L’AFFASCINANTE STORIA DELL’ALBERO DI NATALE -dodicesima parte (conclusione)-

Riprendono la tradizione per la quale il legno della croce fu tratto da un albero che discendeva da quello paradisiaco della Conoscenza anche Gervasio di Tilbury, negli “Otia imperialia”, il quale l’attribuisce a fonti orientali (“traditio Graecorum habet, quod de arbore illa, in cuius fructu peccavit Adam, ramus fuit translatus in Jerusalem, qui in tantam excrevit arborem, quod de illo facta est crux domini”) e Giovanni di Beleth, -teologo e liturgista del XII secolo-, nella “Summa de divinis officiis”. Onorio di Autun (1) invece in un passo del suo “Speculum Ecclesiae” fa derivare il legno della croce non dall’Albero della Conoscenza, ma dal tronco, o dal ramo, che Mosè, per divina ispirazione, gettò nelle acque del laghetto di Mara, -o Merrha- (nome che, come precisato nel testo biblico significa “amaro” o “amarezza”, ed ha quindi la medesima etimologia di “mirra” -“myrrha”-), che erano amare e tossiche, e in grazia del quale esse furono rese potabili (Es., XV, 22-26). Secondo la narrazione di Onorio di Autun, il legno sarebbe stato portato a Gerusalemme, -non si sa se da Mosè stesso o da chi altri in un’epoca imprecisata-, e indi gettato nella “Piscina Probatica” (sulla quale si veda quanto abbiamo detto nella parte precedente), dove tutti gli anni un angelo scendeva e smuovendo l’acqua le donava virtù sanatrici, così che chi vi si immergeva malato, ne usciva guarito. Nel tempo della passione di Cristo, la piscina si prosciugò -sempre stando al racconto inserito nello “Speculum Ecclesiae”- e così il palo apparve sul fondo; i soldati che cercavano del legno per confezionare la croce lo scorsero e lo ritennero adatto allo scopo e pertanto ad esso venne crocifisso Gesù. L’autore istituisce un parallelo tra il popolo ebraico che stava attraversando il deserto e quello cristiano il quale “de hoc mundo ad patriam paradisi revertitur”: come immergendovi il tronco l’acqua prima amara e mortifera divenne buona ristoratrice, così per mezzo della croce di Cristo, fabbricata con quel tronco prodigioso, l’acqua del battesimo diviene fonte di vita.

La morte di Adamo nell’affresco di Piero della Francesca ad Arezzo.

Pietro Comestore (1100-1179)(2) per parte sua, nell'”Historia scholastica”, in un passo si rifà alla versione più nota della leggenda che vuole il legno della croce essere stato tratto dalla tavola tagliata dall’albero nato dalle verghe recate da Seth dal paradiso al tempo di Salomone; in un altro, in parziale contraddizione con il passo precedente, afferma che per confezionare la croce furono utilizzati quattro legni di diversi alberi: di palma, di cipresso, di ulivo e di cedro, per ciascuna delle parti di cui era costituita la croce (corrispondenti all’incirca allo “stipes” al “patibulum”, al “sedile” e al “suppedaneum”, che abbiamo descritto in uno degli articoli dedicati alla santa sindone, circostanza che rende in teoria possibile il fatto che la croce fosse costituita di legni diversi). Il fatto che alla fabbricazione della croce abbiano concorso quattro specie di alberi è un’evidente ripresa della versione della leggenda in cui da tre semi portati da Seth di ritorno da paradiso spuntarono tre arboscelli (di cedro, di pino -o di ulivo- e di cipresso), che in seguito si congiunsero in un’unica pianta, -versione che abbiamo riassunto nella parte precedente della presente ricerca-, pur se in questo caso le piante sono quattro e non si accenna ad una comune origine di esse (3)(4).

Osserviamo inoltre che in tutta la tradizione leggendaria sviluppatasi già nei commenti talmudici e midrasici, e poi nei testi apocrifi sia giudaici sia cristiani, l’Albero della Conoscenza del Bene e del male, e talora pure l’Albero della VIta”, vengono ad assumere decisi caratteri cosmogonici,- come ad esempio abbiano visto durante la nostra trattazione. nel Libro di Enoch, nel Libro dei Giubilei, nella “Visione di Seth”-, che li accomunano agli altri alberi mitologici che abbiamo esaminato nel corso di questa trattazione, i quali affondano le radici negli spazi ipoctoni, hanno il tronco sulla terra ed espandono le loro chiome frondose nell’immenso Cielo. Ma come la croce, strumento della redenzione operata dal Cristo, fu considerata una filiazione, uno sviluppo dell’albero cosmico-metafisico del paradiso, così essa fu a sua volta concepita come un nuovo albero cosmogonico, fondamento e veicolo del rinnovato ordine cosmico portato sulla terra dal figlio di Dio incarnatosi. E già nell’antica poesia cristiana trovasi questa similitudine, anzi questa identificazione, che apparirà poi talvolta anche nell’arte medioevale: ad esempio nell'”Hymnus de Pascha”, attribuito a san Cipriano di Cartagine (III sec.), ma che probabilmente è di epoca posteriore, la croce è vista come un imponente albero cosmico, che si eleva fino al Cielo e dalle cui radici scaturisce una mirabile fonte. I frutti dell’albero donano la vita eterna a chi se ne nutra (così come invece gustando del frutto dell’Albero della Conoscenza si era consegnata alla morte), mentre l’acqua della sorgente purifica e monda da ogni macchia di peccato. Questa suggestiva immagine della croce torna con forza negli inni di Venanzio Fortunato (535-603 circa), poeta che si colloca tra la tarda latinità e l’inizio del ME, dei quali riportiamo alcuni versi: “Fertilitate potens, o dulce et nobile lignum, /quando tuis ramis tam nova poma geris!/ Cuius odore novo defuncta cadavera surgunt/ et redeunt vitae qui caruere diem!” (Carmina, II, 1 -De cruce Domini-, 9-12) (“O potente per la tua fecondità, o dolce e nobile legno,/ che rechi sui tuoi rami sì inusitati frutti!/ Al tuo effluvio ineffabile risorgono i defunti/ e tornano a nuova vita coloro che alla luce terrena si spensero!”); “Arbor dulcis agri, rorans e cortice nectar,/ ramis de cuius vitalia chrismata fragrant,/ excellens cultu, diva ortu, fulgida fructu,/ delitiosa cibo et per poma suavis in umbra” (Carmina, II, 4 -De signaculo sanctae crucis-, 27-30) (“O albero da gradito campo sorto, dalla corteccia nettare stillante,/ dai cui rami l’aroma si spande di lieti balsami,/ insuperato nella crescita, per nascita divino, splendente per i frutti,/ fonte di squisito nutrimento e di ombra ristoratrice!”); “Arbor decora et fulgida,/ ornata regis purpura,/ electa digno stipite/ tam sancta membra tangere” (Carmina, II, 6 -Hymnus in honore sanctae crucis-, 17-20)(5).

