PETER PAN E PINOCCHIO (nona parte)

A causa del suo rifiuto, anzi del suo orrore, per la vita adulta, e di conseguenza per tutti gli strumenti che portano ad essa, -la scuola, lo studio, le buone maniere-, e per quelle che ne sono l’essenza e la principale manifestazione, -le attività lavorative, gli impegni familiari e sociali-, Peter Pan si può legittimamente accostare ai “monelli”, irriducibili nemici della scuola, dello studio, del lavoro, dell’autorità e della disciplina, che sono spesso protagonisti o comprimari della letteratura per l’infanzia, o per l’adolescenza, quali Hucleberry Finn, Ciuffettino, Ciondolino, Gianburrasca, e soprattutto a Lucignolo. Anche quest’ultimo infatti sceglie la via del rifiuto della vita adulta, anela a un mondo senza scuole, nè maestri, il Paese dei Balocchi, -felice invenzione del Collodi, pur se richiama un po’ il “Paese di Bengodi” della narrativa popolare-, luogo di delizie, paradiso dei fanciulli svogliati, che per un certo aspetto si potrebbe paragonare all'”Isola che non c’è”: ma invero vi sono molte differenze tra i due: mentre il “Paese dei Balocchi” è un luogo dove non si fa altro che giocare dalla mattina alla sera, il regno della più assoluta e illimitata irresponsabilità, -e al lume della logica, verrebbe da chiedersi chi mantenesse tutti quei ragazzini dediti unicamente al divertimento-, l'”Isola che non c’è” solo all’apparenza è il regno della fantasia, i suoi abitanti, a comiciare dai “lost boys” devono lottare per l’esistenza, devono procurarsi il cibo, tra mille fatiche e pericoli, è un luogo dove regna la natura incontaminata, -che come ben sappiamo pur se splendida è spietata-, e solo con i pirati, e in particolare Giacomo Uncino, con il suo culto dell’esteriore raffinatezza, la civiltà sembra in qualche modo penetrarvi, e forse proprio per questo egli e Peter Pan si odiano tanto.

Ma Peter Pan non odia solo Uncino: odia tutti gli adulti, nei quali vede la negazione della sua vita e della sua natura, e che in un modo o in un altro si frappongono, o comunque ostacolano sempre la realizzazione dei suoi desideri, a tal punto che, a suo modo cerca anche di ucciderli: quando Wendy gli manifesta la sua volontà di tornare a casa dai suoi genitori, Peter Pan, sotto il manto di un’ostentata indifferenza, “era così pieno di rancore verso gli adulti, che, come sempre, stavano sciupando ogni cosa, che appena si trovò dentro il suo albero mandò con intenzione brevi e rapidi respiri, circa cinque al secondo. E fece questo perchè si dice nel Paese che non c’è che ogni volta che uno respira un adulto muore”. Questa strana convinzione è il corrispondente di quella parallela secondo la quale ogni volta che un bambino smette di credere alle fate, una di esse cade a terra morta (e viceversa, come abbiamo visto nella parte precedente, che la fede convinta e univoca dei fanciulli nell’esistenza delle fate, -creando quello che secondo certe dottrine esoteriche sarebbe un “eggregoro”, un pensiero collettivo che acquista vita autonoma-, arreca la salvezza a qualcuna di esse che versi in gravi difficoltà).

Ma, come ci dice la psicologia del profondo (e forse anche la semplice intuizione e riflessione), nulla, e soprattutto nessuno, suscita la nostra avversione e antipatia più delle cose e delle persone che incarnino, -o sembrino incarnare-, le nostre paure, le nostre insicurezze, e soprattutto quella parte di noi che non vogliamo o non sappiamo accettare, e che, in modo più o meno inconscio, ci appaiono come lo specchio di quanto temiamo di diventare; e dunque nell’avversione di Peter Pan per gli adulti è difficile non ravvisare il timore, per non dire il terrore, che la sua eterna giovinezza, la libertà e la fantasia illimitate di cui gode, pur se a prezzo della mancanza del nido sicuro della famiglia, possano un giorno finire e di scoprire in sè quella grigia mediocrità in cui identifica l’età adulta, e che egli aborre come il peggiore dei mali. Pertanto è probabile che Peter Pan, pur senza rendersene conto, più che gli “adulti” in generale, voglia uccidere l'”adulto” che teme di scoprire in sè stesso.

La caratteristica pregnante dell'”età adulta” dovrebbe essere la “maturità”, fisica e psicologica; ma definire invero che cosa essa sia o in che cosa consista risulta assai problematico: negli animali non umani il raggiungimento dell’età adulta, – e la conseguente maturità-, si hanno allerchè un soggetto ha portato completamente all’atto le potenzialità biologiche ed etologiche proprie della sua specie (riuscire a procurarsi il cibo; sfuggire ai predatori e riuscire ad affrontare efficacemnte i mille pericoli e insidie quotidiani; riprodursi; provvedere alle necessità della famiglia); ma per quanto riguarda la specie umana è chiaro che nella definizione di “età adulta” intervengono anche, e soprattutto, fattori di natura culturale e sociale, per cui un determinato comportamento può essere considerato più o meno accettabile per una persona “seria e responsabile” secondo i tempi e i luoghi, e in diversi ambienti sociali e culturali: ad esempio, il collezionare francobolli, o altre cose inutili, spendendo anche cifre notevoli per incrementare la propria collezione, non è ritenuto in contrasto con la serietà dell’adulto nella società borghese europea, mentre sarebbe stato considerato un comportamento assurdo e puerile, indegno di una persona seria nel ME o in una tribù del “terzo mondo” (1); anche lo sfrenato tifo sportivo, nel quale spesso nelle società contemporanee vengono convogliate ed espresse passioni primordiali, pur con qualche riserva ed entro certi limiti, non viene ritenuto disdicevole per le persone serie, che non trovano nulla da eccepire sull’interesse eccessivo verso le attività sportive agonistiche, massime il calcio, salvo quando degeneri nella violenza, e verso i fiumi di parole inutili che vengono spesi negli interminabili “talk shows” dedicati all’argomento. E si potrebbero fare moltissimi altri esempi: dalla sfrenata ricerca del profitto, che nelle sua dissennata corsa che davanti a nulla si ferma, -e porta non di rado a comportamenti e a vere e proprie ossessioni che si ritorcono contro il soggetto medesimo-, alla caccia cosidetta “sportiva”, che non esita a sopprimere vite innocenti, non per la propria sopravvivenza, ma solo per una discutibilissima soddisfazione personale.

