UN ANIMALE DA SALVARE: LA FOCA MONACA DEL MEDITERRANEO (prima parte)

La Foca Monaca è così chiamata per la colorazione del mantello, che ricorda una tonaca monacale; secondo un’antica leggenda questo nome deriverebbe invece da dalle impronte lasciate sulla sabbia dei lidi da esse un tempo frequentati, che richiamerebbero alla mente una lunga processione di monaci.

Una Foca Monaca del Mar Mediterraneo.
Una Foca Monaca del Mar Mediterraneo.

In un tempo, purtroppo ormai lontano, le foche monache vivevano lungo tutte le coste del Mar Mediterraneo, nonchè di alcuni lidi sulle coste del Mar Nero e dell’Oceano Atlantico, tra la penisola Iberica e l’Africa nord-occidentale. Nell’antica Grecia, esse erano poste sotto la protezione di Poseidone e di Apollo, poichè queste creature si mostravano assai amanti del mare  e del Sole; esse secondo il mito attestato da vari poeti costituivano le greggi del misterioso dio Proteo, che incarnava la profezia ed aveva la facoltà di mutarsi in qualunque creatura. Una delle prime monete elleniche, risalente a circa il 500 a.c. rappresenta la testa di una foca monaca, e questo affascinante animale si trova talora riprodotto su prodotti fittili, quali ad esempio un’idria ceretana datata al 520-510 a.C.

Poeti e filosofi hanno trattato di queste creature, che sicuramento avevano colpito l’immaginazione degli antichi, e che furono immortalate nei versi di Omero, Virgilio e Ovidio, nonchè nei trattati di storia naturale di Aristotele, Plutarco, Seneca e Plinio il vecchio. Per i pescatori e i marinai la vista delle foche monache che nuotavano placidamente tra le onde o si beavano al Sole sulle spiagge tranquille e riparate, era considerata come auspicio di buona fortuna.

Poichè si era osservato, fin dai tempi più remoti, che esse avevano un sonno molto profondo, si pensava che la loro pinna destra, posta sotto il cuscino, potesse guarire l’insonnia; per tale ragione esse divennero oggetto di una caccia molto attiva (e questo è un altro esempio di come le persecuzioni dell’uomo agli animali siano spesso dettate dai motivi più futili ed egoistici!). Ma non solo questa fu la ragione del declino di questo simpatico pinnipede: esso già durante l’età romana fu cacciato per la carne; per ricavarne medicine (il grasso era usato per curare ferite e contusioni, mentre le pinne, come abbiamo detto, erano una “terapia” contro l’insonnia); il grasso era utilizzato anche per produrre candele e la pelliccia per fabbricare tende, abiti e calzature. In seguito alla caduta dell’Impero Romano una diminuzione della richiesta di tali manufatti consentì alle foche un temporaneo recupero (anche se non ai livelli precedenti). Nel pieno Medioevo però lo sfruttamento riprese e anzi aumentò in maniera massiccia, causando in breve tempo l’estinzione delle più grandi colonie sopravvissute fino a quel momento. Per questo le superstiti iniziarono a non raccogliersi più sulle spiagge aperte e sulle rocce, dove amavano crogiolarsi al sole, come avevano fatto fino ad allora, ma cercarono scampo sulle scogliere inaccessibili all’uomo e nelle grotte (spesso con entrate subacquee). Infine le immani distruzioni portate alle guerre, dallo sviluppo industriale, dallo sviluppo turistico, dalla pesca su larga scala con metodi industriali contribuirono al declino rovinoso della foca monaca.

Allo stato attuale i pericoli più gravi che la minacciano sono rappresentati dalla distruzione del suo habitat naturale e dalla concomitante pressione umana lungo le coste marine; dall’inquinamento; dal fatto che le foche purtroppo rimangono spesso impigliate nelle reti da pesca; ma soprattutto per l’opera crudele -e illegale- di scellerati pescatori che la vedono come una concorrente per il pesce di cui si nutre, tanto che quest’ultima è considerata la principale causa di morte per questo animale. Inoltre presentano un altissimo tasso di mortalità neonatale, dovuto sia alle improvvise alte maree, sia, soprattutto, alla debolezza congenita causata dalla scarsa variabilità genetica, data l’esiguità delle popolazioni superstiti.

La Foca Monaca è l’unico pinnipede presente nel Mediterraneo; ha un corpo allungato e robusto, coperto di un pelo corto e fitto, di colore variabile dal marrone al grigio più o meno scuro e con i fianchi e la zone ventrale più chiara (i maschi hanno in genere una macchia sul ventre ed il mantello più scuro); spesso tuttavia il corpo è macchiato. E’ un mammifero che può raggiungere, nei maschi, la lunghezza di 260 cm e il peso di 350 kg; le femmine hanno dimensioni e peso minori. La testa è arrotondata con un musetto aggraziato dai grandi occhi vivaci ed espressivi ben distanziati tra di loro e due ampie narici al lati delle quali si trovano cinque file di lunghi baffi (o più esattamente vibrisse), di colore in genere chiaro, lisci ed assai sensibili che aiutano l’animale ad individuare pesci e molluschi in acqua attraverso i loro movimenti. Rispetto al corpo lungo e massiccio le pinne risultano essere brevi; le pinne pettorali sono allargate e ogni falange porta un unghia alla sua estremità, lunga in genere 2,5 cm, mentre le pinne posteriori hanno artigli poco sviluppati, il primo e il quinto dito più allungato e le dita intermedie più corte. La coda è piccola e poco visibile. Agile ed armoniosa in acqua, ha una pessima mobilità a terra, dove utilizza per muoversi solo il ventre (caratteristica peraltro comune a tutti i membri della famiglia dei Focidi).

