UCCELLI NEL MITO -settima parte- l’uccello Garuda

Indra on Airavat_
Indra sull’elefante Airavata combatte contro Vritra, demone della siccità.

Ma Garuda appare legato agli elefanti anche per un’altra ragione: infatti, secondo un mito largamente diffuso, Airavata, l’elefante bianco che funge da cavalcatura di Indra, il dio vedico corrispondente al greco Zeus. -nonché signore del pianeta Giove-, sarebbe nato anch’egli dal guscio dell’uovo che aveva ospitato il divino volatile. Quando il pulcino fu uscito dall’uovo, Bhrama prese nelle sue mani le due metà del guscio e recitò sopra di esse sette melodie sacre. Allora dalla metà destra vennero fuori prima Airavata, e in seguito altri sette candidi elefanti, mentre dalla metà sinistra uscivano otto elefantesse, parimenti bianchissime. Tutte queste creature furono destinate ad assolvere una missione cosmica, poiché ebbero da Bhrama il compito di sostenere la volta celeste, a coppie, nei quattro punti cardinali e nei quattro punti intermedi (1). La consorte di Airavata è l’elefantessa Abharamu. Nell’iconografia indù, il mitico elefante è di solito rappresentato con 4 zanne e 7 proboscidi. In Indocina e in Indonesia è chiamato Erawan (nome derivato da Airavata, tramite la forma Airawan) ed è raffigurato con tre teste, era il simbolo araldico del regno del Laos -che quando fu fondato nel 1353 si chiamava “Regno del Milione di Elefanti”-, al centro della cui bandiera comparivano in forma stilizzata le sue teste.

Un’altra poetica, sebbene triste, storia della quale è protagonista Garuda è la seguente: una sera Visnù si recò in visita a Siva nella sua dimora sita sita sulle vette innevate della sacra montagna Kailash (2), lasciando all’entrata il suo volatile. Garuda si posò in quel luogo, deliziandosi delle bellezze naturali che vi poteva contemplare.

La bandiera del Laos fino al 1975.
La bandiera del Laos fino al 1975.

Ad un tratto lo sguardo gli cadde su una graziosa creaturina, un uccellino appollaiato sull’arco sovrastante la casa di Siva. Garuda esclamò ad alta voce. “Quanto è meravigliosa questa creazione! Colui che ha creato le enormi montagne qui intorno, ha fatto anche questo uccellino minuscolo, e l’uno e le altre sembrano ugualmente mirabili!”.

Proprio in quel momento, Yama, il dio della morte, passò di lì a cavallo di un bufalo con l’intenzione di far anch’egli visita a Siva; transitando sotto l’arco, il suo sguardo si posò sull’uccellino ed egli inarcò le sopracciglia con moto di sorpresa; poi sparì all’interno del palazzo di Siva. questo fatto, in apparenza di poca importanza, era invece assai grave perché un’occhiata di Yama, ancorché data di sfuggita è un sicuro presagio di morte imminente.

Garuda, che aveva osservato la scena, pensò tra sé e sé: “Lo sguardo attento dato da Yama all’uccellino può significare una sola cosa: che il tempo di questa creatura è finito. Forse quando il dio della morte uscirà, lo condurrà via con sé”. Il cuore gli si colmò di compassione per l’uccellino indifeso, che se ne stava là ignaro della triste sorte che incombeva su di lui. Allora Garuda, che è l’essere più veloce dell’Universo, decise di salvarlo dagli artigli della morte: lo afferrò, volò rapido fino a una foresta lontana migliaia di miglia e lo posò con delicatezza su una rupe accanto a un ruscello. Indi ritornò al monte Kailash e si rimise davanti alla porta del palazzo di Siva.

