L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -sedicesima parte- (i Mandei -prima parte-)

I Mandei sono i seguaci di un’antica religione, detti anche “cristiani di S. Giovanni” (1), strutturati come gruppo etnico-religioso, che vivono in alcune ristrette zone dell’Iraq, e con una minima presenza nell’Iran occidentale. Un tempo erano assai più numerosi, -pur avendo sempre avuto una consistenza numerica alquanto limitata-, ed erano diffusi in tutta l’area meridionale della Mesopotamia sulle rive dei fiumi Tigri ed Eufrate e della confluenza di essi (anche perché, come vedremo, le acque correnti dei fiumi rivestono una rilevante importanza nel loro culto), in particolare a Bàssora, nonché nei pressi di Shustar in Persia. Secondo le ultime stime essi non dovrebbero essere più di 60.000, compresi quelli emigrati in Europa e in America.

Sull’origine delle loro credenze, discordi sono le opinioni degli studiosi, dato il carattere decisamente sincretistico delle loro dottrine in cui alle componenti cristiane ed ebraiche si affiancano elementi di provenienza iranica e mesopotamica. In particolare è stato motivo di discussione il rapporto dei Mandei con il manicheismo, date le indubbie affinità tra le due religioni (che sarebbe però errato sopravvalutare). Infatti alcuni, -come ad es. il Widengren-, ritengono che la setta dei “battezzatori” ai quali si era convertito il padre di Mani intorno al 200 sia identificare con i Mandei, o quanto meno con la prima fase di quella cha diverrà la chiesa mandea, e che dunque essi precedano l’insegnamento di Mani, il quale ne sarebbe stato influenzato; altri invece, -come il Puech-, sono propensi a credere che i “Battezzatori” fossero un gruppo poco strutturato sia sul piano dottrinale, sia su quello organizzativo, e che, forse, sull’esempio dei Manichei in un periodo successivo abbiano recepito notevoli elementi ed influenze da quest’ultimo (2).

Un’altra questione a lungo dibattuta a proposito dei Mandei è il sostrato dottrinale e il presumibile o ipotizzabile legame territoriale del loro credo: per una parte degli studiosi (M. Lidzbarski, J. Schmitt e altri), le credenze da essi professate avrebbero radici prettamente giudaiche e palestinesi, pur se essi, allo stato attuale delle conoscenze, durante tutta la loro storia risultano presenti e attestati solo in Mesopotamia; per altri, invero più numerosi, la dottrina mandea va inquadrata nell’ambito delle religioni iraniche, in cui è presente in modo più o meno spiccata la concezione dualistica del mondo e della divinità.

A favore della prima ipotesi stanno soprattutto elementi linguistici, mitici ed ideologici che sembrano ricollegarli all’ambiente palestinese e in particolare ai movimenti giudeo-gnostici fioriti a cavallo tra l’età antica e quella volgare.

I fautori della seconda invece insistono sul carattere dualistico della loro dottrina, che l’avvicina al manicheismo, nonché una manifesta ostilità verso l’ebraismo ortodosso e la figura del dio ebraico (Jorabba -“Jao il Grande”-, Adonay), che ha una decisa connotazione negativa, -pur non essendo identificato con il vero e proprio demiurgo, che nel sistema cosmologico mandeo è detto Ptahil-. Inoltre pure in questo caso si possono addurre argomenti di tipo linguistico data la notevole presenza nei testi mandaici di termini, espressioni e costrutti provenienti dal partico (e questo sarebbe indizio dell’epoca alta della loro apparizione, almeno dal II secolo) e dal medio-persiano (o pahalavico). A questo si deve aggiungere che la cosmogonia mandaica presenta indubbie analogie con quelle dall’antica religione assiro-babilonese, esposta e narrata nell'”Enuma Elish”.

Va da sé che, pur potendosi ammettere una prevalenza di influenze palestinesi-siriache o iranico-zoroastriane, in entrambi i casi abbiamo nel mandeismo una confluenza di tematiche gnostiche dualistiche, di conflitto luce-tenebre, materia-spirito, che si riscontrano sia nel giudaismo eterodosso e nel cristianesimo gnostico, sia nel mazdeismo, nel mitraismo e nel manicheismo, ma sorte in modo indipendente le une dalla altre, pur se tra di esse si può riscontrare un processo di convergenza Le tematiche espresse da queste chiese e sette, -che in senso lato si possono intravedere anche in molte altre correnti spirituali antiche e moderne (dall’orfismo al buddismo) -, incontrandosi nell’area geografica del Vicino e Medio Oriente in un periodo di tempo che va dal II al V secolo (e forse anche prima), date le loro affinità si presume si siano influenzate e mescolate vicendevolmente (3).

