PETER PAN E PINOCCHIO (terza parte)

Ma l’episodio del “Giannettino” che mostra le più puntuali corrispondenze e indubbie anticipazioni del capolavoro collodiano è il seguente, che essendo altamente significativo reputo opportuno riassumere per intero.

Giannettino, il quale, grazie alla sagace ed accorta guida del dottor Boccadoro, era diventato un ragazzino ben educato e un alunno esemplare, chiede alla madre venti lire “per comprarsi un bell’Atlante geografico, rilegato in marocchino, che aveva veduto nella vetrina di un libraio”. La signora Sofia, anzichè dargli venti lire di carta, gli pose in mano un bel napoleone d’oro. Ma poichè l’acquisto del volume avrebbe dovuto essere effettuato dopo la scuola, l’incauto ragazzino commette l’imprudenza di mostrare la preziosa moneta ai suoi compagni, suscitando la cupidigia di alcuni “amici”, della cui cattiva influenza invero la mamma l’aveva già messo in guardia. Giannettino si lascia convincere da costoro prima ad andare a giocare a palla con essi e poi, con il pretesto della sete che aveva procurato loro il gioco, e poi ad entrare in un’osteria, -luogo che il fanciullo non aveva prima giammai frequentato-.

Giannettino con i suoi pappagalli Ciuffettino-blu e Beccotorto.

I falsi amici erano abituati a consumare alcolici e deridono Giannettino, il quale era astemio e voleva solo dissetarsi con un bicchiere d’acqua; ma per far cessare la loro canzonatura si risolve a bere anch’egli vino. Ma i cattivi compagni non si accontentano della bevuta e pretendono anche di consumare la cena nell’osteria, dopo la quale stabiliscono di giocare a dadi per decidere a chi dovesse toccare l’onere di pagare il conto. Inutile dire che a perdere fu Giannettino; non solo, ma con il pretesto di offrirgli una rivincita i malandrini gli estorcono tutti i suoi denari, e anzi a causa delle reiterate perdite (dovute senz’altro alla slealtà dei giocatori, sebbene questo non venga detto in modo esplicito) il nostro eroe si ritrova con un debito di dieci lire. Per ottenere il saldo del preteso debito di gioco quei ragazzacci infami non esitano a proporre a Giannettino di rubare i gioielli di sua madre, suscitando così il suo giusto sdegno.

Come non bastasse, un altro accidente viene a funestare quella serata davvero disastrosa per Giannettino: una pallottola di mollica di pane da lui fatta e lanciata a uno dei suoi compagni (poichè il fare questa sorta di insulso gioco era una delle sue brutte abitudini), va invece a colpire un altro avventore, il quale, risentitosi, si alza da tavola animato da cattive intenzioni, apostrofando i ragazzi con l’epiteto di “brutte marmotte”. Essi allora scappano in tutta fretta dal locale, ma, una volta usciti e momentaneamente al sicuro, dicono di voler ricevere le scuse del giovanotto; una volta che questi esce a sua volta dall’osteria però, manco a dirlo, lasciano che sia Giannettino a vedersela con lo sconosciuto, così che il poverino deve subire un rovescio di pugni e di scappellotti dai quali esce mezzo rintronato. E a questo punto per colmo di sfortuna, Giannettino sente una mano energica afferrargli il bavero: era un carabiniere il quale, incalzato dall’oste, cominciò a perquisirlo e a frugarlo trovando nelle sue tasche delle posate e altri oggetti provenienti dall’osteria, del cui furto viene incolpato. Il malcapitato ragazzo in quella bruttissima e sciagurata situazione, sentendosi dare del ladro, con la minaccia di essere messo in prigione, crede di trovarsi un incubo, piange e si dispera. Per sua fortuna, in quel mentre sopraggiunge una carrozza, su cui si trovavano la sua mamma e il dottor Boccadoro, il quale, dato il suo nome quale garanzia al carabiniere, salva il poveretto. “Da quella brutta avventura in poi, Giannettino era solito dir sempre che i cattivi compagni sono la più gran disgrazia che possa toccare a un ragazzo”.

