PETER PAN E PINOCCHIO (seconda parte)

Oltre alle esperienze di vita, alle vicende biografiche, che, come dichiarò l’autore stesso, sono senza dubbio gli elementi principali dai quali nacque e si sviluppò la storia di Peter Pan, svariate fonti contribuirono ad elaborare e definire la figura del “ragazzo che non voleva crescere”, quelle dei personaggi che lo circondano e l’ambiente in cui vive e agisce: in primo luogo le tradizioni folkloriche scozzesi e irlandesi, -alle quali si devono soprattutto gli esseri fantastici che popolano le opere di cui lo strano fanciullo è protagonista-, a cui si aggiungono diverse altre influenze: dalla fiaba popolare europea (e non solo), alla poesia romantica inglese ai miti classici.

Le suggestioni esotiche tratte da romanzi di avventura quali “L’isola corallina” di R. M. Ballantyne e “L’isola del tesoro” di Robert L. Stevenson suggerirono a Barrie gli spunti iniziali dai quali egli elaborò la “Never Land”, la terra dove dimora Peter Pan dopo essersi allontanato dai giardini di Kensington, immaginata come un’isola misteriosa e selvaggia, abitata da sirene, pirati, pellirosse, coccodrilli e altre bestie feroci. In effetti però lo scrittore precisa (“P. P. e Wendy”, cap. I) che a ciascun bambino la “Never Land” appare nei suoi sogni in modo diverso, a seconda del suo carattere, della sua sensibilità, delle sue esperienze e dei suoi desideri, pur avendo degli elementi comuni che ne fanno un lussureggiante paradiso tropicale dove regnano l’esotico, il fantastico e l’avventuroso (e quindi in antitesi con la banale, e spesso grigia e deludente realtà quotidiana). Ed i ragazzi Darling, allorchè vi giungono insieme a Peter Pan e vi gettano il primo sguardo “la riconobbero subito e […] la salutarono non come si saluta ciò che si è lungamente sognato e che si vede infine, ma come un intimo amico dal quale fossero tornati per passare le vacanze”: non è quindi un luogo che vedono e visitano per la prima volta, ma una sorta di patria del cuore nella quale ritornano perchè in fondo come tutti i fanciulli è da lì che essi provengono. In questo paese indeterminato e inafferrabile si sarebbe tentati di identificare il “mondo astrale”, ipotizzato dalla teosofia e da altre dottrine esoteriche o di vedervi comunque una versione di esso; un mondo nel quale hanno realtà sostanziale i desideri, le emozioni e i sentimenti, un regno nel quale si plasma incessantemente quanto è destinato poi a concretarsi nella sfera fisica. Ed infatti i piccoli Darling vi ritrovano tutte le loro fantasie, fantasie tuttavia più autentiche e reali della realtà, dalle quali, -o per meglio dire attraverso le quali-, è proprio quest’ultima ad essere creata. E’ difficile dire se e quanto Barrie possa essere stato influenzato dalle correnti teosofiche e rosacrociane che avevano grande seguito nell’Inghilterra vittoriana, per cui è tutt’altro che improbabile che lo scrittore, senza necessariamente esserne un seguace, abbia risentito di tale clima spirituale.

Problematico è anche stabilire la possibile influenza esercitata sull’opera di Barrie da “Alice nel Paese delle Meraviglie” e dal suo seguito “Attraverso lo specchio – e quel che Alice vi trovò” di Lewis Carroll. Ad un’osservazione superficiale verrebbe abbastanza naturale assimilare o quanto meno apparentare la “Wonderland” di Carroll e la “Neverland” di Barrie; ma con un’analisi più attenta si comprende che in effetti lo strano mondo visitato da Alice in cui i parametri e i criteri umani, non tanto quelli sociali e culturali, ma piuttosto quelli mentali, vengono sconvolti o addirittura rovesciati, e poco spazio è lasciato ai sentimenti; e l’universo immaginoso e sostanziato di emozioni in cui vive e agisce Peter Pan sono alquanto lontani.

