LA MORFOLOGIA DELLA CROSTA TERRESTRE (seconda parte)

Un altro fattore che ha esercitato una profonda influenza nei mutamenti della crosta terrestre e nella distribuzione delle masse continentali è il magnetismo terrestre (o “geomagnetismo”). Infatti gli studi compiuti nel corso del XX secolo sulle proprietà magnetiche delle rocce derivanti dalla solidificazione dalle lave eruttate dai vulcani durante antichissime eruzioni evidenziarono che l’orientamento magnetico dei vari continenti aveva subito una continua variazione nel volgere dei millenni e che ad intervalli più o meno regolari avveniva una strana inversione delle polarità magnetiche dell’asse terrestre con un successivo ritorno alla direzione originaria. Tale inspiegabile fenomeno fu rilevato poiché quando un qualunque minerale contenente ferro, -o qualche altro elemento magnetico, pur se in modesta misura-, cristallizza si orienta esattamente nella direzione occupata dal polo magnetico terrestre al momento della solidificazione.

Pertanto, se si presume che l’asse dei poli geomagnetici, il quale, com’è noto, pur non coincidendo con l’asse di rotazione della Terra, si trova sempre entro una distanza non superiore ai 15° rispetto al polo geografico, l’analisi delle tracce impresse nei minerali nel corso del tempo dal mutare dell’orientamento magnetico dovrebbe fornire una prova ulteriore della migrazione dei continenti. Conoscendo il “paleopolo” di massa di terraferma, si potrà determinare quale fosse il “paleoequatore”, e di conseguenza le “paleolatitudini” in un dato periodo: poichè queste ultime, come rilevate dall’analisi dei sedimenti coincidono con le “paleolatitudini” magnetiche, si è avuta la conferma che la polarità geomagnetica pur non sovrapponendosi all’asse di rotazione terrestre, ne segue da vicino gli spostamenti, o, per meglio dire, le oscillazioni.

Nel 1885 Eduard Suess sul fondamento dei suoi studi petrografici aveva dedotto che la Terra possiede un nucleo centrale costituito essenzialmente da ferro e nichel, -che egli chiamò “Nife”-, circondato da un mantello di silicati di magnesio e di ferro, -il “Sima”-, e da una crosta in cui prevalgono i silicati di alluminio, -il “Sial”-.

Dalla constatazione della “deriva dei continenti” da un lato e dagli spostamenti geomagnetici dall’altro si è dedotto che il mantello e la crosta terrestre non sono saldamente fissati al nucleo centrale del nostro pianeta, che è la fonte e la causa del magnetismo terrestre. Pertanto è lecito pensare che si verifichi un limitato scivolamento del mantello che si trasmette poi alla crosta terrestre provocando in tal modo il fratturarsi e lo spostarsi dei blocchi che costituiscono quest’ultima; codesto “scivolamento” è da attribuirsi al fatto che la parte più esterna del nucleo è liquida, pur se assai densa e vischiosa.

Nel 1872 fu allestita in Gran Bretagna una importante spedizione scientifica incaricata di effettuare approfondite ricerche sui mari e gli oceani di tutto il mondo, -la quale dal nome della nave con cui venen compiuta prese il nome di “spedizione Challenger”-. La spedizione durò quattro anni riportando risultati che consentirono di porre le basi della moderna oceanografia, tra i quali la compilazione della prima mappa batimetrica dei fondali oceanici. In tal modo si potè avere una visione d’insieme dei rilievi e delle depressioni del nostro pianeta, da cui si dedusse che per quanto la Terra possa apparire disuguale all’occhio umano, in effetti i continenti nonostante le notevoli diseguaglianze che vi si riscontrano sono costituiti da ampie piattaforme alte mediamente 230 metri sopra il livello del mare. Per quanto riguarda i fondali oceanici, in essi si rinvengono estese pianure abissali la cui profondità media è a 4700 metri sotto la superficie del mare: pertanto, nonostante l’esistenza di catene montuose altissime come l’Himalaya, che con l’Everest giunge quasi a sfiorare i 9000 metri, e di fosse oceaniche profonde come quella delle Filippine, che tocca gli 11.000 m al di sotto del livello marino, nel complesso la superficie terrestre si può considerare relativamente regolare.

