L’AFFASCINANTE STORIA DELL’ALBERO DI NATALE -undicesima parte-

Il tema dell’albero -e specificamente dell’albero di Pino- è centrale nel mito di Attis, divinità salvifica di cui abbiamo trattato in particolare nella seconda e terza parte di “Le Amazzoni, guerriere della Luna”, -pubblicati rispettivamente il 6 e 27 settembre 2015, di cui invitiamo i lettori a prendere visione-, poiché non solo compie il suo sacrificio all’ombra di un albero di pino, ma, nella versione prevalente del suo mito, egli stesso si mutò, o fu mutato dagli dei, in tale pianta. In questo caso la figura dell'”eroe” (cioè un essere che non è primariamente di natura divina che viene assunto e assimilato allo condizione di dio proprio in grazia delle prove e delle sofferenze che subisce) viene a identificarsi nella pianta stessa che ne diviene in tal guisa un’ipostasi, -così come nel simbolismo cristiano la croce sulla quale fu crocifisso Cristo assurge non solo a simbolo, ma a strumento e viatico della redenzione-. Osserviamo inoltre che il 22 marzo, ricorrenza di “Arbor Intrat”, nel giorno centrale e quindi cuore del ciclo festivo dedicato ad Attis (che durava dal 15 al 28 marzo) e che coincideva con l’equinozio di primavera, all’alba veniva tagliato un pino in un bosco sacro, il quale era poi decorato con strisce di lana, serti di fiori, -soprattutto violette, nate secondo il mito dal sangue sparso dal dio, nonché simbolo del ridestarsi della natura a primavera-, e oggetti che richiamavano sia la vita da pastore condotta da Attis (baculi, borracce), sia il culto a lui tributato (come flauti, cimbali, campanelli, ecc.). Dopo essere stato portato in processione la pianta veniva collocato di fianco al tempio di Cibele, e lì si deponevano offerte alla divinità, per cui l’albero addobbato con i doni con i doni ai suoi piedi ricordava senza dubbio l’odierno albero di Natale, -sebbene sia assai improbabile una diretta derivazione da esso di quest’ultimo-.

Il pino commemorativo del martirio di Attis con le tipiche decorazioni che lo fanno assomigliare ad un “Albero di Natale” ante litteram. L’ariete e il toro sono gli animali che venivano sacrificati nelle cerimonie di iniziazione al sacerdozio dei “Galli” (i sacerdoti  castrati di Attis).

Già in alcuni testi apocrifi,- come avremo modo di vedere oltre-, si accenna al dono ad Adamo o a suo figlio Seth di un virgulto dell’Albero della Conoscenza e/o di piante, aromi e balsami che vengono trasportate e trapiantate in terra, quali simboli di un legame indistruttibile che malgrado il peccato permane nell’uomo; ma solo nelle leggende medioevali la croce di Cristo viene messa in stretta relazione con l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male”, dal cui legno per vie più o meno complicate sarebbe derivata, così che si viene a creare un parallelismo tra l’albero fonte della perdizione e croce strumento della redenzione, che però dal primo trae origine; così come la figura di Gesù Cristo appare come l’antitesi, ma al tempo stesso la “palingenesi” di Adamo, tanto che per sottolineare codesto legame che unisce strettamente i due le leggende medioevali citate non di rado riportano che il Golgotha, il colle della crocifissione sarebbe stato anche il luogo della sepoltura del protoantropo.d in effetti l’aramaico “golgotha” così come la sua traduzione in latino “Calvarium”, significa “cranio” -e “kraniou topos” = luogo del Cranio è detto nei vangeli canonici-: tale denominazione gli sarebbe stata data perché ivi si sarebbe trovato il teschio di Adamo (ma altri volgono che essa fosse dovuta alla conformazione dell’altura somigliante a un teschio umano, oppure ai numerosi crani di condannati a morte presenti in quel luogo). Leggende il cui simbolismo fu non a caso ripreso dalle scuole teosofiche e rosacrociane moderne, nonché dall’Antroposofia di Rudolf Steiner. Di tali tradizioni tuttavia come osservano W. Meyer (“Storia della Croce nel ME”) e A. Mussafia (“Sulla leggenda del legno della croce”) non vi è traccia nell’Europa latina avanti il XII secolo ed è più che probabile che esse siano nate al tempo delle prime due crociate.

