LA MORFOLOGIA DELLA CROSTA TERRESTRE (terza parte)

I vulcani più grandi vengono a formarsi nei punti della crosta terrestre ove le faglie trasversali e longitudinali si intersecano ai margini delle zolle. Le lave delle isole vulcaniche sono di norma costituite da rocce di tipo calcio-alcalino, da andesiti e basalti che contengono un’elevata quantità di elementi volatili, i quali evaporano rapidamente una volta che le lave siano state eruttate e siano entrati in contatto con l’atmosfera e in tal modo ne causano in breve tempo il raffreddamento, generando così fortissime pressioni seguite da catastrofiche esplosioni.

La più violenta esplosione di questo tipo che sia stata documentata è quelle che avvenne a Sumatra circa 75.000 anni fa, e che lasciò nel punto centrale l’attuale lago Toba, di 100 km di diametro. Essa ricoprì con uno spesso strato di cenere tutta la parte sud-orientale dell’Asia, l’India e il golfo del Bengala; 2.000 km cubi di rocce finirono disintegrate e si liberò un’energia equivalente a 60.000 megatoni di esplosivi convenzionali, tremila volte superiore alla bomba atomica che distrusse Hiroshima  nel 1945.

Le dorsali e le isole non vulcaniche sono invece costituite massimamente da materiali sedimentari, una parte dei quali sono stati spinti come un cuneo contro il margine della placca in subduzione, staccandosi come una buccia dalla superficie della zolla oceanica.

La teoria della “subduzione”, ossia dello sprofondamento di una zolla oceanica che scivola più o meno lentamente sotto un’altra, venne formulata partendo dalle osservazioni condotte sulle Alpi, ma venne poi confermata e riveduta con lo studio dei fenomeni geodinamici che riscontravansi pure in altri luoghi del pianeta, in particolare nell’area del Pacifico occidentale, ove nel 1907 Bailey Willis descrivendo la tettonica dell’Asia orientale constatò che una zolla oceanica stava sprofondando sotto l’arcipelago giapponese, in modo da creare così una profonda fossa e determinare un’intensa attività vulcanica. L’angolo secondo sui si piega la crosta terrestre in discesa è il più delle volte non superiore ai 45°, ma talvolta la pendenza può essere più accentuata e la zolla discende con un moto quasi verticale; dove la zolla discendente si avvicina perpendicolarmente al sistema fossa-arco insulare (che abbiamo esaminato in precedenza), si crea una semplice giustapposizione tra le due zolle. Ma quando la parte più esterna dell’arco si piega all’indietro, così da essere quasi parallela al movimento dell’altra zolla, allora si viene a creare una “faglia di scivolamento” o “faglia trasforme”. Quasi tutte le “cinture di corrugamento” del pianeta, così come quasi tutte le zone di subduzione, sono associate ad enormi faglie trasformi, alcune delle quali lunghe migliaia di chilometri, le quali corrono parallele alla direzione del sistema di corrugamento.

Già alla metà dell’800 si notò che gli strati sedimentari delle catene montuose sono assai più spessi di quelli delle piattaforme continentali, in misura anche di dieci o più volte degli strati di queste ultime: da tale constatazione si comprese che che le montagne si sono innalzate iniziando il loro sviluppo proprio da profonde depressioni oceaniche, depressioni alle quali il geologo J. D. Dana diede il nome di “geosinclinali”. Testimonianze di codesto lento ma inarrestabile innalzamento e delle subduzioni che l’avevano provocato si possono trovare in tutte le catene montuose, dalle Alpi all’Himalaya, così che studiando le alte vette montane si possono ricostruire le diverse fasi evolutive di aree terrestri che un tempo erano profonde fosse oceaniche.

La crosta fusa dà origine ai vulcani. La crosta ha ps minore del mantello; tende quindi a risalire come gocce d’olio in acqua. Questi blocchi di crosta fusa sono il magma che causa le eruzioni vulcaniche..