Nei romanzi di Barrie manca il gusto dell’invenzione linguistica e lo stravolgimento della logica che caratterizzano l’opera di Carroll (1), ma senza dubbio i due autori sono accomunati, oltre che da una certa somiglianza nell’indole, umbratile, riservata e tendenzialmente psicotica per entrambi, dall'”apologia dell’infanzia”, concepita non come semplice fase cronologica di preparazione alla vita adulta, ma come portatrice di valori autonomi, come “stato di grazia” in cui le potenzialità umane, pur se in minima parte espresse, proprio perché avulse dalle contingenze e dalle necessità (o false necessità) degli adulti, vengono esaltate e sublimate, e divengono grandiose nella loro indeterminatezza; nonché dalla critica più o meno esplicita, o più spesso sottintesa, dei metodi educativi dell’Inghilterra vittoriana. Un’altra importante analogia tra i due scrittori è il singolare e non convenzionale rapporto di amicizia che seppero instaurare con i fanciulli: come Barrie fu legato ai fratelli Llewelyn, e in particolare a George, che furono sua fonte di ispirazione, così Carroll aveva avuto una intensa frequentazione, nonché corrispondenza epistolare, con le sorelline Liddell, -Alice, Edith e Lorina-, specie con la prima che fu da lui immortalata nelle sue due opere più conosciute.

Modesti si possono ritenere gli influssi e gli elementi derivati dalle fiabe di tradizione popolare e folklorica, -come quelle narrate nelle raccolte di G. F. Straparola, di G. B. Basile, di C. Perrault, della contessa d’Aulnoy e dei fratelli Grimm (e, in forma più filtrata a livello letterario dalla sensibilità romantica degli autori, le raccolte di fiabe di L. Tieck, di C. Brentano e di C. L. von Arnim)-, anche se i romanzi di Barrie potrebbero richiamare alla lontana le atmosfere sognanti dei narratori romantici tedeschi; ma è significativo il fatto che Peter Pan visiti la casa dei Darling proprio per ascoltare le fiabe che la signora narra ai suoi figli prima che essi si addormentino, e in particolare “Cenerentola”: è evidente che egli percepisca in esse una parte del suo mondo, così come nel “raccontare” senta una delle forme in cui si esprime l’affetto materno.

Le fate che popolano i giardini di Kensington e l'”Isola che non c’è” nulla hanno a che fare con le severe, pur se in genere amabili, “signore del destino” che operano nelle fiabe classiche, nelle quali non è difficile ravvisare le antiche “filatrici” dei miti indo-europei, la Moire, la Parche, le Norne, le Màtrone; le fate e i folletti di Barrie sono gli “spiriti della natura” del folklore irlandese, gallese e scozzese, spesso capricciosi e dispettosi, e si possono identificare nei “Daoine Sidhe”, o “Aes Sidhe”, -chiamati “Daoine Sith” in Scozia e “Tylwyth Teg” in Galles-, espressioni che significano “Popolo delle Colline”; essi hanno la brutta abitudine di rapire i bambini umani sostituendoli con i propri figli (perché agiscano in tal modo è incerto, ma sembra che se i loro piccoli non vengono scoperti, la permanenza e l’educazione presso gli umani accrescano le loro forze) e, pur essendo presenti in svariati ambienti naturali, specialmente le selve, le paludi e le gole montane, hanno un loro regno, o un loro mondo, di elezione, che potrebbe corrispondere all’isola Serpentina e all'”Isola che non c’è” di Barrie. Solo per ambiguità lessicale questi spiritelli vengono definiti come “fate”, termine di origine latina che indicava le Parche, e poi gli spiriti femminili protettori, -ma talvolta pure ostili ai quali è legato il destino di un individuo, tanto più che il termine inglese “Fairies” indica sia gli individui femminili (“fate”), sia quelli maschili (“folletti” o “gnomi”): questi esseri sono in realtà assimilabili alle ninfe della mitologia greca, in particolare alle Driadi e alle Amadriadi, le ninfe degli alberi, -le prime immortali, mentre la durata della vita delle seconde, le Amadriadi, è legata a quella dell’albero o della pianta di cui sono lo spirito-, alle “Pari”, o “Peri”, de folklore persiano e anatolico (derivate dalla religione mazdaica); così come i “folletti” lo sono ai Fauni, ai Satiri e ai Sileni della tradizione classica, agli Elfi della mitologia germanica, ai Ginn islamici, ai Gandharva dell’Induismo (2).

Il folletto Puck in un quadro di Richard Dadd.

La versione poetica che Peter Pan dà sulla nascita delle fate è la seguente: “Quando il primo bambino rise per la prima volta, il suo riso si spezzò in mille frantumi che si sparsero intorno saltellando, e questa fu l’origine delle fate”. Sembrerebbe anche che fate e folletti siano concepiti in qualche modo come “spiriti protettori dell’infanzia”, nonostante il loro carattere capriccioso e vendicativo, -che invero le accomuna ai fanciulli-, simili, più che agli angeli custodi della tradizione cattolica (con i quali hanno poco da spartire, data la loro indole amorale), ai “daimones” e ai “genii” del mondo greco-romano. Peter Pan aggiunge che quando un bambino smette di credere alle fate, una di esse muore: su tale asserzione e il significato che si può attribuire ad essa, nonché l’analogia con la morte della “bambina dai capelli turchini” nel XXIII capitolo de “Le avventure di Pinocchio” torneremo in seguito.