Le foche monache comunicano tra di loro soprattutto attraverso le vocalizzazioni: per avvertire dell’incombere di un  paricolo o se qualcosa suscita la loro preoccuopazione, emettono diversi tipi di suoni, specie quando si trovano in acqua. Alcuni studi sembrano dimostrare che l’udito e la vista siano più sviluppati allorchè nuotano in mare piuttosto che quando sono sulla terra, e che vengano percepiti meglio gli oggetti in movimento che quelli fermi. E’ stato osservato che quando dormono non si mostrano sensibili ai rumori, particolarità questa che, come abbiamo detto sopra, spesso purtroppo valse loro una spietata caccia nell’antichità.

La foca monaca è un animale stanziale e costiero (sebbene talvolta percorra anche decine di chilometri per cacciare le sue prede, o sfuggire i pericoli), che si nutre di una grande varietà di pesci, quali anguille, razze, sardine, tonni, sogliole, triglie, orate, nonchè di crostacei come gamberi e aragoste, e molluschi cefalopodi quali polpi e calamari; per cercare le sue prede può immergersi fino a 70 metri di profondità, trattenendo il repiro anche per 10 minuti. A motivo della sua alimentazione piscivora, per secoli, e talvolta tuttora, essa è stata vista come una temibile concorrente dai pescatori del Mediterraneo e per questo sterminata senza pietà -anche se attualmente, come vedremo, essa è ufficialmente protetta dalle leggi a tutela della fauna selvatica; il che peraltro non impedisce che talora pure ai nostri giorni si verifichino sconsiderate persecuzioni nei suoi confronti!-.

La foca monaca partorisce dall’età di 5-6 anni, ma con un modesto tasso riproduttivo: ogni due anni, dopo una gestazione di 11 mesi dà alla luce un solo cucciolo, che alla nascita pesa di solito 15-20 kg ed è lungo 80-90 cm; il piccolo ha un mantello lanuginoso di colore nero chiazzato di bianco o di giallo sul ventre, che dopo 4-6 settimane assume un colore grigio argentato e diventa via via più scuro con l’età.

Per partorire le femmine si isolano e si rifugiano in grotte che difendono con forza dall’intrusione di altre foche. Il piccolo è allattato dalla madre, che è provvista di quattro capezzoli retrattili, per circa 16 settimane: il latte della foca è assai nutriente per cui la crescita del cucciolo fino allo svezzamento è rapida, con un aumento significativo delle dimensioni soprattutto nelle prime due settimane di vita. Il cucciolo è accudito amorevolmente dalla madre che per circa sei settimane non lo lascia mai solo, neppure per mangiare, vivendo grazie al grasso accumulato durante l’anno; è svezzato intorno ai 4-5 mesi di età, ma rimane con la madre fino a quando ha 3-4 anni.

Altissimo è il tasso di mortaità infantile (stimato al 50 % entro i primi due mesi di vita), dovuto anche alla stagione in cui avvengono di norma le nascite, ovvero tra agosto e novembre, quando spesso le grotte dove nascono i cuccioli si allagano e le onde li trascinano via verso il mare aperto, poichè durante i primi quattro mesi di vita non sanno ancora nuotare.

La specie fu descritta per la prima volta nel 1779 con il nome di Phoca monachus; successivamente il naturalista John Fleming classificò il simpatico pinnipede nel genere Monachus, del quale vennero a far parte tre specie simili: oltre al “Monachus  monachus”, la foca monaca del Mediterraneo; il “Monachus tropicalis”, foca monaca dei Caraibi, ormai estinta; e il “Monachus schauinslandi”, foca monaca delle Hawaii, anch’essa in forte pericolo di estinzione, ma che grazie ad un efficace piano di protezione sembra aver raggiunto negli ultimi anni il numero di circa 1000 esemplari. Tutte e tre le specie sono -o erano- gli unici rappresentanti del sottordine dei Pinnipedi ad abitare esclusivamente in aree che si trovano a basse latitudini, in acque tropicali e temperate, tanto che gli studiosi non sono ancora concordi nello spiegare perchè queste specie si siano spinte così a sud; anche se alcuni ipotizzano che siano giunte nelle zone che attualmente abitano (o abitavano) al tempo delle glaciazioni, quando il clima proprio delle aree circum-artiche si era portato a basse latitudini e che poi al ritorno di condizioni climatiche più miti si siano trattenute nei territori che avevano colonizzato in precedenza.

Le foche monache non  hanno un vero e proprio habitat ideale, ma si ritrovano lungo le acque costiere calde o temperate; sono animali molto timidi, ( ma si deve precisare che la loro naturale riservatezza è stata molto accentuata dalle negative esperienze inflitte loro dagli incontri con gli umani) e per questo non entrano in contatto con l’uomo e vivono per lo più all’interno di grotte con l’entrata posta sotto il livello del mare, onde evitare l’ingresso di intrusi sgraditi, specialmente le femmine quando devono partorire; mentre i maschi si trattengono talvolta anche nelle spiagge, purchè tranquille e isolate.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

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