PETER PAN E PINOCCHIO (prima parte)

Di primo acchito il “realismo magico” di cui è intessuto il “Pinocchio” di Collodi e le atmosfere evanescenti e il malinconico lirismo che contraddistinguono le opere di cui è protagonista il Peter Pan di J. M. Barrie sembrano essere alquanto lontani, incarnare anzi due mondi del tutto distanti ed estranei l’uno all’altro, così come in antitesi sembrano essere i caratteri dei personaggi e gli sviluppi narrativi delle loro vicende.

Ma ad un esame più approfondito queste due figure, in apparenza così diverse, rivelano insospettate analogie; e il percorso di vita e l’evoluzione personale di ciascuno di essi, pur nel loro esito contrastante, si rivelano in realtà più complementari che antitetici.

Innanzitutto è bene precisare che lo stereotipo, -si potrebbe dire “archetipo”, se il termine in questo caso, oltre che abusato, non fosse inesatto-, attribuito a Peter Pan del bambino, o ragazzino, che “non vuole crescere”, non vuole diventare adulto e lasciare il comodo limbo dell’infanzia per assumersi le responsabilità e i doveri imposti dal consorzio sociale, almeno espresso in questi termini superficiali, è errato: in realtà è esattamente il contrario: Peter Pan è un “bambino” che conduce una vita da adulto, che non vive certo coccolato in un rassicurante nido familiare, dal quale anzi è stato, o si è sentito, abbandonato (1), e deve affrontare in continuazione impegni, fatiche, preoccupazioni, pericoli, ai quali nessun bambino, specie nelle moderne società è chiamato; egli è tutt’altro che un irresponsabile, è la guida, l'”autorità” e il punto di riferimento di una piccola comunità costituita da alcuni altri bambini che nutrono in lui illimitata fiducia, per i quali egli è il leader indiscusso, il “capo carismatico” che provvede a soddisfare a tutti i loro bisogni, che risolve i loro problemi, così come deve combattere contro numerosi nemici agguerriti e feroci.

In realtà dunque più che un “eterno fanciullo”, un “puer aeternus”(2), Peter Pan si potrebbe definire e si presenta come “puer non natus”, che si trova in uno stato pre-umano, o tra l’animale-spirituale e l’umano-razionale; così proprio perché non “vuole (o non può?) crescere”, non vuole rivestire una parte in una società che gli è estranea, -o teme gli sia estranea, pur non conoscendola (ma è ovvio che la conosceva Barrie, e dunque questo rifiuto riflette una condizione psicologica dello scrittore)-, non vuole assumere una maschera in cui non si riconosce (in “Peter Pan e Wendy” egli fugge di casa dopo che ha udito i suoi genitori parlare del suo futuro), con questa scelta accetta di rinunciare ad una vera infanzia, al calore di una famiglia e all’affetto di una madre, che costituiscono il fulcro dell’infanzia quale è normalmente intesa, per rimanere in una dimensione atemporale, quella antecedente la nascita in uno stato “intermedio”.

Ed in effetti ad un’attenta riflessione, Peter Pan non rifiuta affatto la “vita adulta”, se con essa si intende un’autonomia psicologia e pratica, pur se la sua sensibilità gli fa avvertire il pesante fardello che essa rappresenta e il rimpianto per il nido familiare da cui si è sentito escluso. Quello che rifiuta sono i compromessi meschini e opportunistici, le ipocrisie, le ingiustizie, la dabbenaggine, la finta saggezza, non di rado mascherati sotto le parvenze ingannevoli dell’educazione, della legge e delle regole, nelle quali il mondo considerato “civile”, ma che spesso non lo è, fa consistere la “maturità”; non solo, ma l’incontro con Peter Pan, -che ovviamente incarna una parte di loro stessi-, aiuta i piccoli Darling a diventare “adulti” nel senso migliore del termine, anzi è fondamentale nel loro percorso di crescita: l’autore sembra voler dire che non può diventare davvero adulto chi non sappia conservare nel cuore la fantasia, l’innocenza, la capacità di osservare qualunque cosa senza pregiudizi, abbinando però tali qualità alla sensibilità verso le esigenze altrui e allo spirito di sacrificio in nome delle cause che si credono giuste.

Nel medesimo tempo però, come avremo modo di approfondire, la figura di Peter Pan, il cui nome stesso è ispirato a quello del mitico dio delle selve, partecipa di una realtà “super-umana”, o per meglio dire “extra-umana”, è una sorta di spirito della natura, e incarna anche la parte “naturale” dell’animo umano, sia nei fanciulli, sia negli adulti che abbiano saputo conservare il legame con il mondo dell’infanzia, risultando così più ricchi e più “maturi” interiormente. E questi significato “archetipico” è confermato anche dallo stesso Peter Pan, il quale, in risposta a una domanda di capitan Uncino (nel XV capitolo di “Peter Pan e Wendy”) su chi sia egli veramente, afferma con orgoglio: “Io sono la giovinezza e la gioia […], un uccellino appena sgusciato dall’uovo” (riallacciandosi in questo alla componente di uccello, che un elemento essenziale della sua natura, specie nella prima versione, -come avremo modo di approfondire-).