Poco dopo Yama uscì; Garuda lo salutò e gli chiese: “Potrei farvi una domanda? Mentre entravate nella dimora di Siva, avete visto un uccello posato sull’arco di ingresso e per un attimo siete sembrato stupito: Perché mai?”. Il dio della morte allora rispose: “Quando i miei occhi sono caduti su quel piccolo volatile, ho visto che egli avrebbe dovuto terminare la sua vita di lì a pochi minuti, inghiottito da un pitone, molto lontano di qui, in una foresta attraversata da un ruscello. Mi domandavo come avrebbe fatto quella creaturina a superare le migliaia di miglia che la separavano dal suo destino in così poco tempo. Eppure in qualche modo deve essere avvenuto”:

Dicendo queste parole Yama sorrise e se ne andò. Sapeva già da prima quanto avrebbe fatto l’amico di Visnù nel generoso tentativo di salvare l’uccellino? Garuda rimase là seduto a rimuginare con mestizia sul modo in cui gli eventi si erano concatenati e la sua azione aveva provocato proprio quello che voleva scongiurare.

Questo apologo ha dunque un profondo significato filosofico (sul quale ovviamente ora non ci soffermiamo, vista la complessità dell’argomento), poichè vuole mostrare come spesso quanto viene messo in atto per stornare un destino avverso si rivela invece la causa efficiente di quel destino stesso, e quindi l’ineluttabilità della sorte, che tuttavia non è casualità cieca (3). Infatti il “destino”, cioè gli eventi esteriori dell’esistenza sono determinati dall’interazione di due principi fondamentali: il “Karma” (la legge di causa ed effetto) e il “Dharma” (l’equilibrio e l’armonia dell’Universo, ma anche dell’individuo), che sono i pilastri della filosofia indiana. Il Karma è in pratica il principio per il quale si raccoglie quello che si è seminato; il Dharma è un principio più sottile, ma possiamo dire che, sul piano microcosmico (4), significa che se un individuo si affanna per ottenere cose (sia oggetti che esperienze esistenziali) che non sono in accordo con la sua autentica natura personale, andrà inevitabilmente incontro a fallimenti e sofferenze. Di qui l’importanza e la perenne validità del “Gnothi seautòn” inciso sul tempio di Delfi: solo conoscendo sé stessi si può entrare in armonia con il proprio destino e con l’Universo.

Immagine che mostra Garuda cavalcato da Visnù in mezzo alle sue mogli Rudra e Sukirthi.
Immagine che mostra Garuda cavalcato da Visnù in mezzo alle sue mogli Rudra e Sukirthi.

Nel quinto libro (“Udyoga Parva”, 101) del “Mahabharata”, nell’ambito di un discorso del saggio Narada sono citati sei figli di Garuda, i cui nomi sono: Sumukha, Sunaman, Sunetra, Suvarchas, Suanch e Suvala, il quale ultimo è definito “Principe degli Uccelli”, e pertanto dovrebbe essere il più potente e magnifico; osserviamo che tutti questi nomi hanno un significato che rimanda all’idea di vigore, splendore, bellezza ed iniziano con la sillaba “Su-“, che indica il Sole (Surya), esprimendo dunque attributi solari. In questo passo non si fa menzione della madre -o delle madri- di codesti uccelli. Tuttavia nella tradizione popolare a Garuda sono attribuite due mogli, chiamate Rudra e Sukirthi, per cui è lecito supporre che esse siano le madri dei suoi figli citati nel “Mahabharata”. Peraltro i nomi attribuiti alle spose di Garuda,-i quali significano rispettivamente “Rossa” e “Lodata” (o “degna di lode”)-, considerando il carattere solare del loro marito, potrebbero fare ipotizzare che le due figure personifichino l’una l’aurora e l’altra il vespro.

Come abbiamo detto sopra il nome di Garuda non compare nei Veda, i libri sacri indù; o, per meglio dire, vi è presente ma con la denominazione di “Syena” (che significa “aquila” in sanscrito), -nome che ne dimostra la pressoché sicura identità con l’analogo volatile citato nell’Avesta, il libro sacro dello Zoroastrismo-. Il divino uccello è indicato come Garuda per la prima volta nei “Purana”, un gruppo di 18 testi poetici di comtenuto celebrativo, mitologico e cosmologico, che sono considerati un completamento e un corollario dei Veda.