Di tutti i parametri ideati da psicologi e sociologi per definire la “maturità” i principali e più comunemente accettati sono il superamento dell'”egocentrismo”, e il raggiungimento dell'”autonomia”, specialmente affettiva, -poichè “egocentrismo” e “dipendenza”, pur se potrebbero apparire antitetici, sono considerati i cardini dell’affettività infantile-. In effetti però se rivolgiamo la nostra attenzione agli individui adulti della specie umana, osserveremo come la grandissima parte di essi non abbia affatto superato l'”egocentrismo”, pur se in genere viene spostato da un lato verso un egoismo di tipo familiare e/o sociale, dall’altro verso forme di “etnocentrismo”; quanto all'”autonomia”, credo sia inutile sottolineare come la maggior parte degli individui, dato il basso livello di cultura e l’infimo livello di consapevolezza di sè stessi di cui sono dotati, siano del tutto assoggettati a quelli che il filosofo Francesco Bacone chiamava “idola fori”, -i pregiudizi, le opinioni prevalenti supinamente accettate, i valori (o pseudo-valori) sociali fatti propri senza alcun spirito critico-, e di conseguenza come la maggior parte della gente “matura”, sia ampiamente influenzabile; e questo bene lo sanno i manipolatori professionali, i professionisti della comunicazione (dai pubblicitari ai consulenti degli uomini politici) che cercano, -in genere con successo- di indirizzare le opinioni e i gusti della gente a un determinato fine, servendosi con abilità dei sofisticati strumenti messi a disposizione dai progressi nel campo della tecnologia delle comunicazioni. Per non parlare di quella suprema forma di dipendenza emotiva che è il cosiddetto “amore”, -intentendo con tale termine, che senza dubbio è uno dei più polivalenti e polivoci dell’intero vocabolario-, il legame fondato e sostanziato di attrazione fisica che si instaura tra due individui di diverso sesso, o anche del medesimo, che altro non è che un incontro di egoismi, pur se talora rivestito di insulse melensaggini, effimero in sè, ma che il più delle volte viene sostituito da un altro legame altettanto effimero; relazioni emotive con le quali l’uomo si illude di uscire dalla sua solitudine associandola ad un’altra senza riuscire a trascenderle entrambe(2).

Dal che risulta come sia assai difficile, per non dire impossibile, stabilire che cosa sia la “maturità” per la specie umana, o per meglio dire per gli individui umani, secondo criteri rigorosamente psicologici, o biopsicologici, e non etici o filosofici. Ne deriva quindi il carattere relativo e fortemente legato ai fattori contingenti sopra indicati del concetto stesso di “maturità”; a meno che non venga coincidere con quello di “autorealizzazione spirituale”, o comunque personale, come conoscenza di sè stessi, proprio delle dottrine filosofiche e mistiche, con le quali però entriamo in una concezione nettamente aristocratica (nel senso migliore del termine) poichè tale autorealizzazione è di certo una meta alla quale pochi possono aspirare (su tale argomento si veda quanto abbiamo detto nella quarta parte della presente trattazione).

Peter Pan non ricorda nulla delle sue avventure e delle sue pur alquanto movimentate vicende che vive nell’Isola che non c’è non perchè sia smemorato o affetto da amnesia, ma perchè su di lui le emozioni sembrano non lasciare alcuna durevole traccia, svaniscono come sogni fugaci e fallaci, ed egli non subisce alcun trauma dagli eventi che vive o a cui assiste: per questa ragione egli rimane sempre giovane e sempre fanciullo. Su di lui non si depositano gli amari sedimenti del disinganno e non è intaccato e plasmato non solo dall’educazione, -che non riceve, non avendo genitori e non frequentando a scuola-, ma neppure dall’esperienza, che è il mezzo principale attraverso cui avviene, in modo più o meno graduale e/o più o meno traumatico, il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, sia che si veda questo processo come “crescita”, come “maturazione”, oppure come semplice cambiamento, o leopardianamente come perdita delle “illusioni” o addirittura come involuzione dalla pristina innocenza al deterioramento operato da una società che ha perso il legame con la natura (3). In questo senso l’eroe di Barrie si potrebbe paragonare al “buon selvaggio” rousseauiano, all’individuo non ancora corrotto dalla “civiltà”, e da una educazione che, anzichè sviluppare ed esaltare le qualità innate, mira a inculcare valori e comportamenti innaturali e artificiosi. E’ un essere che vive a contatto con la natura e con le proprie emozioni incotrollate, uno spirito-uccello che vaga negli intermondi e che pertanto non può attraverso quel processo di crescita che solo una madre può guidare, diventare un “vero” adulto, e neppure un “ragazzino per bene” (come Pinocchio), e non può così che vivere in quella specie di limbo che è l'”Isola che non c’é”, patria dei bambini prima della nascita, dove sono costretti a rimanere i fanciulli che, pur essendo nati, ed avendo quindi assunto la forma umana, non hanno potuto vivere la loro infanzia accanto a una madre amorosa; mentre per quelli che hanno avuto tale fortuna l’Isola che non c’è rimane nel cuore come il nostalgico ricordo di una patria smarrita, ma dove ritrovare con la fantasia il legame con la propria realtà più autentica. Sotto questo aspetto Peter Pan potrebbe paragonarsi al Mowgli del “Libro della Giungla” di R.Kipling, che vive anch’egli al di fuori della società e della civiltà umane;  ma da lui lo differenzia l’intenso e specialissimo legame che quest’ultimo intrattiene con gli animali, che, pur incarnando qualità e difetti umani, conservano sempre il loro peculiare carattere naturalistico, legame con gli animali che è pressochè assente in “Peter Pan e Wendy”, -mentre, per quanto su un piano del tutto diverso, si ritrova in “Peter Pan nei giardini di Kensington”, dove gli Uccelli, insieme alle Fate, sono la famiglia di Peter Pan-.