Al contrario di Peter Pan, Pinocchio mostra costantemente, salvo alla fine del romanzo, una totale mancanza di autonomia, di capacità di giudizio e di gestire la propria vita, per cui, pur animato da buoni propositi, si lascia sviare in ogni circostanza da falsi amici che lo mettono nei guai, vanificando i suoi pur sinceri sforzi di migliorarsi. Ed in effetti tutto il romanzo collodiano è costituito proprio dalla narrazione dei continui fallimenti del burattino, il quale, per quanto “buono” nella sua natura, non riesce e non sa resistere alle lusinghe del mondo fino alla catarsi finale. Tuttavia anch’egli si può considerare un’entità in qualche modo intermedia che non è né pienamente “naturale”, né del tutto umana, -un “daimon”, si potrebbe dire nel senso antico del termine- e il fatto che sia un “burattino” ne esprime e ne sottolinea la condizione in qualche modo prenatale, poiché la sua “vera” nascita è la seconda con cui si conclude la storia e diviene un “bambino vero”: come Peter Pan è uno “spirito uccello”, -come sono tutti i bambini prima di nascere-, così Pinocchio è uno “spirito albero”, una “testa di legno”, nel senso che pure il legno-albero ha una sua anima, che una volta inserita nel difficile ambiente delle società umane stenta assai a trovare il suo equilibrio.

Il più famoso personaggio uscito dalla fantasia e dalla penna di James M. Barrie, compare in tre romanzi, -“L’uccellino bianco”; “Peter Pan nei giardini di Kensington” e “Peter Pan e Wendy”-,più una commedia. Di essi di gran lunga il più conosciuto è l’ultimo, “Peter Pan e Wendy”, uscito nel 1911; ma per comprendere appieno il carattere, il comportamento e il significato della figura di Peter Pan è assolutamente necessario conoscere, almeno per sommi capi, la genesi e l’evoluzione del personaggio: la prima opera di Barrie in cui egli compare è come si è detto “L’Uccellino Bianco” (“The little White Bird”), del 1902, romanzo di cui è protagonista un solitario capitano, del quale non viene fatto il nome, ma se ne precisa solo l’iniziale, W, -nel quale è da vedersi un “alter ego” dell’autore-; questi prende sotto la sua ala protettrice una giovane donna povera e il suo bambino David (nei quali sono da ravvisare George Llewelyn e sua madre Sylvia), che diviene per lui un vero e proprio figlio (così come per quest’ultimo egli è un padre), il quale prende il posto di un immaginario rampollo che il capitano si era costruito con la sua fantasia, Timothy, anche se i due si incontrano solo al di fuori dell’ambiente domestico, in particolare nei giardini di Kensington, ove essi si raccontano i loro sogni, le loro impressioni e le vicende della loro triste esistenza, ma soprattutto dove inventano delle storie fantasiose con le quali cercano di ravvivare il grigiore di una vita solitaria e malinconica. Di queste storie la più importante è proprio quella di Peter Pan, che nelle linee essenziale è già qui presente.

Due anni dopo Barrie diede alle stampe una commedia, “Peter Pan, il ragazzo che non voleva crescere”, in cui il personaggio diviene protagonista assoluto; la storia dell’opera teatrale venne trasposta da Barrie nel romanzo “Peter Pan e Wendy”, che lo scrittore pubblicherà nel 1911, la cui trama, integrata e modificata in alcuni punti, è in sostanza identica e incentrata sull’amicizia di Peter con i bambini Darling, che egli conduce nella sua isola, e soprattutto con Wendy, che viene scelta per essere la madre adottiva dei suoi piccoli compagni, i quali sentono tanto la mancanza dell’affetto materno (come avremo modo di vedere in seguito nella nostra analisi nell’opera di Barrie, manca totalmente la figura paterna, ridotta a un elemento secondario e di contorno).

Tuttavia in questo testo egli appare alquanto diverso da quello del primo romanzo di cui è protagonista, pur essendovi riferimenti alla sua “vita precedente”: Peter Pan non vive nei giardini di Kensington (per quanto affermi rispondendo ad una domanda di Wendy di tornarvi talvolta), ma in un luogo fantastico chiamato “Never Land” (tradotto in italiano come “Isola che non c’è”), dove vanno a finire i neonati caduti dalle carrozzine a causa della distrazione delle bambinaie se non sono reclamati dai genitori (il luogo dove dovrebbero reclamarli non è specificato), i “Lost Boys” (i “Ragazzi Smarriti”), dei quali il prodigioso fanciullo è il capo e la guida indiscussa. Peter precisa inoltre che i suoi compagni di “sventura” (o di “avventura”) sono tutti maschi, poiché le bambine “sono troppo furbe per cadere giù dalle carrozzine”. La sua fuga da casa avviene il giorno stesso nascita ed è provocata non già, come nel romanzo precedente, dalla sua dimenticanza di non essere più un uccello, ma un bambino umano, bensì dal fatto che, avendo egli udito i discorsi dei genitori, che parlano del suo futuro, non ha intenzione di accettare gli sorte che gli viene prospettata: “Fu perché sentii babbo e mamma […] parlare di quel che avrei fatto appena divenuto uomo […]. Io non voglio affatto diventare uomo! -disse con impeto- Io voglio essere sempre un ragazzino e fare il chiasso. E così fuggii nei giardini di Kensington e vissi lungamente in mezzo alle fate”. Peter Pan afferma di non conoscere la sua età, ma di essere giovanissimo (cap. III), in precedenza, nel cap. I Wendy, -il cui nome completo è Wendy Moira Angela-, che l’aveva già conosciuto nei suoi sogni, aveva dichiarato che aveva esattamente la sua statura; nella descrizione che se ne fa alla fine del primo capitolo, quando viene scoperto dalla signora Darling, si dice che “era un ragazzo molto carino, vestito di foglie secche e degli umori che stillano dagli alberi, ma la cosa più stupefacente è che aveva ancora tutti i denti di latte”, cosa che la signora nota a causa della smorfietta impertinente che le fa scappando dalla finestra. Dal lato psicologico, ostenta un’indole decisamente presuntuosa e spavalda, con la quale nasconde la sua sensibilità e la sua segreta nostalgia del “nido” materno; e d’altro canto, anche nella prima versione, Peter Pan, nonostante l’universo fantastico e quasi onirico in cui sono ambientate le sue avventure, appare come un essere che non è affatto sognatore o introverso; al contrario egli si mostra alquanto pieno di vitalità e del tutto alieno da ripiegamenti malinconici (“Non sapeva neppure che cosa fosse la timidezza” si dice all’inizio del cap. VI di “P. P. nei giardini di Kensington”).