Uno degli esempi più noti ed importanti di questo processo di orogenesi è quello verificatosi allorché, circa 60 milioni di anni fa, il protocontinente del Gondwana, movendosi in direzione nord verso l’Eurasia provocò prima la formazione di una fossa oceanica nel tratto di mare compreso tra le due zolle; in seguito, trenta milioni di anni or sono, la zolla che sarebbe divenuta la penisola indiana iniziò ad infilarsi sotto la placca eurasiatica; indi, trasportato dalla zolla sottostante, il subcontinente indiano venti milioni di anni fa proseguì il suo spostamento fino ad entrare in collisione con l’Eurasia, mente a sud l’isola di Ceylon, o Sri Lanka che dir si voglia, si separò dall’India. L’urto tra codeste poderose porzioni di crosta terrestre provocò l’innalzamento di  enormi masse rocciose, dando luogo alla nascita della catena montuosa dell’Himalaya.

All’interno delle zone di subduzione e degli archi insulari doppi, dal Pacifico occidentale alle Antille, si aprono i cosiddetti bacini marginali dei grandi oceani, tra i quali si annoverano nel Pacifico, andando da nord a sud, il mare di Bering, il mare di Okhotsk, il mare del Giappone, il mar Giallo, il mar Cinese orientale, i bacini indonesiani (mare di Giava, di Flores, di Timor, di Ceram, di Banda, di Arafura), il mar dei Coralli, il mare di Tasman; nell’Atlantico il mar dei Caraibi e il golfo del Messico; nel Mediterraneo, a ridosso del piccolo arco ellenico, il mar Egeo: tutti codesti mari nella terminologia impiegata nella tettonica a zolle sono chiamati “bacini di retroarco”.

Distribuzione delle fosse oceaniche sulla Terra.

Controversa è la genesi di tali formazioni, poiché esse non rientrano in una precisa tipologia e mostrano tutti caratteristiche e grandezze diverse. I fondali dei bacini di retroarco  sono in alcune aree costituiti da crosta oceanica di recente formazione, mentre in altre la crosta più antica appare ricoperta da uno spesso strato di sedimenti; in altre parti dei medesimi bacini permangono invece residui di crosta continentale che hanno dato luogo alle molte isole che spesso orlano o costellano i bacini stessi e che sembrano essere ritagliate nel mare da ripide faglie, -come ad esempio nelle numerose isole del mar Egeo, in particolare la Cicladi-. E pure molte delle scogliere coralline che si rinvengono nel mar Cinese meridionale, nei bacini indonesiani e nel mar dei Coralli -il quale ultimo ha significativamente tratto il nome da tali formazioni coralline-, non si sono sviluppate intorno ad antichi crateri vulcanici come è avvenuto per quelle del Pacifico centrale, ma al contrario sono cresciute sopra brani di piattaforma continentale posti a scarsa profondità, i quali in seguito, sprofondando lentamente, hanno permesso alle colonie di Coralli di continuare a svilupparsi al di sopra di esse: infatti se lo sprofondamento delle zolle oceaniche si mantiene al ritmo di 1-5 millimetri annui, i Coralli possono crescere di pari passo.

Tracce di antichi bacini di retroarco possono peraltro rinvenirsi anche nei corrugamenti di montagne innalzatesi in epoca remota che presentano diversi tipi e gradi di sedimentazioni geosinclinali.