Sui due alberi prodigiosi, manifestazioni del pensiero divino, che crescevano nel Paradiso terrestre, l’Albero della Vita e l’Albero della Conoscenza dl bene e del male, scarse e scarne notizie sono date nel testo della “Bereshit”, -ovvero della Genesi-, ma molti altri particolari e leggende suggestive su di essi, -così come pure in generale sulla vita di Adamo e di Eva, prima e dopo la cacciata dall’Eden e sulla loro discendenza-, furono aggiunte da numerosi testi esegetici e apocrifi, sia giudaici sia cristiani, tra i quali i principali sono: alcuni trattati del “Talmud” ebraico; il “Libro dei Giubilei”, altrimenti detto “Piccola Genesi”, poiché integra il testo biblico canonico con una ricca trattazione sui progenitori, sugli angeli fedeli e ribelli, e su altri argomenti ai quali nella Genesi si accenna soltanto; l'”Apocalisse di Mosè”, di cui alcune redazioni sono note come “Vita di Adamo ed Eva”; il “Combattimento di Adamo”; il “Testamento di Adamo (a suo figlio Seth)”; il “Libro della Caverna dei Tesori”.

Nel “Testamento di Adamo”, Seth chiede al genitore quale fosse l’albero il cui frutto osò assaporare, nonostante la proibizione divina e Adamo gli risponde che esso era il Fico, -forse anche perché nella Genesi si dice espressamente che fu con foglie di fico che egli ed Eva si ricoprirono dopo aver commesso il peccato originale-, e tale tradizione rimase abbastanza consolidata sia tra i cristiani sia tra gli ebrei come testimonia Isidoro di Pelusio, eremita greco-egizio morto nel 450 circa, in alcune sue lettere, nonché numerose rappresentazioni dell’arte paleocristiana.

Cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, opera di Giuseppe Cesari, detto il “Cavalier d’Arpino” (1568-1640).

Alcuni esegeti ebraici però, i cui commenti confluirono nel “Talmud babilonese” ritennero che l’albero fosse in realtà una vigna, e tale fu pure l’opinione del Bogomili (1). Nel “Libro di Enoch”, -o per meglio dire nella sezione di esso detta “Libro dei Vigilanti”- il profeta, nel corso della sua peregrinazione negli spazi cosmici e oltre il firmamento con la guida dei “santi Angeli Vigilanti” (da cui trae il nome la prima parete del libro di Enoch) -Uriele, Raffaele, Raguele, Michele, Sarcaele, Gabriele e Remiele-, vede le future dimore ultraterrene dei giusti e dei reprobi; sulla vetta di un’alta montagna posta in posizione centrale in gruppo di sette, tutte costituite di materiali preziosi, gli appare un albero che spandeva un aroma delizioso, le cui foglie e i cui fiori non cadevano e non si disseccavano mai, mentre i suoi frutti erano belli come datteri: quell’albero era l'”Albero della Vita”, i cui frutti avrebbero potuto essere gustati solo dagli Eletti alla fine dei tempi (cap. XXIV); giunto poi al “Giardino di Giustizia”, vi trova un albero che dall’arcangelo Raffaele gli viene spiegato essere l'”Albero della Scienza”, involontaria causa della perdizione dei suoi antenati, il quale somiglia al Tamarindo -o al Carrubo, in altre traduzioni-, ma i cui frutti sono però simili a grappoli d’uva, che spandono all’intorno un profumo balsamico (cap. XXXII,3-5) (si veda su tale argomento la  seconda parte di “Sugli Angeli e sui Demoni” del 25 giugno 2016).

Ma il mitico albero dell’Eden fu identificato con diversi altri alberi: il teologo svizzero Felix Faber (1441-1502), scrive nel III volume dell'”Evagatorium in Terrae Sanctae, Arabiae et Aegypti finibus”, diario di un suo pellegrinaggio, che gli Orientali e in particolare gli Arabi reputavano che esso fosse il “Mauz”, nome reso poi in latino con “Musa”, -che quasi certamente dovrebbe essere il Banano-, poiché, secondo quanto afferma il dotto esegeta, i suoi frutti mostrano, quando sono interi, i segni di un doppio morso, mentre una volta che siano stati sezionati vi si ravvisa un’immagine del crocifisso in ogni fetta che se ne taglia; ed in effetti anche precedenti testimonianze definiscono i frutti del “Musa”, ossia le banane, come “pomi del Paradiso” o “pomi di Adamo” (“poma Paradisi vel poma Adae”)(2). Il missionario ed esploratore francescano Giovanni de’ Marignolli, -detto anche Giovanni da Firenze”- (sec. XIII-XIV), il quale durante il lungo viaggio di ritorno da una missione in Cina per conto di papa Benedetto XII visitò l’Indocina e l’India, paesi che descrisse in un’interessante relazione, assicura per parte sua che furono proprio le foglie di tale albero, le quali, com’è risaputo, sono assai larghe, ad essere usate dai progenitori per coprire le loro nudità dopo aver consumato la loro disobbedienza al divino comandamento (ipotesi che è senza dubbio più plausibile della cintura di foglie di fico di cui si parla in Genesi, III, 7)(3). Comunque sia si credeva universalmente che il frutto vietato, come tutti gli altri che trovavasi nell’Eden, avessero così grata fragranza e così squisito sapore da superare di gran lunga quanti ne nascono in terra. Secondo alcune leggende medioevali piuttosto tarde, almeno nella forma in cui sono ora conosciute, attestate ad esempio nel “Libro di Sidrach” e nei “Fioretti della Bibbia”, Adamo mentre stava deglutendo un boccone del frutto proibito si sarebbe sovvenuto del divino comandamento e in un tardivo moto di resipiscenza si sarebbe stretto la gola con la mano per cui il pezzo di frutto vi rimase bloccato: da questo fatto sarebbe derivato il cosiddetto “pomo d’Adamo” (4).