Ma prima di questo romanzo, che è il più noto di Barrie, lo scrittore ne ideò un altro, pubblicato nel 1906, in cui riprendeva, ampliandola, la storia di Peter Pan quale era narrata in sei dei capitoli (dal 13° al 18°) de “L’Uccellino Bianco”, “Peter Pan nei giardini di Kensington”.

Senza dubbio tra il Peter Pan “prima maniera”, che vive nei giardini di Kensington, e il “Peter Pan” seconda maniera, quello assai più noto, trasferitosi nella remota dimora dell'”Isola che non c’è”, ove conduce Wendy e i suoi fratelli a vivere straordinarie avventure, esiste una notevole differenza: si potrebbe dire che il pargoletto smarrito coccolato dalle fatine che dimorano nelle aiuole del parco londinese, che torna a contemplare la sua mamma dormiente per la quale sente una commossa nostalgia, per poi perderla definitivamente, ora è divenuto un preadolescente che ha rinunciato, o crede di aver rinunciato, in maniera defintiva al calore della famiglia e trascorre la sua movimentata esistenza in un mondo dove pur se di “fantasia” i problemi, i guai e le sconfitte sono tremendamente reali. Incerta è la ragione per la quale Barrie, anziché sviluppare la figura di Peter Pan secondo una linea coerente abbia oscillato tra le due versioni del personaggio; tuttavia si potrebbe ipotizzare che per quanto riguarda il Peter Pan neonato-uccello, egli abbia voluto dargli una dignità e una dimensione autonoma, facendolo protagonista di “Peter Pan nei giardini di Kensington” (mentre nell’Uccellino Bianco era una figura secondaria, pur se importante); mentre il Peter Pan “ragazzo che non vuole crescere”, rielaborazione della commedia, nel romanzo vede ampliate le sue possibilità di raggiungere un pubblico di lettori più vasto rispetto all’opera teatrale.

Poiché “Peter Pan nei giardini di Kensington” è assai meno letto e conosciuto di “Peter Pan e Wendy”, ritengo opportuno farne un breve riassunto, tenendo presente che quest’opera ha uno stile e una sequenza narrativa poco lineare (e dunque diversissima da “Le avventure di Pinocchio”), in cui osservazioni, pensieri e ricordi sia dei personaggi sia dell’autore, -il quale spesso pone anche delle domande a un ipotetico interlocutore, quasi a intessere col lettore un immaginario dialogo-, si alternano e si mescolano al racconto degli eventi veri e propri (uno stile che, almeno al sottoscritto, ricorda vagamente quello delle novelle di Andersen).

Peter Pan e il corvo Salomone.

La narrazione della storia di Peter Pan è preceduta da una descrizione, poetica e assai accurata, dei giardini di Kensington a Londra fatta in prima persona dall’autore che rievoca i suoi ricordi di quel luogo, quando era uso condurvi il proprio figlioletto David (ossia George Llewelyn). Nel prosieguo del racconto si dice che in questo luogo incantato vivono fate e gnomi, oltre a una miriade di uccellini; qui vive anche il corvo Salomone che è il signore dell’isola Serpentina e che invia fringuelli, tordi e passeri alle signore che desiderano diventare madri: una volta giunti alle loro case i volatili si tramutano in fanciulli (3). Tutti questi esseri fatati tuttavia non si mostrano durante il giorno, quando i giardini sono affollati di visitatori, ma solo dal momento in cui cominciano a scendere le prime ombre della sera ed il parco viene chiuso: allora quel luogo misterioso diviene il loro regno esclusivo ed essi punirebbero gli intrusi che avessero osato trattenervisi.

Nel secondo capitolo entra in scena Peter Pan: come tutti bambini alla nascita non è completamente umano, ma è ancora per metà uccello ed ha quindi la facoltà di volare. Quando ha solo sette giorni, trovando una finestra lasciata aperta dalla quale può contemplare l’ombrosa distesa degli alberi di Kensington Park donde proveniva, avverte l’irresistibile richiamo di quello che considera ancora il suo mondo e, pur avendo perduto le ali, vola via per tornarvi. “E’ una cosa meravigliosa che potesse volare senza le ali, ma sentiva alle spalle un prurito tremendo […]. Forse tutti quanti potremmo volare -osserva Barrie- se avessimo una così profonda fiducia nella nostra capacità, come l’aveva Peter quella sera”, poiché in effetti egli aveva già dimenticato di essere divenuto umano (o forse non l’aveva mai saputo davvero) e crede di essere ancora un uccello. Giunto all’isola Serpentina, ritrova il corvo Salomone, il quale lo ammonisce che ormai non è più un uccello, ma non è neppure un bambino vero e proprio. Gli uccelli lo guardano con stupita curiosità, ma obbedendo a una precisa richiesta del corvo, lo sfamano con il pane che riescono a trovare (poiché non può nutrirsi come loro). Per ricambiare la bontà dei volatili, Peter li aiuta a costruire il nido. Egli si sente un pennuto come i suoi amici e vorrebbe quindi cantare come loro, ma non riesce a intonare il suo canto come un uccello, per cui si costruisce una zampogna di canne come quella del dio Pan che impara a sonare: da questo gli deriva il suo secondo nome.