Nell’episodio che abbiamo testè rissunto, -uno dei più movimentati  e drammatici del libro-, troviamo in nuce quasi tutti gli elementi che riappariranno sviluppati in diversi capitoli, e con più complessa articolazione, nelle “Avventure di Pinocchio”: i cattivi compagni che distolgono i protagonisti dai loro buoni proponimenti e riescono a intaccare la loro pur sincera buona volontà; l’ambiente infido e peccaminoso dell’osteria, che è sempre teatro di inganni e raggiri; la “giustizia” (incarnata dai suoi rappresentanti), che si rivela spesso “ingiusta”, colpendo gli innocenti e non i colpevoli. Il primo tema è rappresentato nella storia di Pinocchio in primo luogo dalle celeberrime figure del Gatto e della Volpe, divenuti prototipi degli ipocriti truffatori pronti ad approfittare della bontà e dell’inesperienza degli ingenui; ma anche di Lucignolo, -il quale peraltro, a mio avviso, anche a cagione della tragica fine che gli assegnata dall’autore, appare come una figura dolente e che di certo, pur avendo un’influenza negativa, non è un cattivo individuo, a differenza dei ragazzacci che raggirano ripetutamente Giannettino-. Ma in effetti i compagni che fanno vivere una così amara esperienza al nostro piccolo eroe ricordano moltissimo soprattutto gli analoghi cattivi compagni che nei capitoli XXVI e XXVII delle Avventure di Pinocchio cercano di far deviare il burattino umano dalla retta via che, con la guida della “Fata dai Capelli Turchini”, da lui ritrovata nel “Paese delle Api Industriose, egli aveva faticosamente intrapreso; pur se la stessa Fata l’aveva messo in guardia dalla loro funesta influenza e dai pericoli e dalle insidie che potevano derivare da essi,

Un giorno Pinocchio si lascia convincere dai finti amici a marinare la scuola con la falsa notizia dell’avvistamento nelle acque marine antistanti la cittadina di un grande “Pesce-Cane”, a vedere il quale viene da essi invitato. Una volta che il burattino è giunto sulla riva del mare ed ha constato che non v’era alcun grosso pesce da ammirare, si rende conto di essere stato ingannato da quei monellacci, i quali gli palesano la loro vera intenzione, ovvero quella di fargli perdere la lezione e di indurlo a seguire il loro cattivo esempio. “Non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni così preciso e così diligente alla lezione? Non ti vegogni a studiar tanto come fai?” gli dicono, ostentando con presuntuosa arroganza la loro insofferenza e il loro disprezzo verso gli alunni diligenti e studiosi, i quali “fanno sempre scomparire quelli, come noi, che non hanno voglia di studiare”. “E allora che cosa devo fare per contentarvi?” ribatte Pinocchio. “Devi prendere a noia anche tu la scuola, la lezione e il maestro che sono i nostri tre grandi nemici” è la risposta di quei ragazzacci.

Di fronte alla determinazione di Pinocchio nell’opporsi alle loro riprovevoli richieste, lo minacciano di fargli subire la loro terribile vendetta, se egli vorrà continuare a studiare e ad essere uno scolaro modello; ma poichè il burattino mostra di farsi beffe delle loro minacce, i discoli non esitano a venire alle mani, e nasce così un indescrivibile parapiglia. E poichè il burattino, “sebbene fosse solo, si difendeva come un eroe” e “con quei suoi piedi di legno durissimo lavorava così bene, da tener sempre i suoi nemici a rispettosa distanza”, la banda di teppistelli, tolti dai loro fagotti i testi scolastici, incomincia a lanciarli contro di lui (1). Dopo avergli lanciato tutti i loro libri, i ragazzacci mettono mano a quelli di Pinocchio, tra cui v’era un voluminoso “Trattato di Aritmetica”, -“rilegato in cartoncino grosso, colla costola e colle punte di carta-pecora”-, che uno di essi scaglia con forza contro il burattino, il quale però riesce a scansarsi in tempo, così che il tomo va a colpire alla testa uno dei compagni; immantinente questi impallidisce come un cadavere e cade a terra svenuto. Com’era da aspettarsi, i suoi “amici” se la danno a gambe, e solo Pinocchio si ferma a  prestare soccorso al ragazzo, cercando di rianimarlo. Alla disperazione per la disgrazia si unisce il pentimento e il rammarico per non aver ascoltato i consigli del maestro e della fata che tante volte l’avevano ammonito a non frequentare quei teppisti.