Secondo l’ipotesi formulata dal Wegener, i blocchi di Sial, -la crosta terrestre-, dovrebbero galleggiare sopra il mantello, -il Sima-, quasi come “iceberg” sull’oceano, ma tale ipotesi si rivelò errata poiché si scoprì che lo strato fluido o plastico del pianeta è collocato a una profondità assai maggiore di quanto supposto dallo scienziato tedesco a circa 200 km dalla crosta terrestre e che è nella porzione centrale del mantello che trovasi uno strato semiliquido. L’esistenza di tale strato fu dapprima intuita nel 1914 da Joseph Barrell, che lo chiamò “atenosfera” (“strato debole”), e venne poi confermata da successivi studi sulla propagazione elle onde sismiche; a tutta la parte del globo che sta al di sopra dell’atenosfera, -il mantello superiore e la crosta terrestre-, si diede in seguito il nome di “litosfera” (“strato delle rocce”).

Galleggiando sopra materiali più densi la crosta continentale, a differenza di quella oceanica che si rigenera in continuazione, tende a mantenersi immutata per lunghissimi periodi di tempo: tutti i continenti contengono nuclei in cui sono presenti rocce molto antiche, risalenti ad oltre 3 miliardi e mezzo di anni or sono, alle quali si sono aggiunte via via fasce più esterne la cui formazione si ebbe in epoche meno remote. Al contrario, per quanto si sa fino ad ora, non esiste alcun frammento di crosta oceanica di età superiore ai 200 milioni di anni, e da questo si deve dedurre che, mentre i blocchi continentali sono caratterizzati da una notevole longevità, essa sia invece soggetta a un lento e ininterrotto processo convettivo di rimescolamenti che tende ad alterarne la consistenza in tempi relativamente brevi.

Un altro importante risultato ottenuto dagli studi batimetrici condotti dalla “spedizione Challenger” fu la scoperta di una dorsale sottomarina nel centro dell’Atlantico, circondata a sua volta da un vasto altopiano sottomarino estendentesi dal 25° al 50° grado di latitudine nord e il 25° e 50° di longitudine est. Era essa una testimonianza del presunto e famoso continente di Atlantide, del quale abbiamo altre volte trattato, cercando di stabilire se e in quale misura la mitica terra descritta da Platone sia effettivamente da intendere come un continente poi inabissatosi, così come successo ad altri blocchi continentali, o sia piuttosto da considerare la testimonianza di una grande civiltà fiorita sulle coste occidentali del mar Mediterraneo, e dalla quale secondo alcuni sarebbero derivate le civiltà posteriori, come quella egizia e quella mesopotamica? Come ben sappiamo, -si vedano gli articoli che abbiamo già dedicato a questo affascinante argomento-, dalla dorsale atlantica si elevano ed emergono al di sopra del livello delle acque alcune isole e arcipelaghi: le Canarie, le Azzorre, le isole del Capo Verde, di Madera, di Tristan de Cunha, di Ascensiòn ed altri isolotti minori. Nel volume “Il problema di Atlantide”, di Lewis Spencer, è accertata la presenza di codesta giogaia subacquea, che si allunga dalle coste irlandesi fino alle isole Azzorre e indi prosegue fino all’isola Tristan de Cunha elevandosi in tre distinte sporgenze, delle quali una si avvicina all’Europa, un’altra all’Africa e la terza all’America e che per la loro struttura geologica sembrano essere la testimonianza di un antico continente il quale si inabissò, -di colpo o in maniera graduale-, durante l’ultima era glaciale.

La dorsale atlantica fu studiata in modo più approfondito nel 1927, allorché la nave tedesca Meteor effettuò i primi sistematici rilevamenti oceanografici nell’oceano Atlantico da est a ovest utilizzando lo strumento dell'”ecoscandaglio”, e l’anno seguente il geologo Leo Kober pubblicò una mappa nella quale era illustrata una presunta dorsale medio-oceanica che si estendeva attraverso l’intero globo.