Da quando però il corvo gli ha rivelato l’amara verità sulla sua condizione di “non-uccello” e “non-uomo”, Peter perde definitivamente la capacità di volare (forse se non l’avesse saputo non sarebbe stato così e avrebbe continuato a poter volare?); ma poiché non sa neppure nuotare, egli è costretto a rimanere relegato nell’isola Serpentina, senza potersi recare, come vorrebbe, nel resto del parco. Invano le anatre cercano di insegnargli il nuoto, e solo una volta che un aquilone smarrito da qualche fanciullo viene a posarsi sull’isola, il fanciullino tenta di servirsene per volare nei giardini; ma, nonostante l’aiuto degli uccelli che sostengono l’aquilone, pure questo tentativo fallisce perché la coda del rudimentale velivolo a cui si era aggrappato si rompe ed egli precipita nel laghetto, dal quale lo salvano due cigni.

Peter Pan è salvato da due cigni, dopo che è caduto dall’aquilone.

Ma il piccolo non si arrende e approfittando della circostanza che aveva trovato un biglietto di banca, -del quale aveva conosciuto il valore nel breve periodo in cui era vissuto in una famiglia-, si fa aiutare dagli uccelli, -ai quali assegna come ricompensa i pezzettini di carta in cui aveva ridotto la banconota-, a costruire una barchetta che ha l’aspetto di un grosso nido, con la quale spera di poter attraversare il laghetto. Per fare avanzare la barchetta sulle acque, Peter vi aggiunge la sua camicina affinché vi svolga la funzione di vela. In tal modo egli inizia la sua avventurosa navigazione sullo specchio d’acqua e dopo una sofferta traversata approda in una piccola baia, ove viene accolto, dapprima con ostilità, dalle fate, che lo considerano un intruso, poiché non tollerano che gli umani, o simil-umani, invadano il loro territorio. Ma quando esse si avvedono che la vela del piccolo naviglio con cui è giunto è una camicina da neonato, mutano l’iniziale avversione in affetto quasi materno e lo conducono dalla loro regina che si chiama Mab (4)(5).

Tutti i fanciulli prima di nascere, quando sono ancora uccellini, e pure da neonati, vedono e conoscono le fate, ma poi crescendo non riescono più a vederle e si dimenticano di esse. Le fate si posano e si trattengono sui fiori, con i quali vivono in simbiosi, e secondo le stagioni variano il loro abbigliamento, che è comunque sempre costituito di petali di fiori, tanto che esse si confondono con questi indispensabili elementi della natura. Il loro principale diletto è danzare in tondo durante la notte e talora nei luoghi ove i svolgono i loro intrattenimenti danzanti rimangono quale segno del loro passaggio dei funghi che altro non sono che i sedili su cui riposano tra un ballo e l’altro. Da quando Peter Pan giunse tra le fate, le loro danze erano sempre accompagnate dal suono della sua zampogna che esse gradivano assai tanto che si erano abituate a danzare solo seguendo la musica eseguita del fanciullino.

Per sdebitarsi dei servigi che egli rendeva loro come musico, la regina Mab concede a Peter Pan di esaudire un desiderio da lui espresso. Il fanciullo chiede allora di poter tornare dalla sua mamma. Sebbene non gradisca molto tale richiesta, poiché teme che non tornerà più ad allietare lei e le sue compagne con le dolci melodie della zampogna, la regina acconsente ad esaudire il desiderio di Peter Pan, più un altro di riserva, nel caso non avesse più potuto fare ritorno a casa. Affinché possa riacquistare la capacità di volare, le fate gli fanno il solletico sulle spalle, così che egli sente di nuovo il prurito che aveva avvertito allorché era allontanato da casa e si solleva in volo. Peter Pan però non tornò subito dalla mamma, poiché volare gli donava un indicibile diletto e per questo si attardò a vagabondare per un po’ sopra i tetti e le torri di Londra. Quando giunse davanti alla finestra dalla quale era fuggito, la trovò ancora spalancata, entrò e vide la sua mamma che dormiva. Peter si posò ad un capo del letto e stette per alquanto tempo a contemplarla. Ella giaceva con una mano sotto la testa e il suo viso risaltava tra i folti capelli neri come in un nido accogliente (e che la capigliatura della madre sia paragonata a un nido è altamente indicativo di come essa venga percepita come un ricettacolo di protezione); ma aveva un’espressione triste. Una delle braccia della dormiente si mosse come se volesse abbracciare qualche cosa ed agli intuiva che era proprio lui che avrebbe voluto stringere al petto.