Delle avventure di Pinocchio sono state proposte le più svariate interpretazioni (antropologiche, sociologiche, psicologiche, esoteriche, ermetiche, ecc.), -molte con ogni probabilità estranee alle intenzioni dell’autore-(di alcune delle quali abbiamo già fatto cenno), tanto che, oltre ad essere una delle opere più tradotte della letteratura mondiale, è senza dubbio anche una delle più interpretate: si sono visti in esso il simbolismo massonico e il cammino iniziatico della “Grande Opera” alchemica, la ricerca del “Sè”, il ritorno del figliuol prodigo alla casa del padre, una “Divina Commedia” dei bambini e un ‘”Odissea”, parimenti dei bambini, e tante altre cose. E pur tutttavia non si può fare a meno di riconoscere che la storia di Pinocchio, come tutte le storie di trasformazione e di rinascita (poichè in effetti tale essa è), al di là dell’apparente semplicità del testo, lascia certamente spazio a molteplici “piani di lettura”, sia per gli indubbi simbolismi che vi si riscontrano, sia per il suo inserirsi in una tradizione letteraria, -quella del “racconto fantastico”-, alla quale Collodi non poteva evidentemente non rifarsi, forse talora anche in modo involontario. Dunque non a torto il romanzo collodiano è stato accostato ad opere quali le “Metamorfosi” di Apuleio, il cui protagonista, Lucio, pur con la differenza delle situazioni che vive, -in genere ben poco adatte a un pubblico infantile-, è anch’egli un “Pinocchio”, che si lascia facilmente irretire da persone e situazioni in apparenza allettanti ma che, oltre a sviarlo dalla retta via, lo inducono a cacciarsi nei guai, che si ritrova trasformato in asino, e alla fine dopo un lungo cammino di espiazione e di resipiscenza approda alla salvezza, lasciando le spoglie asinine come Pinocchio lascia quelle del burattino.

Ma nel romanzo collodiano, con maggiore o minore fondatezza e talora non senza evidenti forzature, sono state viste analogie con molte altre opere della letteratura universale: ad esempio con l'”Odissea”, tanto che fu definito “Odissea dei fanciulli”, e secondo alcuni critici, -come Cesira Taroni-, il Collodi avrebbe trasferito il significato e le vicende del poema omerico nella sua opera, facendone una sorta di poema epico per i piccoli, dove in alcuni episodi si sono volute vedere analogie, o possibile fonti di ispirazione nelle imprese compiute da Ulisse: in particolare il Pescatore verde nel cui antro va a finire il burattino è stato paragonato a Polifemo, -ed in effetti tale figura, per aspetto e comportamento, ha connotati e caratteristiche decisamente mitologici-. Nell’episodio di Pinocchio risucchiato nel ventre del Pesce-cane già i primi commentatori videro una reminescenza del passo biblico di Giona inghiottito dal grande pesce (nel secondo capitolo dell’omonimo libro) e delle bizzarre avventure narrate da Luciano di Samosata nella sua “Storia vera”; altri ancora hanno tirato in ballo l'”Orlando furioso” dell’Ariosto, -specie per il volo di Pinocchio sul dorso del Colombo paragonato a quello di Astolfo sull’Ippogrifo-; i poemi fantastico-grotteschi del Rabelais, del Pulci e del Folengo; i “Viaggi di Gulliver” di J. Swift; il “Don Chisciotte” di Cervantes, raffronti che, al di là della similitudine di singoli episodi e del carattere genericamente avventuroso, appaiono spesso alquanto forzati. Più calzante, a nostro giudizio, il parallelo con alcuni dei romanzi picareschi spagnoli del XVI e XVII secolo, in particolare con “Lazarillo de Tormes”, considerato il prototipo di questo genere di opere letterarie: in codeste narrazioni infatti assistiamo a un cammino in cui i protagonisti, pur se le loro disposizioni d’animo sono oneste, si trovano ad affrontare una serie di situazioni che contribuiscono a corromperne l’originaria bontà, a renderli dei bricconi, ma a cui fa seguito una progressiva risalita che li fa giungere, se non a una vera e propria palingenesi, ad una elevazione a un tempo sociale e morale. Anche la galleria di personaggi riprovevoli e furfanteschi con i quali Lazarillo ha a che fare trova un sia pur pallido riscontro, tenendo conto delle ben diverse ambientanzione e destinanzione, nei molti imbroglioni, ciarlatani e prepotenti che compaiono nelle avventure di Pinocchio.

