L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -undicesima parte- (il Corpus Hermeticum e la gnosi di Valentino)

In effetti l’Hermopolis ove fu concepito il mito cosmogonico e teogonico che abbiamo dianzi ricordato (nella parte precedente) è l’Hermopolis magna, -o maior- situata nell’Alto Egitto; ma anche nelle altre città egiziane che portavano questo nome -e in particolare Hermopolis parva, o minor, nel Delta occidentale, sede del culto di Thoth-Hermes, considerato il rivelatore di questa divina verità, e nello stesso tempo l’incarnazione del principio primo che si manifesta nell’Universo-, si tramandavano i medesimi insegnamenti.

Senza contare che è proprio che nelle vicinanze di Hermopolis parva che, secondo la leggenda, giacevano nel cuore della terra le leggendarie “Sale di Amenti”. Si consideri che Amenti è una variante del nome di Amaunet, la paredra di Amon, da cui era denominato il nomo del Basso Egitto dove sorgeva la città di Hermopolis; ma è pure un diverso nome con cui veniva designato l'”Am-Duat” il sotterraneo regno dei morti, che il Sole nel suo quotidiano cammino doveva attraversare tutte le notti, affrontandovi gravi sfide e pericoli; e dunque tale nome ben si addice alle due sale, “la sala della morte e la sala della vita, bagnate dal fuoco dell’Infinito”, dove furono rinvenute le “Tavole di Thoth”.HallsofAmenti Esse sarebbero state trasportate in quel luogo dai superstiti di Atlantide quando il continente fu sommerso dalle acque; o, più probabilmente, si sarebbero sempre trovate nel medesimo luogo, ma sarebbero state dimenticate dopo la fine della civiltà atlantidea. Secondo alcuni però, -e in particolare il famoso veggente americano Edgard Cayce (del quale abbiamo parlato negli articoli sulla profezia della piramide di Cheope)-, queste segrete stanze si troverebbero sotto la Sfinge di Ghizah.

E non è certo da ritenere un caso il fatto che in Egitto furono formulate dottrine filosofico-mistiche nelle quali si contempla un gruppo di otto entità superiori: la cosiddetta corrente dell'”ermetismo”, o Gnosi ermetica; e il sistema di Valentino, uno dei principali esponenti della Gnosi cristiana.

La filosofia ermetica si proclama esplicitamente derivata dalla rivelazione (termine non da intendersi in senso dogmatico di verità esteriore che l’uomo deve passivamente accettare, ma in senso “maieutico”, come guida a scoprire il divino in sé stessi) di Thoth, ossia di Hermes-Trismeghistos (e dunque fa riferimento alla stessa figura del dio egiziano della sapienza e della scienza, fondatore e iniziatore di ogni arte e ogni conoscenza). Tale dottrina è stata tramandata in una collezione di scritti -denominati appunto “scritti ermetici”- risalenti, nella forma in cui ci sono giunti, ai primi secoli dell’era volgare di cui fanno parte oltre al “Corpus Hermeticum” propriamente detto, il “Discorso Perfetto”, noto anche con il titolo di “Asclepio”, che consta di 42 brevi capitoli, e di cui si conosce soltanto una tradizione latina ritenuta opera di Apuleio (e pertanto il suo autore è definito “Pseudo-Apuleio”; e un gruppo di quaranta brani (“excerpta”) provenienti dall'”Antologia” di Stobeo (1) (e pertanto indicati con il nome “Estratti di Stobeo”), che potrebbero essere frammenti della più ampia redazione originaria in greco dell'”Ascelpio”. Degli “Estratti di Stobeo” il più ampio e profondo per argomentazioni dottrinali è quello chiamato “Kore Kosmou” (La Figlia -o La Vergine- del Mondo) in cui Iside espone a sui figlio Horo le rivelazioni da lei ricevute da Hermes-Thoth sulla creazione del mondo divino, la nascita e caduta del mondo inferiore e la missione del Salvatore che redime e restaura la creazione e la riporta in Cielo (2).