“Arbor crucis”. mosaico del XII secolo nel catino dell’abside della basilica di S. Clemente a Roma.

Sebbene nelle leggende fiorite in età medioevale il legno della croce sia di solito fatto derivare dall’Albero della Scienza del bene e del male, non mancano esempi in cui tale salutifero legno trae origine dall’Albero della Vita, o ancora da un altro albero paradisiaco, non citato nella Genesi canonica, detto “Albero della Salute”, al quale accenna in un suo carme, il secondo del secondo libro (“Pange lingua, gloriosi proelium certaminis”), lo stesso Venanzio Fortunato.

Nella famosa “Legenda Aurea” di Iacopo da Varagine (1228-1298)(6), il quale afferma espressamente di rifarsi al Vangelo di Nicodemo, -che dunque sebbene apocrifo doveva godere di una indiscussa autorità per essere citato in un testo senza ombra di dubbio ossequente ai dettami dell’ortodossia-, troviamo la versione sull’origine del legno della croce che dal XIII secolo in poi fu la più diffusa, rimanendo poi l’unica.  Secondo essa, allorchè Adamo cadde malato, avvertendo l’appropinquarsi della morte, mandò Seth nel paradiso terrestre affinchè egli potesse ottenere l'”olio della misericordia”, quale viatico per l’imminente trapasso. Giunto nell’Eden gli si presentò l’arcangelo Michele, il quale gli disse che per vedere esaudita la sua richiesta Adamo avrebbe dovuto aspettare per più di 5.500 anni, fino alla venuta del Redentore. Gli consegnò però un ramo dell’Albero della Conoscenza che avrebbe dovuto trapiantare sul monte Libano, aggiungendo che quando il nuovo albero fosse stato del tutto spoglio Adamo si sarebbe ripreso.

Ma quando Seth tornò a casa trovò che suo padre era spirato ed allora piantò il ramo sulla sua tomba ove crebbe diventando un albero rigoglioso e rimase fino ai tempi di Salomone. Quest’ultimo, osservando quella pianta imponente decise di farla tagliare per utilizzarne il legno nella costruzione del grande tempio di Gerusalemme. Gli artefici a tale opera addetti però non riuscivano mai a trovare la giusta collocazione per il tronco, poiché ovunque lo ponessero risultava sempre o troppo lungo o troppo corto, largo o stretto oltre misura, e vanamente cercavano di ridurlo alle acconce dimensioni. Fu così che l’asse venne gettato al di sopra del corso di un fiume affinché fosse adibita a ponte.

La regina di Saba adora il legno che servirà per la croce di Cristo (affresco di Piero della Francesca).

Quando la regina di Saba giunse a Gerusalemme per far visita al re Salomone, transitando davanti al ponte (che evidentemente, data la sua origine paradisiaca, aveva resistito per quasi mille anni) riconobbe la vera natura di quella tavola e profetizzò che essa sarebbe servita per fabbricare la croce a cui sarebbe stato appeso il futuro salvatore universale. Le sue parole ispirate suscitarono le critiche e l’invidia degli Ebrei, che temevano in tal modo sarebbe venuta meno la loro supremazia e pertanto Salomone comandò che il sacro legno fosse celato in profondità sotto terra.

Accadde però che quando si decise di apprestare una spaziosa piscina per lavare e purificare gli animali destinati ad essere sacrificati nel tempio, nello scavare la fossa all’uopo necessaria, venne di nuovo alla luce l’asse predestinato e la vasca (la “Probatica Piscina” di cui abbiamo parlato nella parte precedente) aperta in quel luogo ebbe la singolare virtù di guarire da qualsivoglia infermità o malattia, dopo che un angelo disceso dal Cielo aveva smosso le sue acque. Quando fu giunto il tempo della passione di Cristo, la tavola affiorò di nuovo e fluttuò sull’acqua e con questo pezzo di legno i Giudei decisero di fare lo strumento del suo supplizio. Dopo la morte e resurrezione di Gesù Cristo, la croce fu nascosta in un luogo segreto e fu ritrovata 300 anni dopo da S. Elena, madre dell’imperatore Costantino, -la quale si era recata in Palestina a tal fine-, grazie alle informazioni estorte ad un ebreo di nome Giuda, il quale era il solo a sapere ove la preziosa reliquia era celata (7). Per indurlo a rivelare il luogo in cui si trovava, l’imperatrice non esitò a far calare il poveretto in un pozzo asciutto, trattenendovelo per una settimana, fino a che non svelò il suo segreto. Ma nel punto indicato dall’ebreo (il quale si convertì poi al cristianesimo, assumendo il nome di Ciriaco, e sarebbe divenuto anche vescovo di Gerusalemme), -sotto un tempio di Venere, che era stato edificato dopo la rivolta giudaica del 132 all’epoca dell’imperatore Adriano-, si rinvennero tre croci poiché vi erano anche quelle dei due ladroni giustiziati insieme a Gesù Cristo, e pertanto per scoprire quale fosse la croce del redentore Elena fece porre il cadavere di un giovane in successione su ciascuna delle croci: allorché fu posto su quella autentica, il giovane resuscitò (8)(9).