Mentre continuava a piangere a a disperarsi, sopraggiungono due carabinieri; costoro, accertato che il volume che aveva colpito Eugenio -così si chiamava il ragazzo- apparteneva a Pinocchio, nonostante le proteste di innocenza del burattino, lo arrestano con l’intenzione di condurlo in prigione. A differenza di quanto era accaduto a Giannettino, qui non compare alcun “deus ex machina” a salvare il protagonista dalle conseguenze dei suoi errori, e il povero Pinocchio riesce a sottrarsi all’ingiusta punizione solo approfittando di una folata di vento che gli leva il berretto. I carabinieri acconsentono a che vada a recuperarlo, ma, una volta fatto questo, anzichè tornare da essi, egli fugge andando poi a finire nelle mani del “Pescatore Verde”. Ma per ora non ci soffermiamo sul seguito della storia, poichè esce dal nostro tema.

In quel triste frangente anche Pinocchio, come Giannettino, era tormentato dal pensiero del dolore che la sua disavventura avrebbe arrecato a quella che per lui era la sua mamma, ovvero la Fata. Il lancio dei libri ricorda quello delle pallottole di mollica in “Giannettino”, così come l’intervento finale dei carabinieri viene a concludere entrambi gli episodi. Ed in effetti nella storia di Pinocchio i rappresentanti della legge si presentano sempre in una luce non molto positiva, poichè invece di punire i delinquenti se la prendono con gli innocenti: già nel terzo capitolo del libro vediamo Geppetto che viene arrestato e condotto in carcere al posto di Pinocchio, poichè il carabiniere che era riuscito ad acchiappare il burattino, fuggito di casa subito dopo essere stato scolpito, si lascia convincere dalla folla che il povero falegname avrebbe maltrattato Pinocchio (“Quel Geppetto pare un galantuomo, ma è un vero tiranno coi ragazzi! Se gli lasciano quel povero burattino tra le mani è capacissimo di farlo a pezzi!”). Nel cap. XIX dopo che Pinocchio ha scoperto di essere stato raggirato dal Gatto e dalla Volpe, “preso dalla disperazione tornò di corsa in città [città che aveva il quanto mai significativo nome di “Acchiappa-citrulli”] e andò di filato in tribunale per denunziare al giudice i due malandrini che l’avevavo derubato”; ma, con suo sommo disappunto, il giudice, -“un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età”-, anzichè rendergli giustizia lo fa sbattere in carcere, dove il poveretto deve rimanere per “quattro lunghissimi mesi”. E vi sarebbe rimasto anche di più se non fosse intervenuta un’amnistia concessa dall’imperatore che in quella città regnava (ma ove non regnava certo la giustizia…); si noti però che l’amnistia riguardava solo i malandrini, per cui Pinocchio ne sarebbe esluso e per poter uscire di prigione è costretto a dichiararsi anch’egli un malfattore.

Tuttavia in questa rappresentazione impietosa della giustizia umana non è da vedersi una critica dell’ordine sociale, -per quanto esso sia indiscutibilmente imperfetto e difettoso-, ma una constatazione, ancorchè amara, dei limiti e delle carenze delle istituzioni, il cui buon funzionamento dipende soprattutto dagli individui a cui sono demandate, più che dalla loro intrinseca validità: infatti nella visione collodiana, -che abbiamo già trovato sintetizzata nel del dottor Boccadoro-, che si ispira al liberalismo solidale mazziniano, la società è il prodotto degli individui che la compongono, e non viceversa, e dunque per far sì che essa progredisca è indispensabile un’illuminata opera educatrice che sappia estrarre dai fanciulli le loro qualità positive e in qualche modo sublimare quelle negative, in modo che anche i difetti si tramutino in virtù. Oltre al fatto che in ultima analisi, in una sorta di “teodicea”, le vittime, pur se innocenti, scontano non i loro peccati, ma la loro imprudenza e imprevidenza, e le ingiustizie che subiscono sono la conseguenza di scelte sconsiderate che li hanno portati a mettersi nei guai.