I fenomeni vulcanici sottomarini che compaiono lungo gli assi di espansione del fondale non sembrano molto accentuati: infatti appena la valle vulcanica situata al centro della dorsale si allarga, essa viene immediatamente riempita dalla lava. Tuttavia in alcune aree, come quella nell’Atlantico settentrionale tra la Groenlandia e le isole britanniche, i fenomeni vulcanici hanno generato un’isola assai vasta qual è l’Islanda, che, con una superficie di 10.335 km quadrati, può vantarsi una delle maggiori del pianeta. La dorsle medio-atlantica attraversa l’isola proprio nel mezzo ed segnata da una serie ininterrotta di fratture trasformate in vallate e da baratri tuttora aperti, tanto che sarebbe difficile trovare una testimonianza altrettanto evidente degli effetti del movimento delle zolle oceaniche. Non è tuttavia chiara la ragione per la quale si sia colà verificato codesto enorme accumulo di materiale vulcanico (risalente ad alquanti milioni di anni fa), mentre altrove, in corrispondenza della frattura situata lungo le dorsali le pur intense attività vulcaniche non abbiano dato luogo ad isole.

Circa 2.500 km a sud dell’Islanda si trovano numerose isole vulcaniche che costituiscono l’arcipelago delle Azzorre, la cui ubicazione non si estende però in esatta corrispondenza con la dorsale atlantica; nella parte occidentale del nord Atlantico si incontrano poi le Bermude, isole nate da antiche dune pleistoceniche che con il tempo si sono agglomerate fino a diventare rocce (eolianiti) stratificate su una base vulcanica. Analoghe caratteristiche presentano le isole di Ascensiòn, Sant’Elena, Tristan da Cunha, anch’esse di origine vulcanica, poste nell’Atlantico meridionale in prossimità della dorsale, ma non sopra di essa; nonché altre isole degli oceani Indiano, -quali l’isola di S. Paolo-, e Pacifico, -le isole Galapagos-.

La comune particolarità dei vulcani medio-oceanici è che la loro lava è caratterizzata da un alto tenore alcalino, che la rende assai diversa da quella dei vulcani degli archi insulari, -oltre che da quella degli altri vulcani della Terra-. Sembra inoltre che l’epoca nella quale nacquero sia tanto più remota quanto più lontani si trovano dalla dorsale. Le isole vulcaniche medio-oceaniche emergono in corrispondenza dei punti ove le fratture trasversali intersecano, o intersecavano, perpendicolarmente la valle che si trova al centro della dorsale; in questi punti, -detti “punti caldi” (in inglese “hot spot”)-, la crosta terrestre è sottile e pertanto è più facile che ivi la lava proveniente dal nucleo terrestre trovi un varco per fuoriuscire e creare così un vulcano. Le lave eruttate nei “punti caldi” si ritiene attraversino una zona del mantello diversa da quella che dà origine al vulcanesimo sviluppatosi nelle aree di frattura ai margini delle zolle terrestri.

In alcuni casi, come ad esempio nel Pacifico centrale e occidentale, emergono dalle acque festoni di isole vulcaniche e/o atolli che sono residui di antichi vulcani spenti disposti in direzione nord-ovest/sud-est, che non coincide con le aree di frattura e non ha relazione neppure con la dorsale medio-oceanica. Tali isole vulcaniche appaiono distanziate tra loro da spazi regolari e sembra che la loro età diminuisca procedendo da nord a sud: poiché la zolla del Pacifico tende a spostarsi verso nord-est si è fatta l’ipotesi che i vulcani da cui hanno tratto origine gli arcipelaghi del Pacifico siano derivati dall’emergere di successive ondate di calore dalle profondità del mantello e siano indizi del movimento della zolla.

Anche ad un osservatore superficiale risulta evidente che tutti i sistemi di cui è costituito il pianeta Terra (litosfera, idrosfera, atmosfera e biosfera) non sono entità indipendenti, ma sono anzi intimamente correlati gli uni con gli altri, per cui qualsivoglia fenomeno avvenga nell’ambito di uno di essi, questo avrà ripercussioni più o meno rilevanti ed evidenti anche sui rimanenti, ed è quindi possibile, entro certi limiti, predire la sua evoluzione futura sulla base dei controlli e degli studi sull’ambiente. Per quanto riguarda poi i sistemi astronomico-geofisici che si sviluppano entro un lungo arco temporale si è osservato che, pur se variabili, lo sono spesso con un andamento ciclico più o meno regolare.