Quanto al “Corpus Hermeticum”, esso comprende 17 brevi trattati (3), dei quali alcuni in forma di dialogo tra Ermete e suo figlio Tat (IV, V, X, XII, XIII) o Asclepio (II, XIV), nei quali viene esposta una dottrina su Dio che è il sommo bene e l’unità (la Monade); non è l’Intelligenza (il “Nous”), ma la causa dell’Intelligenza; non è lo Spirito (“Pneuma”), ma la causa dello Spirito; non è la Luce (“Phos”), ma la causa della Luce. Il solo vero bene è Dio; il bene che si può avere sulla terra è solo un male minore, poiché il vero bene e l’autentica felicità non sono compatibili con l’esistenza nel mondo materiale e con la corporeità. Vi è un’unica grande Anima, dalla quale provengono le infinite anime di tutti gli esseri dell’universo, le quali attraverso innumerevoli cangiamenti in forme animali, umane e di entità superiori tornano alfine al mondo superiore presso Dio; peraltro le anime degli uomini che si comportano male e si lasciano traviare dalla via spirituale per seguire i fallaci desideri mondani possono “retrocedere” rinascendo in un corpo animale (la filosofia ermetica ammette dunque la metempsicosi, -ovvero la trasmigrazione delle anime anche in corpi di specie diverse- e non solo la metensomatosi) (4).

Sala ipogea del santuario di Kom Ombo in Egitto.
Sala ipogea del santuario di Kom Ombo in Egitto.

Di questi trattati quello che più è inerente alla nostra ricerca, -e quello che è considerato il più significativo (sebbene nell’insieme delle dottrine espose nei testi ermetici non manchino disuguaglianze e contraddizioni)-, è il primo di essi, chiamato “Pimandro” (ossia “pastore”), dal nome del misterioso personaggio che si presenta a Thoth per istruirlo sulle supreme verità del mondo e di Dio. Egli peraltro dopo che il suo interlocutore ha avuto una straordinaria visione di carattere cosmogonico, -nella quale alla chiara luce segue una cupa tenebra, e indi una “parola santa”  e “spirituale” discende dall’alto e i quattro elementi si separano e si coordinano per dar vita all’universo-, afferma di essere l’Intelligenza Universale. Secondo Pimandro, l’Intelligenza (il “Nous”) è il Dio padre, -ma sarebbe più esatto dire “generatore”, dal momento che come dice più oltre, il Nous ha natura androgina, “è maschio e femmina insieme”-, mentre il Verbo (il “Logos”) è la sua parola. Attraverso il Verbo, l’Intelligenza genera un Demiurgo, un’intelligenza creatrice e ordinatrice, la quale a sua volta promana sette ministri (Arconti o Angeli), identificabili con le intelligenza planetarie, racchiudenti nelle loro orbite il mondo sensibile. In tal modo, il Demiurgo e i sette Arconti celesti costituiscono anch’essi un’ogdoade che governa la sfera terrena (5) e dunque si può osservare un certo parallelismo tra quest’ultima e gli otto dei promananti da un principio superiore androgino contemplati dalla visione cosmogonica della “teologia ermopolitana”.

“L’uomo è duplice, mortale nel corpo, immortale nella sua essenza”, per cui è dotato di libertà morale, ma nel medesimo tempo “sottomesso al fato, che governa le cose mortali”; per questo attraverso la “gnosi”, la consapevolezza della sua natura spirituale, della quale la maggior parte degli umani sono dimentichi, egli deve risalire attraverso i sette cerchi astrali dominati dai pianeti, abbandonando in ciascuno di essi tutte predisposizioni negative ( la malizia, la lussuria, l’avidità, l’ambizione, la superbia, la falsa scienza), e giungere alfine nell’ottavo cielo, nell'”empireo”, dove potrà intonare gli inni in onore del Creatore.

Il dialogo si conclude con una dossologia, -ovvero un canto di lode (come il “Gloria Patri” della liturgia cattolica)-, rivolta a Dio (6).