Infine per quanto riguarda il terzo tema, l’osteria o la taverna, luogo infido per eccellenza nella tradizione novellistica: i falsi amici di Giannettino si fanno pagare il sostanzioso conto della loro consumazione dalla loro ingenua vittima, così come Pinocchio all'”Osteria del Gambero Rosso” aveva dovuto saldare il conto della cena luculliana del Gatto e della Volpe, partiti anzitempo, dopo essere stato destato nel cuore della notte dall’oste complice dei truffatoti; come Pinocchio mostra gli zecchini d’oro ricevuti dal burattinaio Mangiafuoco ai due compari intenzionati a truffarlo, così Giannettino esibisce il suo bel napoleone ai compagni, alcuni dei quali escogitano subito un piano per sottrarglielo.

Un altro elemento che accomuna Giannettino alle Avventure di Pinocchio è la presenza di animali parlanti, sia pure in misura molto inferiore, dato il carattere più realistico del romanzo didattico-pedagogico: si tratta infatti dei due pappagalli di Giannettino, ai quali il ragazzo insegnava la lingua italiana, dedicando ad essi un’ora di lezione alla settimana (2). Uno di essi si chiamava Ciuffettino-blu, “a motivo di un pennacchietto di bellissime penne turchine, che gli stava ritto in mezzo alla testa”; all’altro era stato dato il nome di Beccotorto, “perchè, fosse disgrazia o scherzo di natura, fatto sta che il suo becco, piuttosto lungo, appena arrivato a mezza strada, si ripiegava tutto su una parte”. “In due anni di lezioni Beccotorto [che era il più giovane e inesperto dei due, sebbene non si conoscesse con certezza la loro età esatta] aveva imparato a dire forse un centinaio di parole […]. Insomma l’italiano lo masticava poco e male: in compenso lo intendeva benissimo”. “Viceversa Ciuffettino-blu aveva fatto nella lingua italiana passi da gigante: tant’è vero che Giannettino s’era impensierito, e gli era addosso il sospetto che lo scolaro ne sapesse più del maestro”; non solo, ma, -per quanto l’autore si mostri perplesso sulla veridicità di questa parte della sua narrazione (“la storia di questi due pappagalli io ve la racconto come l’hanno raccontata a me”)-, Ciuffettino-blu, come il “Grillo parlante”, si assume il compito di ammonire il suo padroncino quando si comporta male cedendo o all’avidità, o alla vanità, o alla gola, o alla superbia. Per questo possiamo affermare che nel pappagallo il quale svela a Pinocchio, prima che egli lo scopra da sè stesso, come sia stato raggirato dal Gatto e dalla Volpe è da vedersi senza dubbio un ricordo di uno dei pappagalli di Giannettino.

Una volta mentre Giannettino si apprestava ad entrare nella stanza ove stavano i pappagalli per la consueta lezione, udì una colloquio tra i due volatili, che ascoltò senza farsi vedere da essi. Beccotorto chiedeva a Ciuffettino-blu, -che era già piuttosto avanti negli anni-, di narrargli la storia della sua vita, come gli aveva più volte promesso; e quest’ultimo esaudisce finalmente la sua richiesta. Gli dice che era nato nell’isola dei Banani, -così come Beccotorto-, e che durante la sua giovinezza aveva studiato poco e disubbidito molto a suo padre e a sua madre, rammaricandosi che se avesse dato retta ai loro consigli e ammonimenti si sarebbe risparmiato un bel po’ di dispiaceri.