Un personaggio del folklore britannico, entrato poi anche nella letteratura, che probabilmente ha influito nel definire l’aspetto e il comportamento di Peter Pan, specie quello “seconda maniera”, è il folletto Puck, che riveste una notevole parte nella famosa commedia “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakenspeare. Questo spiritello, di cui esistono diverse versioni nelle isole britanniche e in altri paesi del nord-Europa (Phouka; Pooka; Pukki; ecc.) è stato associato ai “fuochi fatui”, ma stante anche la probabile, se non certa etimologia del suo nome, che dovrebbe significare “capra” o “caprone”, si può considerare omologo dei Satiri greci e dei Fauni latini, di cui ha l’aspetto e il carattere (3). Nelle più antiche raffigurazioni Puck viene rappresentato con tratti di fauno, ma in seguito dalla fine del 700, la sua iconografia diviene assai simile a quella poi attribuita a Peter Pan, cioè di un bambino o di un ragazzino con le orecchie appuntite, e così appare in un famoso dipinto di Joshua Reynolds e in una illustrazione di Richard Dadd, dove il folletto è seduto su un fungo e circondato da un girotondo di fate danzanti.

Come si è detto nella parte precedente, l’autore ricollegò esplicitamente la sua creatura al mitico dio delle selve dalla figura semicaprina, e forse l’influenza di Pan è da ascriversi alla temperie letteraria britannica di quel periodo volta, -che a sua volta riprendeva le atmosfere romantiche-, volta alla riscoperta degli antichi miti, quando Pan venne innalzato dai poeti a simbolo della natura e del suo fascino talora sublime, talora idilliaco, talora inquietante e misterioso, a incarnazione dell’armonia dell’uomo con essa, e pertanto anche con l’infanzia, la quale fino a che dura, fino a che non è spenta dai conformismi sociali e da un razionalismo gretto, tale legame riesce a conservare, contrapposta ad un mondo urbano sempre più “snaturato”, e privo di poesia. Nei versi dei poeti romantici, quali Wordsworth, Keats e Shelley (4), la divinità è associata alle campagne inglesi e alla tranquillità agreste; mentre nei componimenti di epoca vittoriana la sua presenza si estende anche ai parchi e ai giardini delle aree urbane, come ci rivela una poesia di Matthew Arnold (1822-1888), “Versi scritti nei giardini di Kensington”, che sembra precorrere lo spirito di Barrie non solo per lo stretto legame tra Pan e i celebri giardini londinesi, ma anche per il tema dei giochi infantili che si svolgono in essi, e per l’anelito all’infanzia quale condizione, -più che età-, lontana dagli affanni del mondo, spesso inautentico, degli adulti, -quasi un “nido” pascoliano-, rafforzato anche dall’imprescindibile presenza degli uccelli, portatori di un’arcana saggezza ed armonia (“Gli uccelli effondono qui il loro canto, ciascuno il proprio,/ intorno al fragore che circonda la città/…/Di quando in quando un fanciullo attraversa la radura/ per portare alla nutrice un balocco che si è rotto./…/ Nello smisurato mondo che ruggisce intorno,/ siano lieti gli altri, se lo possono!/ Io preferisco rimanere nella mia culla indifesa a bearmi del dolce sussurro del silvestre Pan!”).