In tal modo la croce di Cristo da strumento di sofferenza e simbolo di morte (tanto che nell’arte paleocristiana, come abbiamo già avuto occasione di ricordare, non compaiono mai il Cristo crocifisso o la scena della crocifissione), si trasfigura in una manifestazione della potenza divina, nell’immagine sfolgorante di un cosmo rinnovato dal sacrificio di Cristo (ma che in fondo più che un sacrificio è il compiersi di un percorso mistico, il culminare di un processo iniziatosi con la creazione), in un vero e proprio albero cosmico che sostiene l’Universo e sul quale trionfa il secondo Adamo. La croce alla quale viene appeso Cristo diviene una pianta meravigliosa, come appara ad esempio nell’opuscolo mistico “Lignum Vitae” di S. Bonavetura di Bagnoregio, ove leggonsi i seguenti versi: “O crux, frutex salvificus, viva fonte rigatus,/ cuius flos aromaticus, fructus desideratus”.

E’ assai significativo rilevare come un autore cristiano del IV secolo, Firmico Materno, il quale scrisse un’opera per confutare le dottrine religiose e salvifiche da lui considerate pagane (“De errore profanarum religionum”), pur se animato da un intento polemico e dissacratorio, riconosca la somiglianza e la parentela sia “strutturale” sia simbolica degli alberi che rivestivano  un importanza centrale nelle religioni misteriche salvifiche con la croce cristiana simbolo e strumento della redenzione: “In sacri Phrigiis quae matris deum dicunt, per annos singulos arbor pinea caeditur et in media arbore simulacrum iuvenis subligatur. In Isiacis sacris de pinea arbore caeditur truncus; huius trunci media pars subtiliter excavatur, illic de segminibus factum idolum Osiridis sepelitur.

“Lignum vitae” da cui sgorga la fonte della salvezza (mosaico in S. Clemente a Roma).

In Proserpinae sacris caesa arbor in effigiem virginis formamque componitur, et, cum intra civitatem fuerit inlatam, quadraginta noctibus plangitur, quadragesima vero nocte comburitur. Sed et illa alia ligna quae dixi, similis flamma consumit: nam etiam post annum ipsorum lignorum rogum flamma depascitur.”(De err. prof. rel.”, XXVII) (“Nei riti che si dicono sacri alla Madre degli dei, ogni anno viene tagliato un pino e nella parte centrale del tronco viene collocata un’immagine del giovane -Attis-. Nei misteri di Iside da un pino si asporta un grosso ramo; esso viene accuratamente scavato nel mezzo e con i trucioli che si ricavano da codesta operazione si costruisce un simulacro di Osiride, che è successivamente sepolto. Nelle celebrazioni per Proserpina un tronco d’albero tagliato viene scolpito in forma della vergine dea e la statua, dopo essere stata oggetto di pianti e lamentazioni per quaranta notti, durante la quarantesima notte viene data alle fiamme. Ma in effetti tutti gli altri simulacri lignei che ho prima citato sono destinati ad essere divorati dal fuoco, sebbene a distanza di un anno [ossia quando viene rinnovato il rituale commemorativo di Attis e di Osiride, e dunque il precedente simulacro viene distrutto per essere sostituito da quello nuovo]”).

Firmico Materno contrappone poi a questi legni, a suo parere fonte fallace di redenzione e frutto di inganno diabolico, quello che per lui è l’autentico albero da cui proviene la salvezza, ovvero quello della croce di Cristo, prefigurato da consimili legni, pali, verghe o comunque oggetti lignei (e quindi derivati da un albero), di cui riporta numerosi esempi tratti dall’Antico Testamento -l’arca di Noè durante il diluvio; la verga di Mosè; la tavola con cui quest’ultimo rese potabile l’acqua della fonte amara; l'”Arca dell’Alleanza”; ecc.-, “ut his omnibus, quasi per gradus quosdam, ad lignum crucis salus hominum perveniret” (“affinché, attraverso questi legni, come in un’ascesa per gradi, giungesse all’uomo la salvezza per mezzo della croce”); così concludendo: “Quapropter lignum crucis caeli sustinet machinam, terrae fundamenta corroborat, adfixos sibi homines ducit ad vitam” (“E per tanto il legno della croce sostiene il meccanismo del Cielo, rafforza le fondamenta della Terra, conduca alla vita -eterna- gli uomini che abbracciano ad esso”), tratteggiando così una visione cosmica che prelude agli ampi sviluppi dottrinali -o per meglio dire mistici- ed iconografici che il tema della croce-albero cosmico avrà nel Medio Evo.

Nella croce latina della crocifissione confluì poi il ricco e complesso simbolismo proprio della croce greca (quella a bracci uguali), che, come ben sappiamo (poiché ne abbiamo altre volte parlato nei nostri articoli) è più antico e indipendente rispetto a quello conferitole dal cristianesimo: i due assi che si intersecano rappresentano lo spirito (quello verticale) e la materia (quello orizzontale), nonchè l’orizzonte e il meridiano, sia terrestre sia celeste; i quattro bracci corrispondono ai quattro punti cardinali, ai quattro regni della natura, -minerale, vegetale, animale e umano-, ecc.