Le prime notizie sull’esistenza di questo gruppo etnico-religioso si ebbero in Europa dalle lettere di Pietro della Valle (1586-1652), letterato e viaggiatore, il quale tra il 1614 e il 1626 visitò numerosi paesi del Vicino e Medio Oriente, ed espose le proprie osservazioni e scoperte nelle sue “Lettere”. In una di queste lettere, -la decima-, egli descrive l’incontro che ebbe con i Mandei a Bàssora, -ove allora erano relativamente numerosi (mentre ora in quella città sono del tutto scomparsi)- affermando che erano designati, oltre che con questo nome, con quello di “Sabei” (altro gruppo etnico-religioso di cui si fa menzione nel Corano, -da non confondere con il popolo dei Sabei, abitante nell’Arabia meridionale-, ma che in realtà non è assolutamente da identificare con i Mandei) e di “cristiani di S. Giovanni”. Questa scoperta suscitò l’interesse dei missionari cristiani, in particolare del carmelitano Ignazio di Gesù (al secolo Carlo Leonelli)(1596-1667), missionario in Persia, il quale inviò a Roma alcuni manoscritti mandaici, e scrisse pure una confutazione delle dottrine dei Mandei.

I testi sacri dei Mandei sono scritti in una varietà di aramaico orientale (o caldeo), affine a quella in cui fu composto il Talmud babilonese, ma con numerosi prestiti persiani, così che per le sue peculiarità questo idioma è stato chiamato “lingua mandea”; la raccolta di questi scritti comprende innanzitutto la “Ginza” (“Tesoro”), detto anche “Sidra Rabba”, esposizione non organica, anzi piuttosto frammentaria, delle dottrine cosmologiche e antropologiche mandaiche, inframmezzata da inni liturgici; il “Sidra d-Yahya” (“Libro di Giovanni”), noto pure con i nomi di “Drasaye d-Malkayè” (“Discorsi dei Re”) e di “Drasaye d-Yahya” (“Discorsi di Giovanni”), importante soprattutto per le influenze cristiane e le analogie con i testi cristiani sia canonici, sia apocrifi; il “Qolasta” (“Quintessenza”) o “Sidra d-Nishmatà” (“Libro delle Anime”), di contenuto soprattutto liturgico. A questi si aggiungono numerosi testi sapienziali e didattici, tra i quali citiamo l”Asfar Malwashe” (“Libro dei Segni Zodiacali”), trattato di astrologia, -assai importante per i Mandei, poiché, pur se, come vedremo in seguito, gli astri e i segni zodiacali, sono concepiti quali entità malefiche, che esercitano un’influenza negativa sull’uomo, proprio per tale ragione è indispensabile conoscere il loro potere su ciascun individuo per poterlo adeguatamente contrastare-; e il “Diwan Haran Gawaitha”, che tratta dell’origine dei Mandei.

Mandei che si bagnano nelle acque del Tigri.

Secondo questo testo, la religione dei Mandei si sviluppò in una misteriosa regione montuosa, detta “Tura d-Madai” (Montagna dei Mandei), situata a nord di Harran presso una popolazione che sarebbe venuta dall’Egitto; in seguito i seguaci di tale religione si trasferirono in Palestina, sulle rive del Giordano, dove essa fu rinnovata da Giovanni Battista, il loro ultimo profeta (tra quelli che lo precedettero ricordiamo Habil -Abele-; Shitil -Seth e Yokbar). Ma circa sessanta anni dopo la morte di costui essi furono costretti a fuggire a causa delle persecuzioni subite ad opera dei Giudei e dei cristiani, e così ripararono nei territori dell’Impero Persiano, in particolare in Mesopotamia, dove per alcuni secoli, vale a dire durante il dominio dei Parti Arsacidi e poi nel primo periodo della dinastia dei Sassanidi godettero di un periodo di tolleranza. Ma la situazione cambiò allorché il Gran Re Bahram I (regnante del 273 al 276) decise di fare dello zoroastrismo “ortodosso” la religione ufficiale dell’impero, coadiuvato, o meglio ispirato, dal famigerato sommo sacerdote Kartir, il quale prese a perseguitare tutti i seguaci delle altre religioni presenti nell’impero, -ebraismo, cristianesimo, manicheismo, buddismo-, nonché le numerosissime sette che nei primi secoli dell’era volgare erano fiorite nel Vicino e Medio Oriente, che fondevano, o meglio aggregavano in diversa misura e in modo più o meno armonico elementi di derivazione giudaica, cristiana, neoplatonica, zoroastriana, e in cui talora erano riconoscibili residui delle antiche religioni egizia e mesopotamica (si veda al riguardo la tredicesima parte della presente ricerca dell’8 ottobre 2018). Le concezioni di fondo che accomunavano questi gruppi, o chiese, o sette (delle quali l’elenco sarebbe lunghissimo e probabilmente incompleto)(4), erano: il conflitto, sia cosmico, sia interiore nell’animo umano, tra le forze della Luce e quelle delle Tenebre; la svalutazione del mondo sensibile considerato talora creazione di un demiurgo malvagio, talaltra di una divinità inferiore che aveva operato per ignoranza, ma, -per così dire-, in buona fede, oppure come l’infima degradazione di un ente proveniente in origine dal mondo della luce; la presenza di un “scintilla divina” nell’uomo, frammento del mondo di luce, che deve essere liberata, per ricongiungersi a Dio. Tuttavia la redenzione può essere acquisita solo da una minoranza più o meno ristretta dell’umanità; in alcune sette si pensava  addirittura che nella maggior parte degli umani (gli “iliaci” con un termine usato in alcune scuole gnostiche, come quella di Valentino) il frammento luminoso e spirituale fosse completamente spento, così che non potevano sperare nella redenzione. Da questi fondamenti comuni, sebbene espressi in sistemi differenti, in genere complessi e distanti tra di loro, si svilupparono concezioni antropologiche ed etiche del tutto divergenti che vanno dal più rigido ascetismo -come ad esempio per i Valentiniani, gli Encratiti, i Manichei-, poichè la mortificazione della carne è l’indispensabile condizione per il riscatto dello spirito dalla prigionia della materia e delle tenebre, al libertinismo più sfrenato, -come per i Carpocraziani, i Nicolaiti, i Borboriti), in quanto per costoro lo spirito è del tutto indipendente dalla carne, la legge morale è un’imposizione malvagia del demiurgo, -e dunque non è opportuno osservarla-, e coloro che sono destinati alla salvezza la dovrebbero conseguire indipendentemente dalla loro condotta; la maggior parte delle sette si colloca in una posizione intermedia -simili sotto questo aspetto alle versioni moltitudiniste delle religioni “abramitiche”- per cui occorre sì trascendere i desideri carnali che avvincono l’anima nei vincoli del carcere terreno, ma lo slancio spirituale viene a compromessi con le esigenze dell’esistenza terrena, anche se a differenza delle religioni moltitudiniste mantengono un carattere “aristocratico”, di ristretta cerchia di eletti (5).