Ben più evidenti e significative sono però le analogie tra la cosmogonia di Hermopolis e quella propria del complesso sistema teologico elaborato da Valentino, filosofo gnostico egiziano, -o comunque vissuto e operante ad Alessandria- del II secolo. L’ogdoade di Valentino comprende i primi otto eoni, i più importanti tra quelli che compongono il “Pleroma” (la “Pienezza”), il mondo divino superiore, del quale il mondo materiale e corporeo è solo una degenerazione. Essi, -come gli dei primordiali di Hermopolis- sono raggruppati in quattro coppie (“Sizigie”): Bythos (“Abisso”) — Sighè (“Silenzio”); Nous (“Intelletto”) — Aletheia (“Verità”); Lògos (“Pensiero”) — Zoe (“Vita”); Anthropos (“Uomo”) — Ecclesia (“Chiesa”)(7).thoth_hermes_mercury

Da queste prime coppie di Eoni vengono emesse diverse altre coppie, che appaiono come personificazioni di qualità (“Unico”, “Felice”, “Immobile”, ecc.) e entità astratte (Fede, Speranza, Carità, Comprensione, ecc), che sono distribuiti in una “Decade” e in una “Dodecade”, per un totale di trenta Eoni (o ventotto, se si considera la prima sizigia un essenza unica). Dall’ultimo Eone, Sophia (la Saggezza), -che vorrebbe imitare il Primo ente increato e ingenerato-, viene emanata una materia informe e disorganizzata (che si potrebbe paragonare alla materia primordiale non ancora strutturata in atomi precedente al “Big Bang”).

Da qui inizia un nuovo complicato processo, in seguito al quale, tramite l’intervento di Cristo e dello Spirito Santo, si instaura una nuova gerarchia, articolata in una “Ogdoade” (diversa dalla precedente) e una “Ebdomade”, -cioè un settenario- dominato dal Demiurgo, che è il creatore del mondo materiale ed è identificato nel dio degli Ebrei, ai quali diede la legge mosaica. Tramite Gesù, incarnazione del “Logos” celeste, l’uomo può liberare il suo elemento spirituale da quello carnale (8), che viene scoperto dentro sé stessi per mezzo della conoscenza salvifica.

Occorre peraltro osservare che nei testi gnostici originali scoperti durante l’ultimo secolo non sono esposte teorie cosmogoniche e antropogoniche così complesse come appaiono negli autori che intendevano confutare le interpretazioni considerate eterodosse della figura e della missione di Gesù proposte dai filosofi gnostici.

Ad esempio nel “Vangelo della Verità”, si dichiara che l’intero Universo gemeva nella ricerca incessante di Colui da quale derivava, dell’Inconcepibile e Incomprensibile che trascende tutte le cose. Gli umani, pur essendo nel Padre, non ne avevano consapevolezza; dalla loro ignoranza nacquero la paura e l’errore che dominano la vita della maggior parte dei mortali che brancolano nel buio come in preda all’ubriachezza.

Dall’imperfezione, che è conseguenza della molteplicità, dovuta a sua volta allo scomporsi dell’unità primordiale, l’unico regno divino, si può uscire solo grazie alla conoscenza salvifica (la “gnosi”), con la quale i mortali vengono a riportare il molteplice nell’unità, consumando in loro stessi la sostanza densa e pesante come in una fiamma, trasformando l’oscurità in luce e la morte in vita. L’illuminazione del mondo inferiore si compie per mezzo del Logos incarnato in Gesù, che allontana e distrugge l’errore e l’ignoranza, il Maestro venuto per confondere coloro che si credevano sapienti e donare ai fanciulli, -ossia ai puri di cuore- la gnosi del Padre. Coloro che ne sono illuminati, riescono a ritrovare in sé stessi il Cristo, l’Incomprensibile, l’Inconcepibile, il Padre perfetto, che ha creato l’universo e contiene l’universo in sé.