Sul significato del nome Garuda le opinioni sono discordi: secondo alcuni, esso deriverebbe da “gara-ud-di”, “colui che spetta il veleno”, appellativo che fa rifermento alla virtù del dio-uccello di poter guarire coloro che siano stati morsi dai serpenti, a causa della rivalità con i Naga della quale abbiamo detto. Per altri esso sarebbe una probabile trasformazione di “Garutman”, o “Garutmat”, nome di un dio vedico del Sole, astro con il quale Garuda mostra stretti legami; legami grazie ai quali talvolta viene pure chiamato Traksya, che è il nome di una ipostasi del Sole raffigurato come cavallo bianco. Non v’è alcun dubbio tuttavia che Garuda sia una divinità solare.

Sulla possibile interpretazione di Garuda come “Colui che porta un grande peso” abbiamo già detto. Un altro appellativo per indicare il divino volatile è “Suparna”, “dalle belle piume”, ovvero “dalle ampie ali”; “Amritaharana” (“ladro di amrita”) allude invece al trafugamento della bevanda magica dell’immortalità da lui compiuto per poter liberare sua madre dalla schiavitù.

Nell’astronomia indiana, Garuda è connesso con la costellazione dell’Aquila, che trovasi sopra quella del Serpente, così che sembra riprodursi anche nel Cielo l’immagine del dio -uccello che tiene tra le zampe una serpe, così come è rappresentato nell’iconografia indù. La stella più splendente dell’Aquila è Altair, nome derivante dall’arabo “Al-Taìr” = l’Uccello, che costituisce la testa del mitico animale e che in Persia era identificata con Simurgh. E’ interessante notare come nella astronomia greca in tale costellazione sia stata identificata l’aquila che rapì Ganimede per condurlo sull’Olimpo a svolgere le mansioni di coppiere degli dei, ovvero di dispensare loro il nettare, che, come abbiamo detto corrisponde all'”àmrita”; ed accanto ad essa vediamo la costellazione dell’Acquario, nel quale, secondo l’interpretazione più accreditata (5), sarebbe da ravvisarsi lo stesso Ganimede.

Nipote di Garuda, in quanto figlio di Aruna, suo fratello, è Jatayu, un altro mitico pennuto, con aspetto di avvoltoio, che riveste una parte di rilievo nel “Ramayana”, l’altro grande poema epico della letteratura indiana antica, -sebbene molto meno ampio del “Mahabharata”, dato che consta di sette libri per complessivi 24.000 versi- .

Ram-Jatayu
Rama e Lakhsmana prestano soccorso a Jatayu ferito.

Secondo quanto si legge nel III libro (“Aranya Kanda”) del poema, allorché il malvagio demone  (“rakshasa”) Ràvana, re dell’isola di Lanka, tenta di rapire Sita, la virtuosa sposa di Rama, -il protagonista del poema, il quale in effetti non è altro che un’ennesima incarnazione di Visnù, e per la precisione il settimo “avatar”-, l’indomito Jatayu si sforza di impedire il ratto, ma nonostante il suo valore, dopo un lungo ed estenuate combattimento, il dèmone, dotato di forza immane, riesce a vincerlo e per sommo di crudeltà osa recidergli le ali.

Jatayu, ormai morente e allo stremo delle forze, viene alfine trovato da Rama e da dal fratello di lui Lakshmana, che si erano lanciati all’inseguimento di Ràvana; egli racconta loro del suo sfortunato tentativo di liberare Sita dalle grinfie del demone e indica la direzione da intraprendere per raggiungerli, dopo di che rende l’anima pietosamente, con la benedizione di Rama (6).