Sono pochissime, forse nessuna, le opere della letteratura per l’infanzia in cui si possa ravvisare un vera e propria ispirazione religiosa, -nel senso confessionale del termine, non di generica intonazione spiritualistica e/o moralistica (e in questo senso lo sono quasi tutte)-, non superficiale e non convenzionale; anzi di solito in esse mancano dal tutto Dio e la religione. Ed è giusto così, perchè al bambino è del tutto estranea non solo, -com’è ovvio-, l’idea filosofica di Dio (Principio universale; Essere assoluto e incondizionato; Sommo Bene, ecc.), ma pure quella del Dio unico e personale propria delle religioni teistiche; la sensibilità e la mentalità dei fanciulli sono in tutto e per tutto “pagane”, -intendendo tale termine come riferito a credenze aliene da strutture dogmatiche e da imperativi morali- (4): per il fanciullo l’Universo, o per meglio dire, l’orizzonte del mondo che lo circonda è sì popolato da spiriti e percorso da energie psichiche personificate e antropomorfizzate, pieno di geni, di fate, di folletti, di solito ambivalenti, buoni o cattivi a seconda delle circostanze -così come è lui stesso-, che talora teme e talaltra cerca di ingraziarsi, o addirittura tenta di ingannare, come un “eroe trickster” della mitologia, ma con i quali si sforza comunque di instaurare un rapporto di “do ut des”, non certo fondato su una fede filiale e disinteressata; ma non vi trova posto un dio unico immanente, nè tanto meno trascendente, creatore e redentore. Pertanto il suo comportamento e la sua “fede”sono perfettamente assimilabili all’atteggiamento religioso del primitivo, e viceversa la religiosità di quest’ultimo è simile a quella del fanciullo, -come già ebbero giustamente a osservare diversi studiosi, come Robert Frazer-.

La sensibilità morale dei bambini consiste in un'”etica” a un tempo sentimentale e utilitaria, e se sono riprovati la malvagità gratuita e il mancato rispetto di certe “regole”, invero alquanto elastiche, in particolare la compassione per  deboli e gli indifesi, è del tutto legittimo vendicarsi dei nemici, di chi è stato causa anche involontaria di dolore e frustrazione, e premiare gli amici (posto che la percezione del carattere di “amico” e “nemico” è piuttosto fluttuante e soggetta a valutazioni spesso arbitrarie, almeno agli occhi dei “grandi”), e non si fa nulla per nulla, a meno che non si tratti di un essere indifeso, ma pure in questo caso entro certi limiti, poichè lo si aiuta, ma non a costo di rimetterci. Nell’insieme il loro agire è ispirato da un naturale e granitico egoismo, non temperato o edulcorato dall’adesione più o meno convinta ai principi morali ritenuti cardini della società che viene professata dagli adulti (spesso più a parole che nei fatti), ma talora solo dalla personale sensibilità del singolo individuo (il “cuore” da cui proviene la redenzione di Pinocchio). A questo si aggiunga la tendenza a rifiutare, emarginare, deridere, talvolta a “bullizzare” coloro, -coetanei, ma non solo-, i quali a causa di presunte anomalie fisiche o comportamentali, o della difficoltà, o incapacità, -per inettitudine fisica o estraneità caratteriale-, a fare propri schemi e “valori” considerati preminenti e ammirevoli (vigoria fisica, abilità nei giochi sportivi, scurezza nelle relazioni sociali) sono considerati inferiori ed inetti e oggetto di disprezzo. Modi di pensare e di agire che si ricontrano anche negli adulti, ma che in questi ultimi in linea di massima sono frenati e contenuti, -o magari solo mascherati-,  dall’educazione e dalla necessità di mantenere una “civile convivenza”, mentre la spontaneità infantile, se da un lato va contro l’ipocrisa delle convenzioni sociali, dall’altro porta spesso a comportamenti, ad atti e parole spietati, che feriscono in profondità chi li subisca.

Nelle diverse concezioni pedagogiche sottese nelle due opere traspare pure una dicotomia tra il mondo latino-mediterraneo, dove i figli rimangono a lungo nel rassicurante nido familiare e, se sono sottoposti all’autorità incondizionata dei genitori e costretti a subirne per lungo tempo le costrizioni, sono anche protetti da essi, che li salvano spesso dalle funeste conseguenze dei loro errori; e il mondo nordico-anglosassone, dove meno stretto è il vincolo familare e i figli sono più liberi e meno sottomessi alla famiglia, ma devono anche imparare presto a cavarsela da soli e a superare problemi e difficoltà senza l’aiuto dei genitori.