Un altro significativo documento della spiritualità propria del cristianesimo gnostico, -o meglio di alcune correnti di esso- è la lettera che Tolomeo, -uno dei discepoli di Valentino-, indirizzò alla “buona sorella Flora”. Egli spiega alla sua discepola, -probabilmente una dama dell’aristocrazia romana-, la differenza tra la legge del Vecchio Testamento e quella del Nuovo. Distingue nella prima una parte ispirata da Dio, una decretata da Mosè e una aggiunta dagli anziani del popolo ebraico. Di queste tre parti, la prima non è stata abrogata ma perfezionata e interiorizzata da Cristo (ad esempio il decalogo); la seconda, -come ad esempio la “legge del taglione”- è stata del tutto soppressa poiché incompatibile con lo spirito di carità; la terza parte -che concerne le offerte, i sacrifici, la circoncisione, il sabati, ecc.- deve essere interpretata in senso allegorico: essa è in insieme di norme materiali ed esteriori che sono simbolo dei sacrifici interiori e del retto comportamento etico.

Il legislatore che si è manifestato nell’antica legge non è il vero Dio, il Principio Assoluto che si è rivelato in Cristo, ma non è neppure un diavolo o un demiurgo cattivo, usurpatore -consapevole o inconsapevole-, delle funzioni divine e ingannatore dell’uomo. E’ sì il Demiurgo artefice del mondo materiale, a cui sono intrinsecamente connessi la sofferenza e l’errore, che però non è né buono, né cattivo, ma governa il mondo materiale secondo un principio di equità e di remunerazione, poi superato da quello della carità. Questi insegnamenti, conclude Tolomeo, “ti arrecheranno grande giovamento se, come terra fertile che ha ricevuto semi fecondi, farai spuntare il frutto che per loro mezzo si ricava” (9).

Un altro elemento che lega i vangeli dell’infanzia all’Egitto è la cacciata di demoni e la guarigione di indemoniati, operata dal fanciullino o direttamente o per mezzo di oggetti a lui appartenenti. Infatti nei vangeli apocrifi dell’infanzia, e in particolare nell'”Evangelo arabo dell’Infanzia del Salvatore”, sono riportati numerosi episodi di questo tipo (non meno di nove tra possessioni, ossessioni o malefici operati da spiriti impuri, dei quali sei in Egitto e tre in Palestina). Tra di essi, -oltre alla liberazione del figlio del sacerdote che abbiamo ricordato sopra-, possiamo citare la guarigione di una giovane donna resa muta da un intervento diabolico proprio mentre si apprestava a contrarre matrimonio nel cap. XV e il restituito vigore a un uomo appena sposato divenuto impotente a seguito di un maleficio nel cap. XIX. Dopo il ritorno in Palestina della sacra famiglia si susseguono ancora numerosi miracoli e guarigioni compiute dal piccolo Gesù, tra cui spicca il miracoloso soccorso prestato a una giovane tormentata da un demone in forma di dragone. Il pericoloso animale viene scacciato per mezzo di una delle fasce (un “pannolino”) di Gesù bambino che, come Maria le aveva consigliato, la fanciulla si pone sul capo, di modo che dal telo si sprigionano fiamme che mettono in fuga il drago. Non solo, ma pure il futuro apostolo traditore Giuda Iscariota nella fanciullezza era invasato da un demone che lo induceva a mordere rabbiosamente chi gli stava intorno e che dopo l’esorcismo uscì dal suo corpo in aspetto canino.

Ma l’episodio più insolito è quello narrato nei capitoli XX-XXII, ambientato in Egitto, e che ricorda un po’ la storia di Lucio narrata nelle “Metamorfosi” di Apuleio e che riguarda un giovane che era stato tramutato in mulo ad opera degli incantamenti commissionati da alcune donne (forse innamorate da lui respinte che volevano vendicarsi per la sua ripulsa-ma nel testo in effetti non è precisata la ragione del loro odio-). Maria, -che di solito è colei che intercede per far ottenere le grazie del figlio-, pone il bambino sul dorso del mulo ed egli riacquista forme umane. L’episodio si conclude con le festose nozze del giovane. Questo racconto, benché succinto, è assai significativo poiché è una delle rarissime volte che in un testo scritturale, per quanto apocrifo, appare una trasformazione da uomo in animale e viceversa (10).