Nel “Combattimento di Adamo” si afferma che dopo la consumazione del peccato, Iddio fece disseccare l’albero che suo malgrado era stato causa della caduta dei progenitori; e così, “pianta dispogliata” la vide Dante nel Paradiso terrestre, privata delle sue fronde per la colpa di Adamo, ma che poi “rinnovellata di novella fronda”, torna miracolosamente a rivestirsi di un fogliame purpureo dopo la redenzione operata dal Cristo.

In una leggenda medioevale citata da Arturo Graf nel suo interessantissimo libro “Leggende del Medio Evo”, nella cui prima parte espone un’ampia panoramica delle credenze e delle tradizioni legate al mito del “Paradiso Terrestre”, si narra che mille anni dopo il peccato dei progenitori Dio trapiantò l'”Albero della Vita” nell’orto di Abramo. Qui una figlia del patriarca biblico, aspirando l’effluvio dei fiori dell’albero ingravidò e diede alla luce un fanciullo al quale fu dato il nome di Fanuel. Un discendente di costui, essendosi pulito sulla sua propria coscia la lama di un coltello con cui aveva tagliato uno dei frutti dell’albero, vide la coscia stranamente gonfiarsi e dopo nove mesi aprirsi per mettere al mondo una bambina che fu sant’Anna, la madre della Vergine Maria (5).

Nella “Vita di Adamo ed Eva”, -che è una redazione più ampia con aggiunte in senso cristiano del testo noto come “Apocalisse di Mosè” (si tenga presente che il significato proprio e originale del termine “apocalisse” dal greco “apocalipsis” è di “rivelazione”, scoprimento di realtà nascoste)-, si narra che Adamo, giunto alla venerabile età di 930 anni sentì che la vita stava per lasciarlo e dunque convocò al suo capezzale tutti i suoi figli e figlie (che erano entrambi in numero di 32, -oltre a Caino e Abele-). Allora chiamò Seth, il suo terzogenito, e gli chiese di recarsi insieme a sua madre Eva davanti alle porte del Paradiso per implorare il Signore di mandare un angelo a prendere un po’ dell’olio che stillava dall'”Albero della Misericordia”, affinché con esso potessero lenire le pene di Adamo. Prima di giungere all’Eden però essi si imbattono nel Serpente che aveva tentato Eva, il quale morde Seth, lasciando su di lui i segni dei suoi denti, cercando di dissuaderli dal rivolgersi a Dio.

Arrivati alla loro meta, essi cominciarono a piangere e a lamentarsi, supplicando il Signore di avere pietà della sofferenza di Adamo e dare loro l’olio miracoloso. Apparve allora l’arcangelo Michele, il quale comunicò loro che non avrebbero potuto disporre dell’olio miracoloso, che l’esistenza terrena di Adamo volgeva ormai al termine e che dopo la morte la sua anima avrebbe potuto contemplare grandi meraviglie. In una interpolazione posteriore di provenienza cristiana si aggiunge che l'”olio di misericordia” sarebbe stato portato sulla terra da Cristo dopo 5228 anni e che con la sua venuta sarebbero resuscitati tutti i morti e da lui condotti in paradiso. Tornati da Adamo, Seth disse a suo padre che aveva visto una vergine seduta sulla chioma di un albero, con in grembo un fanciullo crocifisso, nonché la profezia dell’arcangelo.

A questo episodio si accenna anche nell'”Evangelo di Nicodemo”: quando Gesù risorto scende nell’Ade per trarne gli antichi saggi, patriarchi e profeti, Adamo invita suo figlio Seth a narrare quanto gli accadde allorché andò in cerca dell’olio prodigioso che avrebbe dovuto alleviare le sue sofferenze e la profezia dell’arcangelo, ovvero della redenzione recata dal Cristo (in questa versione dopo 5500 anni).