Convinto dalla sua ridicola vanità di essere irresistibile per le pappagalle dell’isola, si deve ricredere allorchè “passando sotto le finestre spalancate di un gran palazzo, dov’era riunito tutto il fior fiore della pappagalleria nostrale e forestiera” ode le severe critiche pronunciate su di lui. Dovendo trovarsi una sistemazione, e allettato dall’apparente brillantezza della vita militare, si arruola nell’esercito, ove però si mette nei guai e rischia di essere fucilato per insubordinazione. Tornato alla vita civile, decide di emigrare nell’isola Fortunata, dove sperava che avrebbe potuto mettere a frutto le molte doti che si attribuiva, ma a causa della sua scarsa affidabilità non riesce a crearsi una rispettabile reputazione; e alla fine viene pure arrestato per debiti da due pappagalli carabinieri, dai quali viene condotto in prigione. Da qui egli scrive una lettera straziante a Cocco, il suo unico vero amico e “il miglior pappagallo di questo mondo”, al quale aveva affidato i suoi anziani genitori, pregandolo di mandargli una somma di denaro onde saldare i suoi debiti e poter così riprendere la via di casa.

Una volta tornato al suo paese, l’isola dei Banani, trova ad aspettarlo un altro grande dolore: infatti Cocco, il quale “in mezzo tante belle virtù aveva un bruttissimo vizio”, ossia quello di lanciare gusci e bucce di frutta addosso ai suoi commensali [vizio simile a quello di Giannettino di tirare le palline di mollica di pane, come abbiamo visto sopra], si trova sfidato a duello da una delle vittime della sua maleducazione. Ciuffettino viene così richiesto di fare da padrino a Cocco nel duello, e invano ora si rammaricava di non aver tentato di favorire la riconciliazione tra i due. Ma l’idea di fare il padrino solletica la sua “vanità puerile”, e così lo scontro, a colpi di becco e di unghie, avviene. Contrariamente alle speranze di Ciuffettino-blu, Cocco viene ferito in modo grave tra l’occhio e l’orecchio e in conseguenza di tale ferita muore.

Il pensiero che avrebbe potuto evitare l’infausta fine di Cocco non dava requie al pappagallo, che decise pertanto di cambiare cielo e, posatosi sopra l’albero maestro di una nave mercantile di cui era capitano lo zio di Giannettino, giunse così così nella casa del nipotino di costui.

Questo raccontino, oltre alla parte pedagogica in cui si prospettano a Giannettino le disgrazie che potrebbero derivare dalla sua vanità e presunzione, ha un’evidente componente autobiografica e richiama alcune delle disillusioni subite dal Collodi rispetto ai sogni, forse eccessivi, della sua giovinezza. Ma soprattutto vediamo in esso un’anticipazione della parte notevole assunta dagli animali parlanti nelle “Avventure di Pinocchio”.

Insomma Giannettino per molti aspetti assomiglia a Pinocchio e sembra precorrere il suo ben più noto “collega” burattino-bambino; ma, come quest’ultimo, sa trarre tesoro dai propri errori e dalle tante esperienze negative ed è recuperabile perchè “i ragazzi che hanno la fortuna […] di fare il viso rosso sui propri mancamenti, o prima o poi finiscono col ravvedersi e col pigliare la buona strada”: così osserva il dott. Boccadoro dopo aver ricevuto una lettera (sgrammaticata) del ragazzino con la quale si rammaricava e si scusava del comportamento irriguardoso da lui tenuto durante il loro primo incontro a casa sua, dolendosi nel contempo della negativa impressione prodotta nell’ospite, -che l’aveva alquanto ferito-.

Giannettino ascolta le lezione del dott. Boccadoro.

Ed infatti con la paziente guida del dottor Boccadoro Giannettino diviene proprio un ragazzino studioso e ben educato, tanto che sostiene uno splendido esame di licenza elementare, nel corso del quale si illustra soprattutto nell’esporre una mirabile sintesi del Risorgimento italiano (3), dalla caduta di Napoleone I e dal congresso di Vienna fino all’entrata delle truppe italiane in Roma, che così torna ad essere la capitale d’Italia. Nell’esposizione del lungo percorso di riscatto nazionale, alla fine del quale “questa povera martire reietta per tanto tempo dalle nazioni, alle quali era stata maestra di ogni civile disciplina, si assise finalmente in seggio onorato nella famiglia dei popoli liberi e indipendenti”, Collodi esprimeva ovviamente i suoi ideali patriottici che egli aveva dimostrato nei fatti con la partecipazione sia alla prima che alla seconda guerra d’Indipendenza; ma nel medesimo tempo voleva sottolineare come lo spirito patriottico e la coscienza civica fossero “il fondamento e il coronamento” dell’educazione dei fanciulli, e in questo senso la sua opera pedagogica si può affiancare a quella analoga nello spirito e nelle finalità, pur se assai diversa nella forma e nello stile, di Edmondo De Amicis (4).