Le sette giudaico-cristiane antiche con i quali allo stato delle conoscenze sembrano mostrare le più significative affinità sono quelle degli Elkasaiti e degli Emerobattisti, che a loro volta si suppongono derivate o comunque influenzate dagli Esseni (su costoro si veda la terza parte delle “Osservazioni sulla nascita del cristianesimo” del 9 ottobre 2016) (6). Questi due gruppi sono accomunati ai Mandei dall’importanza del battesimo amministrato non solo come atto sacramentale, ma anche come pratica rituale ripetuta con una certa frequenza (per gli Emerobattisti, come dice il nome, anche quotidiana); dallo studio e dall’utilizzo dell’astrologia per combattere gli influssi malefici dei pianeti; dal ciclo dei profeti che si reincarnano; dal vegetarianesimo (sebbene come vedremo quest’obbligo si sia poi attenuato per i Mandei). Un’altra setta con la quale sono probabilmente imparentati è quella dei Nazarei, o Nazorei, nome con il quale loro stessi furono conosciuti e che tuttora viene impiegato per designare gli appartenenti al clero, e sul quale pertanto torneremo. Quanto al nome di Mandei, quasi certamente deriva da “Manda” = conoscenza (salvifica), gnosi, in aramaico, per cui in pratica significa “gnostici”, portatori della conoscenza salvifica rivelata da Manda d-Haiyè.

Dopo la conquista araba della Mesopotamia nel 636 essi furono in primo tempo tollerati, poiché erano stati identificati con i misteriosi “Sabei” menzionati nel Corano accanto a Giudei e Cristiani come “gente del libro” (“Ahl l-Kitab”) (sura II, 62 e s. V, 69), ovvero seguaci di una religione rivelata, ai quali era riconosciuto il diritto di praticare la propria religione, pur con restrizioni, e uno status relativamente buono rispetto a coloro che erano considerati “pagani” e pertanto duramente perseguitati. L’esegeta siriaco Teodoro Bar Konai nella sua opera “Scholia” (o “Liber Scholiorum”), scritta intorno al 792, in cui polemizza contro diverse confessioni non-cristiane (Zoroastriani, Manichei, Musulmani, ecc.) attesta come in quel periodo vi fossero floride comunità mandee non solo nella Mesopotamia meridionale (Caracene), ma pure in quella settentrionale (Media, Adiabene). Ma anche stavolta in seguito si ebbe un’inasprimento dell’atteggiamento dei musulmani nei loro confronti e di conseguenza nella condizione giuridica dei Mandei. In anni recenti le persecuzioni si sono rinnovate sotto il regime di Saddam Hussein e poi ,dopo la caduta di questo, ad opera degli integralisti sciiti duodecimani (la branca dell’Islam prevalente nell’Iraq meridionale, oltre che nell’Iran), talchè la situazione dei Mandei si è fatta nuovamente critica e moltissimi hanno dovuto emigrare o nel nord del paese, dominato dai Curdi, più tolleranti, o all’estero.

L’ipotesi dell’origine, o quanto meno di un’influenza, egiziana nelle dottrine della chiesa mandea parrebbe confermata dal nome del demiurgo Pthail, che sia nel nome sia nelle funzioni che riveste nella cosmologia mandaica, sembra potersi identificare con il dio creatore della teologia menfita Ptah, il dio artefice supremo, mentre l’aggiunta del predicato “il” (= “el”), ovvero il “dio” supremo semitico, Jawhè per gli Ebrei, mostra l’assorbimento in Ptah del dio ebraico. Pertanto i Mandei potrebbero anche considerarsi una frazione degli Israeliti fuggiti dall’Egitto, i quali, a causa di dissensi con i “giudici” degli Ebrei anziché fermarsi in Palestina si sarebbero diretti nella città di Harran, nell’Assiria settentrionale, -nell’odierna Turchia sud-orientale- (città nota nell’età ellenistica e romana con il nome di Carrhae, dove nel 53 avvenne la famosa sconfitta di M. L. Crasso nella battaglia contro i Parti guidati dal generale Surena). Dobbiamo inoltre ricordare che la città di Harran era stata secondo la Bibbia una delle tappe del cammino di Abramo dalla Mesopotamia meridionale alla Palestina e all’Egitto, -per cui gli antenati dei Mandei sarebbero tornati in uno dei luoghi legati alla vita e alla missione di un loro antenato- e che era una importante sede del culto del dio lunare Sin. Tuttavia essi non riconoscevano né Abramo né Mosè come fondatori o precursori del loro gruppo etnico-religioso, anzi li consideravano falsi profeti; riconoscevano però l’autorità dei patriarchi antidiluviani, di Noè e di alcuni dei suoi discendenti, in particolare Sem e suo figlio Aram, il capostipite degli Aramei.