Dopo la morte del progenitore, ha luogo la sepoltura sua e del figlio Abele ad opera di Dio stesso, il quale fa portare all’arcangelo Michele dei teli di lino nei quali avvolgere le salme, raccomandando loro di fare lo stesso in futuro con tutti i defunti

Nella versione riportata nell'”Apocalisse di Mosè” -opera in cui non si parla della ricerca dell'”olio della misericordia” e che ha tono e sostanza prettamente giudaici-, dopo la morte Adamo vede scendere dal cielo un carro luminoso traina da quattro aquile magnifiche; un serafino rapisce lo spirito di Adamo e lo pone sulla carro e poi lo trasporta al lago d’Acheronte [e in questo particolare vi è un’evidente influenza delle credenze elleniche sull’al di là], dove lo purifica per tre volte; dopo di che lo conduce davanti a Dio. Infine lo spirito del primo patriarca viene condotto dall’arcangelo Michele al terzo cielo, dove dovrà rimanere fino al giudizio finale.

Il corpo di Adamo viene invece affidato alle cure dell’arcangelo Michele, coadiuvato da Uriele, Gabriele e Raffaele, i quali gli apprestano gli onori funebri; quanto al corpo di Abele, esso, nonostante i tentativi di Caino di nasconderlo in qualche luogo, era rimasto insepolto. La Terra infatti ricusava di accoglierlo nel suo grembo finchè non le fosse stato restituito il limo con il quale era stato plasmato l’uomo, e allora gli angeli lo avevano deposto sulla pietra perché vi rimanesse fino al trapasso di suo padre.

Adamo ed Eva con il corpo di Abele, dipinto di Natale Carta (1790-1884).

Fu così che le salme di Adamo ed Abele furono inumate nel punto ove Dio aveva tratto il fango con cui aveva plasmato l’uomo. Tuttavia la vicenda di Adamo non si conclude qui, poiché si dice, non senza una certa incoerenza, che i due corpi furono traslati in una tomba scavata nella roccia, -simile quindi al sepolcro di Cristo-, presso la quale sette angeli portarono aromi ed essenze, e piantarono arbusti profumati provenienti dal paradiso. Dopo sei giorni Eva raggiunse il compagno nel paradiso, mentre la sua salma veniva sepolta accanto a quella di suo figlio Abele (6).

Eva invita allora Seth a incidere su tavole di pietra e di argilla la storia della vita sua e di Adamo perché fossero di ammaestramento ai posteri (7), dopo di che rende ella pure l’anima. Una volta scritte con l’aiuto di un angelo che guidava la mano di Seth, le tavole furono poste nella casa dei suoi genitori. Con il trascorrere dei secoli però nessuno riuscì più a comprenderne il contenuto. Fu Salomone che, dopo aver supplicato Dio ed aver ricevuto la visita dell’angelo che aveva sorretto la mano di Seth, riuscì a comprenderne il significato, e seguendo il comando di quello stesso angelo costruì sul luogo ove aveva rinvenuti le tavole il tempio di Gerusalemme (8).

L’autore, o il rimaneggiatore, della “Vita di Adamo ed Eva” aggiunge poi Adamo sarebbe stato creato nel luogo ove sorse poi Betlemme, -ovvero la città ove nacque Gesù-, e che il suo corpo fu fatto con il fango che i quattro arcangeli portarono dai quattro angoli della terra; il nome “Adam” poi sarebbe stato scelto dagli stessi arcangeli su comando di Dio: Michele si diresse ad est, ove scorse la stella orientale di nome Ancoli, e ne prese la prima lettera (A); Gabriele al sud, ove vide la stella meridionale, Disis; e ne tolse la prima lettera (D); Raffaele andò al nord e scelse la prima lettera della stella settentrionale, Arthos; Uriele infine si recò ad ovest, in cui si trova la stella occidentale, Mesembrion, da cui prese la prima lettera (M). Quando ebbero portato le quattro lettere davanti a Dio, questi disse ad Uriele di leggerle di seguito e così pronunciò il nome ADAM che fu attribuito all’uomo creato da Dio (9)(10).

La narrazione della ricerca dell'”olio della misericordia” confluì poi con altre tradizioni che si erano formate intorno al “legno della Croce” (Lignum Crucis) e nacque così una complessa leggenda che a partire dal secolo XII si arricchì di suggestivi particolari e ci è pervenuta in diverse versioni redatte in tutte le lingue parlate nella cristianità e la cui redazione più conosciuta e completa è quella inserita nella famosa “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine: secondo tale leggenda la croce, strumento della redenzione operata da Cristo, veniva fatta derivare dal medesimo albero che era stato causa del peccato originale. Una tradizione greca, riportata dal Graf, narra che un ramo dell’Albero della Conoscenza fu trasportato a Gerusalemme e ne sorse una grande pianta onde fu tratto il legno per la croce. In altre versioni fu Adamo in persona che portò seco dal paradiso un frutto o un virgulto dell’albero; mentre in un’altra ancora Dio dopo il peccato avrebbe sradicato l’albero e l’avrebbe gettato sulla terra dove mille anni più tardi Abramo lo trovò e lo piantò nel suo giardino. Ma la variante che prevalse fu quella che, incontrandosi con la tradizione della visita di Seth al paradiso terrestre, volle che l’albero della croce fosse nato dai semi che il terzogenito di Adamo aveva recato con sé dal paradiso (11).