Ma nella poesia romantica inglese, troviamo non solo per l’amore per la natura e per le atmosfere campestri e idilliache, talvolta un po’ manierate, spesso contrapposte alla “nuova barbarie” delle città industriali caotiche ed alienanti che di cui sono intrisi i romanzi di Barrie, ma soprattutto, segnatamente nell’opera di William Wordsworth (1770-1850), -il quale in una delle sue più famose liriche, “The Rainbow” (“L’Arcobaleno”) giunse a proclamare che “il bambino è il padre dell’uomo”-, la nostalgica rievocazione dell’infanzia nella consapevolezza che il fanciullo tanto più si incammina verso la maturità, tanto più si allontana dal divino e che solamente il riuscire a ricordare e a mantenere in parte lo spirito dei primi anni di vita può consentire all’adulto di riconquistare le verità eterne e di non lasciarsi travolgere dal crudo e gretto materialismo che spegne ogni ideale anelito. “La nostra nascita è un sonno e un oblio;/ l’anima che alza con noi, la stella della nostra vita, ha avuto ovunque la sua dimora/ e proviene da lontani mondi!/  Non privi del ricordo/ e non spogli di coscienza ci partiamo/ da Dio che è la nostra casa infinita!/ Il Cielo si stende sopra di noi nell’infanzia,/ ma le ombre pesanti di una prigione terrena cominciano a riserrarsi/ sul fanciullo da che cresce./ Eppure egli guarda ancora la luce, e vede la fonte da cui emana,/ e trae da essa letizia!/ La giovinezza, che ogni dì dall’ora della nascita un poco si allontana,/ è tuttavia della Natura infinita la sacerdotessa ancora,/ e da questa splendida visione è illuminato il suo cammino./ Ma poi lentamente nell’uomo [adulto] la visione si spegne,/ e svanisce nel torbido chiarore di un giorno come un altro”: così Wordsworth canta in altra sua celebre poesia, “Preannunci di immortalità suggeriti da ricordi della prima infanzia”; è dunque probabile che tale modo di vedere l’infanzia, sia del Wordsworth sia di Barrie, risenta delle teorie teosofiche e rosacrociane, -che godevano di largo seguito nell’Inghilterra vittoriana-, secondo le quali l’anima dei fanciulli nei primi di anni di vita non è ancora strettamente compenetrata con il corpo in cui si sono incarnate e che pertanto lo sentano ancora in qualche modo estraneo e alcuni rimpiangano e anelino in modo più o meno consapevole a tornare in quel mondo dal quale hanno dovuto staccarsi, talora di malavoglia, -pur se l’incarnazione non è certo un evento casuale, ma risponde ad una concatenazione di cause, simile al “karma” delle religioni orientali-.

Ma Peter Pan dimostra anche uno stretto legame con Hermes, messaggero degli dei della mitologia classica, anch’egli alla nascita fanciullo dispettoso che sfugge alla custodia della madre, la ninfa Maia, per andare a trafugare i buoi che erano stati affidati al suo fratellastro Apollo, e che inventa uno strumento musicale, la cetra, in grazia del quale ottiene il perdono del suo divino congiunto; senza contare il volo e la funzione di “psicopompo” (guida delle anime verso l’al di là) assolta dal dio-fanciullo (o adolescente), tratti che ritroviamo in Peter Pan, che appare anch’egli una guida dei fanciulli defunti verso quella sorta di “al di là” e di “mondo astrale” rappresentato dalla “Neverland”, come ricorda la signora Darling, nel primo capitolo di “Peter Pan e Wendy”, quando sentendo parlare di quello strano eterno fanciullo da sua figlia, ricorda esattamente un Peter Pan di cui si diceva vivesse con le fate, e di cui si raccontava che “quando i bambini morivano, lui li accompagnava per un tratto di strada , affinchè non avessero paura”.

 

Sebbene poco conosciuti, -dato che le opere del Collodi ad eccezione delle avventure di Pinocchio sono cadute nell’oblio-, anche il burattino discolo ha degli antecedenti in altri libri dello scrittore toscano, i quali, pur non potendosi certo identificare con Pinocchio, che, come sappiamo, nasce, o meglio esce dal ciocco nel quale era contenuto, un po’ come Adone balza fuori dall’albero della mirra, ne prefigurano in qualche modo il carattere e l’evoluzione e illuminano sulle concezioni etiche e pedagogiche dell’autore. Si tratta di “Giannettino” e di “Minuzzolo”, che Collodi scrisse alcuni anni prima delle avventure del celebre burattino e che hanno la particolarità di congiungere, entro una trama invero abbastanza esile, la narrazione delle vicende dei protagonisti con la trattazione sistematica di materie scolastiche e svariati precetti di educazione morale e civica, nonchè di galateo e perfino di igiene. Infatti Collodi con profondo intuito pedagogico aveva compreso che abbinando l’istruzione ad una lettura amena e ravvivandola con uno stile avvincente e vivace sarebbe stato meno difficoltoso inculcare la cultura nelle giovani menti, spesso refrattarie allo studio, se non naturalmente inclinate ad esso. In effetti questa intuizione l’aveva già avuta Luigi Alessandro Parravicini (1797-1880), autore del “Giannetto”, il più fortunato e diffuso libro di testo per le scuole elementari della seconda metà dell’800 in Italia, del quale non a caso l’opera di Collodi riprende il nome con un diminutivo (5), ma lo scrittore toscano diede ai suoi testi uno sviluppo narrativo e una freschezza di invenzione che, pur con tutti i suoi meriti, mancavano al Parravicini.