Prima di esporre le concezioni soteriologiche ed escatologiche (ovvero quelle riguardanti il destino delle anime sia dopo la morte corporale, sia alla fine dei tempi) dei Mandei, che il tema specifico della nostra ricerca, è opportuno dare un quadro generale della loro teologia e cosmologia. E’ bene peraltro precisare che nei testi sacri della religione mandaica non troviamo un’esposizione chiara, organica e sistematica dei principi dottrinali, -mitici e metafisici-, che ne sono a fondamento per cui si riscontrano spesso oscillazioni, confusioni e talvolta incoerenze (che forse testimoniano la pluralità degli apporti in esso presenti, non adeguatamente combinati ed armonizzati).

Come abbiamo detto sopra il tema centrale, che accomuna i Mandei ai Manichei, è la separazione, e il conseguente conflitto, tra il “Mondo dell’Alto”, o “Mondo di Luce” (“Alma d-Nuhra”), e il “Mondo del Basso”, o “Mondo di Tenebra” (“Alma d-Hshuka”). Il mondo superiore è il luogo, – intendendo il termine non tanto in senso fisico, quanto metafisico-, della Luce divina, una “substantia”, -o un'”ousia”- che ha però anche una valenza concreta; ovvero, per esprimere l’idea con un suggestivo ossimoro, una sorta di “materialità spirituale”, simile ad acqua pura, bianca e brillante. Essa si identifica con la “Ziwa”, la Gloria (o “Splendore”), -che potrebbesi identificare o equiparare alla “xvarnah” zoroastriana-, e si manifesta in diverso grado non solo in tutti gli esseri celesti, ma anche nelle stesse anime incarnate, che ne sono minuti frammenti. Opposta e complementare alla Luce è la Tenebra (“Hashuka”), concepita come materia rozza e spessa, acqua nera e putrida, posta nel luogo inferiore, ove dimorano le forze demoniache. I due principi cosmici e metafisici in cui si articola l’Essere si sostanziano e si esprimono in due figure divine in perenne conflitto, un dio del mondo della Luce e un dio del mondo delle Tenebre.

Il “Darfesh”, o “Dravsha”, -croce con un panno bianco disposto sui bracci-, simbolo del Mandeismo.

Il primo viene designato con nomi diversi: “Grande Spirito”, -o “Grande Mente”- (“Mana Rabbà”), “Signore della Grandezza” (“Mara al-Rabuta”), “Re di Luce” (“Malka al-Nuhra”). Egli è circondato da un numero infinito di sublimi esseri di luce (“uthri” o “malki”), i quali dimorano in “abitazioni” (“shkinata”) o “mondi” (“almi”), proclamando incessantemente le lodi del loro Signore. Il mondo luminoso nacque dalla “Prima Vita” (“Haiye Qadmaiyè”) attraverso emanazioni discendenti chiamate “Seconda”, “Terza” e “Quarta Vita”, le quali sono peraltro concepite come entità personali avendo i nomi rispettivamente di Yòshamin, Abathur e Ptahil, il quale ultimo espleta la funzione di demiurgo. In questo processo di emanazione queste entità invero si allontanano sempre più dallo splendore originario e si sentono attratte dal misterioso Mondo dell’Oscurità: Yòshamin si limita a volgere il suo sguardo verso di esso; Abathur si abbassa fin quasi a toccare le “acque nere” al confine con il mondo tenebroso e dà poi vita a Ptahil, al quale suggerisce, o ingiunge di creare il mondo materiale. Questi tuttavia si lascia sviare dagli abitanti del mondo dell’oscurità, i quali gli offrono il loro aiuto nel compiere la sua opera, che pertanto, pur partecipando in qualche modo dell’essenza luminosa, è corrotta dall’intervento degli esseri tenebrosi, e pertanto abbisogna dell’intervento di un inviato celeste (“Manda d-Haiyè”, o “Hibil Ziwa”, -“Abele luminoso”-, o “Jawar”), che dovrà redimere il mondo materiale e l’uomo stesso, come vedremo oltre, per reintegrarli nel regno della Luce.