Sappiamo che i medici e gli esorcisti egiziani avevano fama di riuscire ad allontanare gli spiriti maligni e di curare le malattie fisiche e mentali da essi provocate, -o che comunque erano loro attribuite-: ma talvolta per ottenere la liberazione delle vittime di possessione o ossessione da parte di dannose entità psichiche è necessario l’intervento diretto di una divinità.

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La “stele di Bekhten”.

Una significativa testimonianza in tal senso ci è offerta da una stele rinvenuta nel 1829 in un piccolo santuario del dio Khonsu a Tebe, di epoca tarda, ma che riferisce eventi accaduti al tempo della XIX dinastia. Secondo quando è narrato nell’iscrizione in essa incisa, il faraone Ramses II durante una campagna vittoriosa (11) sarebbe giunto in Mesopotamia, dove ricevette l’omaggio di tutti i principi di quel paese, i quali cercarono di accattivarsi la sua benevolenza offrendogli ricchi doni. Tra gli altri, si presentò a Ramses anche il principe di Bekhten (12), insieme alla sua figlia maggiore; non appena il re egiziano vide la fanciulla fu soggiogato dalla sua grazia, tanto che volle prenderla in moglie, dandole il nome egiziano di Ra-neferu (13).

Un giorno, nel corso del quindicesimo anno di regno del faraone (e dunque presumibilmente dieci o undici anni dopo il matrimonio), giunse a Tebe un ambasciatore del principe di Bekhten il quale riferì che la sorella minore della sposa reale Ra-neferu era afflitta da una grave malattia provocatale da un demone che si era impossessato del suo corpo. Egli richiedeva altresì che le fosse inviato un medico dall’Egitto che potesse guarirla. Allora il faraone comandò ai sacerdoti si scegliere tra di essi un guaritore “saggio nel cuore e abile con le dita” per compiere la missione. Fu scelto un certo Twehuti-em-heb, il quale partì tosto insieme all’ambasciatore; ma una volta giunto a destinazione, egli dovette constatare con rammarico che le sue cure e i suoi esorcismi non avevano alcun effetto sul demone che tormentava la principessa Bent-ent-resht (così si chiamava la figlia del sovrano). Allora il principe di Bekhten mandò di nuovo un Egitto un ambasciatore per richiedere l’aiuto niente meno che di una divinità.

Fu così che Ramses, -dopo essersi accertato del consenso del dio-, permise che una statua di Khonsu (14) partisse alla volta di Bekhten, dove giunse dopo 17 mesi di cammino. Il dio si recò nel luogo dove si trovava la principessa; dopo che egli ebbe compiuto su di lei una cerimonia, il demone uscì dal suo corpo e fu così risanata. Ma il demone prima di andarsene definitivamente si rivolse al dio egiziano e gli disse: “Gradito e benvenuto è il tuo giungere a noi, o grande dio, vincitore degli eserciti della notte. Bekhten è la tua città, i suoi abitanti sono tuoi schiavi e io sono il tuo servitore. Io partirò per il luogo donde venni, affinché tu sia glorificato, e poiché sei giunto qui a tal fine. Ti prego, Maestà, di concedere al principe di Bekhten e a me di celebrare insieme una festa”. Khonsu acconsentì alla richiesta e fu così celebrata la festa, dopo di che il demone ritornò da dove era venuto.

Avendo avuto modo di constatare la potenza del dio, il principe e il popolo di Bekhten non vollero però che il simulacro di Khonsu ritornasse in Egitto e lo trattennero nel loro paese, dove rimase per tre anni, quattro mesi e cinque giorni (15). Ma una notte il principe fece un sogno nel quale vide un falco d’oro che si innalzava nel cielo e volava verso l’Egitto. Allora dopo aver raccontato il sogno al sacerdote egiziano gli fu detto che il dio era tornato nel suo paese di origine e che dunque anche il suo simulacro doveva essere rimandato indietro. Così la statua di Khonsu ripartì con numerosi doni e andò a riprendere il suo posto nel tempio di Tebe.