Un significato mistico di primaria importanza fu attribuito all’albero di Natale da Rudolf Steiner, il fondatore dell’antroposofia, il quale in una conferenza tenuta a Berlino il 21 dicembre 1909 così si espresse: “Possiamo avvertire qualcosa nell’albero che ci sta innanzi […], un simbolo di quella luce che deve sorgere nell’intimo dell’anima nostra e per mezzo della quale possediamo l’immortalità nell’essenza spirituale […]. Sia per noi un simbolo della luce che viene a illuminare le nostre anime e che arde in esse per innalzarci al mondo spirituale”.

In molte delle numerose conferenze in cui divulgava le dottrine e le intuizioni che costituiscono la base del suo sistema filosofico-mistico Rudolf Steiner analizzò e interpretò i simboli legati al Natale cristiano, i quali per lui non sono altro che riflessi e adattamenti alla nuova religione di un simbolismo assai più antico e più universale, a cui dedicò spesso la sua attenzione. Secondo il filosofo austriaco l’albero di Natale, pur essendo una consuetudine relativamente recente, si riallaccia -come pure noi abbiamo tentato di dimostrare nella nostra trattazione-, ad un vero e proprio archetipo, nel quale sono state veicolate ed espresse concezioni metafisiche, cosmologiche e psicologiche complesse e articolate: esso nella sua natura materiale incarna l'”Albero del Paradiso”, mentre in quelle spirituale rappresenta l'”Albero della Conoscenza” e l'”Albero della Vita”.

Nella conferenza che tenne a Berlino il 17 dicembre 1906 Steiner diede ai suoi seguaci alcune precise indicazioni per decorare l’albero di Natale affinché esso divenisse  non solo un segno di festa e la vaga manifestazione di un generico  simbolismo spirituale, ma una tangibile e precisa testimonianza di una concezione antropologica e mistica, e dunque un vero e proprio insegnamento per coloro che sappiano riconoscerne il significato profondo.

“Così nel significato della festa di Natale sentiamo un eco proveniente dalle più remote età del genere umano […]. Nelle sue tradizioni ritroviamo i simboli dell’umanità più antica. L’albero di Natale con le sue candeline è uno di essi […]. Il Paradiso rappresenta l’insieme della natura materiale, mentre la natura spirituale è raffigurata dall’albero che comprende tutta la Conoscenza e dall’albero della Vita. Un’antica leggenda esprime in modo mirabile il significato di questi due alberi. Seth, il terzo figlio di Adamo ed Eva, stava davanti alla porta del Paradiso aspettando con pazienza di essere ammesso ad entrarvi (10). L’arcangelo di guardia alla fine esaudì il suo desiderio e lo lasciò passare. Questo ingresso significa l’iniziazione (11). Una volta in Paradiso, Seth riscontrò che l’Albero della Vita e l’Albero della Conoscenza erano strettamente intrecciati, tanto da essere divenuti quasi un solo albero. L’arcangelo  Michele, che stava davanti al trono di Dio, gli concesse di prendere tre semi dei due alberi intrecciati: questo evento annuncia il futuro della razza umana, quando l’intera umanità sarà stata iniziata, e avrà conseguito la conoscenza (12). Allora rimarrà soltanto l’Albero della Vita e la morte non esisterà più. Ma per ora solo all’iniziato, a colui che segue la via spirituale è concesso cogliere tre semi da codesto albero, tre semi che significano i tre elementi superiori dell’uomo [Sé superiore; Spirito vitale e Spirito umano].

Nel momento in cui Adamo spirò, Seth gli mise i tre semi sulla bocca: allora da essi germogliò un roveto ardente, il quale aveva una singolare virtù: dal legno che se tagliava sbocciavano di continuo nuove gemme e foglie verdi. Nel mezzo del fiammante nimbo che circondava il roveto stava scritto: -Io sono Colui che fu, Colui che è, Colui che sarà- e tale definizione si riferisce senza dubbio ad un’entità che attraversa tutte le incarnazioni, la forza dell’uomo che incessantemente si evolve e rinnova sé stesso, che discende dallo splendore dello spirito all’oscurità della carne, ma per poi ascender di nuovo dalle tenebre alla luce divina (13).

La verga con la quale Mosè compì i suoi miracoli fu intagliata nel legno del roveto, e la porta del Tempio di Salomone fu confezionata con quel medesimo legno che fu poi trasportato nello stagno di Betsaida [la piscina Probatica], dalle quali trasse le sue molteplici virtù. E con esso fu fatta anche la croce di Gesù Cristo, che ci mostra come la vita convertendosi in morte contenga in sé la forza di generare nuova vita e nella quale vediamo compendiato davanti a noi il grande simbolo dell’Universo: la vita che trascende la morte. Il legno della croce fu tolto dall’albero germogliato dai tre semi dell’Albero del Paradiso; e pure nella Rosa+Croce è manifestato questo simbolo: la morte della natura inferiore, che è la condizione necessaria della resurrezione, della rinascita della natura superiore che da quella promana. Anche Goethe volle esprimere il medesimo concetto con i seguenti versi: -Fino a che non sarai morto, e non sarai rinato, non sei che uno squallido ospite sopra l’oscura terra!-.

Le figure simboliche che per R. Steiner devono essere presenti sull’albero di Natale: dall’alto in basso, il pentagramma (la stella), l’ankh (la croce ansata), il segno del tarocco, il triangolo e il quadrato. Ai lati l’alfa e l’omega; infine dal basso in alto la sequenza dei pianeti disposti a spirale.