Il mondo infernale è governato dal “Signore delle Tenebre” (“Mara d-Hshuka”), uscito dalle “acque oscure” (“meyi siawi”, “kumi tahmi”), che corrispondono al chaos primordiale. I più possenti aiutanti del “Signore delle Tenebre” sono un mostro gigante, o drago, chiamato “Ur” (forse dal termine ebraico “Or” = “luce”), e lo “Spirito di menzogna”, -“Ruhà” (“spirito” in aramaico -così come in ebraico-; “ruh” in arabo, -molto improbabile la derivazione dal nome del demone indu Rahu-), che però, in conformità al genere grammaticale del termine aramaico, è pensata come un’entità femminile (7). La loro infausta progenie sono “daewi” -voce persiana-, “demoni” (come quelli del mazdeismo) e “malaki” (“angeli”, che in questo caso hanno una connotazione negativa, -ma invero abbiamo già avuto modo di notare come pure nel giudaismo tra angeli “buoni” e “cattivi” non vi sia sempre una netta separazione-. Figli di Ur e di Ruhà sono anche i “Sette” (“Shuba”), -cioè i pianeti (“Shibiahyi”), tra i quali sono compresi i due luminari (e che sono Shamish-Sole; Sin-Luna; Dilbat-Venere; Nebu-Mercurio; Bel, o Bil,-Giove; Nirig-Marte, -il più malvagio-; e Kiwan-Saturno)-, e i “Dodici” (“Trisar”), i segni zodiacali.

Tuttavia non sembra che Luce e Tenebre siano considerate dai Mandei come entità ontologiche eterne e coesistenti, -come nel Manicheismo-, poiché l’Universo materiale appare come la creazione di una entità infera, la quale però non è intrinsecamente maligna, poiché discende dal mondo luminoso, pur se ne è un’emanazione alquanto degradata, -la “Quarta Vita”-, secondo uno schema comune a molte delle scuole gnostiche. Il demiurgo, come abbiamo visto sopra, è da essi chiamato Ptahil, nome che probabilmente deriva da quello del dio egiziano Ptah, -dio creatore per eccellenza nella teologia menfita-, a cui è stato aggiunto l’ebraico El, -nome che indica sia un “dio” in senso generico, sia il dio supremo e assoluto delle genti semitiche, poi identificato dagli Ebrei con Jahwè- e che pertanto confermerebbe il complesso sincretismo della dottrina mandea (8). Egli per la creazione del mondo materiale si avvale dell’opera dei poteri oscuri e tenebrosi, Ruhà con i suoi figli, i sette pianeti e i dodici segni dello Zodiaco. Il mondo materiale (“Tibil”) da lui creato è l’antitesi del mondo della Luce. Tuttavia pure il cosmo materiale si suddivide in due parti distinte: la Terra e i corpi celesti (luminari e pianeti): la prima è stata creata da un’entità divina, Pthail, pur se operante in contrasto con il dio supremo, mentre i secondi sono opera della “demiurga” infernale, Ruhà, insieme al suo compagno “Ur”, che in tal modo risponde alla creazione relativamente benefica degli esseri celesti.  A Ruhà e alle potenze astrali si deve anche la creazione dell’essere umano primordiale, Adam Pagra; ma gli esseri di luce generano a loro volta un’entità luminosa, una sorta di “compagno” o di “doppio” che viene attribuito al primo uomo terreno quale “essenza animatrice”; la “sostanza di luce” presente in lui, -e nei suoi discendenti- è chiamata “Adamo interiore (o nascosto)”, “Adam Kasya”, il quale potrebbesi ben definire anche quale Adamo celeste (mentre “Adam Pagra” è quello terrestre), e costituisce l’anima (“nishimta”) e la mente (“mana”) degli umani, che devono essere salvati dal corpo carnale ed oscuro, con tutte le sue pulsioni peccaminose, e dall’influenza deleteria e dalle seduzioni del mondo materiale. Nella dottrina mandaica anche la prima donna, Hawwa, -l’Eva biblica-, è sdoppiata in una “Eva terrestre”, -Hawwa Pagra”- e un'”Eva celeste”, -Hawwa Kasya”-, che sono anch’esse prodotte rispettivamente dai demoni e dagli “uthri”. La coppia di umani celesti vive in una sorta di Eden, chiamato “Mshunia Kushta”, che è un mondo ideale, dove tutti gli esseri viventi terreni, animali e piante, hanno una copia o una controparte perfetta. Alla fine dell’esistenza terrena gli umani che si sono purificati e hanno quindi “conosciuto” la loro copia spirituale sono destinati ad entrare i questo luogo di pace e di delizie (su questo argomento torneremo nella prossima parte trattando della soteriologia mandaica). Tuttavia i Mandei credono di discendere dall’Adamo terrestre e dall’Eva celeste, e di esser quindi più “spirituali” e in una posizione “di favore” per il raggiungimento del “doppio” luminoso.

Il conflitto tra i due regni è destinato a protrarsi per 480.000 anni e vedrà una continua lotta tra la Morte e la Vita, la quale ultima però dopo molte e dolorosissime vicende potrà trionfare grazie all’intervento dei profeti, salvatori e inviati celesti. Ma protagonista di tale conflitto sarà soprattutto l’uomo in cui coesistono un elemento inferiore, materiale, oscuro, demoniaco, appartenente al mondo delle Tenebre (il corpo), e uno superiore, spirituale, etereo, proveniente dal mondo di Gloria, ma esiliato nel primo.