La dorsale medio-atlantica.

Tale ipotesi venne definitivamente confermata dopo che con il perfezionamento dell'”ecoscandaglio” si constatò che la dorsale sottomarina non solo attraversa tutto il pianeta ma in alcuni punti presenta diramazioni che si inseriscono nelle masse continentali, come avviene ad esempio nel mar Rosso, nell’Artico orientale e nel golfo di California. Da tale constatazione si comprese che la dorsale deve essere in realtà una zona di frattura della crosta terrestre, sia oceanica sia continentale, e che può essere individuata anche nell’interno della terraferma nella vallate dell’Africa orientale in lunga fenditura che potrebbe in futuro condurre il cosiddetto “corno d’Africa” a staccarsi dal blocco principale del continente nero.

Analoghe linee di frattura corrono una dal mar Rosso al mar Morto e alla valle del Giordano, e un’altra dal golfo di California alla “faglia di Sant’Andrea”: in questi casi però non si tratta di una semplice frattura, bensì di una linea di scorrimento, in cui i due bordi non si muovono in direzioni opposte, ma l’uno parallelo all’altro. Codeste zone fratturate e in generale tutte le dorsali marine sono state studiate con particolare impegno e intensità negli ultimi decenni sia per comprendere a fondo il dinamismo che guida l’evolversi della morfologia terrestre sia per osservarne le caratteristiche biologiche ed etologiche. Nel fondo del mar Rosso si sono individuate pozze di acqua calda ipersalina e nei depositi recenti della dorsale che corre lungo lo stretto mare considerevoli giacimenti di metalli preziosi.

Nel 1977 durante un’esplorazione condotta nelle acque adiacenti le isole Galàpagos si è riscontrata un’area costellata da numerose sorgenti di acque calde ricche di metalli che sgorgano dal fondo attraverso dei “camini” che ospitano tra l’altro una fauna assai speciale e in gran parte endemica e che è divenuta oggetto di attenti studi. Codeste sorgenti idrominerali, -delle quali abbiamo accennato nella prima parte de “I Regni della Natura: il cerchio della vita e della coscienza” del 14 luglio 2013-, furono chiamate con il nome di “black smokers” (“camini neri”), a cagione del colore assai scuro a loro conferito dalle grandi quantità di zolfo e di solfuri contenuta nelle loro acque che a contatto con le fredde acque dell’oceano acquisiscono la tipica colorazione nerastra. Altri caratteri qualificanti di queste sorgenti sottomarine sono l’elevatissima temperatura dell’acqua, che, -provenendo dagli strati sottostanti la crosta terrestre, può raggiungere e superare i 400°-, e l’estrema acidità. I minerali di cui l’acqua è ricca depositandosi e cristallizzando intorno alla bocca della sorgente creano una sorta di camini che con il trascorrere del tempo divengono sempre più alti.

Le caratteristiche dei “blach smockers” sembrerebbero a prima vista rendere l’ambiente da essi creato incompatibile con l’esistenza di forme di vita, tanto più trovandosi essi a profondità abissali, dove non possono giungere né la luce né il calore del Sole; ma in effetti nelle sorgenti idrotermali sottomarine prosperano un gran numero di microrganismi anaerobi ed autotrofi, soprattutto Archeobatteri, i quali trasformano il calore, il metano e soprattutto i sali minerali di cui è ricca l’acqua idrotermale proveniente dalle viscere della terra e in particolare i composti solforati, soprattutto il solfuro di idrogeno, in materiale organico attraverso un processo detto “chemiosintesi”. Tale processo consente lo sviluppo di forme di vita via via più complesse, che comprendono Anellidi Policheti quali la Riftia pachypila, -specie che può raggiungere la lunghezza di oltre due metri, e che con le sua branchie rosse a forma di ciuffi che fuoriescono dai tubi calcarei entro i quali questi animali vivono è forse la più caratteristica dell’ambiente idrotermale dei “camini neri”-, Molluschi, -tra i quali segnaliamo il Vulcanoctopus hydrothermalis-, Crostacei, e financo Pesci, come la Dysammina rugosa, appartenente all’ordine degli Anguilliformi, e il Symphurus thermophilus, pesce piatto dell’ordine dei Pleuronettiformi (come la Sogliola e la Passera di mare).