Peter Pan desiderava certamente tornare a godere dell’affetto della sua mamma e a donarle il suo, ma nel medesimo tempo sentiva assai forte il richiamo della vita spensierata, o comunque avventurosa, nei giardini di Kensington. Mentre il suo animo si trovava combattuto tra queste opposte pulsioni, ode la voce della donna mormorare distintamente il suo nome, e così decide di rimanere presso di lei, ma prima vuole tornare all’isola Serpentina per salutare il corvo Salomone e i suoi amici uccelli, e così pur tra molti tentennamenti, si invola di nuovo. Una volta rientrato nei giardini di Kensington, le fate cercano in ogni modo di trattenerlo presso di loro organizzando per lui feste e balli, perché non volevano privarsi della sua compagnia e soprattutto della sua musica; e a tale cagione, nonostante gli avvertimenti del saggio Salomone, il fanciullino procrastina sempre più il definitivo ritorno dalla madre, convinto che ella non si stancherà mai di aspettarlo. Una notte, ispirato anche da un sogno premonitore, egli si risolve finalmente a riprendere la via di casa. Ma una volta giunto davanti alla finestra, la trovò chiusa con una grata di ferro; gettando lo sguardo all’interno della stanza, scorse la mamma che dormiva placidamente col braccio avvolto ad un altro bambino! Quale non fu la sua meraviglia e il suo dolore! Peter chiamò: “Mamma! Mamma!”; ma ella non lo udì; “e invano egli scosse con le piccole mani le sbarre di ferro. Dovè far ritorno, singhiozzando, ai giardini, e mai più non ha poi riveduto la sua cara mammina”.

Da questo punto con il capitolo V inizia un’altra parte del romanzo, abbastanza slegata dalla prima, tanto che la storia di Peter Pan nei giardini di Kensington potrebbe ritenersi come l’unione di due brevi romanzi, o lunghi racconti, distinti. Infatti qui protagonista assoluta è la piccola Maimie Mannering, fanciulletta di quattro anni, e all’inizio del capitolo il suo fratellino Tony di sei anni, mentre Peter Pan è presente solo nei loro discorsi. Tony si vantava che sarebbe rimasto nei giardini di Kensington oltre l’orario di chiusura, sfidando l’ira delle fate, e la sua spavalderia suscitava l’ammirazione della sorellina, che lo considerava un bambino molto coraggioso, -mentre in effetti si rivelerà solo un fanciulletto timido, pur se alquanto sbruffoncello-.

Un giorno essi approfittano della distrazione della governante per allontanarsi da lei e trattenersi nel parco nella speranza di poter assistere al gran ballo delle fate. Ma con grande rammarico della sorella, Tony poco prima della chiusura del giardino raggiunge la governante al cancello così che la bambina si trovò tutta sola il quel luogo misterioso. Non appena il custode ebbe chiuso a chiave i cancelli ella udì una strana voce provenire dall’alto e con un po’ di sorpresa, -ma non troppa, dato che si aspettava eventi prodigiosi-, si accorse che a parlare era stato un olmo che si stava sgranchendo i rami come fossero braccia. Da quell’istante il parco le apparve in tutta la sua magia, e le piante che lo popolavano le si rivelarono non solo come esseri animati, ma come vere e proprie persone: esse si movevano, camminavano, saltavano, oltre a parlare. Ben presto Maimie acquistò confidenza con loro, tanto che le sembravano vecchi amici. Essi però la misero in guardia contro la gelosia e la suscettibilità delle fate che non tolleravano che estranei si trattenessero nel loro regno, e tanto meno che assistessero alle loro feste.

Ma, nonostante i loro avvertimenti e quelli di Brunella (Brownie)(6), -una fatina di rango inferiore che Maimie salva quando aveva rischiato di affogare in una pozzanghera-, ella si avventura sempre più nel fitto del bosco, fino a che intravvede una luce sfolgorante in mezzo a sette grandi castagni: lì si erano radunati le fate e i folletti, tra i quali il Duca delle Margherite, -il corrispondente maschio della regina delle fate-, per danzare vorticosamente. Maimie rimane però delusa di non trovare Peter Pan ad allietare con il suono della sua zampogna quella festa scintillante.

L’entusiasmo da cui si sente pervasa contemplando quell’affascinante spettacolo le strappa un grido di ammirazione e così ella viene scoperta dalle fate, le quali adirate vorrebbero severamente castigarla; allora Maimie fugge lontano per i sentieri innevati (poiché la storia è ambientata in pieno inverno, sebbene questa stagione non sembri la più indicata né per i balli delle fate dei fiori, né per esplorare il magico giardino). A causa delle impronte lasciate sulla coltre di neve, le fate la ritrovano facilmente mentre giaceva addormentata in un riparo improvvisato semicoperta dal nevischio; ma avendo saputo della buona azione da lei compiuta a favore di Brunella, la loro ira era sbollita, per cui non solo l’avevano perdonata, ma su consiglio degli “Amori”, -una categoria di folletti-, decidono di costruirle intorno una casetta fatta a sua misura per ripararla dal freddo e dalla neve. L’operazione viene compiuta mentre la bambina continua a dormire e quando alla fine si desta in un primo momento crede di trovarsi nella sua cameretta; poi le sovviene di essersi trattenuta nei giardini di Kensington e di aver assistito alla danza della fate. Vedendo la casetta la trova assai carina e si rallegra assai di quella gradita sorpresa, ma non appena ne esce, la piccola costruzione comincia a ridursi sempre più, fino a scomparire del tutto.

Il monumento eretto a Peter Pan nei giardini di Kensington.