Ma pure i corpi celesti, -quali i pianeti e le stelle-, si rivelano collegati all’insieme dei fenomeni terrestri, esercitando su di essi un’influenza tutt’altro che trascurabile, ma anzi determinante nei mutamenti e nei dinamismi della Terra. Tale influenza si esercita soprattutto attraverso campi di energia gravitazionale e di energia radiante, per effetto dei quali l’Universo si manifesta quale un insieme globale di sistemi interconnessi entro una sequenza potenzialmente infinita. Per comprendere le esigenze e le limitazioni della vita terrestre è dunque necessario comprendere la fondamentale unicità della Natura nel suo senso universale.

Sul pianeta Terra agiscono due distinte fonti di energia: l’energia esogena, proveniente dal Sole, dalla Luna, dai pianeti, dalle stelle e da altre minori entità cosmiche; e l’energia endogena, che giunge alla superficie dall’interno della Terra (flusso di calore, potenziale gravitazionale, liberazione di risorse energetiche accumulate per effetto di processi chimici o fisico-chimici). L’energia termica originata dal Sole è circa cinquemila volte maggiore del flusso proveniente dal nucleo della Terra: pertanto il riscaldamento degli oceani è determinato in prevalenza dalla potenza del Sole e variazioni anche minime nella quantità e nella qualità della radiazione solare e/o dei parametri orbitali del pianeta possono causare mutamenti climatici di enorme portata. Tuttavia dallo studio delle passate ere geologiche risulta certo che da quando la vita fece la sua prima apparizione sul nostro pianeta, circa tre miliardi e mezzo di anni fa, non vi fu mai un’oscillazione della temperatura media oltre i valori considerati critici e incompatibili con la vita stessa, poiché la temperatura media si è sempre mantenuta su valori intorno ai 20 gradi, con un’oscillazione di 5° in più o in meno (oscillazione che certo, specie qualora avvenga in modo repentino, comporta importanti stravolgimenti, ma non al punto di compromettere la sopravvivenza stessa degli esseri viventi) e, nonostante le ricorrenti ere glaciali, alle latitudini tropicali non si è mai giunti al congelamento.

L’energia endogena fa sì che il nucleo e il mantello si mantengano in una lenta, ma costante condizione di turbolenza dalla quale derivano i sommovimenti che abbiamo visto e che sono studiati dalla tettonica a zolle; mentre l’energia esogena è la causa principale delle modifiche dell’atmosfera e nell’idrosfera, nonchè fonte di vita per la biosfera sia per l’azione diretta che esercita sugli organismi viventi irradiando la luce e il calore per essi indispensabile, sia attraverso le modifiche che introduce negli altri sistemi terrestri.

In sintesi il sistema energetico globale può essere descritto come un continuo scambio reciproco in cui l’energia radiante e quella gravitazionale esercitano la loro azione sulla magnetosfera, sull’atmosfera, sull’idrosfera (influenzando in tal modo soprattutto l’andamento del clima) e pure sulla litosfera -attraverso una sollecitazione meccanica-. Dalle variazioni del clima dipendono a loro volta il livello delle acque marine e la formazione e il mantenimento dei ghiacci sulla terraferma, sia quelli dei ghiacciai di alta montagna sia quelli che ricoprono le calotte polari. Anche questi  ultimi elementi esercitano una fondamentale influenza sul “geoide” e sull’equilibrio tra il movimento dell’asse terrestre e la velocità di rotazione del pianeta. Qualunque variazione di uno di questi parametri trasmette una sollecitazione nella crosta terrestre e la tensione che ne risulta si esprime non di rado sia con fenomeni tellurici e vulcanici, sia con alterazioni del campo geomagnetico.