Dopo quelle rinvenute al largo delle Galapagos, altre sorgenti idrotermali “nere” furono scoperte in altri aree marine, sempre in corrispondenza delle dorsali oceaniche che dividono le placche tettoniche, sia nell’oceano Pacifico sia nell’oceano Atlantico.

I sedimenti e i fossili rinvenuti nelle profondità oceaniche riflettono fedelmente sia l’evoluzione organica sia le variazioni chimiche, magnetiche e climatiche succedutesi sulla Terra e pertanto enorme è la loro importanza per lo studio dei cambiamenti avvenuti sul nostro pianeta nel corso della sua lunga esistenza. Tale studio si fonda sui dati offerti dai metodi radiometrici e dalla stratigrafia magnetica: da essi si possono quindi ricostruire, almeno nelle grandi linee, gli eventi che caratterizzarono le trascorse ere geologiche: tra i 180 e i 40 milioni di anni fa da un blocco di terre emerse pressoché unico si staccarono a diverse riprese le vaste zolle che ora costituiscono le due Americhe, l’Eurasia, l’Africa e l’India. Verso la fine dell’Eocene, -circa 40 milioni di anni fa-, l’Australia si allontanò dall’Antartide e per la prima volta si instaurò una corrente circum-antartica, circostanza dalla quale derivò un abbassamento della temperatura media che si estese a tutto l globo terracqueo, come si evince dal fatto che ne trovano tracce in tutti i campioni di sedimenti studiati.

Dopo che i continenti ebbero cominciato a dividersi ed allontanarsi gli uni dagli altri, fecero la loro comparsa strette fosse tra cui quella che diede origine al mar Rosso e in esse si depositarono spessi strati di salgemma, dovuti al continuo alternarsi di inondazioni ed evaporazioni dell’acqua del mare. Come abbiamo visto sopra in codeste “fosse di sprofondamento” si trovano spesso anche sorgenti idrotermali “bianche” (“white smokers”), le quali ospitano ecosistemi che, pur essendo meno insoliti e sorprendenti di quelli che allignano nei “balck smokers”, sono comunque assai interessanti.

Già alla fine del XIX secolo si era osservato che sparse sull’intero pianeta esistono alcune fasce instabili contraddistinte da intensissima attività sismica ove periodi più o meno lunghi di scosse minori, relativamente modeste, si alternano a terremoti assai violenti, tali da sconvolgere a volte lo stesso assetto idrogeologico dell’area interessata. In seguito si scoprì che gli assi di espansione dei fondali marini sono quasi sempre sismici, così come le principali “faglie trasformi” e le zone di subduzione, in cui blocchi di crosta terrestre scivolano l’uno sull’altro o sprofondano verso il basso. Nelle altre aree terrestre i fenomeni sismici sono invece rari e di scarsa intensità.

Rispetto alla teoria della deriva dei continenti elaborata dal Wegener, quella che si incentra sulla cosiddetta “tettonica a zolle” è che i vari continenti non fluttuano direttamente sul mantello,  ma sono ancorati a una sorta di “zattere” che a loro volta sono impiantate nel Sima e che i confini tra le singole zolle non sono segnati dai contorni delle masse terrestri continentali, ma al contrario spesso le attraversano così come percorrono le regioni oceaniche; finora sono state identificate dodici zolle principali, alle quali se ne affiancano molte altre di minore ampiezza e blocchi solo parzialmente separati.