In quel mentre Maimie udì una vocina gentile che le diceva: “Non piangere, piccola creatura umana!”; a pronunciare quelle parole era stato un fanciullino tutto ignudo che la guardava con pensosa attenzione. Maimie capì subito che quella strana personcina doveva essere Peter Pan. Inizia allora tra di essi una conversazione nel corso della quale Peter Pan rivela la sua ignoranza del mondo e delle abitudini umane, nonchè del significato di molte parole che essendo egli quasi sempre vissuto nei giardini di Kensington (tranne la breve parentesi nella casa di sua madre) non poteva conoscere. Si manifestano così fra i due fanciulli dei fraintendimenti che però non impediscono, ma anzi in un certo modo favoriscono, -poiché li spingono ad approfondire la reciproca conoscenza-, il nascere dell’amicizia tra di essi, tanto che Peter chiede a Maimie addirittura di sposarlo. In effetti tale richiesta appare piuttosto sorprendente, ed incoerente, nel contesto del racconto poiché se il piccolo bimbo-uccello era così estraneo al mondo umano e alle usanze sociali tanto da non sapere neppure che cosa sia un bacio, tanto più non dovrebbe avere idea di cosa significhi “sposarsi” (per cui si potrebbe dire che Barrie avrebbe potuto limitarsi a far richiedere a Peter Pan di chiedere alla bimba di rimanere semplicemente con lei). La bambina tuttavia esita alquanto ad accettare la proposta del suo nuovo amico, soprattutto perché non ha alcuna intenzione di lasciare la sua mamma; per cercare di vincere le perplessità e le resistenze di Maimie, Peter le insinua il dubbio che una volta allontanatasi da casa, anche per un breve periodo, sarà dimenticata dalla madre, così come accadde a lui. Ma la sua amica non si lascia convincere e così torna al suo “nido domestico” preferendolo a quello offertole da Peter Pan, e invano quest’ultimo spera di poterla rivedere nel suo regno incantato. Maimie però non dimentica il bambino-spiritello dei boschi e su suggerimento di sua madre, alla quale aveva parlato di lui, decide di donargli in occasione delle feste pasquali la sua capretta immaginaria, -a mezzo di una lettera lasciata in un recesso del giardino-, che dalle fate viene trasformata in un essere vivente reale, diventando la cavalcatura di Peter Pan, -confermando in tal modo il legame di quest’ultimo con il mitico dio dei boschi-; non solo, ma di quando in quando continuò a lasciare nel parco dei regalini per quel fanciullino che aveva impresso un segno profondo nel suo animo.

Il V capitolo del romanzo, che si potrebbe considerare un racconto a sé stante, rimembra senza dubbio “Alice nel Paese delle Meraviglie”: l’esplorazione di un mondo fatato, popolato da strane creature; l’ira delle fate e della loro capricciosa regina, -assai simile all’isterica Regina di Cuori dell’opera di Carroll-; Maimie rinchiusa nella casetta costruita dalle fate introno al suo corpo, nella quale può essere contenuta a malapena, come Alice che, cresciuta dopo aver bevuto un magica bevanda, non riesce più a stare nella casa di Messer Bianconiglio, per cui esce con le braccia dalle finestre e con la testa dal tetto. Ed in effetti le opere di Barrie mostrano molte somiglianze con quelle di Carroll, in primo luogo lo sguardo critico e ironico con il quale viene visto il modo degli adulti, pur se in modo sottile e mai apertamente polemico. Il tema della casa quale espressione di affetto e di gratitudine è un tema che ritorna anche in “Peter Pan e Wendy”, dove nel capitolo VI i “bambini perduti” allestiscono una graziosa dimora per la loro “mamma adottiva”.

Barrie concepì le opere che vedono protagonista il fanciullo fatato ispirandosi ad alcuni bambini reali, i cinque fratelli Llewelyn Davies che egli aveva conosciuto nel 1897 durante una delle sue passeggiate nei giardini di Kensington, nei quali ambientò poi le prime avventure del suo eroe: “Ho creato Peter Pan -scrisse- strofinandovi [si riferisce ovviamente a quei bambini] insieme con violenza, così come fanno i selvaggi che producono una fiamma da due stecchi: questo è Peter Pan, la scintilla venutami da voi”. Il “concepimento” e l’embrione del personaggio, e delle sue storie, risalgono all’estate del 1901, allorché lo scrittore, che aveva stretto amicizia con la loro madre Sylvia, trascorse con quei fanciulli una vacanza nella residenza “Black Lake Cottage” di Farnham, nella contea del Surrey, durante la quale ebbe modo di osservarne i giochi e le situazioni fantasiose che essi sapevano inventare, partecipando anche talvolta ai loro infantili trastulli. Egli documentò alcuni momenti di quell’esperienza per lui rivelatrice del modo dell’infanzia in un volumetto corredato di fotografie che fu pubblicato in due sole copie. Particolarmente intenso e coinvolgente fu il legame che Barrie strinse con George, il maggiore dei fratelli Llewelyn Davies, ritratto poi nel David, il fanciullo al quale il capitano W. racconta le sue storie suggestive in “L’Uccellino Bianco”, -ricevendone però anche continui stimoli-, pur se il nome di lui, David, rievoca l’omonimo fratello dello scrittore morto tragicamente all’età di 14 anni: ed in effetti l’amicizia tra un uomo solitario e disincantato e un fanciullo curioso e fantasioso sulla quale si incentra questo romanzo non è altro che quella che intercorreva tra lui stesso e il suo piccolo amico. E proprio il comportamento del bambino instilla nel capitano, -che è lo scrittore-, l’idea che egli sia stato un uccello, e che in generale i fanciulli prima di nascere in forma umana fossero volatili, idea che viene fatta propria da David-George il quale per parte sua parla al capitano delle sue passeggiate e dei suoi giochi nei giardini di Kensington e dei suoi misteriosi abitatori, nonché del suo divertimento nell’osservare nei giardini persone desiderose avere figli che tentano di acchiappare gli uccellini offrendo loro briciole di dolci: “David sa che tutti i bambini di questa parte di Londra erano un volta uccellini e che la ragione per la quale alle finestre ci sono le sbarre e davanti ai caminetti alte barriere è perché i piccoli dimenticano a volte di non avere più le ali e provano a volare via dalle finestre o dai camini”. Lo stesso capitano ricorda di aver conosciuto David all’epoca in cui egli era ancora un giovane tordo, e nel settimo capitolo ne congedarsi dal bambino immaginario di nome Timothy che egli aveva eletto a suo figlio, asserisce che “gli uccellini bianchi sono fanciulli che non hanno mai avuto una madre” (da qui il titolo del romanzo).