In un’evoluzione successiva sembra che il dualismo tenda sempre più a stemperarsi per lasciare sempre maggior spazio alla figura di un dio assoluto trascendente, il “Grande Re della Luce”  (“Malka Rabba de Nehorà”), detto anche “Signore della Grandezza” (“Mara de Rabbutà”), che in pratica si sovrappone al dio della Luce, mentre il dio degli Inferi assume una posizione nettamente subordinata, perdendo il carattere di principio cosmico uguale e contrario che aveva nel periodo più antico. In questa variante più simile alle forme ortodosse di giudaismo e islamismo è il “Grande Re della Luce” a creare il mondo sensibile attraverso l’opera di Gabril-Uthrà (l’arcangelo Gabriele). Sotto un certo aspetto si potrebbe qualificare la dottrina mandea come una sorta di panteismo, poiché l’Ente Supremo, Mana Rabbà, tramite le sue emanazioni successive tende ad irradiarsi anche nel mondo terreno, tramite il demiurgo Ptahil, in cui coesistono l’elemento materiale e quello spirituale (e questo è uno dei punti che differenzia in modo netto il Mandeismo dalla dottrina dei Manichei).

Le potenze astrali, terrestre ed infere cercano in tutti i modi di condizionare i pensieri, i comportamenti e le azioni degli uomini agendo sul loro lato negativo e inferiore, inducendoli a commettere ogni genere di nefandezze ed allontanandoli dalla Luce. I Mandei sono gli unici umani nei quali l’energia spirituale è prevalente sulle forze del corpo e delle tenebre, e ad essi quindi spetta la missione di riscattare l’umanità e l’intero cosmo dal suo stato di decadimento e di sofferenza.

Per sostenere gli uomini nella loro lotta contro il male e la materia e aiutarli a liberare la “scintilla divina” che alberga in loro, fin dai tempi più remoti sono stati inviati dal Cielo numerosi Messaggeri (Shganda), Guardiani (Adyaura), Redentori (Parwanqa) i quali con la loro opera indefessa si sforzano di salvare le anime di coloro i quali credono nel verbo da essi predicato e che così riconoscono la propria essenza spirituale. Il principale di questi inviati celesti è il già ricordato Manda d-Haiyè (Conoscenza -o Gnosi- della Vita), detto anche Bar-Haiyè (Figlio della Vita). Ma assai importanti sono anche la progenie spirituale di Adamo ed Eva, Hibil (Abele), Shitil (Seth) e Anosh (Enos) e il misterioso Yokabar-Uthra.

Alla reintegrazione dell’uomo si oppongono strenuamente sette “mondi infernali”, rappresentati dai luminari e pianeti ed identificati con altrettante religioni che hanno perseguitato, -e che talvolta perseguitano tuttora-, i Mandei, o che comunque operano in concorrenza con essi contrastando il loro verbo salvifico con spudorate menzogne (ovviamente dal punto di vista dei mandei) e che sono il giudaismo, il cristianesimo, il manicheismo, l’Islam, e altri gruppi minori; a loro volta i fondatori di codeste religioni sono associati con gli astri (9): El, o Adonay, o Jarabba, -il dio ebraico- è lo spirito del Sole (Shamish); Gesù, -“Yshu Meshìa”, è Mercurio (Nebu), pianeta ingannatore per eccellenza; Mani è Giove (Bel); Maometto, -fondatore della religione i cui seguaci più hanno perseguitato e spesso sterminato i mandei-, è Marte (Nerig), il pianeta della violenza distruttrice.

Gli ultimi Inviati Celesti a giungere sulla Terra per recare la salvezza agli uomini di buona volontà sono Yohana, detto pure Yahya, ovvero Giovanni Battista, e Anosh-Uthra. Quest’ultimo, talvolta identificato o confuso con Manda d-Haiyè, e qualificato come figlio di Abathur, -ma pure dell’Adamo spirituale-, apparve a Gerusalemme contemporaneamente a Gesù Cristo, che egli smascherò come perfido ingannatore e falso messia, operò molti miracoli e convertì una moltitudine di Ebrei, tra i quali 360 profeti e infine risalì al Cielo donde assiste e sostiene i suoi fedeli; ma tornerà alla fine dei tempi con aspetto di grande e candida aquila per distruggere il tempio di Gerusalemme, disperdere i seguaci delle dottrine menzognere e assicurare il trionfo della vera religione.

S. Giovanni Battista in un quadro di Tiziano custodito alla Galleria dell’Accademia di Venezia.

Quanto a Yohana (Giovanni Battista), egli è considerato il prototipo del perfetto discepolo, nonché sacerdote mandaico (“tarmida”). A Giovanni Battista sono attribuiti molti degli episodi che caratterizzano la vita di Gesù secondo i vangeli canonici: secondo quanto si narra nel “Libro di Giovanni” (“Sidra d-Yahya”), la sua nascita verginale è annunciata in sogno ad Enishbal (Elisabetta), e al momento del parto una stella va a collocarsi sopra il capo della madre rimanendovi sospesa (10). Una volta venuti a conoscenza della nascita del profeta i Giudei cerano di eliminarlo, ma egli viene salvato dalle potenze celesti e occultato da Anosh Uthrà sopra una montagna sacra, donde fa ritorno nel ventiduesimo anno della sua vita per stabilirsi sulle rive del Giordano, dove inizia la sua opera di profeta e guaritore e a dispensare il lavacro purificatore, -ovvero il battesimo, che era una pratica rituale dall’effetto rigenerante, paragonabile nel significato e negli effetti all’eucarestia, piuttosto che al battesimo cristiano (11)-, per 42 anni.