Le forme di sismicità proprie di un determinato territorio variano notevolmente secondo il tipo di confine che divide le singole zolle. Le fratture della crosta che si trovano sul fondo dell’oceano sono caratterizzate da scosse simiche il cui ipocentro è situato a una modesta profondità e con intensità di solito inferiore al quinto grado della scala Richter. Nei punti di intersezione tra gli assi di espansione e le faglie trasformi tuttavia l’ipocentro può trovarsi a maggiore profondità. Nel caso le faglie trasformi si prolunghino in un continente dove la crosta terrestre è assai più spessa, ivi le scosse sismiche sono più violente poiché lo spessore della crosta aumenta l’attrito tra i bordi delle zolle in via di scivolamento: accade così che le tensioni geodinamiche prodotte dal movimento dei blocchi si accumulino progressivamente fino a incurvare e rigonfiare la superficie. A tal punto le tensioni accumulate o si rilasciano attraverso piccoli e numerosi slittamenti, che danno a luogo a terremoti di modesta intensità; oppure si liberano tutte in una volta provocando terremoti catastrofici e spostamenti verso la superficie che possono giungere fino a dieci metri.

Un altro tipo di confine tra zolle è quello che si presenta allorquando una parte della crosta oceanica sprofonda sotto la zolla contrapposta, scivolando e insinuandosi sotto di essa con un angolo di circa 45°: codesti punti della crosta terrestre vengono detti “zone di subduzione”. E’ dato rilevare scosse sismiche di diversa intensità entro un piano inclinato di subduzione, che possono avere un ipocentro superficiale, medio o profondo: tale distribuzione degli ipocentri (e degli epicentri) dei terremoti lungo un piano inclinato è detta “piano di Benioff” dal nome del geofisico Hugo Benioff, il quale fu il primo a rilevare il fenomeno; studiando il “piano di Benioff” si può seguire la zolla che sprofonda fino a una profondità di quasi 700 km, dove è presumibile si confonda gradualmente nel mantello superiore.

Abbiamo visto pertanto che la crosta terrestre può essere suddivisa in alcune zolle, o placche, in perenne, pur se lento movimento le une rispetto alle altre. Tuttavia si deve tenere presente che essendo la Terra una sfera, per quanto non perfetta, ed avendo quindi una superficie ricurva, il moto delle placche non è uniforme ma segue la rotazione del pianeta: la massima velocità di spostamento si riscontra in vicinanza dell’equatore, mentre ai poli essa è pressoché nulla. Secondo Wegener questo fatto ha determinato una “deriva verso occidente”.

Allorché un antico continente si fraziona, si formano delle fratture i cui contorni non sono certo nitidi ma seguono linee a zig-zag dovute a pre-esistenti incrinature nella litosfera. L’andamento di tali linee può essere seguito a ritroso nel tempo fino alla più antica crosta archeana, risalente a circa 3,5 miliardi di anni fa. Due chiari esempi di fratture verificatesi entro i corpi continentali possono osservarsi nel mar Rosso e nel golfo di California. Pur essendo luoghi assi diversi, -poiché il mar  Rosso deriva da una semplice fenditura, mentre il golfo californiano è stato originato da fenomeni di scorrimento-, essi mostrano analoghe caratteristiche geomorfologiche e si sono prodotti all’incirca nel medesimo periodo, circa 30 milioni di anni fa. Attualmente il golfo di California riceve i sedimenti provenienti dal fiume Colorado e in minor misura dei fiumi che scendono dalla Sierra Madre occidentale, sedimenti che con il trascorrere del tempo ne provocheranno il riempimento. Chi potesse osservare codesto luogo tra una ventina di milioni di anni, vedrebbe le faglie trasformi che lo attraversano aprirsi progressivamente e le penisola della Bassa California spostarsi in direzione nord-ovest.