Il filone di Giannettino comprende una nutrita serie di testi (la “Grammatica di Giannettino”; “L’abbaco di Giannettino”; la “Geografia di Giannettino”; il “Viaggio per l’Italia di Giannettino”; “La lanterna magica di Gannettino”), nei quali il linguaggio e il tono discorsivo quasi riescono a celare l’intento didattico.”E ora ragazzi se state attenti vi racconterò per filo e per segno la storia di Giannettino […]. Quando l’ho conosciuto io, poteva avere su per giù l’età vostra, vale a dire fra i dieci e i dodici anni. Ne volete il ritratto? Figuratevi un bel giovinetto, sano e svelto nella persona, con un paio d’occhi celesti e anche un tantino birichini, e con gran ciuffo di capelli rossi, che, a guisa di ricciolo, gli ricascava giù a mezzo la fronte”: così viene descritto il protagonista della “collana” ideata dal Collodi. Questo ragazzino di buona famiglia, spesso impertinente e svogliato, assomiglia non solo a Pinocchio, ma pure ad altri ragazzini terribili della letteratura infantile, quali il Giamburrasca di Vamba e il Ciuffettino di Yambo, -pur se, a diffrerenza di questi ultimi, il combinare guai più o meno gravi non rientra nel suo abituale comportamento- : “La voglia di studiare non la conosceva neppure di vista. I suoi libri e i suoi quaderni erano tutti fioriti di scarabocchi e arabescati dalla prima all’ultima pagina di omini, di alberini e di soldatini, fatti con la penna e colorati con la matita rossa e turchina e qualche volta anche col sugo di ciliegie. Quando alla mattina andava a scuola, vi andava con lo stesso piacere e col medesimo viso allegro col quale sarebbe andato dal dentista a frasi levare un dente davanti”. Tuttavia ha la fortuna di trovare nel sagace dottor Boccadoro un intelligente educatore, quasi un mentore che lo sa guidare con indubbio acume psicologico e ne sa indirizzare le energie, prendendo spunto dalle varie esperienze e dagli errori in cui cade il suo discepolo; questo singolare personaggio è descritto da Collodi come “un bel vecchietto asciutto e nervoso, lindo negli abiti e nella persona, il quale era conosciutissimo per la sua bella virtù di parlar chiaro e di dire a tutti la verità”; più oltre l’autore, per completare il ritratto della guida intellettuale e morale di Giannettino aggiunge che egli “insofferente di ogni legatura, non avrebbe mai preso il sopraccapo di fare il maestro o il pedagogo di professione […], ma si appassionava moltissimo per la buona educazione dei giovinetti”, convinto che in essa “sta gran parte della prosperità e dell’avvenire della nostra patria”: è evidente che Collodi nel dottor Boccadoro volle rappresentare sè stesso, e la missione educativa che si era assunto con la sua opera letteraria; si potrebbe considerare una specie di Grillo Parlante, che impersona la parte didascalica del libro, ma che a differenza dell’insetto pedagogo, i cui saggi consigli rimangono sempre inascoltati, riesce di solito con la sua opera ad ottenere risultati soddisfacenti, anche perché ricorre di rado alle paternali moralistiche e lascia che siano soprattutto le negative esperienze a fare in modo che il suo alunno si emendi dai difetti.

Giannettino trovava un discutibile divertimento nell’affibbiare ai compagni ridicoli soprannomi, fino a che essi, decidono di rendergli la pariglia, chiamandolo “Capirosso”, così che per evitare la loro canzonatura si risolve a tagliarsi il ciuffo di capelli rossi del quale prima andava tanto orgoglioso. Notiamo che anche Ciuffettino “portava fieramente ritto su la fronte, un ciuffo immenso di capelli che gli dava un’aria curiosa, e lo faceva somilgiare ad uno spolvera-mobili”; a questo ciuffo di capelli, che gli conferiva una fisionomia inconfondibilmente sbarazzina, e dal quale aveva preso il soprannome, il monello di Yambo era assai legato e anch’egli avrebbe preferito subire affronti o accettare sacrifici piuttosto che privarsene.

La presunzione e la vanità sono punite e in qualche modo guarite non appena egli si trova accanto rivali che sanno tenergli testa, come Minuzzolo (del quale diventa poi amico e che diviene a sua volta protagonista di un successivo “romanzo pedagogico” di Collodi). Il suo vero nome era Arturo, ma aveva ricevuto questo soprannome da Giannettino, a cagione della sua bassa statura e della complessione minuta; incontrato Giannettino ad una rappresentazione della “lanterna magica” che aveva come soggetto la “Creazione del Mondo” (6), viene sfidato da quest’ultimo a dimostrare la sua conoscenza dell’argomento, sfida che il fanciullino vince senza difficoltà.