Quale meritato premio per l’impegno dimostrato il suo mentore lo accompagna in un viaggio attraverso le regioni italiane, che è poi l’argomento di un’altra opera collodiana di cui il fanciullo è protagonista: “Il viaggio per l’Italia di Giannettino” pubblicato in tre volumi tra il 1880 e il 1886. giannettino è poi il protagonista e il “filo conduttore” di altri libri di Collodi di carattere spiccatamente didattico, in cui secondario è l’aspetto narrativo, e che pertanto non prendiamo in considerazione in questa sede (“La grammatica di Giannettino”; “L’abbaco di G.”; “La geografia di G.”; “La lanterna magica di G.”).

Simile al “Giannettino”, di cui costituisce dichiaratamente il seguito, è “Minuzzolo” (che ha come sottotitolo “Secondo libro di lettura”), ove però protagonista è quell’Arturo, soprannominato “Minuzzolo”, che è il miglior amico di Giannettino, e al quale proprio quest’ultimo aveva dato il soprannome a cagione della sua cosituzione esile e minuta. E infatti il libro comincia con la domanda rivolta ai lettori: “Vi ricordate, ragazzi, dove abbiamo lasciato l’ultima volta il nostro amico Minuzzolo?”. “Lo abbiamo lasciato alla stazione della strda ferrata, dov’era andato con la mamma e coi fratelli [poichè il bambino a differenza di Giannettino, che era figlio unico, aveva tre fratelli, chimati Ernesto, Adolfo e Gigetto], a dire addio a Giannettino che partiva per il suo viaggio”. Anche qui troviamo l’alternanza tra parti narrative e parti didascaliche; in questo testo la missione educativa è affidata soprattutto al padre di Minuzzolo, il signor Quintiliano (5), il quale conduce i suoi quattro figli in una sua villa di campagna per trascorrervi le vacanze (vacanze fino a un certo punto, poichè anche durante questo periodo prosegue l’istruzione e l’educazione dei fanciulli) ma in misura meno preponderante di quanto non sia per il signor Boccadoro di Giannettino, poichè molte lezioni sono affidate ad altri personaggi, come il signor Antonio, il giardiniere, il quale si incarica di spiegare ai ragazzi la botanica e la tecnologia (ferrovie, ecc.); e talora è Minuzzolo stesso ad esporre quanto ha studiato, come quando illustra la storia romana ai figli dei contadini spiegando i quadri che decoravano la galleria della villa, ispirati all’antica Roma (6). Anche Minuzzolo e i suoi fratelli però non mancano di rendersi colpevoli di gravi birichinate, come quando rompono a sassate due cani di terracotta posti a guardia di una villetta accanto alla loro, che devono poi risarcire con i loro risparmi.

Minuzzolo in compagnia dell’asino Baffino, suo compagno di giochi.