Questa versione della leggenda è certamente anteriore alla fine del XIII secolo e si propagò in tutta l’Europa, dall’Irlanda alla Grecia, dalla Svezia alla Spagna, riscuotendo uno straordinario favore, tanto che come vedremo, diede pure un cospicuo contributo all’iconografia sacra. Secondo tale narrazione, -che fu pubblicata per la prima volta nel 1870 da Alessandro D’Ancona (1835-1914), insigne filologo e studioso di tradizioni popolari-, dopo aver vissuto per 932 anni nella valle dell’Hebron, ormai stanco della vita grama che il peccato da lui commesso l’ha costretto a condurre, lontano dalle delizie dell’Eden, chiama a sé Seth, il suo figlio terzogenito, e gli chiede di recarsi presso il Cherubino che stava di guardia all’Albero della Vita per implorarlo di ricevere l’olio della misericordia, che Dio stesso aveva promesso al peccatore. Gli spiega che avrebbe compreso quale fosse la strada da percorrere dalle impronte che lui ed Eva avevano lasciato, e sulle quali non era più cresciuta l’erba. Giunto alla porta del paradiso, vi trova il cherubino che lo invita per tre volte a gettare lo sguardo nel giardino: la prima volta egli contempla il rigoglio delle piante e dei fiori che vi allignano, la fonte limpidissima da cui sgorgano i quattro fiumi che lo bagnano (il Ghion, il Fison -di incerta identificazione, e forse mitici-, il Tigri e l’Eufrate) e sopra di essa l’Albero della Vita, imponente e frondoso, ma ormai del tutto spoglio. La seconda volta gli appare un enorme serpente avvolto al tronco della pianta. La terza vede l’albero elevarsi fino al cielo e sulla cima un neonato, risplendente di luminoso candore, mentre le radici della pianta penetrano nelle viscere della terra e raggiungono gli Inferi, ove scopre l’anima di suo fratello Abele. L’angelo spiega a Seth il significato della visione, gli annunzia la venuta del Redentore, che porterà agli uomini l’autentico “olio della misericordia” ed infine gli consegna tre semi, dicendogli di metterli sotto la lingua di Adamo dopo che fosse defunto.

E così viene eseguito il comando del cherubino: Seth pone i tre semi sotto la lingua del padre, morto poco dopo il suo ritorno dall’Eden, e lo seppellisce nella valle dell’Hebron. Dai semi sotterrati insieme ad Adamo nascono tre virgulti: uno di cedro, uno di olivo e uno di cipresso, i quali per lungo tempo mantengono sempre una modesta altezza, senza superare mai la misura di un cubito (circa 52 cm). Come si precisa espressamene nel testo, le tre piante sono simbolo delle persone della Trinità: il cedro del padre, l’olivo del Figlio e il cipresso dello Spirito Santo. Quando Mosè guidando gli Ebrei giunse in quel luogo dopo la fuga dall’Egitto, intuì l’origine miracolosa dei tre alberelli, li sradicò li avvolse in un drappo e le affastellò facendone una verga con la quale operò miracoli, come guarire coloro che erano stati morsi da serpenti e far scaturire l’acqua da una roccia per dissetare il suo popolo assetato (12). Indi, sentendo l’approssimarsi dell’ora della sua dipartita, le trapiantò alle pendici del monte Tabor, dopo di che rese l’anima a Dio. Gli alberelli rimasero in quel luogo per più di mille anni fino a che Davide, divenuto re d’Israele, per avvertimento divino, non li trasportò a Gerusalemme, ove, posti un cisterna, misero radici, unendosi poi a formare un’unica pianta, la quale crebbe enormemente nello spazio di trent’anni; sotto quest’albero il re ebraico implorò da Dio il perdono dei suoi peccati e compose i celebri salmi.