Ed in effetti studiando i romanzi di Collodi e di Barrie, si potrebbe istituire un confronto, -che si potrebbe naturalmente estendere ad altre opere letterarie per l’infanzia e la giovinezza-, sulla diversa concezione culturale-antropologica che fa loro da sfondo: una pedagogia dell’autorità e del dovere (Grillo Parlante), temperata però da una forte, anzi fortissima componente affettiva e “sentimentale” (Geppetto, Fata dai capelli turchini) da un lato; una pedagogia della responsabilità e della scelta, e quindi dalla “libertà” dall’altro , nella quale pur tuttavia è assai importante l’elemento femminile e materno (Wendy e la madre di lei, la signora Darling), che lenisce alquanto l’ardua via dell’autorealizzazione. Pertanto in entrambi i romanzi, pur nella diversa prospettiva sulla quale sono impostati, centrale è la funzione del “sentimento”, del “cuore”, dell’empatia, della “caritas”, che conducono all’onestà, alla rettitudine, alla comprensione e al rispetto del prossimo ben più che non la fredda osservanza di astratti principi morali o gli appelli al dovere, all’onore, a Dio, alla religione (che come abbiamo osservato sono rimarchevolmente assenti sia in Pinocchio sia in Peter Pan). Nei due personaggi si potrebbero vedere anche i simboli di due metodi diversi di concepire l’infanzia: “nei paesi latini -osserva Paul Hazard [“Les livres, les enfants, les hommes”; 1949]- i bambini sono piccoli candidati al mestiere di “uomo” […]. Presso gli anglosassoni l’infanzia ha il diritto di esistere: sarà essa che proietterà sulla vita la nostalgia di un paradiso perduto”. Ed è per tale ragione che le storie di cui sono protagonisti i due piccoli eroi (per quanto Pinocchio difficilmente possa essere visto come un “eroe”) non potrebbero essere concepite ciascuna al di fuori dell’ambito storico e spaziale, in cui nacquero e in cui sono state ambientate dai due autori, non solo per i precisi riferimenti culturali che vi si trovano e che ne costituiscono l’indispensabile sfondo, ma soprattutto per lo spirito che anima i due autori: pertanto, più che difficile, sarebbe impossibile immaginare le avventure, così legate al quotidiano, di Pinocchio svolgersi nell’atmosfera sussiegosa dell’Inghilterra vittoriana (5), così come i voli di Peter Pan seguito dai suoi amici nei cieli delle campagne e delle cittadine di provincia dell’Italia umbertina.

Monumento a Pinocchio a Milano. In alto Pinocchio è rappresentanto divenuto ragazzino, mentre sopra il basamento in basso giace il simulacro del burattino.

La visione etica e antropologica entro cui si collocano “Le Avventure di Pinocchio”, -così come le altre opere del Collodi e degli altri autori per l’infanzia che collaboravano al “Giornale dei Bambini”- (6), è quella delle solide virtù morali, domestiche e civili della tradizione italiana, ma profondamente rinnovate e rinvigorite dallo spirito mazziniano nella quale a diverso titolo si possono inserire l’hegelismo platonizzante di De Sanctis, l’austero classicismo di Carducci, il verismo sentimentalistico di Verga e Capuana, il positivismo filosofico di Ardigò e quallo scientifico di Lombroso, il socialismo romantico di Costa e Cavallotti, il misticismo inquieto ed eterodosso di Fogazzaro che furono protagonisti della cultura italiana nei primi 40 anni dopo l’Unità, talora combattendosi, più spesso intrecciandosi, sovrapponendosi e influenzandosi reciprocamente. Correnti letterarie e di pensiero le quali, pur se in modi e con mezzi diversi miravano al rinnovamento morale e civile di un paese devastato da secoli di divisione politica e di ottuse dominazioni straniere, e dalla prepotenza del clero, manifestando uno slancio, tutto sommato autentico e vitale, per riportare l’Italia, “povera martire reietta per tanto tempo dalle nazioni […] nella famiglia dei popoli liberi e indipendenti” -come Collodi fa dire a Giannettino-; e di tutte si può avvertire un’eco, per quanto esile e sfocata, nell’opera di Collodi, che in questo senso si può considerare uno degli educatori della nazione italiana.

Mentre la conclusione delle avventure di Pinocchio si risolve nel più classico “lieto fine”, nel felice conseguimento dell’obiettivo che il protagonista si era prefisso, dopo tante peripezie e dopo aver superato i tanti ostacoli, sia esterni, sia soprattutto interiori che si frapponevano ad esso, l’epilogo di “Peter Pan e Wendy” potrebbe apparire piuttosto malinconico e scolorito, un sogno sfumato nel grigio ritorno alla normalità e alla banalità del quotidiano, ad una realtà monotona, se non deprimente, ove le avventure possono esistere solo nella fantasia, e solo con l’immaginazione si possono inseguire le proprie inclinazioni più autentiche; ma in effetti non è così, perchè l’esperienza vissuta insieme a Peter Pan e alla sua brigata è servita ai fanciulli Darling a conocere meglio sè stessi, a divenire consapevoli delle loro doti, delle loro capacità e della loro missione nel mondo: ed proprio questo il “messaggio” che l’autore ha voluto trasmettere ai lettori piccoli e grandi della sua opera: che non può essere davvero adulto nel senso migliore del termine, -ossia una persona dotata della capacità di discernimento e di comprendere sè stessa e gli altri-, colui o colei che non conservi dentro di sè un pezzo della propria infanzia, e non rimanga legata al mondo incantato, ma pure così reale, e solo in apparenza di pura fantasia, dal quale l’infanzia trae la sua forza; pur se esso non può e non deve essere la dimora permanente e definitiva della coscienza. Ma anche Peter Pan, il quale ha trovato in Wendy se non una vera madre, un surrogato di madre, che ha recato nel suo mondo primitivo una luce di tenerezza e di femminilità, pur non avendo certo vissuto una metamorfosi simile a quella di Pinocchio, è stato in qualche modo cambiato dall’incontro con la giudiziosa e generosa ragazzina: l’ha reso più pensoso, più riflessivo, ne ha ingentilito l’animo, per quanto non tanto da stravolgerne la personalità, e soprattutto la natura, -una natura “archetipica” come abbiamo osservato-, che è quella del fanciullo, ma si potrebbe dire anche dell’uomo, non ancora “contaminato”, o “domato”, dall’educazione e dalla civiltà, per il quale i sentimenti e le emozioni sono ancora “grandiosi nella loro indeterminatezza”, e non filtrati e disciplinati dalla “cultura”; in fondo come si dice di Campanellino e delle fate, anche in Peter Pan v’è posto per un solo sentimento alla volta, senza sfumature e vie di mezzo.