Talvolta le sue bugie hanno gravi conseguenze, come nel seguente episodio: un giorno sottrae di nascosto l’orologio di suo padre per menarne vanto con i suoi compagni; attirato da un capannello di gente che si assiepava intorno a un imbonitore (7), vi si intrufola, ma, dopo che se ne è allontanato, si avvede che il prezioso oggetto gli è stato rubato. Il giorno dopo, non trovando più l’orologio, suo padre gli chiede se l’abbia preso lui, ma Giannettino nega spudoratamente. Del furto viene allora accusato un servitore, Ireneo, il quale, incapace di discolparsi, viene licenziato. Questi, per il dispiacere dell’accusa e del licenziamento ingiustamente subiti, si ammala e finisce all’ospedale, protestando sempre la sua innocenza. Giannettino, che in un primo momento si era tacitato la coscienza dicendosi che Ireneo avrebbe trovato un altro impiego, anche migliore, saputa la triste vicenda, ne rimane sconvolto e confessa al padre di essere stato lui a trafugare l’orologio: egli viene punito, ma il dipendente viene riassunto: egli dimostra così di avere non solo sensibilità e senso della giustizia, ma soprattutto una coscienza che gli impediscono di accettare che altri paghino per i suoi errori.

Alcuni delle vicende tragicomiche dell'”epopea” di Giannettino preannunciano situazioni che avranno poi sviluppi più articolati e romanzeschi in episodi delle “Avventure di Pinocchio”. Poichè il poco volonteroso fanciullo per giustificare i non eccelsi risultati da lui conseguiti nello studio, ne attribuisce la colpa al maestro e alla scuola che frequenta, la signora Sofia, sua madre, lo iscrive ad un’altra, anche per togliergli qualunque scusa. Nella nuova scuola, dove viene interrogato su quanto sa di geografia e di cosmografia, Giannettino, mostra la sua ignoranza, suscitando così la derisione dei compagni; già le loro risate di scherno gli avevano procurato una enorme umiliazione, ma una più grande dovette subirla poco tempo dopo: “Gli ronzava sempre negli orecchi quella maledettissima risata e quanti ragazzi incontrava per la via, gli pareva che tutti lo guardassero e gli ridessero sul viso. Arrivato nella sua strada, vide da lontano sulla facciata di casa sua, e proprio accanto alla porta, una gran macchia scura, la quale aveva tutta la somiglianza d’una enorme testa di cavallo, disegnata col carbone. A mano a mano che Giannettino, un passo dietro l’altro, si avvicinava sempre di più, quella testa di cavallo cresceva, cresceva, cresceva… e insieme con la testa, disgraziatamente, crescevano anche gli orecchi. E gli orecchi, a furia di crescere, crebbero finalmente tanto, che quando Giannettino si trovò alla distanza di pochi passi, dovè persuadersi che quella testa di cavallo non era una testa di cavallo, ma una bellissima testa di somaro.  E dentro la testa e lungo la testa v’era scritto con diversi caratteri: Giannettino! Giannettino! Giannettino!”. Perchè in effetti Giannettino, nonostante la sua indolenza e indisponenza, non è affatto una sorta di ribelle e “contestatore” della scuola e della società in cui vive: al contrario egli ci tiene a mettersi in luce positiva e a fare bella figura, ricevendo le lodi degli adulti, ma vorrebbe che questo avvenisse senza fare troppa fatica. E dopo l’umiliazione subita egli si riscatta con un’ottima interrogazione in cui si dimostra preparato in quelle materie che prima ignorava del tutto. Senza dubbio questa metamorfosi “virtuale” in somaro ricorda quella reale che Pinocchio subirà nel Paese dei Balocchi e che lo sprona a percorrere la retta via senza lasciarsi traviare dai falsi amici.