“Quale mirabile e stretta connessione possiamo cogliere tra l’Albero del Paradiso e il legno della Croce! Pur se quest’ultima è un simbolo di Pasqua, essa approfondisce e rischiara la nostra comprensione del significato del Natale: avvertiamo così l’idea del Cristo (14) che fluisce dentro di noi nella santa notte della natività quale zampillante sorgente di vita! Questa consolante intuizione è indicata dalle vivide rose che adornano l’albero di Natale: esse ci dicono che, pur se l’albero della santa notte non è ancora divenuto il legno della croce, comincia a sorgere in esso la forza per la trasmutazione spirituale. Le rose che sbocciano da verdi fronde sono segno dell’imperituro che segue l’effimero, dell’Eterno che si sprigiona dal Tempo.”

In una successiva conferenza Rudolf Steiner precisò le rose, che manifestano la trasformazione e l’ascesa dell’anima umana, dover essere poste sull’albero in numero di 33: trenta rosse, rappresentanti l’evoluzione di Gesù durante la prima parte della sua vita terrena; e tre bianche, collocate sopra le altre, corrispondenti ai tre anni in cui, dopo il battesimo, nel corpo di Gesù era entrato lo Spirito Divino. Oltre che rose vere, seguendo le istruzioni del fondatore dell’antroposofia, possono essere utilizzate rose di carta, di vetro, di tela (ma non di plastica).

“Oltre alle rose, altri sette segni sono atti ad ornare l’albero natalizio: il quadrato, simbolo della tetrade umana, ovvero della quadruplice natura dell’uomo: il corpo fisico, il corpo eterico, il corpo astrale e l’Ego; e il triangolo, simbolo dell’Uomo Superiore: il Sé Spirituale, lo Spirito Vitale e lo Spirito Umano.

Sopra il triangolo porremo il segno del “Tarocco”. Gli iniziati agli antichi misteri egiziani sapevano interpretarlo, così come erano in grado di comprendere il “Libro di Thoth”, che consta di 78 fogli sui quali erano scritti tutti i segreti dell’Universo e gli eventi della storia dal principio alla fine, dall’Alfa all’Omega, e che si potevano leggere se si riusciva a connetterli e a combinarli nel modo giusto. Questo libro benedetto conteneva, esposti per immagini i segreti della vita che nella morte si estingue, ma per risorgere poi a nuova vita; e coloro che possedevano la saggezza per collegare correttamente tra di essi i numeri e le figure che ne mostrano il messaggio riuscivano a decifrarlo e a trarne i profondi insegnamenti. La sapienza contenuta nei numeri e nei simboli è stata tramandata fin dalle età primordiali; ancora nel Medio Evo essa rivestiva un’importante funzione, ma ai dì nostri rimane ben poco di essa (15).

Sotto l’Alfa e l’Omega troviamo poi il segno del “Tao” (16), quel venerabile simbolo che ci ricorda la pia e ancestrale religiosità dei nostri antenati, poiché la venerazione che rivolgevano alla natura deriva dal suono “tao”. Prima che in Europa, in Asia e in Africa si sviluppassero le prime civiltà, i nostri avi dimoravano nella terra di Atlantide, che fu poi sommersa dalla acque del diluvio. La memoria di questo misterioso continente vive ancora nelle saghe germaniche che descrivono il Niflheim, la “Terra delle Nebbie”, che non era sovrastata dall’aria limpida e pura, ma avviluppata da enormi banchi di caligine, simili alle dense nubi che avvolgono le vette delle più alte montagne. Il Sole e la Luna non vi apparivano chiari e luminosi nel Cielo, ma erano circondati dall’arcobaleno, la sacra Iride mandata dagli dei (17). A quel tempo l’uomo riusciva ancora a comprendere il linguaggio della natura, quello che pure ai nostri dì parla all’uomo nello scrosciare delle onde, nel mormorio del vento, nel fruscìo delle fronde, nel fragore del tuono, senza essere ormai più compreso, ma che allora gli umani sapevano intendere senza fatica. Essi sentivano che qualcuno parlava loro in tutti i fenomeni della natura: dalle nuvole, dall’acqua, dalle foglie, dal vento risuonava verso di loro la sacra parola “Tao” (“Io sono” o “Quello sono io”). Gli Atlantidi la udivano e la capivano ed erano così consapevoli che il “Tao” pervade e compenetra il mondo intero”.

Sulla sommità dell’albero Steiner consiglia di collocare il “pentagramma”, ossia una stella a cinque punte che simbolizza tutte le energie del cosmo, le quali a loro volta si riflettono nell’uomo, secondo l’antico principio dell’uomo visto come “microcosmo”, che riproduce su scala ridotta gli elementi fisici, psichici, mentali e spirituali del “macrocosmo”. Codesta a è pure la forma che la tradizione assegna alla cometa che fu guida dei magi verso Betlemme, la guida che indica a coloro che ricercano Dio e sé stessi ella via dell’interiorità, il recesso segreto dove si cela la luce del divino nell’anima di ciascuno. Essa è per lui “la stella dell’umanità in continua evoluzione, la stella che tutte le persone assennate seguono nella loro vita, come la seguivano nel lontano passato i saggi sacerdoti. E’ il senso stesso della Terra che nasce nella notte della Consacrazione, perché allora la luce più sublime si irradia dalle più profonde tenebre […]. Non si potrà più dire dunque: -Le tenebre non comprendono la luce-, bensì che la verità risuona negli spazi cosmici, effondendosi con queste parole: -L’oscurità si ritrae al cospetto della Luce divina che emana dalla stella dell’Umanità; le tenebre svaniscono e comprendono la Luce!-” (18).

In seguito il fondatore dell’antroposofia diede ai suoi seguaci il suggerimento di aggiungere alla decorazione dell’albero di Natale altre sette figurine simboliche, che rappresentano i sette astri principali (i due luminari, -Sole e Luna-, e i pianeti da Mercurio a Saturno), ai quali è pure attribuita una funzione importante nell’evoluzione del cosmo e dell’umanità, -che, coma abbiamo già altrove segnalato, si sviluppa per Steiner attraverso un susseguirsi di lunghissimi “periodi planetari”-, e devono essere disposte a spirale secondo il seguente ordine (che corrisponde alla sequenza dei “periodi planetari”): Saturno, Sole, Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere; esse saranno poste in guisa da poterle scorgere tutte osservando l’albero, senza essere coperte da candele o altri ornamenti.