L’idea di un periodo prenatale in cui i bambini destinati alla nascita come umani sono uccelli fu concepita da Barrie, -non si sa se e quanto influenzato dalle teorie mitico-filosofiche che sostengono una simile idea e delle quali abbiamo accennato nella nota n. 3-, per intrattenere con i suoi racconti i fratelli più grandi, George e John, all’epoca in cui Peter era ancora un piccolo infante, in cui immaginava che le finestre della loro dimora fossero dotate di sbarre onde impedire al piccolo di fuggire in volo. Nonostante gli abbia attribuito il nome del minore dei fratelli Llewelyn, il carattere di Peter Pan, specie di quello “seconda maniera”, sembra essere stato modellato su George e John. Ai fratelli di Wendy lo scrittore diede i nomi di John e di Michael Lewelyn. Un’altra fonte di ispirazione per Barrie fu probabilmente John MacMillan, il più caro amico della sua infanzia, con il quale aveva condiviso giochi spensierati nlle campagne della Scozia meridionale.

Peter Pan entra nella cameretta di Wendy.

Ma la figura di Peter Pan trae ispirazione anche e soprattutto dal fratello maggiore di James Barrie, David, al quale abbiamo accennato sopra, il quale era morto nel 1867 cadendo mentre stava pattinando su un lago ghiacciato quando non aveva ancora compiuto tredici anni (e lo scrittore ne aveva sei). La madre, che nutriva per il figlio maggiore una particolare predilezione, rimase sconvolta dalla tragica morte di lui, senza riuscire mai a riprendersi da quell’immenso dolore, lenito solo dalla consolazione che le dava il pensare a David come a un eterno fanciullo, che viveva in un luogo felice, e che tornava di tanto in tanto da lei. James si sforzò in ogni modo di colmare il vuoto lasciato dal fratello, cercando di assomigliare a lui, ma per tutta la durata della sua infanzia e pure oltre non potè fare altro che vivere nell’ombra di David. Al legame tormentato di James con la madre risalirebbe il sentimento di esclusione e la sofferenza di un’infanzia mutilata, se non proprio negata, a causa del rifiuto o dell’abbandono della figura materna, che percorrono i libri in cui compare Peter Pan: se egli non vuole “crescere” è non già perché voglia trattenersi oltre il dovuto nel rassicurante nido dell’infanzia, che in realtà gli è mancato, ma perché associa alla “vita adulta” quello che gli ha dato dolore e frustrazione.

Tuttavia la devozione che Barrie nutrì per la madre lungo la sua intera esistenza è testimoniata dalla commossa biografia che le dedicò ad un anno dalla morte di lei, nel 1896, e che ha come titolo il nome della donna, “Margareth Ogilvy”, documento prezioso perché alla rievocazione della figura materna si mescolano i ricordi di James bambino. Un passo significativo del libro accenna alla “paura di crescere” che costituisce un tratto fondamentale della psicologia di Peter Pan, in cui talvolta si è voluto riconoscere la natura psichica del “puer aeternus”: “L’orrore della mia infanzia fu che io sapevo sarebbe arrivato un momento in cui avrei dovuto abbandonare i giochi, ma non sapevo come fare […]. Io sentivo che avrei dovuto a continuare di nascosto, e dividevo questo cruccio con lei [la madre] quando mi raccontava la sua vita”. Ma in effetti si può supporre che per Barrie, come per Peter Pan l’infanzia coincida con la “vita vera”, vissuta in comunione con la natura, sia quella esterna, sia quella interiore, in un contatto immediato con le proprie emozioni, priva degli artifici e delle ipocrisie in cui consiste la vita degli “adulti”; età ideale, -ma non idealizzata, dal momento che l’autore è ben consapevole dei tormenti e dei problemi che le sono connessi, così come lo era Collodi-, che per la fragilità del suo incanto è assimilata ad un tesoro da custodire con cura.

E questa ossessiva, quanto impossibile ricerca, di un recupero dell’affetto materno si palesa non solo in Peter Pan e nei “Lost Boys”, ma in molti altri abitanti della “Neverland”, poiché anche Capitan Uncino e la sua ciurma di pirati, vorrebbero fare di Wendy la loro madre.