Durante il regno di Salomone, succeduto a Davide quale re d’Israele, alcuni artefici, i quali abbisognavano di legno per portare a compimento il Tempio di Gerusalemme, che il nuovo sovrano aveva deciso di costruire, tagliarono l’albero portentoso. Ma, nonostante i loro sforzi, non riuscirono a ad inserire la trave che ne avevano ricavato nel punto dove avrebbe dovuto servire; allora Salomone, persuaso dovesse trattarsi di un miracolo, comandò che il legno fosse collocato nel Tempio ormai completato e ivi esposto alla venerazione del popolo. Accadde però che a una donna, chiamata Massimilla (nome romano invero assai strano e improbabile per un’ebrea vissuta nel X secolo a. C. e che testimonia come questa storia, almeno nella forma in cui è nota, si sia formata in epoca assai tarda), postasi a sedere sopra la trave presero fuoco le vesti; ed ella gridò: “Signore mio, e Dio mio Gesù!”, udendo le quali parole, con le quali preannunciava la futura venuta del salvatore, gli Ebrei, ritenendola rea di bestemmia, la trascinarono fuori dalla città e la lapidarono. Indi tolsero la trave dal tempio e la gettarono nella “Piscina Probatica” (13), la quale una volta che il legno vi fu immerso, acquisì da essa la virtù di sanare gli infermi.

Ma ancora una volta gli Israeliti, furenti per il nuovo miracolo, recuperarono la trave dalla piscina e la misero, quale ponte mobile, sopra il fiume Siloe, affinché fosse calpestata da coloro che volevano attraversare il piccolo rio. Dopo alcuni anni la regina di Saba giunse a Gerusalemme per far visita al monarca ebreo, e avendo ricevuto un’illuminazione divina ricusò di passare sul legno, ben sapendo che esso sarebbe servito per confezionare la croce su cui fu crocifisso Gesù Cristo.

In altre versioni della leggenda, -come ricorda il Graf nell’opera citata-, Seth riporta dal paradiso non già tre semi, ma un ramoscello dell’Albero della Scienza, dal quale talvolta è ancora appesa una parte del frutto morso da Eva (cosa assai strana perché se la donna, per quanto l’ipotesi appaia lambiccata, poteva pur avere morso il frutto senza staccarlo, come avrebbe fatto in tal modo a darlo poi ad Adamo?). Una di queste versioni è quella dell’abate Adelphus, vissuto intorno al 1180, per il quale Seth ricevette dall’angelo un ramo dell’Albero della Scienza, ma quando tornò da suo padre Adamo, egli era già spirato, per cui il ramo fu piantato sulla sua tomba.

In altri testi medioevali, come ad esempio nella “Memoria saeculorum seu Liber memoriale”, opera nota anche con il nome di “Pantheon”, raccolta di leggende sacre composta da Gotofredo da Viterbo (1125-1195 circa), leggesi (parte XIV) che a recare dal paradiso sulla terra il futuro legno della croce non fu Seth, ma un figlio di Noè, chiamato Jonito (o Jonico), non citato nella Genesi canonica (a meno che non sia da identificare con Japhet)(14), ma che appare in racconti medioevali, ed anche nel “Tresor” di Brunetto Latini. Costui, desiderando ammirare le meraviglie dell’Eden, chiese a Dio la grazia di poterle contemplare con i suoi propri occhi e per la sua pietà venne esaudito, così che ne potè portare con sé tre virgulti, di abete, di cipresso e di palma, i quali, da lui separatamente trapiantati, crescendo si congiunsero in un solo albero, che aveva tre colori e le foglie di tre forme diverse, essendo così un’immagine sensibile della divina Trinità. Nei “Fioretti della Bibbia” invece il figlio di Noè, che qui ha il nome di Jerico, si reca nella valle dell’Hebron a visitare la tomba di Adamo, dove trova i tre alberelli, nati dai semi posti sotto la lingua di Adamo secondo la versione che abbiamo esposto in precedenza, li svelle e li ripianta nel luogo ove sorse Gerusalemme.

CONTINUA NELLA DODICESIMA PARTE

Note

1) secondo un’ipotesi il bogomilismo sarebbe nato intorno al 930, ad opera di un prete di nome Bogomil, nome slavo equivalente al greco “Theophilos” = “amico di Dio”; in effetti sembra però che esso si sia sviluppato negli ambito dei numerosi gruppi di Pauliciani (sui quali si veda la quarta parte della “Storia minima dell’idea di Dio, ecc.” del 25 agosto 2017), ed altri “non conformisti” in materia di religione, che l’imperatore Giovanni Zimisce (regnante dal 969 al 976) aveva trasferito in Tracia nel 970 in un territorio a cavallo tra l’Impero Bizantino e il Regno di Bulgaria, e che i suoi seguaci si siano denominati “bogomili” (amici di Dio) per sottolineare la purezza della loro religione. Le loro dottrine si diffusero ampiamente nella penisola balcanica, giungendo a diventare religione ufficiale in Bosnia con la protezione del bano Kulin (1180-1204 circa); nel complesso però questo gruppo religioso fu perseguitato sia nell’Impero Bizantino sia negli altri stati balcanici, in particolare in Serbia. I Bogomili tuttavia vi si mantennero abbastanza numerosi fino alla progressiva conquista turca tra il XIV e il XV secolo, quando la maggior parte di essi si convertì all’islamismo. La loro dottrina si riconnetteva a quelle dello gnosticismo, del marcionismo e del manicheismo (dualismo luce-tenebre, spirito-materia; carattere negativo della materia e del mondo creati da un demiurgo fratello cattivo di Cristo; docetismo; rifiuto della sessualità e del matrimonio, che perpetuano la prigionia dello spirito nella materia -almeno per gli “eletti”-; veganismo); è controverso se da essi sia derivata la religione dei Catari, per molti aspetti simile e che senza dubbio deve esserne stata influenzata.