Oltre al simbolismo pressoché universale che, come abbiamo più volte osservato, fa dell’albero il tramite per eccellenza tra Cielo e Terra, tra Divino e umano, in particolare l’Abete, l’albero di Natale per antonomasia, in grazia della sua conformazione conica, da cui deriva una sezione triangolare ove fosse tagliato su un piano verticale, appare anche come un evidente richiamo alla trinità divina.

Conclusione

In tutte le civiltà l’uomo ha avvertito la potenza misteriosa egli alberi, l’energia nel medesimo tempo statica (la solidità e la stabilità che proprio nell’albero saldamente fissato al suolo uno dei loro paradigmi) e dinamica (la lenta, ma continua crescita, il rinnovarsi delle foglie, dei fiori e dei frutti seguendo i ritmi stagionali) da essi emanante e ne ha tratto preziosi insegnamenti, che ha poi sublimato inquadrandoli nelle religioni e nelle mitologie dei diversi popoli. Nell’albero il mondo infero e quello celeste sembrano incontrarsi, manifestando l’unità e l’armonia del Cosmo: le radici -l’universo sotterraneo-, il tronco -la superficie terrestre- e i rami che ne costituiscono la chioma -il cielo- fanno di esso l’immagine perfetta dell'”axis mundi”.

Ma l’albero, specie le piante di alto fusto, come Querce, Olmi, Frassini, Tigli, ecc., sono per eccellenza anche simbolo di lunga vita e di eternità. Gli alberi a foglie caduche, che perdono il loro manto verde d’inverno per poi riacquistarlo in primavera sono l’espressione del rinnovamento e della rinascita della natura, simbolo di morte e di resurrezione, e quindi pure annunciatori della rigenerazione dell’uomo, quando sappia penetrare e cogliere dentro di sé lo spirito vivificatore che informa l’Universo; mentre quelli sempre verdi testimoniano il persistere della vita e l’anelito all’elevazione anche nelle condizioni più avverse: e pertanto l’albero è stato visto, soprattutto nelle civiltà mesopotamiche, e nei miti da esse influenzati, come l’immagine e il simbolo per eccellenza della “Vita” in tutta la sua pienezza.  E pure l'”Erba della Vita” (o “dell’Immortalità”), presente anch’essa in molti miti, che l’eroe ricerca per conseguire uno stato simile a quella divino, o talora trova per caso osservando il comportamento di saggi animali, se ne può considerare una variante: come osserva Mircea Eliade (Trattato di Storia delle Religioni, cap. VIII), “dietro ogni versione dell’erba miracolosa scopriamo l’originario prototipo, l'”Albero della Vita”: la realtà, la sacralità e la vita concentrate in un albero meraviglioso, sito in un centro o in un mondo inaccessibile, i cui frutti solo gli eletti possono gustare”.

I miti che contemplano la creazione dell’uomo o l’origine dell’uomo da un albero sottintendono l’unità tra essere umano e pianta e mostrano la presenza di uno Spirito universale che si espande in tutti e gli esseri senza soluzione di continuità e che anima tutte le cose: pertanto l’albero appare come il tramite naturale e necessario tra l’uomo e Dio. D’altro canto, tenendo conto che la maggior parte delle specie vegetali è ermafrodita -o perché i medesimi esemplari portano fiori sia maschili sia femminili, pur se distinti, o perché tutti i loro singoli fiori sono ermafroditi, possedendo tanto gli organi femminili (ovario e pistillo), quanto quelli maschili (stami e antere)-, esse appaiono come la sintesi degli opposti, inverando nella loro natura il superamento e la sintesi delle dicotomie che contraddistinguono il mondo fisico, spesso in apparenza inconciliabili, nonché causa e al tempo stesso conseguenza delle dolorose lacerazioni che sostanziano quest’ultimo. A compiere questa mirabile sintesi anche l’uomo è chiamato, una volta che abbia trasceso i limiti terreni e realizzato la sua dimensione spirituale: ed infatti esso, come abbiamo più volte rilevato nelle nostre trattazioni, in moltissime dottrine filosofiche e mistiche è concepito come un’entità in origine ermafrodita e potenzialmente rimasta tale e che tende dunque a riacquistare la sua unità e completezza.

Ma per esprimere al meglio il profondo e complesso simbolismo insito nell’albero, che abbiamo cercato di scoprire e di analizzare nella nostra trattazione partendo dall'”albero di Natale”, che ne è la sintesi più moderna e recente, negli allestimenti natalizi sarebbe preferibile, quando possibile, usare alberi veri, dotati di radici, piuttosto che piante tagliate o artificiali (19).

Giunti alla fine della nostra ricerca abbiamo dunque scoperto un’insospettata ricchezza di significati in una tradizione che negli ultimi decenni si è purtroppo trasformata, -come invero tante altre-, solo in una manifestazione di consumismo deteriore, ma non di meno mantiene inalterato tutto il suo fascino. Per concludere vorrei esprimere l’augurio che d’ora in poi coloro che si sono degnati di leggere i miei articoli dedicati all’albero di Natale, guarderanno ad esso con occhi diversi, con maggiore consapevolezza, e sapranno cogliere o preziosi insegnamenti che ci dispensa.