Indubbie somiglianze con Pinocchio, sia nell’indole, sia nelle situazioni che affronta e nei guai in cui si caccia, presenta Pipì, “scimiottino color di rosa”, protagonista del racconto più lungo tra quelli che compongono le “Storie Allegre”, raccolta di novelle pubblicata nel 1887, che, dopo “Le avventure di Pinocchio”, è senza dubbio l’opera di Collodi di maggior valore letterario. In Pipì si ritrovano i difetti di Pinocchio, specie la volubilità e la scarsa forza di volontà, con in più la dispettosità e la tendenza all’imitazione propria delle Scimmie, e le sue avventure (l’incontro con gli assassini; il terribile brigante Golasecca -una sorta di orco, che ricorda un po’ Mangiafuoco-, il quale mette Pipì in una tasca della sua casacca; la sosta all'”Osteria delle Mosche”, ecc.) ricordano assai quelle del burattino vivente per cui è indubbio che nel creare questo personaggio Collodi si sia ispirato al suo “eroe” precedente. Tuttavia, proprio per il fatto che in Pipì non è da vedersi un antecedente della più nota creatura di Collodi, -essendo la sua storia posteriore a quella di Pinocchio-, non ci soffermiamo molto su di lui; più degno di attenzione ai fini del nostro studio è invece la figura dell’amico umano di Pipì, il giovinetto Alfredo: di lui si dice espressamente che è il figlio della Fata dai capelli turchini (7), -sebbene quest’ultima non appaia tra i personaggi del racconto, ma solo come colei che commissiona il rapimento di Pipì il quale aveva mancato alla promessa fatta ad Alfredo-. Il primo incontro tra i due non è dei migliori, poichè lo scimiottino dispettoso ruba la pipa del giovinetto [dal fatto che questi fumasse la pipa si deve dedurre che fosse abbastanza grande]; ma dopo alterne vicende, in cui a Pipì viene mangiata la lunga coda dal vecchio coccodrillo Arabà-Babbà, -il quale si vendica in tal modo dei dispetti subiti-, lo scimmiotto, caduto in un sacco che poi finisce in acqua, ritrova Alfredo, al quale viene portato il sacco in cui era rinchiuso. I pescatori che l’avevano recuperato non riuscivano in alcun modo ad aprire quello strano involucro, ma esso mostra subito il suo contenuto non appena viene punto con uno spillone “sormontato da una grossa perla, sulla quale (cosa singolarissima!) si vedeva dipinta la testa di una bella bambina dai capelli turchini”, Una volta uscito dal sacco il povero scimiottino viene riscaldato e rifocillato da Alfredo, il quale indi gli propone di divenire il suo cameriere personale e di accompagnarlo in un lungo viaggio che si appresta a iniziare, e lo fa all’uopo rivestire di abiti eleganti quali erano allora in uso per i valletti dei signori. Sia pure dopo ripetuti ripensamenti, Pipì accetta di divenire il compagno di Alfredo; ma poi ricompare suo padre, arrampicatosi fino alla finestra della stanza ove si trovava, dal quale viene convinto a tornare con lui nella foresta dalla sua famiglia, venendo così meno alla promessa fatta ad Alfredo. Da qui inizia una serie di avventure tragicomiche alla fine delle quali ritrova Alfredo: Golasecca aveva deciso di far esibire lo scimiottino sulle piazze e nelle fiere di paese e durante uno di questi spettacoli Pipì viene visto dal suo amico il quale lo compra da Golasecca per la bella cifra di mille lire: da quel momento i due non si lasciano più e partono insieme “sopra un bastimento della società Rubattino per un lungo viaggio di istruzione”.

Sebbene non venga detto esplicitamente, in Alfredo è più che legittimo vedere lo stesso Pinocchio, il quale, dopo essersi trasformato in un ragazzino per bene, è divenuto un avveduto e onesto “giovin signore” e con l’arrivo di Pipì si trova di fronte al monello che era stato. Così a sua volta egli si incarica di essere l’educatore di quella parte di sè stesso che si rifaceva viva sotto le spoglie dell’indisciplinata scimietta, in cui si mostravano i suoi antichi difetti. Diversi indizi avvalorano questa ipotesi: “In questo mondo ci si avvezza anche a patire, diceva il mio babbo [Geppetto?]” lo rimprovera Alfredo quando rifiuta le scarpe alle quali non era abituato; dopo una delle “false partenze” di Pipì, Alfredo si rammarica alquanto del presunto allontanamento della scimmietta, dicendo: “che cosa dirà la mia buona fata, quando saprà che l’ho scacciato? Eppure era lei che me l’aveva fatto capitare fin qui, proprio in casa, consigliandomi a prenderlo per mio segretario e per mio compagno di viaggio!”; e quando poi, cambiata idea, -come fa spesso nel racconto-, lo scimmiottino si ripresenta al suo amico, “è impossibile immaginarsi l’allegrezza di Alfredo. Andò incontro a Pipì, lo abbracciò, lo baciò, gli fece un mondo di carezze, come si farebbe a un carissimo amico, dopo vent’anni di lontananza”.