A lui si presenta Gesù, il falso messia, che gli chiede di diventare suo discepolo e di ricevere il battesimo nelle acque del Giordano, ma in un primo tempo Giovanni diffida di lui e non acconsente ad esaudire la sua richiesta; ma poi con il suo abile eloquio il falso profeta riesce a persuaderlo (12). Mentre Gesù vene battezzato appare Ruhà, -lo spirito femminile tenebroso erroneamente considerato dai cristiani un’ipostasi di Dio-, in forma di colomba proiettante un fascio di luce sopra di lui per significare che egli era riconosciuto “figlio di Dio”. Dopo essere divenuto finto discepolo di Giovanni, Gesù travisa la parola del suo maestro, distorce il significato del battesimo e diventa sapiente tramite la sapienza del Battista (ovvero in altre parole usa la sua conoscenza spirituale per fini indegni  e materiali).

Alcuni studiosi del 900 hanno visto una profonda influenza della scuola del Battista, -e dunque di coloro che sono da ritenersi i mandei o i loro precursori-, nell’evangelo di S. Giovanni, nel quale viene dato particolare risalto al rito battesimale. Secondo H. H. Schaeder esisterebbe una stretta relazione, se non una corrispondenza, tra il prologo dell’evangelo giovannita (I, 1-14) e un antico inno mandeo ad Anosh Uthra, -in cui ovviamente quest’ultimo si identifica con il Logos e il Cristo dell’evangelista-. Ma pure diversi autorevoli critici e biblisti, -quali il Bauer, il Bultmann e in Italia Adolfo Omodeo-, attribuiscono una fondamentale influenza delle dottrine e dei testi gnostici nella stesura del quarto evangelo, -che, com’è noto, assai si distacca da quelli sinottici-, in cui viene sviluppata la tematica dell’opposizione tra mondi superiori e mondi inferiori, tra luce e tenebra, della salvezza ottenuta come rivelazione e scoperta della luce spirituale, dell’escatologia radicata nella partecipazione dell’uomo al piano superiore della “Grande Vita”(13).

CONTINUA NELLA DICIASSETTESIMA PARTE

Note

1) in effetti tale denominazione, riportata nelle fonti europee dopo che la loro comunità religiosa fu riscoperta nel XVII secolo, è alquanto impropria poiché, come avremo modo di vedere nel prosieguo della nostra trattazione, i Mandei non sono affatto seguaci di Gesù di Nazareth, che anzi considerano un impostore e un falso profeta. Essa è stata loro attribuita in considerazione del fatto che si proclamano fedeli dell’autentico insegnamento di Giovanni Battista, -che è il loro profeta principale, sebbene non l’unico, né il primo-, e praticano il rito battesimale da colui inaugurato. D’altro canto essendo stati aspramente perseguitati da cristiani e musulmani (data la fanatica intolleranza che caratterizza le “grandi religioni monoteistiche”), per evitare o attenuare le persecuzioni, essi stessi avevano cercato di sottolineare i loro legami con l’ebraismo, da cui sono derivate le religioni suddette, in modo da essere considerati “gente del libro”, cioè seguaci di una religione rivelata, e subire così un trattamento meno duro di quello riservato ai “pagani”.

2) questa setta è nota con i nomi siriaci di “Mnaqdè” (“Purificati”) -da cui potrebbe essere derivato il termine “Mandei”-, o di “Challè Cheware” (“Biancovestiti”), e quello arabo di “Mughtasila” (“coloro che si lavano” -o “che si bagnano”). Si tenga presente che i seguaci di questa, o queste, sette di “battezzatori” (poiché probabilmente essi non avevano un’organizzazione unitaria), così come poi i Mandei veri e propri, non praticavano il battesimo, -per immersione-, solo come rito o sacramento di ingresso nella comunità religiosa, ma come parte integrante ed essenziale della loro liturgia domenicale (come l’eucarestia per i cristiani).

3) come si può facilmente intuire, spesso nella storia dell’umanità in epoche e luoghi diversi e lontani sono sorte concezioni metafisiche e spirituali assai simili in modo indipendente le une dalle altre, sia per mezzo di riflessioni filosofiche sia attraverso l’intuizione mistica, per cui spesso la questione delle “influenze” è posta in modo fuorviante. D’altro canto è evidente che le credenze religiose, come qualunque altro settore dell’esperienza e della civiltà umana, non sono mai qualcosa di isolato, ma sono sempre il frutto di scambi e di confluenze più o meno complesse.

4) in effetti poi spesso il nome con il quale sono conosciute tali chiese o sette è quello con cui i loro seguaci sono menzionati in fonti estranee, e spesso ostili, ad esse ( giudaiche e cristiane ortodosse, islamiche, ma a volte pure di gruppi anch’essi eterodossi), quando non addirittura attribuito loro in maniera convenzionale dagli studiosi moderni.

5) per la maggior parte di tali scuole e sette segno della probabile appartenenza alla schiera degli eletti (gli “penumatici”, nella terminologia valentiniana, i quali non appartengono al mondo materiale) è la maggiore facilità a vivere in modo virtuoso, -e non certo l’indifferentismo morale-, mentre d’altro canto per gli “intermedi”, -gli “psichici”-, che devono conquistarsi la salvezza, conviene sempre intensificare gli sforzi sulla via del cammino spirituale. Quanto agli “iliaci”, costoro sono i materialisti, gli egoisti, indifferenti allo spirito, che nella vita cercano solo il possesso, il potere e il successo, oltre che soddisfare gli infimi impulsi della carne e non sentono il richiamo della divinità, assente nel loro animo.