La più parte degli scienziati ipotizza che i materiali che costituivano il pianeta Terra nelle epoche primordiali avessero la forma di “palle di neve” mista a polvere interstellare; indi le “palle” cominciarono a convergere per effetto della forza di gravità e in breve si aggregarono in un nucleo vorticoso. L’attrito generatosi dall’impatto tra di esse e i componenti radioattivi ivi presenti produssero calore, così che i ghiacci delle nubi (o “palle”) di polvere interstellare si sciolsero gradualmente. Si sarebbe pertanto creato un nucleo il quale accrescendosi sempre più avrebbe progressivamente aumentato il suo potenziale di attrazione, in modo che gli elementi più densi si sarebbero concentrati in prossimità del nucleo medesimo, mente quelli più volatili sarebbero stati sospinti verso l’esterno; questi ultimi, venuti alla superficie, avrebbero liberato i componenti dell’atmosfera e dell’idrosfera primordiali e così si sarebbe formato il primo oceano, che dagli scienziati moderni ha ricevuto il nome di “Panthalassa” (“tutto mare”).

E’ tuttora incerto però, -né si sa se potrà mai essere accertato-, se tale massa d’acqua si sia condensata da una nube di vapore ad alta temperatura, oppure se il ghiaccio mischiato alle polveri cosmiche  nelle “palle” si sia sciolto lentamente accumulandosi goccia dopo goccia sulla crosta già raffreddatasi della Terra. Questo oceano primordiale aveva un volume pari a solo il 5-10 % la massa d’acqua che costituisce l’insieme degli oceani e dei mari attuali, e forse non era neppure concentrato in un unico luogo ma distribuito in alcuni grandi laghi isolati.

Si presume altresì che la prima atmosfera fosse composta da una miscela di gas quali metano, ammoniaca, vapore acqueo ed acido solfidrico, che venivano emanati dalla superficie terrestre ancora fluida: un tale ambiente anossico sarebbe senza dubbio letale per qualunque essere vivente, ad eccezione dei batteri autotrofi: pertanto furono proprio questi organismi unicellulari le prime forme di vita apparse sulla Terra. Le vere e proprie ere geologiche in cui è stata suddivisa la lunga storia del nostro pianeta fu preceduta da una fase caratterizzata dal riscaldamento interno e dalla differenziazione dei minerali: il ferro, il più abbondante fra i metalli pesanti, in gran parte si portò verso il nucleo terrestre, mentre i silicati, i principali componenti delle rocce odierne, tendevano a risalire all’esterno contribuendo alla formazione della crosta terrestre. Dapprima essa era sottile e costellata da numerosi vulcani, come è testimoniato dal fatto che tanto più si torna indietro nel tempo, tanto maggiore è la quantità di rocce vulcaniche che si rinvengono nelle formazioni geologiche più antiche. A seguito dell’ispessirsi  e del consolidarsi dello strato esterno, aumentarono alquanto le esalazioni vulcaniche, che contribuirono ad arricchire l’atmosfera primordiale di vapore acqueo.

L’atmosfera rimase però se non del tutto priva, povera di ossigeno fino a che non comparvero i primi organismi vegetali in grado di produrre tale elemento utilizzando l’anidride carbonica, ossia di attuare la fotosintesi.

In quel periodo la crosta terrestre dovette subire anche il bombardamento continuo di un grande numero di meteoriti che provocavano profonde fratture e ne deformavano la superficie scavando crateri non vulcanici, le cui tracce sono ormai scomparse (i crateri originati dall’impatto di meteoriti tuttora visibili risalgono ad epoche assai più recenti: ad es. il Meteor Crater in Arizona ha solo 12.000 anni).