Le vicende biografiche abbastanza tristi dello scrittore e il rapporto ambivalente che ebbe nei confronti della madre sono dunque di capitale importanza per comprenderne l’opera, poiché nella figura di Peter Pan si riflettono sia il defunto fratello immaginato come una sorta di angelo protettore, ma nel medesimo tempo pieno di rimpianto; sia lui stesso, con il suo inappagato desiderio di affetto materno e il larvato risentimento nei confronti della sua mamma che riservava gran parte del suo affetto alla memoria di David, e dalla quale si sentiva pertanto abbandonato, o comunque trascurato. Tuttavia il suo personaggio, come abbiamo osservato sopra, è, o appare, del tutto privo della fragilità emotive, e delle insicurezze che caratterizzarono Barrie.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) si tenga presente che, sebbene nelle illustrazioni e nei film ispirati alla sua storia,- o per meglio dire a quella narrata in “Peter Pan e Wendy”-, P. P. appaia come un ragazzino piuttosto grandicello, di 10-12 anni o anche più, in realtà secondo la narrazione del suo autore egli dovrebbe essere immaginato come un bambino piuttosto piccolo che aveva ancora i denti da latte; pur se è difficile immaginare un fanciulletto poco più che neonato che compiere le gesta avventurose e spericolate di cui è protagonista nel libro di Barrie.

2) in effetti la figura di Peter Pan è stata vista come un esempio paradigmatico del celebre archetipo junghiano del “puer aeternus”; a mio avviso, anche qualora si ritenga valida la teoria degli archetipi proposti da Jung, è azzardato considerare tale Peter Pan, poiché è una figura complessa, un individuo, non un semplice archetipo. Come vedremo in seguito nella nostra trattazione, si potrebbe vedere in lui, e in minor misura anche in Pinocchio, una incarnazione dello stato infantile, inteso come componente psichica presente o latente, sia pure in forma diversa, in tutti gli umani, indipendentemente all’età cronologica, e in questo senso, e solo in questo senso, una manifestazione del “puer aeternus”.

3) di certo Barrie, che era una persona colta, non ignorava che nelle credenza di alcune popolazioni, specialmente dell’Asia e dell’Europa settentrionali, le anime dei nascituri albergano tra i rami dell'”Albero Cosmico”, donde vengono poi trasportate ad incarnarsi sulla terra da uccelli quali la Cicogna e il Succiacapre; -si veda a tale riguardo la III e la IV parte di “L’AFFASCINANTE STORIA DELL’ALBERO DI NATALE”, pubblicate rispettivamente il 9 e il 27 gennaio 2018, e in particolare le note 3 e 4 della quarta parte-. Né che secondo alcune delle dottrine reincarnazionistiche, come quelle orfico-pitagoriche, ma pure alcune indù, gli uccelli sono i più vicini a reincarnarsi in esseri umani, o viceversa sono la reincarnazione di umani: questa teoria è dovuta principalmente, oltre che alla loro grazia e intelligenza, al canto melodioso e alla capacità propria di alcuni di essi di riprodurre il linguaggio umano (si veda al riguardo la quinta parte di “L’anima e la sua sopravvivenza” del 9 dicembre 2016). Senza contare il fatto che per gli antichi egizi, l’anima umana, il “Ba”, era rappresentata come un uccello. Pertanto è legittimo ritenere che lo stretto legame che gli immagina tra uccellini e neonati umani non sia solo un poetico frutto dell’inventiva dell’autore, ma anche sulle sue conoscenze in materia di mitologia.

4) le fate di cui parla Barrie, il cui equivalente maschile sono gli gnomi, o i folletti, per cui “fate” e “gnomi” sono le femmine e i maschi di un unico popolo, non hanno nulla a che vedere con le fate della tradizione popolare folklorica europea che sono l’evoluzione delle “dee del destino” indo-europee, -le Moire, le Parche, le Norne, le Màtrone-, che assegnano a ciascun vivente la sua sorte. Ed infatti il termine inglese “fairies” designa nell’insieme sia le une che gli altri. In esse sono piuttosto da vedersi degli “spiriti della Natura”, in particolare delle piante, simili pertanto alle ninfe delle piante e dei boschi della mitologia greca, le Driadi e le Amadriadi.

5) Mab, regina delle fate, è un personaggio tratto dal folklore britannico, ma che ha paralleli in molte altre tradizioni mitiche e folkloriche, citato anche da Shakespeare in “Romeo e Giulietta”, ove, nella scena quarta del primo atto, viene detto che è l’ispiratrice di sogni fallaci e, per bocca di Mercuzio, amico di Romeo, se ne fa una descrizione assai accurata, che certamente Barrie ebbe presente: “non è più grande della figuretta del cammeo che sta sull’indice del consultore municipale […]. Il suo cocchio ha i raggi delle ruote fatti con lunghe gambe di ragno, il mantice con ali di cavalletta, i finimenti con roridi raggi di Luna; la sua frusta è un ossicino di grillo; il suo cocchiere è una zanzara […]; il cocchio poi è un guscio di nocciola fatto dallo scoiattolo ebanista”.

6) “Brownie” è il nome attribuito nel folklore britannico a un folletto inseribile nella categoria degli “spiriti domestici”, cioè che dimorano stabilmente nelle dimore degli umani, o nelle immediate vicinanze, e che come quasi tutti codesti spiriti (come i Lari romani, i Domovoj slavi, ecc.) sono una probabile trasformazione di spiriti di defunti. Possono essere sia benigni e servizievoli, sia dispettosi e temibili secondo il modo con cui li si tratta, poiché essi non sono “buoni” o “cattivi”, -distinzione questa che, come abbiamo più volte ribadito negli articoli dedicati agli angeli e ai demoni, è propria più cha altre delle religioni monoteistiche, soprattutto del cristianesimo (poiché nell’ebraismo e nell’Islam già tale discrimine è meno netto)-; come i fanciulli, non hanno una vera “morale”, ma si comportano in base alla convenienza e al rapporto che instaurano con coloro con cui entrano in contatto.

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