La differenza tra il testo egiziano che abbiamo testè riassunto e gli analoghi racconti di liberazione di indemoniati riferiti negli scritti neotestamentari (canonici e apocrifi) consiste nel fatto che mentre in questi ultimi i demoni, pur riconoscendo la superiorità del dio che li espelle, una volta scacciati, si allontanano il più velocemente possibile, mostrando nel medesimo tempo paura e ostilità nei suoi confronti, nella storia della principessa di Bekhten il demone non solo si manifesta accondiscendente e sottomesso a Khonsu, ma gli manifesta devozione ed amicizia, tanto da volerlo onorare con una festa.

CONTINUA NELLA DODICESIMA PARTE

Note

1) Giovanni Stobeo, erudito bizantino proveniente da Stobi in Peonia (nell’odierna repubblica di Macedonia) vissuto nel V secolo. E’ autore di un’opera antologica assai importante poiché in essa riporta brani di moltissimi autori greci, alcuni dei quali sarebbero rimasti del tutto sconosciuti senza la sua testimonianza.

2) stando a quanto afferma il filosofo neoplatonico Giamblico (275 circa-330) nella sua opera “I Misteri dell’Egitto” (VIII, 1) il numero complessivo dei libri attribuiti ad Hermes- Trismèghistos sarebbe ammontato , secondo Seleuco (con ogni probabilità trattasi di Seleuco di Babilonia, filosofo e astronomo del II secolo, i cui testi sono andati perduti), all’incredibile cifra di 20.000; mentre per lo storico Manetone (quello celebre per aver suddiviso la storia dell’Egitto faraonico in trenta dinastie) sarebbero sati addirittura 36.525!

3) in effetti i testi del “C. H.” sono numerati fino a XVIII, ma il XV trattato è mancante.

4) appare evidente anche da questa brevissima esposizione come la dottrina ermetica, -d’altro canto come quella gnostica- presenti significative analogie con quella buddista, oltre che con le concezioni orfiche e pitagoriche.

5) è bene precisare che secondo la gnosi ermetica, l’uomo ha due nature: una spirituale e divina, che è libera ed anela a ricongiungersi con il suo principio; e l’altra psichica e corporea, che è invece soggetta all’influenza del Fato, che a sua volta si esplica attraverso l’influenza degli astri: da qui l’importanza dell’astrologia per comprendere quali sono i condizionamenti, i difetti e i punti deboli che bisogna conoscere per superarli e vincerli – e quindi aiuta nell’ardua impresa del “Conosci te stesso!”, che è in fondo la sintesi della Gnosi, senza la quale non si può accedere al piano divino e realizzare il proprio autentico “sé spirituale”-. I “geni” e gli spiriti che presiedono ai decani e ai gradi del “Calendario Tebaico” del quale abbiamo parlato nella parte precedente incarnano in forma simbolica e mitologica i condizionamenti interiori, le pulsioni oscure che devono essere portate alla coscienza, per poterle poi controllare e incanalare in una direzione positiva, onde governare il proprio destino.

6) oltre a questo insieme di testi di carattere filosofico-religioso, la letteratura ermetica comprende un vasto numero di scritti, (in genere di epoca tarda, tra il IV e il VII secolo -almeno nella forma a noi giunta-), di contenuto eminentemente “pratico” e operativo, che hanno come argomento l’alchimia e l’astrologia, del quale è un esempio il “Liber Hermetis Trismegisti”, che abbiamo citato nella parte precedente, e che si riconnettono all’importanza che hanno queste discipline nell’ambito dell’ermetismo per aiutare nella conoscenza di sé stessi, il superamento dei propri limiti e difetti, e nel cammino verso la divinità.