In alcune parti degli oceani di tutto il mondo esistono però anche dorsali sottomarine isolate le quali, a differenza delle altre, allo stato attuale non mostrano segni di particolari attività telluriche e che pertanto furono definite “dorsali asismiche”: di esse la più nota e la più studiata è la “dorsale di Walvis” la quale trovasi nell’oceano Atlantico meridionale. Si suppone che tali formazioni siano su fratture e antiche depressioni riempite da sedimenti e da lave vulcaniche al punto di innalzarsi dal fondo degli oceani, ormai completamente separate dal fondo degli oceani e dalle foci dei fiumi che un tempo le alimentavano. Un altro elemento, talora enigmatico, originatosi dalle fratture nelle masse continentali sono i cosiddetti “microcontinenti”, -come ebbe a definirli Bruce Heezen, pensando in particolare a isole grandi come il Madagascar o piccole come l’arcipelago delle Seychelles. Un esempio di quello che potrebbe essere un futuro microcontinente, in uno stadio intermedio di distacco dai corpi territoriale che lo circondano, può forse vedersi nella penisola del Sinai, all’estremità settentrionale del mar Rosso, separato a ovest dal golfo di Suez dal continente africano e ad est dal golfo di Aqaba da quello asiatico, ma collegato a nord alla regione siro-palestinese. L’intera regione nel suo insieme è separata ad est dalla grande faglia trasforme del Giordano-mar Morto, lungo la quale la penisola del Sinai si è spostata di 110 km negli ultimi 30 milioni di anni. Ma all’estremità meridionale del mar Rosso trovasi un altro singolare cuneo continentale, il “triangolo di Afar”, del tutto isolato verso ogni direzione da un insieme di faglie e dalla presenza di materiale vulcanico.

Mentre l’espansione dei fondali marini prosegue, alcuni dei microcontinenti sviluppano una propria struttura indipendente di nuova crosta oceanica, così che nasce una “microzolla”. Una di tali microzolle nacque nel mar Mediterraneo occidentale allorché la Sardegna e la Corsica si staccarono dal continente europeo; un’altra si creò quando la penisola italiana ruotò verso est. Si può identificare senza difficoltà una serie di tali zolle nella fascia anticamente occupata dalla Tetide, attraverso l’Anatolia, l’Arabia, l’Iran, il Tibet, fino al sud-est asiatico e al Pacifico sud-occidentale.

Il contrasto tra le catene montuose più elevate e le profondità abissali si verifica soprattutto ai bordi delle zolle: i sollevamenti che hanno prodotto le montagne sono avvenuti di solito presso le zone di collisione mentre le fosse oceaniche segnano l’inizio dei tratti di subduzione e di archi insulari. Molti di questi ultimi comprendono a loro volta depressioni parallele, paragonabili alle fosse, ma non altrettanto profonde.

Le fosse oceaniche si presentano come fenditure lunghe e strette: esse misurano in genere da 300 a 500 chilometri di lunghezza e sono ampie tra i 50 e i 100 Km da un bordo all’altro, pur se di solito non superano i 5 chilometri in corrispondenza delle massime profondità. La loro distribuzione si concentra nelle linee di frattura tra le zolle e segna in tutto il globo il confine verso il mare aperto degli archi insulari e delle zone di subduzione: al fianco delle isole Aleutine, del Giappone, degli arcipelaghi delle Filippine, delle Marianne, delle Nuove Ebridi, delle isole Tonga; nonché al largo dell’America centrale, del Perù, del Cile, di Giava, delle Antille e anche di Creta nel mar Mediterraneo; le depressioni secondarie, situate all’interno delle fosse, sono ben evidenti nell’arco della Sonda, come ad esempio la depressione di Bali. Di tutte codeste fosse le più profonde sono quelle lontane dalle foce dei fiumi e da zone costiere donde provengono enormi quantità di sedimenti, che nel lungo volgere dei millenni tenderebbero a depositarsi sui loro fondali, e a causarne alla fine il riempimento. La fossa delle Marianne con i suoi 11.033 metri di profondità è l’area posta nel punto più basso della crosta terrestre, mentre la fossa delle Tonga (10.882 metri) è la più profonda dell’emisfero meridionale; la meno profonda è quella che si trova al largo dell’isola di Creta, poiché essendo circondata da un mare chiuso come è il Mediterraneo, è stata in larga parte colmata dai sedimenti.