6) si tenga presente che il termine “giudeo-cristianesimo” è una espressione del tutto convenzionale, e che rischia di essere fuorviante, con la quale non si vuole indicare una consapevole ed organica sintesi di giudaismo e di cristianesimo: sette “giudeo-cristiane” sono state chiamate dagli studiosi moderni quei gruppi spirituali fioriti nei primi secoli della nostra era che professavano un giudaismo fortemente eterodosso (in genere, ma non sempre, di orientamento “enochiano”, ossia che faceva riferimento alla figura di Enoch e ai libri a lui attribuiti, in cui sono presenti notevoli componenti mitologiche e astrologiche e si parla di varie entità angeliche che presentano affinità con gli “arconti” gnostici), spesso con venature elleniche, egizie o iraniche, e che per alcuni aspetti, accettando l’idea di un “redentore” dell’anima umana più che di un “messia” della nazione ebraica, si avvicinavano al protocristianesimo.

7) si osservi che questa cosmogonia riprende in sostanza quelle, assai numerose, fondate su una dicotomia, che però è anche complementare, tra Cielo-Luce (maschile) e Terra-Oscurità (femminile) sulla cui interrelazione dinamica si fonda il divenire del mondo. Tuttavia nel caso dei Mandei l’elemento femminile-terreno è svalutato e viene ad assumere una valenza intrinsecamente malefica. Le figure di Ur e Ruhà richiamano alla mente quelle analoghe di Apsu, il padre delle acque dolci, e di Tiamat, la dragonessa stellare che sono al principio della cosmogonia assiro-babilonese. Nella complessa e spesso farraginosa cosmogonia mandea, Ruha è detta figlia di Qin, una “madre dell’Oscurità” che si potrebbe accostare alla “Notte” della cosmogonia esiodea; essa si sposa dapprima con suo fratello Gaf. Vien poi rapita nel mondo superiore da Habil-Ziwa, dal quale genera il serpente o drago Ur; unitasi pure a quest’ultimo, divine madre dei pianeti e dei segni zodiacali. Sorella di Ruhà è Zahriel, altra sposa infera di Habil-Ziwa; costei venne identificata con la Lilith ebraica e come quest’ultima talora tormenta le donne gestanti, le puerpere e i loro pargoli.

8) dobbiamo peraltro ricordare che pure altri nomi attribuiti alle entità mitiche di diverse scuole gnostiche (Knumis, Abraxas, ecc.) hanno probabile o certa derivazione egiziana.

9) come abbiamo detto sopra i pianeti sono visti come un’emanazione del dio delle tenebre. L’importanza dell’astrologia e la connotazione negativa dei pianeti sono un tratto comune con i manichei e potrebbe risalire al sincretismo astrale della tarda religione babilonese, che fondeva il culto degli astri con il verbo di Zarathustra, accordato con le antiche divinità mesopotamiche. Tuttavia mentre per i manichei i luminari, -Sole e Luna-, esercitano un’influenza positiva, a differenza dei pianeti, nel mandeismo pure questi ultimi sono visti in una luce sinistra.

10) il .padre è, come nei vangeli, Zaccaria, -Zakhria-, uomo ormai vecchio e stanco.

11) si tenga presente che pure nei vangeli canonici il battesimo somministrato da Giovanni Battista non ha nulla a che vedere con l’omonimo sacramento cristiano, sebbene quest’ultimo abbia tratto ispirazione da quello, ed era ripetibile e ripetuto.

12) in effetti della perplessità di Giovanni Battista riguardo alla missione salvifica di Gesù di Nazareth abbiamo una testimonianza anche negli scritti cristiani canonici, -si veda Matt. XI, 2-3, in cui il profeta prigioniero di Erode Antipa manda a dire al Nazareno per mezzo dei suoi discepoli: “Sei tu dunque colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?”-. Si tenga presente inoltre che senza alcun dubbio, per espressa dichiarazione degli autori ecclesiastici dei primi secoli (Clemente Alessandrino, Origene, ecc.), la scuola del Battista rimase distinta, ed anzi rivale, di quella dei cristiani, con i quali probabilmente non aveva molto in comune (si veda al riguardo Marco, II, 18), e fu all’origine di alcune sette gnostiche; in particolare si ricorda tra i discepoli del Battista un certo Dositeo, sulla cui vita e le cui dottrine si hanno però notizie piuttosto vaghe. E’ probabile che i Mandei derivino da un ramo dei discepoli di Giovanni Battista. La figura di quest’ultimo è stata annessa in modo abbastanza arbitrario dal cristianesimo, ma in realtà le sue dottrine e il suo insegnamento dovevano avere carattere alquanto diversi da quelli che poi costituirono la base del cristianesimo proto-ortodosso (cioè non gnostico).

13) la critica cattolica ha ovviamente respinto questa interpretazione, sostenendo che i testi mandaici conosciuti risalgono ad epoca assai posteriore al vangelo di Giovanni. Ma è evidente che, pur se la loro redazione è relativamente tarda, il contenuto dottrinale è di certo assai più antico.

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