7) secondo alcune delle testimonianze sul pensiero di Valentino l’essere primordiale sarebbe un entità monadica ed androgina (o asessuata), -alla quale corrisponderebbe la prima delle coppie indicate (ovvero Bythos e Sighè)- dalla quale promana come espansione di energia vitale la seconda siziagia (Nous e Aletheia). Si tenga presente che i sistemi gnostici sono conosciuti soprattutto attraverso la testimonianza di polemisti esponenti del cristianesimo “ortodosso”, che intendevano confutare le dottrine degli “eretici” e quindi il loro valore è in larga parte inficiato dall’intento polemico. Nella seconda metà del 900 peraltro si è potuta avere un’idea più precisa delle scuole gnostiche in seguito al ritrovamento in Egitto di diversi papiri contenti i testi dove sono esposte, in genere in forma di vangelo, le concezioni teologiche e antropologiche gnostiche. Tra di essi in particolare è di eccezionale importanza, sia per numero di testi, sia per ampiezza della documentazione che offrono, quel “corpus” -peraltro piuttosto eterogeneo, e che dunque lascia supporre derivi da scuole diverse- noto come “Fondo gnostico di Nag Hammadi”, che fu scoperto casualmente da un contadino in una giara sepolta nel terreno nel 1948 in una località egiziana dalla quale appunto trasse il nome con cui è noto. I testi di Nag Hammadi godettero di grande considerazione da parte di K. G. Jung -tanto che al codice che contiene alcuni di tali scritti è stato dato il nome di “Codex Jung”-, e alcuni di essi sono conservati nell’istituto Jung di Ginevra-.

8) si confronti l’antropologia valentiniana con quella orfica, dove pure nell’uomo coesistono un elemento materiale “titanico” e uno spirituale “dionisiaco”, nella cui liberazione o redenzione consiste la salvezza.

9) “neoplatonismo” e “gnosticismo” presentano delle indubbia affinità di fondo nelle proprie concezioni ontologiche e cosmologiche; la differenza fondamentale tra le due correnti filosofiche sta soprattutto in questo: nel neoplatonismo il processo di emanazione da Dio-Uno-Tutto è una proprietà intrinseca di quest’ultimo, il quale di necessità si espande nel tempo e nello spazio, -conforme d’altronde alla tesi aristotelica di Dio quale “atto puro” (e non si dimentichi che uno degli aspetti fondamentali del neoplatonismo, in specie di quello di Plotino e Porfirio è proprio la sintesi tra la dottrina di Platone e quella di Aristotele)-, un po’ come una fiamma che per sua natura diffonde anche luce e calore: il mondo psichico e quello materiale sono dunque sì una “degradazione” della sostanza divina primordiale -come la luce prodotta da una fiamma che si affievolisce vieppiù man mano ci si allontani da essa-, che l’anima umana deve trascendere per ricongiungersi al suo “primo fattore”, ma non rivestono un carattere del tutto negativo e deleterio; anche perché essi fanno parte di quell’eterno movimento discendente e ascendente in cui si esprime l’Essere (si confronti l’idea dell’Universo in cui si alternano fasi di “espansione” e fasi di “contrazione”). Nello gnosticismo al contrario il mondo corporeo e materiale è una sorta di degenerazione dell’essere, il prodotto o la conseguenza di una caduta o di un “errore” dovuto all’ignoranza e alla presunzione di una entità cosmica -un eone- che in buona o in cattiva fede si ritiene erroneamente il “vero” dio (e che sul piano antropologico si potrebbe identificare con il “falso Io”, o addirittura con il “Super Ego” della psicoanalisi freudiana), e che dà vita oppure ordina (a seconda delle scuole) l’universo sensibile, che avrebbe quindi un carattere intrinsecamente ed irrimediabilmente negativo. Peraltro in questo schema teorico dianzi esposto esistono molte varianti e forme “intermedie”, e un esempio è appunto la “gnosi ermetica”: essa da un lato si avvicina al neoplatonismo poiché il mondo fenomenico per essa, pur se imperfetto e doloroso, ha una sua insostituibile funzione nel divenire cosmico; dall’altro allo gnosticismo perché considera la “gnosi” ovvero la conoscenza redentrice, la scoperta delle divinità presente nell’uomo il mezzo per “tornare al Padre” e realizzare la propria potenziale divinità. Pure nella concezione espressa da Tolomeo nella “Lettera a Flora” il Demiurgo non ha un carattere del tutto malvagio, ma rappresenta piuttosto lo stadio infimo dell’essere suscettibile da quel momento di una risalita verso l’alto, verso il Principio Eterno. D’altro canto è evidente che qualunque concezione filosofica che ammetta l’Essere come spirito ha come conseguenza che la materia, da cui discende o è connesso il “male”, rappresenta l’elemento dinamico e dialettico senza il quale non potrebbe esistere l'”Universo” -inteso come insieme di enti singolarmente contingenti e transeunti-, ed avremmo solo l’immobilismo aspaziale e atemporale di una realtà spirituale perfetta, ma statica. Pertanto la “degenerazione” avrebbe la funzione di stimolare un processo di “risalita” verso il principio assoluto che porti a un nuovo equilibrio, processo che in pratica sarebbe eterno, -ovvero destinato a non avere giammai una meta definitiva (il che comporterebbe una “fine” dell’Essere, e quindi di Dio)-, e presumibilmente neppure un inizio (poiché l'”inizio” sarebbe in effetti solo l’inizio di uno degli infiniti cicli). Una simile concezione è espressa anche nel pensiero di Giovanni Scoto Eriugena, il maggior filosofo dell’Alto Medio Evo latino, per il quale la realtà dell’essere si estrinseca in un duplice ed eterno moto che consta dei due momenti dell'”exitus”, o “descensio”, il movimento discendente, e del “reditus”, o “reversio”, il movimento ascendente che scandiscono entrambi l’incessante dinamismo dell’Universo  (si veda al riguardo il libro II del “Perì Physeos” -o “De Divisione Naturae”, l’opera principale del filosofo irlandese).