Potremmo in sintesi riassumere la prima parte della storia geologica della Terra nel modo seguente:

a) ERA PREZOOICA, durata all’incirca dai 4.600 ai 3.600 milioni anni fa, in cui avvenne la formazione della crosta terrestre e delle primitive atmosfera e idrosfera, nei termini che abbiamo in precedenza descritto. Durante tale lunghissimo periodo non si riscontra alcuna traccia dell’esistenza di esseri viventi ancorché elementari, che d’altra non sarebbe stata possibile nelle condizioni in cui si trovava il pianeta.

b) ERA ARCHEOZOOICA, da 3.600 a 2.500 milioni di anni or sono. A tale epoca sono attribuibili rocce contenenti composti organici probabilmente derivati dalla trasformazione di idrocarburi. Ma nell’era Archeozooica compaiono anche le prime testimonianze di veri e propri organismi viventi, ancorché molto semplici, come alcuni Batteri appartenenti al genere “Eobacterium” ritrovati in antichi giacimenti sedimentari in Sud Africa, e soprattutto le “Stromatoliti”, venute alla luce nel 1980 a Pebara e in alcune altre località dell’Australia occidentale, ma che in seguito sono state trovate nelle rocce primordiali di tutti i continenti.

Stromatoliti sulle coste occidentali dell’Australia.

Le Stromatoliti sono concrezioni o strutture irregolari, ondulate o arricciate, prodotte dall’azione di organismi marini unicellulari, i Cianobatteri, -o Cianoficee, come erano più spesso chiamate un tempo-, meglio conosciuti come “Alghe azzurre” (sebbene abbiano poco a che vedere con le Alghe verdi -le Cloroficee-). Le Alghe azzurre, attraverso la fotosintesi clorofilliana, secernono un muco fangoso che, stratificandosi in sedimenti calcarei fini, trattenuti e sostenuti dai batteri, crea una sorta di roccia “animata”, una roccia che non si muove autonomamente, ma, per così dire, è “viva”. Queste strutture si modificano e si accrescono di continuo nel corso di migliaia di anni e si possono considerare la prima vera forma di vita apparsa sulla Terra e hanno dominato l’ambiente marino per moltissimo tempo, finchè, grazie all’ossigeno da loro prodotto, nacquero organismi più complessi ed evoluti. Le Stromatoliti si trovano tuttora lungo alcune coste dell’Australia, della Florida, delle Bahamas e del golfo Persico, ma si rinvengono talora anche in ambienti lacustri. Riproducendosi per scissione binaria, le Alghe si estesero nei mari in tutte le direzioni e formarono una specie di feltro increspato. La struttura a pieghe è esclusiva degli organismi viventi e non esiste alcun processo inorganico di ripiegamento delle rocce che presenti qualche somiglianza con tale struttura.

Le strutture delle Alghe, simili al velluto, trattengono sedimenti fangosi di piccole dimensioni che conservano poi la forma dell’intreccio algale molto tempo dopo che le alghe originali si sono decomposte (in pratica avviene per esse il processo che porta alla formazione dei fossili). I fanghi delle coste tropicali sono di solito ricchi di carbonato di calcio e pertanto le antiche Stromatoliti si sono in genere preservate quali calcare, sebbene in alcuni degli strati più antichi si siano verificati fenomeni di metamorfismo (dovuto allo sprofondamento, al calore, alla pressione e alla liscivazione) che ha provocato la sostituzione del pristino carbonato di calcio con silice.

Uno dei luoghi si possono osservare in maggior numero delle Stromatoliti è nelle zone intercotidali del Golfo Persico, ove nei litorali lasciati scoperti dalla bassa marea sale e gesso cristallizzano in pozze isolate. Dopo essere stati ricoperti dai fanghi gli strati di sale e gesso possono essere dilavati dalle acque freatiche e così i sedimenti salini corrodendo le rocce sottostanti crenao delle brecce, pressoché identiche a quelle che sono state rinvenute nelle più remote formazioni calcaree, per cui se è dedotto che pure il mare, o i mari, primordiali fossero salati. Tuttavia si pensa che le acque del mare archeozoico, e in generale delle altre due ere che precedettero quella Paleozoica, -allorché la Terra cominciò ad assumere connotati più simili a quelli odierni-, l’era Cianozooica e l’era Proterozooica, fossero abbastanza diversi dall’idrosfera attuale: infatti esse erano assai povere di ossigeno, mentre abbondavano di anidride carbonica, di ferro e di manganese, minerali questi ultimi presenti in cospicue quantità nelle lave vulcaniche e che grazie all’azione degli agenti atmosferici venivano liberati andando a sciogliersi nelle acque.