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) da notare che tra quei testi figurano anche le opere narrativo-didattiche di Collodi stesso, “Giannettino” e “Minuzzolo”, oltre ai “Racconti” di Pietro Thouar e alle “Memorie di un Pulcino” di Ida Baccini, altri autori per l’infanzia che egli conosceva bene.

2) oltre ai pappagalli, la famiglia di Giannettino aveva un vecchio gatto soriano, Buchicchio, “che in questo mondo non aveva mai dato noia a nessuno, nemmeno ai topi”, il quale viene citato all’inizio della storia, ove si dice che “appena sentiva la voce del padroncino se la dava subito a gambe levate”(ovviamente per non subire le sue monellerie); di lui però non si parla più nel prosieguo della narrazione.

3) il riassunto della storia risorgimentale italiana che Collodi espone per bocca di Giannettino mantiene tuttora la sua validità, ed è certamente molto più esatto e attendibile degli sproloqui e delle farneticazioni pseudo-storiche, che negli ultimi anni mediocri giornalisti improvvisatisi “storici” da strapazzo, -spinti da motivazioni politiche e legate all’attuale (triste!) clima socio-culturale italiano-, hanno voluto far passare per la “vera” storia del Risorgimento.

4) alcuni commentatori hanno osservato che mentre Collodi mirava a educare la persona (o l'”uomo”), De Amicis voleva formare il cittadino, e in particolare il cittadino italiano, contribuendo al rafforzamento della coscienza nazionale. Personalmente trovo infondato codesto giudizio, poichè per entrambi, seguaci del mazzinianesimo (pur avendo accettato la forma monarchica quale istituzione suprema del nuovo stato unitario italiano, che era realisticamente la via più percorribile), e quindi del liberalismo solidale, “uomo” e “cittadino” vengono a coincidere, e virtù personali e virtù civiche sono intimamente correlate e interdipendenti; e pur avendo personalità, qualità e indole tutt’affatto diverse, entrambi condividevano i medesimi ideali e i medesimi obiettivi. E d’altro canto, anche se in Pinocchio, dato il carattere fiabesco della storia, mancano espliciti richiami all’educazione civica e patriottica, nelle altre opere del Collodi, come in “Gannettino” e nel “Viaggio di Giannettino per l’Italia”, “Minuzzolo”, ecc. i temi civili e patriottici sono ampiamenti presenti. Quanto a Barrie e ai suoi romanzi su Peter Pan, -al quale presto torneremo-, sebbene non vi si riscontrino palesi intenzioni pedagogiche, possiamo affermare che si ripromettesse di educare i genitori (e gli educatori in genere), ricordando loro che anch’essi sono stati bambini e che potranno essere validi educatori solo se sapranno riscoprire e ascoltare il bambino, -il “fanciullino” pascoliano potremmo dire-, che è in loro. Ma esamineremo anche questo aspetto più oltre nella nostra ricerca.

5) è probabile che Collodi abbia attribuito al padre di Minuzzolo il nome del celebre trattatista latino del I secolo, Marco Fabio Quintiliano, autore dell'”Institutio oratoria”, i cui primi due libri sono dedicati all’insegnamento primario, proprio per sottolineare la funzione pedagogica che egli assolve.

6) in effetti anche in “Giannettino” alcuni degli argomenti toccati sono spiegati da altri personaggi, come lo zio del protagonista il capitano Ferrante, o da Giannettino stesso durante le sue interrogazioni, come nel caso della geografia e della storia risorgimentale.

7) nell’ultimo capitolo di “Le Avventure di Pinocchio”, -il XXXVI-, Pinocchio si riferisce alla Fata come alla sua mamma: saputo dalla Lumaca, la domestica della Fata, che ella giaceva gravemente malata, dichiara che avrebbe lavorato “cinque ore di più per mantenere anche la mia buona mamma”.

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