Disposti in parallelo alle fosse oceaniche si estendono archi di isole caratterizzati quasi sempre, oltre da meravigliosi panorami, da una intensa attività vulcanica e sismica. Le associazioni di fosse e arcipelaghi insulari più ampiamente sviluppate si riscontrano nell’oceano Pacifico occidentale, nell’oceano Indiano (arco della Sonda), nell’Atlantico (arco delle Antille) e nel Mediterraneo orientale (arco ellenico); ma non tutte le aree di subduzione sono affiancate da arcipelaghi disposti ad arco: quelle al largo dell’America centrale (fosse del Messico) e dell’America meridionale (fossa del Perù e del Cile) sono delimitate da catene montuose del tipo a cordigliera.

Gli archi insulari sono di norma costituiti da due dorsali sottomarine parallele, disposte a festone lungo il margine dell’oceano, e costellate, o coronate, da una serie di isole; tuttavia uno di essi, -la fascia che estende tra le isole Tonga e le Kermadec)-, non presenta forma arcuata, bensì rettilinea. Delle due dorsali quella interna, -ossia quella rivolta al piano continentale-, è sempre vulcanica, mentre quella esterna, rivolta verso il lato oceanico, non lo è. Talora l’arco esterno non vulcanico appare solo come una striscia che emerge al di sopra della superficie delle acque e che può essere del tutto coperta dai sedimenti, quando si trovi nei pressi delle foci di grandi fiumi che trasportano considerevoli quantità di detriti, come ad esempio nel golfo dell’Alaska, ove lo schema degli archi paralleli non si mostra riconoscibile a prima vista.

Ma ovviamente quelli più importanti e spettacoli sono gli archi interni costellati da numerosi coni vulcanici dei quali molti sono tuttora attivi. Essi si trovano però in fasi evolutive diverse, così che accanto a piccoli coni di recente formazione si trovano alti crateri nel pieno della loro fase espansiva e antiche bocche eruttive ormai spente o pressoché estinte, di cui rimangono a testimoniarne la natura vulcanica delle sorgenti calde idrotermali, delle fumarole, e altri fenomeni propri del vulcanesimo minore.

Talvolta succede che emergano all’improvviso piccole isole vulcaniche che si accrescono manifestando un’attività eruttiva anche assai intensa per alcuni anni per poi inabissarsi di nuovo senza lasciare alcuna traccia di sé. Una di queste isole è l’isola di Falcon nell’arcipelago delle Tonga, ma di questo strano fenomeno non mancano esempi pure nel mar Mediterraneo, come la famosa isola Ferdinandea, o isola Giulia, emersa nel 1831 al largo della Sicilia, nel tratto di mare tra Pantelleria e Sciacca. Qui il 13 luglio 1831 il capitano Francesco Trafiletti, di ritorno da Malta sul suo brigantino “Gustavo” ebbe modo di osservare, nel punto chiamato allora “Secca di corallo”, un impetuoso sommovimento delle acque, che, come scrisse nel giornale di bordo, egli credette provocato da una lotta tta enormi cetacei nelle profondità marine. Due gironi dopo il comandante di un peschereccio siciliano, il capitano Corrao, passando con la propria imbarcazione nel medesimo punto vide galleggiare una miriade di pesci morti o tramortiti mentre una immane colonna d’acqua dell’altezza di circa 15 metri si elevava dal mare; credendo trattarsi della formazione di una tromba marina, anche a causa del boato che accompagnava il fenomeno, il Corrao si affrettò ad allontanarsi da quel luogo.