Un altro episodio che sembra anticipare, sia pure in un contesto del tutto diverso, una delle avventure di Pinocchio è lo spettacolo di marionette descritto nel capitolo IV. Il dottore aveva donato al suo discepolo una scatola con 24 marionette, -“di quelle bellissime, fabbricate a Norimberga [che evidentemente godeva di indiscussa rinomanza nel settore delle marionette]”-, ma con l’avvertenza che ogni qual volta avesse commesso qualche mancanza o fosse ricascato “in qualcuno dei suoi soliti difetti”, avrebbe dovuto restituirgliene una. In capo a poche settimane, nonostante le lodevoli intenzioni del ragazzino, la sua compagnia teatrale di marionette si era ridotta a soli cinque attori, e quando il dottor Boccadoro, a causa della scortesia con cui risponde a sua madre, la signora Sofia, con grande dispiacere di lui, gli toglie anche Rosaura, Giannettino è disperato: egli infatti intendeva rappresentare quella sera la “Francesca da Rimini” (probabilmente la tragedia di Silvio Pellico). Tuttavia non si perde d’animo e per sostituire la “primattrice” pensa bene di trasformare la marionetta del “tiranno” in modo da adattarla alla parte della protagonista: “ficcatosi il “tiranno” tra le ginocchia, cominciò col coltello a scorticarlo e a raschiargli senza ombra di carità il barbone, i baffi e le due grandi sopracciglia”; indi “lo vestì da capo a piedi con gli abiti di Francesca”. Il risultato dell’operazione sembra essere soddisfacente, poichè, quando la recita va in scena, i primi due atti procedono a meraviglia; ma in seguito succede un imprevisto: essendosi Giannettino dimenticato di togliere “la macchinetta cucita in fil delle reni” della marionetta, questa “nel gran bollore dell’azione […] cominciò a fare: -bau! bau! bau!-” suscitando l’ilarità degli spettatori di modo che la recita, cominciata bene, ebbe un finale deludente. A questo punto compare uno zio materno di Giannettino, il capitano Ferrante, il quale sebbene sua importanza sia di gran lunga inferiore a quella di Boccadoro, riveste anch’egli la funzione di dispensare al nipote insegnamenti e consigli; il capitano Ferrante cerca di consolare il bambino, ma soprattutto durante la loro conversazione, alla quale prende parte anche Minuzzolo, cerca di stornare lui e il suo amico da dare credito alle superstizioni popolari (Giannettino infatti gli aveva detto che prevedeva l’insuccesso avendo egli incontrato quella mattina un cavallo bianco che sarebbe stato foriero di sfortuna).

Il teatro delle marionette riveste un parte centrale nei capitolo IX-XI delle “Avventure di Pinocchio”, dove il burattino viene accolto con caloroso affetto dai suoi “fratelli”, “attori e attrici di quella compagnia drammatico-vegetale”, e poi con impeto eroico si offre di pendere il posto di Arlecchino, condannato ad essere dato alle fiamme per terminare la cottura del montone che doveva essere la cena del burattinaio Mangiafoco. Com’è noto tale gesto generoso suscita la commozione e l’ammirazione del burbero burattinaio che grazia entrambi i burattini.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1) ossia che portandola alle estreme conseguenze la logica diventa “illogica” e contraria al “senso comune”(questo a causa dell’inadeguatezza del linguaggio umano osservano i seguaci della logica matematico-simbolica, quali Frege e Peano). A tale scopo Carroll scrisse anche dei testi tra il filosofico e il parodistico quali il dialogo tra Achille e la tartaruga, protagonisti del celebre paradosso di Zenone, dopo la loro sfida (di tale operetta abbiamo trattato nella seconda parte di “Enigmi, misteri e paradossi” del 6 agosto 2015). Il fatto poi che i romanzi di cui Alice è protagonista si ispirino il primo ai giochi di carte e il secondo agli scacchi, giochi adatti agli adulti più che ai fanciulli, dimostra una certa artificiosità nelle trame e negli episodi che li costituiscono.