10) per quanto mi consta, questo è l’unico esempio di questo genere che ho trovato in un testo evangelico, ma dato che la letteratura cristiana ed ebraica apocrifa dei primi secoli dell’era volgare è vastissima è possibile che ve ne siano altri, per cui se qualche lettore ne fosse a conoscenza, lo pregherei di farmelo sapere. D’altro canto è evidente che la trasformazione può essere interpretata in senso allegorico, -come per il Lucio apuleiano- come regressione ad uno stato di ferinità dovuta all’annichilimento dello spirito, che l’intervento divino (Gesù bambino posto sul dorso del mulo) fa risorgere.

11) presumibilmente quella da lui condotta contro gli Ittiti in Siria nel 1274 a. C., durante la quale egli in effetti non varcò l’Eufrate e non si spinse dunque fino alla Mesopotamia vera e propria. Ma come è noto le iscrizioni in lode di un sovrano, specie se di epoca assai posteriore agli eventi che magnificano, ampliano a dismisura i titoli di gloria di costui.

12) il nome “Bekhten” indica probabilmente la Battriana, regione dell’Asia centrale entrata a far parte dell’Impero Achemenide e poi di quello di Alessandro Magno e infine sede di un regno greco-indiano. Nell’epoca in cui è ambientata la storia -il XIII sec. a. C.- è difficile che questo paese fosse conosciuto in Egitto, ma come abbiamo detto essa nella forma in cui è stata tramandata fu scritta in età tolemaica; inoltre questa indicazione geografica riveste una certa indeterminatezza, vuole alludere a un paese lontano dell’Asia.

13) questa “sposa reale” di Ramses II è senza dubbio da identificare con Maat-Hor-Neferure, che in effetti proveniva dal regno del Mitanni (conosciuto anche con il nome egizio di Naharina e assiro di Khanigalbat), situato tra l’Alta Mesopotamia e l’Anatolia, uno stato fiorito dal 1530 al 1250 a. C., -sebbene talora vassallo degli Ittiti-, allorché fu conquistato da Salmanassar I e annesso all’impero Assiro.

14) sul dio lunare Khonsu e i suoi legami con Thoth si veda quanto abbiamo detto nella settima parte dell’articolo “Le Amazzoni, guerriere della Luna”, pubblicata il 26 novembre 2015.

15) si osservi che codeste indicazioni numeriche sono riconducibili a un simbolismo numerico-astrale: 3+4+5= 12.

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