2) nella sua classificazione botanica  (“Species Plantarum”, del 1753) Linneo attribuì il nome di “Musa paradisiaca” o di “Musa sapientum” al Banano. Si tenga presente però che le numerose varietà di Banano attualmente coltivate in tutti i paesi tropicali a scopo alimentare derivano da molteplici ibridazioni avvenute negli ultimi due secoli per cui risulta difficile risalire alle specie selvatiche originarie da cui  si sono sviluppate. Inoltre i frutti delle varietà coltivate hanno frutti apireni (cioè senza semi) e dunque sterili, così che la loto riproduzione vegetativa si effettua per frazionamento del rizoma o trapianto dei germogli che spuntano dal tronco principale.

3) il vescovo, teologo ed erudito siriaco Gregorios Bar Ebraya (o Grighor Abu’l Farag in lingua araba)(1226-1286) nelle sua opera “Historia compendiosa dynastiarum” riferisce le varie opinioni secondo le quali l’Albero della Scienza sarebbe stato il Fico, la Vite, il Tamarindo o addirittura il Frumento (quest’ultima strana ipotesi si trova soprattutto in fonti musulmane); in alcuni commenti midrasici la pianta è talvolta identificata anche con la Mandragora (Atropa mandragora). E’ singolare che in tutte le fonti antiche dove se ne parla, siano esse ebraiche, cristiane o islamiche, ortodosse o eretiche, l’Albero della Scienza ed i suoi frutti non siano mai identificati nel Melo con i suoi pomi, come avvenne poi nell’iconografia tardo medioevale e moderna. Tuttavia l’albero del giardino delle Esperidi, custodito dal drago Ladone, -mito che, come abbiamo già osservato trattando di tale argomento nella seconda parte di “Le Amazzoni ad Atlantide” del 14 ottobre 2013, deve essere una rielaborazione della medesima fonte mesopotamica dalla quale derivarono, si pure modificati in senso negativo, gli alberi dell’Eden e il “serpente tentatore” della “Bereshit”-, aveva frutti del tipo “pomo”, che vennero poi identificati in età tarda con gli agrumi, e la cui conquista costituì l’undicesima fatica di Eracle.

4) il “Libro di Sidrach” è un testo risalente al XIII secolo (o agli inizi del XIV) scritto nella redazione originale in “langue d’oil” (antico francese), ma di cui furono fatte innumerevoli traduzioni in diverse lingue europee, conoscendo così una vasta diffusione. In esso il leggendario filosofo Sidrach, vissuto 847 anni dopo la dipartita di Noè, risponde ai quesiti che il re babilonese Botozo gli pone si svariati argomenti, dalla filosofia alla medicina.

5) questa leggenda, che, stando a quanto riferisce il Graf, si trova in una “Vita della Vergine” in versi alessandrini composta da Ermanno di Valenciennes, troviero vissuto nel XII secolo, fonde la figura di sant’Anna, madre della vergine Maria, -che non è mai citata nei testi canonici, ma solo in quelli apocrifi, come il “Protovangelo di Giacomo” e il “Vangelo dello pseudo-Matteo”-, con quella della profetessa Anna di cui si parla nell’evangelo di Luca (II, 36-38), e che è detta figlia di Fanuel, appartenente alla tribù di Aser. In effetti la storia ricorda molto ed è stata senza dubbio influenzata, -o addirittura copiata- dai consimili esempi di nascite verginali presenti in svariati miti: nella prima parte, -ingravidamento della figlia di Abramo a causa del profumo dei fiori dell’albero-, abbiamo un parallelo con il concepimento di Attis a causa di una melagrana, o di una mandorla, che la madre Nana, -o Nanaia-, si pone in grembo; nella seconda è evidente l’analogia con la nascita di Dioniso-Bacco dalla coscia di Zeus, in cui il feto era stato cucito per portare a termine la gravidanza, dopo che la madre Semele era stata incenerita dallo splendore del sommo nume che ella aveva incautamente voluto contemplare nel suo divino splendore.

6) sulla presunta tomba di Abele nei pressi della città di Abila e sulle figure di Caino e Abele nelle tradizioni islamiche si veda anche la terza parte di “Incenso e mirra, gli aromi che scrivono nell’aria” del 12 maggio 2015.