L’ultima parte del libro, -il capitolo XVII (“Quando Wendy crebbe”)-, potrebbe apparie a prima vista un’aggiunta abbastanza estrinseca, e il “vero” finale, o il più naturale, sembrerebbe quello del XVI capitolo: i ragazzi Darling, appena tornati nella loro casa durante la notte, così come nottetempo da casa si erano allonatanati baldanzosi sotto la guida spavalda di Peter Pan, si ricoverano nei loro lettini, sperando di farsi ivi scoprire dalla mamma, quasi per far credere, forse a loro stessi, più che ai genitori, che loro assenza fosse stata un lungo sogno. E la madre, pur avendoli scorti, pensa che essi siano presenti solo in una visione della sua mente, così come tante volte le era successo da quando se ne erano involati. Allora i piccoli chiamano la madre, che alla fine si rende conto che i suoi figli sono davvero ricomparsi. Accorrono poi anche il papà e Nana, per ricomporre così l’unità familiare, che si era momentaneamente infranta, e in quello scambio di baci e abbracci, “nulla poteva essere più dolce a vedersi”. Ma a quella scena commovente assisteva pure, non visto, uno strano ragazzo che fissava la scena al di là del vetro della finestra, il quale “conosceva estasi infinite, ignote agli altri ragazzi; ma ora stava guardando attraverso il vetro una felicità che gli era negata per sempre”.

E un critico del 900, Felice Del Beccaro (“Il nostro Pinocchio”, in “La Tribuna” 9 gennaio 1941), confrontando Peter Pan con Pinocchio, dice del primo che “costui è, in ogni frangente un rinunciatario, un romantico nel senso più esteriore della parola; quello [Pinocchio] porta con sè una determinazione precisa di concretare ogni suo desiderio, buono o cattivo che sia”: giudizio senza dubbio ingeneroso a mio parere, per le ragioni che cercato di illustrare nella nostra trattazione, -e dettato forse anche da una prevenzione di tipo culturale, data la difficoltà di capire un personaggio così al di fuori della tradizione letteraria e pedagogica italiana-, che non ha colto qual è il significato più autentico della creatura di Barrie, il quale deve essere visto nella luce di un simbolo, di archetipo costitutivo, non solo dell’universo infantile, ma dell’uomo in generale. Certamente più fondata l’osservazione dell’Hazard, il quale vede in Pinocchio e Peter Pan due modi diversi, ma non necessariamente antitetici, e anzi forse complementari, di concepire l’infanzia.

Ed in vero senza la conclusione che Barrie ci mostra nell’ultimo capitolo del romanzo, la storia di Peter Pan, o per meglio dire di Wendy, per le ragioni che abbiamo cercato di spiegare nella nostra ricerca, perderebbe il suo significato più autentico, sarebbe come se l’avventura di Pinocchio terminasse senza la trasformazione del burattino in un “ragazzino per bene”, rimarrebbe davvero solo un sogno, una parentesi fugace ed evanescente che non lascia, come in effetti è, un segno durevole e profondo nell’animo e nella vita dei fanciulli Darling, e soprattutto di Wendy, consentendo loro di conseguire la loro realizzazione personale.

Peter Pan insieme a Pinocchio. Come si può notare, in questa immagine i due vestono ciascuno gli abiti dell’altro, quasi a sottolineare quanto di Pinocchio vi sia in Peter Pan e viceversa.

Dal punto di vista stilistico esiste una grande differenza tra l’opera di Collodi e quella di Barrie: mentre in quest’ultimo la narrazione è filtrata e intercalata, anzi si potrebbe dire sostanziata dalle osservazioni dell’autore e dai pensieri dei personaggi, nelle avventure di Pinocchio i personaggi, a cominciare dal protagonista, sono resi essenzialmente tramite le loro azioni e le loro parole, e scarsi, pur non mancando del tutto, sono tanto l’enunciazione dei loro pensieri e sentimenti, quanto i commenti e le osservazioni dell’autore; e anche per questo aspetto senza dubbio Collodi si riallaccia alla tradizione fiabistica, sia popolare, sia letteraria, dove, come già avemmo modo di osservare in altre occasioni, manca in apparenza un’indagine psicologica, poichè l’ndole dei personaggi risalta dai comportamenti e dagli atteggiamenti che essi assumono, senza l’intermediazione del narratore. E pur tuttavia, se tale modulo narrativo, l’apparente semplicità e la freschezza del testo rendono quanto mai adatto e piacevole il romanzo collodiano per i bambini, anche in tenera età, sia che lo leggano da soli, sia che venga loro letto, o riassunto, da qualche altra persona, nel medesimo tempo, proprio queste stesse caratteristiche, -oltre alla densità semantica e alla molteplicità dei piani di lettura che abbiamo sopra rilevato-, ne fanno una lettura quanto mai interessante anche per gli adulti