c) l’ERA CIANOZOICA, tra i 2.500 e i 1.600 milioni da anni fa, vede una progressiva trasformazione dell’atmosfera e delle acque oceaniche non solo per l’azione fotosintetica operata dai Cianobatteri (o Cianoficee), ma pure a causa dei processi di ossidazione dei minerali ferrosi di origine vulcanica che contribuirono anch’essi ad aumentare il tenore di ossigeno nelle acque.

d) nella successiva ERA PRETEROZOICA, dai 1.600 ai 590 milioni di anni or sono, compaiono infine i primi organismi unicellulari eucarioti (ossia con cellule dotate di un nucleo ben distinto, a differenza delle cellule “procariote”, in cui tale nucleo è mancante) presumibilmente simili agli attuali Dinoflagellati (esseri a metà strada tra Animali e Vegetali) e Cloroficee (Alghe verdi). Questa era termina con la prima grande glaciazione, dopo la quale ebbe inizio l’ERA PALEOZOICA.

In quest’ultima, -durata da 590 a 285 milioni di anni fa-, la vita si sviluppa sulla Terra e nel corso dei sei periodi in cui essa è stata suddivisa dagli scienziati ( Cambriano, Ordoviciano, Siluriano, Devoniano, Carbonifero, Permiano), compaiono tutti i principali “tipi”, o “phila” degli esseri viventi, tanto Piante quanto Animali.

In contrasto con le ere precedenti, di depositi risalenti al Paleozoico inferiore, che comprende i primi due periodi, si presentano assai ricchi di fossili, poiché in tali periodi compaiono e si espandono molti organismi pluricellulari, anche dotati di parti dure come esoscheletri e conchiglie. Il clima doveva essere caldo e uniforme, così da favorire l’espansione degli esseri viventi; all’inizio predominano ancora le Stromatoliti e altri organismi unicellulari, come le Cloroficee sifonate e le Dinoficee, ma poi nascono e si sviluppano sempre più Piante e Animali dalle strutture sempre più complesse, quali Foraminiferi, Celenterati, Anellidi, Molluschi, Echinodermi e Artropodi.

Il progressivo scioglimento delle calotte glaciali provoca una grande espansione dei mari, e il considerevole aumento delle masse acquee modifica la composizione chimica di queste ultime, che, la cui crescente alcalinità induce molti organismi invertebrati, -quali erano allora tutti gli animali-, a costruirsi gusci o esoscheletri di carbonato di calcio. Ed in effetti il principale fenomeno che caratterizza la fauna del Cambriano è la comparsa di numerose classi appartenenti ai “phila” dei Trilobiti, dei Brachiopodi e dei Molluschi a livelli tassonomici assai progrediti e con strutture molto raffinate, comparsa all’apparenza improvvisa che segna dunque uno iato netto con l’era precedente, alla quale sono ascrivibili solo poche impronte o tracce fossili di organismi privi di parti dure.

Fondale di un mare del Cambriano con in primo piano le Trilobiti.

Si deve pertanto dedurre, più che dimostrare per mezzo degli scarsi reperti paleontologici rimasti dal Proterozoico, e dall’inizio del Paleozoico, che durante quest’ultima era vi fu uno spettacolare balzo evolutivo, di cui le scarse testimonianze fossili non possono dare un’idea adeguata.