2) nella figura della “fairy” si ha una sovrapposizione semantica ed etimologica tra la “faie” di tradizione francese (in franc. moderno “fée”), che, come abbiamo sopra rilevato, continua le “Fate” latine, ossia le Parche, sia pure arricchite di elementi celtici e germanici, e l’antico inglese “fah” (medio ingl. “fey”), che copre un’area semantica abbastanza vasta, ma che comunque richiama l’idea di un’entità dispettosa, ostile, maliziosa, “nemica” e che quindi dopo il declino della religione celtica e l’affermarsi del cristianesimo fu attribuito agli spiriti della natura. Secondo una teoria gli “Aes Sidhe” sarebbero i discendenti dei Tuatha de Danann” (la stirpe della dea Dana), il leggendario popolo o dinastia semidivina che dominò sull’Irlanda prima dell’avvento dei “Milesi”, ossia i progenitori degli Irlandesi e degli Scozzesi attuali, che sarebbero giunti nelle isole britanniche provenendo dalla penisola iberica; il loro luogo d’origine sarebbe però stato la Scizia o una regione del Caucaso, donde si sarebbero poi spostati in Egitto, dove il loro capo Galamh sposò la figlia del faraone, Scota, dalla quale trassero il nome gli Scoti e la Scozia, e in seguito trovarono sede definitiva in Irlanda e in Scozia. In effetti l’antico nome dell’Irlanda, Hibernia, è quasi identico a quello dell’Hiberia, e a quello del popolo degli Iberi, -omonimo dei prischi abitatori della penisola ispanica-, che abitava una regione caucasica posta tra gli attuali Georgia e Azebaijan. Tenendo conto anche delle affinità culturali tra le antiche popolazioni galiziane e asturiane e quelle britanniche celtiche, si deduce che la leggenda deve avere un fondamento storico, tanto più che pure il nome della Galizia (“Gallaecia” in latino ha un’etimologia comune con quello della Galizia nell’Europa orientale e della Gallia). “Folletto” è un termine generico italiano derivato da “folle”, a cagione della sua vivacità e irrequietezza, in origine attributo o apposizione di “spirito”, “spirito folletto”, attestato dal basso medio evo, con il quale si designano diverse e disparate categorie di spiriti, soprattutto spiriti delle natura e spiriti domestici, su tipo dei Lari romani, contraddistinti dalla mobilità e dalla tendenza ad essere capricciosi e vendicativi, pur se in genere abbastanza benevoli, specie quelli domestici. Moltissimi ne esistono nel folklore europeo. Quanto agli “Gnomi”, questo nome fu ideato da Paracelso per indicare gli spiriti elementali della Terra, derivandolo dal greco “gnome” = conoscenza, saggezza, a motivo delle loro conoscenze dei segreti della terra, e dei tesori che essa cela: per tale ragione possono essere assimilati ai Nani della mitologia germanica. Si distinguono dai folletti poiché sono “vecchi” sia nell’aspetto sia nel comportamento, e dal fatto che dimorano di norma nei recessi sotterranei, in grotte e caverne e non all’aria aperta, o nelle case degli uomini.

3) in effetti a seconda dei luoghi gli sono attribuite sembianze pure di altri animali, -ad es. il “Puk” o “Pukis” dei paesi baltici è immaginato come un serpentello o un draghetto, che vive presso un casa e una famiglia di cui è protettore (caratteristica questa che lo apparenta ai “geni protettori”, in particolare all’Agatodemone” greco-romano, raffigurato anch’egli come un serpente)-, ma in generale ha la facoltà di poter cambiare a piacimento il proprio aspetto. Nel “Sogno di una notte di mezza estate” (atto III, scena I), Puck dice di sé stesso: “Ora sarò un segugio, ora un cavallo,/ ora vi apparirò fatua fiammella,/ or m’udrete latrare oppur nitrire/ ad ogni svolta, e ruggire e grugnire/ come un cane, un cavallo, un porcospino,/ una fiammata a voi vicino”. La parentela con la capra è dimostrata anche dallo “Yullipukki”, la “capra -o caprone- di Yule (Natale)”, del folklore finlandese, figura poi assimilata a Babbo Natale e che ha perso i peculiari caratteri caprini (si veda a tale riguardo la seconda parte di “L’affascinate storia dell’albero di Natale”, del 25 dicembre 2017).

4) il poeta Shelley è citato anche in “L’uccellino bianco” e in “P. P. ne giardini di Kensington” nelle vesti di solitario frequentatore del più vasto parco londinese; in quest’ultimo romanzo è colui che perde la banconota che, opportunamente spezzettata, serve a Peter Pan per ricompensare l’aiuto dei suoi amici uccelli.

5) il “Giannetto” pubblicato nel 1837, fu il primo testo scolastico vero e proprio entrato in uso nelle scuole elementari italiane, -il prototipo del “sussidiario” in uso fino ad anni recenti-, ed ebbe cospicuo successo tanto che ebbe numerose ristampe fino agli inizi del 900. L’esposizione delle materie era intercalata nella narrazione delle vicende del protagonista, fanciullo povero che con lo studio e il sacrificio riesce a conquistarsi una “posizione” rispettabile.

6) vedremo più oltre nel corso della nostra trattazione le idee di Collodi in materia di religione e di Dio.

7) il ciarlatano mostrava una gallina con tre zampe; ma in seguito all’intervento di uno degli spettatori, poco convinto dell’autenticità del “fenomeno”, la terza zampa si rivela maldestramente attaccata al petto della gallina. In effetti anche questo episodio, sebbene di non grande importanza nell’economia della storia, evoca anch’esso quell’ambiente di truffatori e di ciarlatani che compare spesso nelle “Avventure di Pinocchio”.

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