7) la scelta dei due materiali è dovuta al fatto che le tavole di pietra avrebbero resistito all’acqua ma non al fuoco, e viceversa quelle di argilla al fuoco e non all’acqua. Come si asserisce più oltre Seth avrebbe vergato la storia di Adamo ed Eva senza aver ricevuto in precedenza alcun insegnamento, mentre la sua mano era guidata da un angelo.

8) sulle tavole di Seth si dice nel testo che fossero contenute anche le profezie pronunciate da Enoch, il settimo patriarca dopo Adamo, affermazione piuttosto sorprendente, a meno che non si intenda (ma questo non è detto) che Enoch non avesse aggiunto le sue rivelazioni agli scritti di Seth.

9) in effetti l’etimologia più probabile, anzi quasi certa del nome “Adamo” è quella che fa derivare tale nome da “adamah” = terra, creta, ma potrebbe essere connesso ad “adom” = rosso, dovuto al fatto che la terra con cui il primo uomo fu plasmato era rossastra e quindi argillosa, e pure a “”dam” = sangue. Edom (il “Rosso”) era anche il nome del figlio di Isacco e di Rebecca, fratello di Giacobbe, il quale come narra la Bibbia gli sottrasse il diritto di primogenitura in cambi di un piatto di lenticchie (Genesi, XXV, 25-34). Secondo l'”Enuma elish”, il poema che espone la teogonia e la cosmogonia assiro-babilonese, Ea, il dio della saggezza, mescolò il sangue di Kingu, figlio di Tiamat, la dea-draga primordiale degli abissi marini, con l’argilla al fine di creare l’uomo al quale fu demandato il compito di adorare e servire gli dei. Queste etimologie peraltro non si escludono, ma si integrano a vicenda poiché tutti questi termini risalgono un’unica radice che contiene l’idea del “rosso”. Si ricorda anche un Adamu che fu il secondo re conosciuto di Assur, l’Assiria, dal 2400 al 2387 circa. Quanto ai nomi attribuiti alle stelle dalle cui iniziali venne tratto il nome ADAM, essi sono senza dubbio alcuno quelli dei quattro punti cardinali in greco, per quanto un poco modificati, e non corrispondenti al significato in greco, poiché mentre Ancoli, l’oriente, è una evidente deformazione di “Anatolè”, e Arthos, il nord, di “Arktos”, -i quali hanno il medesimo significato in greco-; Disis (identico in greco) e Mesembrion (Mesembrìa), che indicavano rispettivamente l’occidente e il sud, qui sono invertiti ed attribuiti al sud e all’ovest.

10) nella “Vita di Adamo ed Eva” si legge ancora, in parziale contraddizione con la creazione di Adamo con solo fango a cui viene insufflato il soffio della vita e lo spirito divino, che il corpo del primo uomo era costituito di otto componenti: dal fango derivò la carne; dal mare il sangue; dalle pietre le ossa; dalle nubi; dalle nubi il pensiero; dal vento il respiro; dal Sole gli occhi; dalla “luce del mondo” l’intelligenza; dallo Spirito Santo l’anima.

11) è degno di nota il fatto nelle narrazione leggendarie che si svilupparono da apocrifi cristiani, -o giudaici, ma modificati in senso cristiano-, la figura di Seth, il terzogenito della prima coppia umana, oltre a ricevere una completa rivelazione della vita dei genitori nell’Eden e di come avvenne la loro caduta, è presentata come colui che riscatta il loro peccato e la prefigurazione degli “eletti” della futura umanità redenta.

12) l’episodio dell’acqua fatta sgorgare da una roccia percossa da Mosè con una verga si trova pure nell’Esodo (cap. XVII), dove il prodigio viene compiuto su indicazione di dio, anche per tacitare l’inquietudine e le proteste del popolo, il quale non di rado durante la traversata del deserto si mostrava incredulo verso le promesse di Mosè e del suo dio.

13) la “Piscina Probatica” (“Probatikè Limnè”) era cosi chiamata perché si trovava nelle vicinanze della “Porte delle Pecore”, da “Pròbaton” = “gregge”. E’ citata anche nel vangelo di Giovanni, poiché accanto ad essa avvenne il miracolo della guarigione del paralitico (Giov. V, 1-18).

14) nell’undicesima sura (“Hud” – “Il Profeta”) del Corano (42-43) viene citato un quarto figlio di Noè che rifiuta di imbarcarsi sull’arca e al momento del diluvio preferisce ricoverarsi sopra un monte, e per questo perisce anch’egli annegato, come tutti coloro che non avevano creduto alla profezia di suo padre sull’imminente cataclisma, e che quindi diviene un prototipo del miscredente. E’ tuttavia improbabile che sia da identificare con lo Jonito del racconto di Gotofredo di Viterbo.

 

 

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