Note

1) Onorio di Autun (1080-1154), autore di diverse opere teologiche, filosofiche ed erudite che abbero ampia diffusione nel Medio Evo, tra le quali le più celebri e reputate sono l'”Imago Mundi” e l'”Elucidarium”. Nonostante il nome con cui è noto, che sembrerebbe attribuirgli una provenienza francese, e più precisamente borgognona, è quasi certo che fosse tedesco, e che l’appellativo “Augustodunensis” non si riferisca ad Augustodonum nella Gallia Lugdunense, ma ad Augusta Vindelicorum in Germania.

2) esegeta e teologo citato pure da Dante in Par. XII, 134, tra gli “spiriti sapienti” nel cielo del Sole.

3) si tenga presente che in realtà la croce con la quale venivano eseguite le sentenze capitali in età romana constava di due parti principali :lo “stipes”, il palo di solito piantato stabilmente sul luogo dell’esecuzione, e il “patibulum”, il palo trasversale che veniva fissato alle braccia e alla schiena del condannato); più altre due parti più piccole, il “sedile”, un piolo conficcato a metà circa dello “stipes” sul quale era posto a cavalcioni il giustiziando, e il “suppedaneum”, sostegno al quale venivano fissati i piedi, ma che non era sempre presente. Pertanto le diverse parti di cui si componeva la croce difficilmente potevano essere tratte da un unico tronco o essere fatte del medesimo legno. Si vedano al riguardo i primi due articoli dedicati alla santa sindone pubblicati il 27 febbraio e il 12 marzo 2018.

4) i quattro alberi col cui legno sarebbe stata costruita la croce hanno il seguente significato simbolico: il Cedro rappresenta la vita eterna (poiché il suo legno è assai resistente ed era ritenuto incorruttibile); il Cipresso la morte; l’Ulivo la concordia e la comunione con Dio; la Palma la vittoria dello spirito e la resurrezione. Questo simbolismo viene così ad aggiungersi e ad affiancarsi a quello che, come abbiamo osservato nella parte precedente a proposito della “Leggenda di Adamo ed Eva”, associava i tre alberelli nati dai semi consegnati a Seth dal cherubino alle tre persone della divina trinità.

5) Venanzio Fortunato, originario della Venetia, si era trasferito a Pictavium (Poitiers) nella Gallia ormai franca, protetto dalla regina Radegonda (518-587), consorte di Clotario I (497-561), re di Aquitania della dinastia franca merovingica. I primi sei carmi del secondo libro dei “Carmina Miscellanea” sono inni in lode della Croce composti dal poeta in occasione dell’arrivo alla corte aquitana di un brano della reliquia della croce donato alla regina dall’imperatore bizantino Giustino II (520-578) e da sua moglie Sofia (530-601). Alcuni di essi, come il secondo (“Pange lingua, gloriosi proelium certaminis”) e il sesto (“Vexilla regis prodeunt”) sono entrati nell’uso liturgico. Il “Pange lingua” di Venanzio Fortunato non deve essere confuso con il più noto “Pange, lingua, gloriosi/ corporis mysterium” di S. Tommaso d’Aquino, sebbene l’inizio sia simile per entrambi, di cui la quinta e la sesta strofa, prese a sé stanti, costituiscono il “Tantum ergo”, cantato soprattutto durante la benedizione eucaristica.

6) Jacopo da Varagine (Varazze, in Liguria), frate domenicano e poi arcivescovo di Genova, autore di diverse opere ascetiche, teologiche ed agiografiche, ma celebre soprattutto per la “Legenda Aurea”, -o “Legenda Sanctorum”-, opera che comprende biografie di santi e racconti su episodi della vita di Cristo, della Madonna o comunque legati ai testi biblici, provenienti da fonti disparate. Tale opera godette di straordinario successo per quattro secoli e fornì una copiosa messe di temi iconografici agli artisti che decoravano gli edifici sacri.

7) lo storico bizantino Sozomeno nella sua “Storia Ecclesiastica” riferisce che l’ebreo era conoscenza del segreto perchè in possesso di un documento che era stato tramandato nella sua famiglia. In altre fonti si trova che sarebbe stato nipote dello Zaccheo citato nei Vangeli, ma già in questi medesimi testi si osserva che il lasso di tempo tra la crocifissione di Cristo e la venuta di Elena in Palestina è troppo lungo perché l’ipotesi sia plausibile.

8) secondo Socrate Scolastico (Hist. Ecclesiastica, i, 17)) e Teodoreto di Cirro (Hist. Ecclesiastica, XVII) per scoprire la vera croce S. Elena si consultò con il vescovo Macario, il quale, dopo aver implorato i lumi del Cielo, ricorse ad una donna gravemente malata, la quale dopo aver provato tutte le tre croci fu del tutto sanata al tocco della reliquia autentica.

9) non riassumiamo la parte seguente della leggenda dove vengono descritte le successive vicende della reliquia, poiché esulano dal tema che stiamo trattando, ma delle quali abbiamo già trattato nella seconda parte della ricerca sulla Santa Sindone (12 marzo 2018). Ricordiamo tuttavia che nel 614, nel corso delle lunghe e rovinose guerre combattute tra l’Impero Bizantino e quello Sassanide, dopo che il generale persiano Sharbaraz aveva espugnato Gerusalemme le presunte reliquie della croce di Cristo furono portate a Ctesifonte, capitale dei Sassanidi, per ordine dello Scià Cosroe (Kushraw) II. Ma dopo che il 12 dicembre 627 l’imperatore bizantino Eraclio ebbe sconfitto lo Scià di Persia nella battaglia di Ninive, riconquistando così la Siria e la Palestina, le reliquie furono restituite ai Bizantini da Kavad II, succeduto a Cosroe, e trasferite prima a Bisanzio e in seguito ricollocate a Gerusalemme. La leggenda della Croce nella versione di Jacopo da Varagine ispirò un celeberrimo ciclo di affreschi eseguito da Piero della Francesca nella basilica di S. Francesco ad Arezzo tra il 1452 e il 1466.