I romanzi di cui è protagonista Peter Pan sono invece più indicati a un pubblico non propriamente infantile, ma piuttosto preadolescenziale, poichè pur essendo i protagonisti fanciulli in tenera età, -a cominciare da Peter Pan, il quale fonde caratteristiche adolescenziali con altre infantili-, riflettono l’anelito di libertà, di sottrarsi alle limitazioni imposte dalla famiglia proprie dell’adolescenza. Essi inoltre hanno una struttura narrativa non dissimile da quella dei romanzi della contemporanea letteratura “adulta”, e risentono sia pure alla lontana del decadentismo inglese, tanto che i libri di Barrie si potrebbero forse avvicinare a “La casa dei melograni” di O. Wilde, pur non trovandosi certo in essa i ripiegamenti intimistici, il descrittivismo estetizzante e il moralismo sentimentale dei racconti di Wilde; e d’altra parte non si può non avvertirvi un’eco, per quanto lontana, delle novelle di Andersen, -come ad esempio “L’angelo”, “Storia di una madre” e i “I fiori della piccola Ida”-, destinate indubbiamente ai fanciulli, ma che nella loro maliconica pensosità presuppongono una mediazione adulta. Certo Peter Pan e i “ragazzi smarriti”, così come Gianni e Michele, sono ben lontani dai patetici eroi di Andersen, -dal brutto anatroccolo, all’intepido soldatino di stagno, alla sirenetta-, e solo Wendy, nella sua dolce e un po’ affettata ingenuità e gentilezza, sembra potersi ricollegare ad alcune figure presenti nella raccolta anderseniana (come la delicata figura di Gerda in “La Regina delle Nevi”); e pur tuttavia certe atmosfere sognanti e le osservazioni introspettive di Barrie ricordano un po’ il mondo del narratore danese.

Sia in Collodi, sia in Barrie troviamo una rappresentazione non convenzionale e non superficialmente ottimistica della condizione infantile. Tanto Pinocchio quanto Peter Pan sono “innocenti”, ma solo in quanto ancora “al di là del bene e del male”, e privi di una vera coscienza morale che lentamente e faticosamente si farà strada nel loro animo, seguendo la via del sentimento (o del cuore), e non della ragione (o della testa), e tanto meno attraverso l’obbedienza ad una divinità e il rispetto di principi religiosi, oltre che in seguito alle molteplici esperienze negative e frustranti. Così invero è per tutti i bambini, per i quali è “buono” tutto quanto produce e procura piacere e gratificazione, e “cattivo” quello che arreca dolore, paura e frustrazione, in maniera indipendente dagli effetti che comportamenti ed eventi che li riguardano possano avere su terzi; soltanto in una fase successiva si giunge a comprendere che, come il soggetto gioisce e soffre a causa delle azioni altrui nei suoi confronti, così coloro che lo circondano possono rallegrarsi o dolersi per quanto egli compie, e quindi, secondo il suo grado di sensibilità, -o di “empatia”-, comincia a rifiutarsi, o quanto meno a esitare nel compiere atti che a lui sono graditi, o da cui può trarre un beneficio, ma che comportano un danno o una sofferenza per altri. Il processo di conapevolezza e di educazione morale è guidato dunque dal “sentimento” (“non voglio fare qualcosa che so farà male a Tizio o Caio”, -ossia “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”); ma la “morale del sentimento” viene accompagnata e corroborata dalla “morale dell’utilità” (“mi conviene fare il bravo, perchè così otterrò l’affetto, la stima, l’amicizia degli altri e soprattutto il loro aiuto concreto quando sarò io ad averne bisogno”).

Monumento a Pinocchio nel “parco di Pinocchio” a Collodi.

E questa morale, dell’utile e del sentimento, è l’etica che guida sia Pinocchio, sia Peter Pan, così come è quella di tutti i “bambini buoni” (e degli adulti buoni); mentre non vale, o non sempre, per quelli cattivi, per i “bulli”, che godono nel far soffrire gli altri con le loro inutili prepotenza, specie coloro che essendo privi della capacità di farsi valere nel mondo, -e quindi ritenuti inetti e incapaci di dare un contributo costruttivo in caso di necessità-, sono ai loro occhi indegni di rispetto e meritevoli di tale ingiusto e brutale trattamento; ed i “furbetti”, che cercano di approfittare in ogni modo della bontà e della dabbenaggine altrui per ottenere immeritati benefici, senza dare nulla in cambio. L’etica come adesione ad astratti principi morali (quella kantiana per intenderci, ma in generale tutte le morali filosofiche e “scientifiche”), o come partecipazione a una coscienza universale, -nella visione propria delle dottrine mistiche e panteistiche-, è prerogativa di pochi spiriti eletti.

E’ bensì vero che nei vangeli (Matt., XIX, 14; Marco, X, 14; Luca, XVIII, 16) si proclama che non potrà entrare nel regno dei cieli chi non sia come fanciullo (“Lasciate che i fanciulli vengano a me, e non glielo impedite, perchè a coloro che li rassomigliano appartiene il regno di Dio”), ma del fanciullo non si intende nè si vuole esaltare la semplice spontaneità, -che ovviamente disgiunta dalla “coscienza”, o dalla “consapevolezza” può condurre all’indifferenza o alla crudeltà-, nè l'”innocenza”, poichè il bambino è “innocente” solo nel senso che non si rende conto, o solo in parte del male che arreca o che può arrecare ad altri; e neppure la credulità, che dovrebbe portare a lasciarsi guidare docilmente dai “superiori”; ma l’autenticità del proprio essere, non ancora sopraffatta da falsi valori mondani.