Ma in quel torno di tempo anche le coste della Sicilia occidentale, specie nella zona di Sciacca, erano scosse da scotimenti tellurici di varia intensità, che già avevano avuto inizio dal 28 giugno, e che uno strico locale, Vincenzo Farina descrisse nei seguenti termini: “La fervente vulcanica materia, accesa nel sotterraneo focolare, matura già ad aprirsi uno spiraglio novello, concentrando le sue forze , vinse finalmente la molecolare affinità della calcarea roccia, la fesse e screpolò in più parti con urti iterati, dai quali nel 28 giugno vennero prodotti quei movimenti oscillatori del terreno”. Ma in seguito, al dire del Farina, un nuovo ritardo arrestò l’esplosione del vulcano che pertanto, cercando uno sfogo alla sua prorompente energia dinamica, provocò una serie di dodici scosse fino al 2 luglio; fino a che “il vapore foriero dell’imminente esplosione” non cominciò ad elevarsi nell’atmosfera “sotto forma di una colonna di fumo”. Ma insieme all’alta colonna di fumo, di vapore e di fuoco si spandeva all’intorno una pioggia di lapilli, di frammenti di tufo e di pomice, i quali, ricadendo  nel mare per una vasta area, formavano chiazze sempre più spesse di detriti vaganti che poi si consolidavano tra di essi. Pochi giorni dopo in quel tratto di mare si era conglomerata un’isola la quale, continuando i fenomeni vulcanici, cresceva in dimensioni e altezza a vista d’occhio.

Com’era naturale la comparsa dell’isola vulcanica una volta che se ne ebbe notizia oltre l’ambito strettamente locale suscitò l’interesse degli scienziati e dei naturalisti: il geologo tedesco Hoffmann, professore a Berlino, trovandosi allora in Sicilia, volle visitare l’isoletta, e dopo di lui vi giunsero il fisico Domenico Scinà (1764-1837) e il naturalista Carlo Gemellaro (1787-1866), e diversi altri i quali accertarono sia le coordinate geografiche esatte dell’isola vulcanica e lasciarono un’esauriente descrizione: circonferenza di due miglia e mezzo, altezza irregolare a cagione dei venti meridionali che avevano soffiato nel periodo del suo costituirsi e che andava quindi dai 63 metri del lato nord-est agli appena 8 del lato sud. Nel mezzo della nuova isola si apriva un falso pianoro e al centro di esso un cratere di 184 metri di circonferenza con due bocche le quali, riempite di acqua marina avevano creato due laghetti pieni di un liquido giallo-rossastro, spiccatamente salini per l’abbondante presenza di ossido di ferro.

Ma, oltre a quello degli scienziati, l’isola suscitò l’interesse anche delle potenze europee di allora, a causa della posizione strategica che essa occupava nel canale di Sicilia, e pertanto varie nazioni se ne contesero il possesso, giustificandolo con una presunta priorità nella scoperta, o per ragioni di appartenenza al proprio dominio. I primi a visitarla furono gli Inglesi che nella persona dell’ammiraglio Otham il 4 agosto 1831 se attribuirono la sovranità in nome e per conto del re di Gran Bretagna Guglielmo IV. Un mese dopo furono i Francesi a giungere con un brigantino sull’isola, sulla quale issarono il loro e lasciarono una tavola con un’iscrizione nella quale si rivendicava alla monarchia francese il possesso dell’isolotto.

E per ribadire il proprio presunto diritto al dominio, ciascuna nazione diede all’isola un nome diverso: gli Inglesi la chiamarono Graham, i Francesi Jonville, i Siciliani isola Giulia (essendo sorta nel mese di luglio), altri Giulia Nerita. Prevalse però il nome di “isola Ferdinàndea”, in onore del re di Napoli nei cui domini era allora compresa la Sicilia.

I geologi asserirono che l’isola Ferdinandea sarebbe aumentata in estensione e in altitudine nel mentre si andava consolidando; al contrario, quasi a frustrare le vane speranze umane, soltanto sei mesi dopo la sua nascita nell’inverno 1831-1832 per opera dei flutti impetuosi del mare l’isolotto fu interamente sommerso dalle acque e scomparve nelle profondità marine dalle quali era emerso pochi mesi prima (1).

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1) in seguito l’isola, o meglio il vulcano sottomarino che l’aveva generata, diedero ancora qualche segno di sé nel 1846 e nel 1863, nonché nel 1968, in concomitanza con il violento terremoto che colpì la valle del Bèlice in Sicilia, e poi nel 2002, ma senza che l’isola sia mai riemersa.

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