L’ambiente marino del Cambriano era caratterizzato da diverse specie di Poriferi, ovvero Spugne, che vivevano, -come tuttora i loro congeneri moderni, invero assai poco cambiati da allora-, fissati sul fondale, mentre animali simili alle Meduse nuotavano nell’acqua e abbarbicati alle rocce prosperavano Molluschi simili ai Mitili attuali. Ma le forme viventi più comuni in questo periodo erano le Trilobiti, cosiddette per la tipica conformazione tripartita del loro corpo, che si movevano sulla sabbia, lasciandovi una lunga scia, chiamata “cruziana”, delle quali sono rimaste alquante tracce fossili. Le Trilobiti, di cui si conoscono parecchie specie, avevano anche la capacità di infossarsi nella sabbia.

Nel Paleozoico inferiore l’antica Pangea si mostra nettamente distinta in due grandi blocchi: a nord la Laurasia e  a sud il Gondwana; di tali enormi masse continentali e sull’origine del loro nome abbiamo già parlato nella prima parte del presente articolo e in altre trattazioni comparse nell'”Oasi di Tammuz”, per cui non torniamo sull’argomento.

Nel periodo Cambriano il polo sud doveva trovarsi nell’attuale Marocco, mentre nell’Ordoviciano esso si spostò in qualche altro punto del Sahara occidentale. Durante le prime fasi dell’era Paleozoica le masse continentali della Laurasia erano attraversate dall’equatore, né alcun lembo di terraferma trovavasi al polo Nord; un ancestrale oceano antenato dell’odierno Atlantico, cui fu imposto il nome di “Iapetus”, in ricordo del titano figlio di Urano di Gea e padre di Atlante (1), separava gran parte dell’America nord-orientale dall’Europa e la Protetide (il mare chiuso che precedette la Tetide) si interponeva tra l’Europa e il Godwana. All’estremità opposta del Gondwana si estendeva l’Australia che si portò poi a nord dell’equatore.

Colonia fossile di Graptoliti.

Le coste di codeste ampie fasce equatoriali di terre erano ricoperte di depositi salini e strati di argille rosse sulle quali prosperavano diversi organismi che furono i primi costruttori di “barriere” marine e oceaniche. Tali organismo non erano però i Coralli, ma esseri simili a Spugne appartenenti a un gruppo conosciuto con il nome di “Achaeocyathinae”. Dove i sedimenti presentano composizione in prevalenza argillosa, i fossili pelagici più caratteristici rimasti di quell’epoca remota sono i “Graptoliti”, che galleggiavano liberamente alla superficie delle acque ed erano così diffusi tra il Cambriano medio e il Carbonifero inferiore che grazie ad essi gli studiosi di paleontologia possono identificare senza incertezze i diversi strati di rocce succedutisi in quei periodi geologici. Ritenuti un tempo vegetali, furono poi identificati come una classe (“Graptolithina”), ora estinta di animali Invertebrati che mostrano però già caratteri di transizione verso i primi Cordati, e pertanto possono essere considerati quali antenati anche dei Vertebrati. Essi formavano estese colonie costituite da piccoli segmenti semianulari sovrapposti, ciascuna delle quali si originava da una camera conica vuota all’interno (“sicula”), che si accresceva per gemmazione. L’estremità della “sicula” si prolungava in uno stelo rigido, semplice o ramificato, diritto o ricurvo, che portava di lato una serie di piccole ampolle chiamate “idroteche”, comunicanti tra di esse per mezzo di un canale e abitate ciascuna da un membro della colonia. Ai Graptoliti, che comprendevano una notevolissima varietà di specie, -suddivise in sei ordini (in classificazioni proposte di recente otto), sono ascrivibili forme sia bentoniche sia planctoniche. Le colonie delle specie planctoniche vivevano riunite e legate ad un organo di galleggiamento costituito da un disco sostenuto da sfere cave; mentre le colonie bentoniche vivevano fissate al fondo marino.

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) come il mitico Iapetus era il genitore di Atlante, così questo protooceano era il “padre” dell’Atlantico, il quale a sua volta aveva tratto il nome dal mitico sostenitore della volta celeste che aveva sede presso le colonne d’Ercole, ossia lo stretto di Gibilterra.

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