Entrambi gli scrittori, pur nella grande differenza delle loro personalità e delle spirito che sostanzia le loro opere, esprimono nell’insieme una concezione piuttosto amara della vita, del mondo, dell’uomo e soprattutto della società, non in senso leopardiano, come dolore per il drammatico contrasto tra le aspirazioni dell’uomo e la sua realtà esistenziale, ma come constatazione dell’intrinseca limitatezza di tale realtà che non può essere trascesa, -non almeno nel mondo terreno-; tale concezione è tuttavia temperata dalla fantasia e dall’afflato poetico di cui entrambi sono dotati, e non del tutto pessimistica poichè indicano una via di salvezza: il legame con l’infanzia e con la natura per Barrie; e la coscienza del proprio autentico “Io”, e soprattutto il “cuore” per Collodi: lo scrittore infatti ripete in più di un’occasione che Pinocchio aveva un “cuore eccellente”(7), ed è proprio su questo che si fonda la sua evoluzione e il ravvedimento che gli fa superare gli impulsi oscuri che spingono verso la materialità e la trasgressione.

E tanto in Pinocchio, quanto in Peter Pan, ciascuno nella sua peculiare e personalissima individualità, si può udire la voce del “fanciullino” pascoliano, che ci invita ad ascoltarlo, a trattenerci con lui e che ci dona sempre un lampo di intuizione, un barlume di poesia: “E’ dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes tebano (8) che primo in sè lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro,e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi a un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena meraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire  tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse così come nell’età più matura, perchè in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell’angolo d’anima d’onde esso risuona. […]. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; chè ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni di un passato ancor troppo recente. Ma l’uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l’armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d’un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora”: è legittimo, a mio parere, vedere in Peter Pan un’incarnazione, sebbene abbastanza “sui generis” del “fanciullino” pascoliano, quella sorta di genietto che ci lega al nostro mondo interiore e ai sentimenti più autentici, e che in fondo pure il discolo Pinocchio, anche dopo la sue redenzione e “trasmutazione” custodisce dentro di sè.

Note

1) non è certo mia intenzione stigmatizzare l’attitudine  e la pratica del collezionismo (tanto più che anch’io colleziono diverse cose): ho voluto solo evidenziare con questo esempio come nel valutare i comportamenti umani non si possa prescindere dal contesto storico, sociale e culturale del soggetto, oltre che dalle specifiche qualità e tendenza di quest’ultimo, e come non si debbano mai dare dei giudizi assoluti di merito su di essi (salvo ovviamente che non ledano i diritti altrui e gli elementari principi della civile convivenza).

2) ora non affrontiamo neppure in modo marginale la questione dei rapporti affettivi interumani, della loro complessità e talora contraddittorietà, ma ci limitiamo ad osservare come il matrimonio e la famiglia, come nuclei della società, dovrebbero avere delle basi più solide di quelle assai fragili rappresentate dall’innamoramento e dell’attrazione fisica.

3) ed invero diversi filosofi, -da Vico a Steiner-, pongono nella memoria delle sensazioni e delle emozioni che ne scaturiscono, positive e negative, piacevoli e dolorose, l’origine della coscienza morale (si veda al riguardo la quarta parte di “Miti e misteri di Atlantide” del 17 gennaio 2015).

4) nelle nostre trattazioni abbiamo più volte rilevato l’inconsistenza dell’aggettivo “pagano”, -e del sostantivo “paganesimo”-, che ha un significato meramente spregiativo e polemico, applicandosi in pratica a qualunque forma di credenza religiosa che non rientri nè in via concettuale, nè in via storico-genetica nell’alveo delle religioni “monoteistiche” (ebraismo, cristianesimo, islamismo), o addirittura anche a certe forme eterodosse e atipiche di queste ultime, e che quindi risponde a un criterio di valutazione unicamente negativo.

5) “Peter Pan e Wendy” fu pubblicato nel 1906 quando già la regina Vittoria era defunta (nel 1901), ma in senso lato anche i primi anni del 900 sotto l’aspetto artistico e letterario si possono comprendere nell’ultimo periodo dell’età della storia britannica che trasse il nome dalla famosa sovrana.

6) tra la fine dell’800 e la metà del 900 in Italia fiorirono numerosi autori che dedicarono all’infanzia e alla giovinezza tutta o una parte della loro attività letteraria, ora per lo più ingiustamente negletti e dimenticati. Tra di essi, oltre ai già citati Pietro Thouar (1809-1861) e Ida Baccini (1850-1911) -“Memorie di un pulcino”; “Il principino”-, e a Luigi Capuana ((1839-1915), il quale oltre alle opere “per grandi”, si segnalò come autore per l’infanzia (“Gambalesta”, “Cardello”, numerose raccolte di fiabe), ricordiamo Emma Perodi (1850-1918); Virginia Tedeschi Treves “Cordelia” (1855-1916); Camilla Del Soldato (1862-1940); Angiolo Silvio Novaro (1866-1938); Giuseppe Ernesto Nuccio (1874-1933); Giuseppe Fanciulli (1881-1951); Salvator Gotta (1887-1980); Milly Dandolo (1895-1946), autrice anche della traduzione di “Peter Pan e Wendy” utilizzata nella presente ricerca.

7) come per Aladino la “purezza di cuore” è la chiave della salvezza, la qualità che consente di scoprire il vero senso della vita; si noti per converso che per Barrie i ragazzi sono “allegri, innocenti e senza cuore”: la sintesi tra le due concezioni è che all'”innocenza” deve aggiungersi la “consapevolezza” e in questo consiste la realizzazione personale e spirituale dell’uomo.

8) Platone, Fedro, 77 E: “E Cebes con un sorriso: -Come fossimo spauriti- disse -o Socrate, prova di persuaderci; o meglio non come spauriti noi, ma forse c’è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non aver paura della morte come di visacci d’orchi”.

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