10) Steiner si rifà ovviamente alle leggende fiorite su Seth e la sua visita nell’Eden che abbiamo esaminato in precedenza.

11) per quanto riguarda il concetto di “iniziazione”, centrale in tutte le dottrine mistiche ed esoteriche, per Tammuz, -ossia per me-, è chiaro che esso va inteso come evoluzione interiore personale, fondata e costruita sullo studio e la meditazione, non certo come trasmissione dall’esterno di insegnamenti più o meno segreti e di poteri eccezionali da parte di presunti maestri nell’ambito di scuole, sette, ordini, ecc. spesso di assai dubbio valore e autorità.

12) il fatto che tutti gli esseri umani, sebbene dopo un percorso lungo, faticoso e doloroso, e molteplici incarnazioni terrene (salvo che non abbiano intrapreso una “via iniziatica”), siano destinati a giungere alla “conoscenza”, -ossia alla “gnosi”, alla presa di coscienza della propria natura divina- e alla visione della divinità è uno degli elementi che distinguono nettamente l’antroposofia dallo gnosticismo antico, e ancor più dal manicheismo e dal catarismo, ove invece solo una ristretta parte dell’umanità poteva sperare di poter conseguire la conoscenza redentrice.

13) questo “roveto ardente” è chiaramente da identificare con quello in cui a Mosè nel deserto del Sinai apparve il dio ebraico secondo l’Esodo (III, 1-15). Qui per la prima volta questo Dio si qualifica con il nome di “Jahwè”. Il particolare del roveto ardente che sbocca dalla bocca di Adamo dopo che in essa sono stati posti i semi provenienti dal Paradiso non l’ho finora riscontrato in alcuno dei testi che espongono la leggenda di Adamo ed Eva, di Seth e della sua visita all’Eden e non saprei da quale fonte lo Steiner ne abbia tratto notizia. E’ evidente però, come risulta dal prosieguo della conferenza, che egli fonde il legno del roveto con quello tratto dagli alberi spuntati dai semi portati dal Paradiso da Seth.

14) per l’antroposofia steineriana, -come per altre scuole teosofiche e rosacrociane-, il Cristo è il “Grande Spirito Solare” che entrò nel corpo fisico di Gesù di Nazareth solo nel momento del battesimo nel Giordano. A sua volta in quest’ultimo confluirono due distinte figure, le cui nascite sono descritte l’una nel vangelo di Matteo e l’altra in quello di Luca. Secondo Steiner nel Gesù del quale parla Matteo si era reincarnato lo spirito di Zarathustra, il fondatore -o riformatore- della religione mazdaica, che nel suo dodicesimo anno si sarebbe fuso con l’altro fanciullo Gesù -quello di cui parla Luca-. Tale evento sarebbe adombrato nell’episodio evangelico del suo smarrimento e successivo ritrovamento nel tempio di Gerusalemme, ove il piccolo profeta fu scoperto mentre stava discutendo con i “dottori della legge” (Luca, II, 42-52).

15) in effetti l’origine dei “Tarocchi”, che diedero origine alla carte da gioco ancora comunemente usate, e che numerose scuole esoteriche identificano nel leggendario libro di Thoth, in cui i saggi dell’antico Egitto avrebbero riassunto l’intera loro dottrina, è assai controversa. E’ alquanto improbabile una loro provenienza egiziana, sebbene non sia da escludere che alcune delle figure di cui si compongono possano derivare per vie mediate da quella civiltà. E’ tuttavia indubbio che essi almeno all’origine esprimessero un  simbolismo filosofico; che, per quanto nella forma e con  le caratteristiche ora note risalgano al ME, siano la trasformazione di immagini ben più antiche, di provenienza orientale, presumibilmente indo-persiana, così come gli scacchi (ed è anzi possibile che comune sia l’origine dei tarocchi e degli scacchi); e che la funzione ludica, come gioco di carte, si sia aggiunta in un secondo tempo a quella didattica, religiosa e divinatoria.

16) lo Steiner con il termine “Tao” intende non il simbolo degli opposti complementari in cui si sostanzia e si esprime l’energia cosmica secondo la filosofia cinese detta appunto “taoismo”, ma l'”Ankh”, -la croce ansata- degli antichi Egizi, il simbolo della vita eterna che era attributo di tutte le divinità e, quale essenza divina, componente dell’uomo.

17) in effetti la descrizione di questo continente nebuloso farebbe pensare piuttosto alla Lemuria, la fase dell’umanità che precedette Atlantide, secondo le teorie di H. P. Blavatsky, W. Scott-Elliot, M. Heindel e altri teosofi (si veda al riguardo l’articolo sulla Lemuria del 17 gennaio 2015).

18) la dottrina di Steiner contempla dunque una concezione della natura umana e del cosmo a mio giudizio un po’ troppo ottimistica, che tende a sottovalutare il problema del male, riducendolo a un errore, a uno sbandamento temporaneo, che può solo ostacolare e rimandare la manifestazione della luce, del bene e del divino, ma che è destinato poi a dileguarsi e a dissolversi. L’antroposofia steineriana ha però il merito di proporre un’idea dello sviluppo animico e spirituale dell’uomo che, pur senza eliminare l’elemento gerarchico proprio di un “discepolato”, pone l’accento sulle scelte e sul cammino interiore dell’individuo.

19) in effetti questo è fattibile solo per chi abbia a disposizione un giardino, ove l’albero possa adeguatamente svilupparsi. Di certo è da stigmatizzare l’usanza di tagliare alberi, che in tal modo solo per decorare le case nel periodo natalizi vengono condannati alla triste sorte toccata all’albero di Natale protagonista della novella di Andersen che abbiamo citato nella prima parte di questa nostra ricerca.

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