “Aeterni patris” emanata nel 1879 da Leone XIII.

4) la prima associazione con finalità di protezione degli animali domestici fu la “Società per la prevenzione della crudeltà sugli animali”, fondata a Londra nel 1824 e che ebbe riconoscimento legale nel 1849. In Italia il primo ente zoofilo fu la “Reale Società per la Protezione degli Animali” sorse a Torino nel 1871, per iniziativa di G. Garibaldi e del medico Timoteo Rìboli (si veda anche la nota 2 della quinta parte dell’articolo “Garibaldi scrittore” del 25 marzo 2015.

5) si tenga presente però che, per quanto riguarda la chiesa cattolica, la definizione ufficiale e solenne di un canone dei testi sacri avvenne solo nel 1546 da parte del Concilio di Trento nel corso della sua quarta sessione dell’8 aprile 1546 (che peraltro in sostanza recepiva e riconosceva validità al “Decretum Gelasianum”).

6) questo testo, denso di simboli e di allegorie, sarebbe stato composto da un discepolo di S. Paolo, citato nella “Lettera ai Romani” (XVI, 14), ma con maggiore probabilità è da attribuire a un fratello di papa Pio I (140-154), anch’egli di nome Erma.

7) tale unità, sebbene sempre più debole e precaria, durò fino al 1054, quando si ruppe definitivamente con il cosiddetto “scisma di Michele Cerulario”, cosiddetto dal nome del patriarca di Costantinopoli al quale la versione cattolica volle attribuire l’intera responsabilità della divisione. Ma in realtà l’unione tra chiesa d’oriente e chiesa d’occidente che cominciò a manifestarsi fin dal III secolo, e si accentò sempre più in conseguenza sia della diverse prospettive culturali, sia dagli sviluppi politici divergenti nelle due parti dell’Impero Romano, fu spesso lacerata da contrasti e talora veri e propri scismi (scisma dei “Tre Capitoli”, iconoclastia, scisma di Fozio). Peraltro la Chiesa orientale greca -poi detta “ortodossa”, sebbene tale attributo fosse proprio in origine anche alla chiesa occidentale latina, in contrapposizione alle chiese e dottrine giudicate eretiche-, oltre che dall’antagonismo verso la chiesa latina, fu turbata da violente dispute teologiche, e in particolare cristologiche, che influenzarono la vita politica dell’Impero, come l’arianesimo, presente pure in occidente, ma che ebbe molto maggior seguito in oriente; o, viceversa, che in qualche modo si sovrapposero e veicolarono opposizioni politiche e “identitarie”, -come si direbbe ai giorni nostri- alla sovranità bizantina, quali il monofisismo e il nestorianesimo, che si diffusero specie in Siria e in Egitto.

8) per quanto riguarda poi la Chiesa copta etiopica, essa considera testi sacri anche il “Libro dei Giubilei” e il “Libro di Henoch” (del quale abbiamo parlato diffusamente nella nona parte della presente trattazione -16 aprile 2016).

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