Nel distretto di Kollam, nella regione indiana del Kerala, si può tuttora ammirare una enorme roccia, detta “Jatayu-Para” (che significa appunto “roccia di Jatayu”), sulla quale il generoso volatile cadde dopo essere stato sconfitto e mutilato da Ràvana. Proprio nel punto ove l’animale avrebbe toccato il suolo, sgorga una fonte, che, secondo la leggenda, sarebbe scaturita quando il becco di Jatayu colpì la roccia: questa sorgente, meta di pellegrinaggio per molti fedeli indù, non si inaridisce mai, neppure nel pieno della stagione secca.

Un altro mito racconta che un giorno Jatayu e suo fratello Sampati, anch’egli avvoltoio, si sfidarono per vedere chi di loro riuscisse a volare più in alto. Jatayu si avvicinò così tanto all’astro sfolgorante da correre il rischio di bruciarsi. Sampati per proteggerlo dalle fiamme solari, gli fece scudo con la proprie ali, che presero fuoco e furono distrutte, così che egli ne rimase privo per il rimanente della sua vita. Questo racconto ricorda il mito ellenico di Dedalo ed Icaro, e del loro volo in prossimità del disco solare.

Ma anche Sampati compare nel “Ramayana”, precisamente nel IV libro, detto “Kishkindha Kanda”, dal nome della citta delle Scimmie (appunto Kishkindha) dove Rama e Lakshmana si recano per chiedere aiuto nella disperata ricerca di Sita e fanno amicizia con l’eroe Hanum. Il re delle Scimmie, Sugriva, invia quattro spedizioni per ritrovare la sposa di Rama, rapita da Ràvana, dirette verso i 4 punti cardinali. Quella inviata a sud, di cui fanno parte Angad, Hanuman e l’orso Jambavan (7), giunge alla fine sulle rive del mare nella punta estrema dell’India antistante l’isola di Lanka, Qui, sfiniti per il lungo cammino e le fatiche sostenute, si distendono esausti sulla sabbia e vedono venire verso di loro un avvoltoio, il quale, presumendo che essi, giunti all’estremo delle forze, siano ormai moribondi, si appresta a fare del gruppetto di eroi un lauto pranzetto.

Jambavan commentò la situazione osservando come fosse strano che stessero per finire in pasto a un avvoltoio, quale era Jatayu che aveva dato la vita per tentare di strappare Sita alle grinfie del demone. Ma non appena l’avvoltoio udì pronunciare il nome di suo fratello trasalì: “Hai detto Jatayu? Che cosa gli è successo? Ti prego, dimmelo!”. Allora l’orso raccontò la tragica storia dell’uccello che si era sacrificato per tentare di salvare la fanciulla. Dopo aver ascoltato quanto era accaduto al fratello, calde lacrime scorrevano dagli occhi dell’avvoltoio. “Il mio nome è Sampati, e Jatayu era mio fratello. Da moltissimo tempo non avevo notizie di lui, ed ora vengo a sapere che non è più su questa terra…!”. Poi continuò: “Vi sono grato per avermi informato sulla sorte, per quanto infausta, di mio fratello. Questa signora Sita che voi andate cercando con tanto fervore, io so dove si trova”.

Sita riceve l'omaggio di Hanuman nel giardino di Vatika.
Sita riceve l’omaggio di Hanuman nel giardino di Vatika.

Sampati disse che alcuni giorni prima aveva visto Ravana insieme a una nobile dama attraversare il cielo sul “Pushpak”, -un carro volante che apparteneva a Kubera, dio della ricchezza, fratello di Ràvana, al quale quest’ultimo l’aveva rubato con l’intento di trasportarvi la bella Sita dopo il ratto- (8), dirigendosi verso il suo regno nell’isola di Lanka . Il malvagio demone aveva poi rinchiuso la sua prigioniera in splendido giardino, dove ella era solita dolendosi dell’orribile disavventura in cui era incorsa.

In seguito, all’inizio del libro seguente, Hanum aumenta enormemente la sua statura così che gli è possibile attraversare il tratto di mare che divide l’India dallo Sri Lanka, trasportando i suoi amici sulle spalle e giungere poi alla liberazione di Sita.

In Thailandia, dove è conosciuto con il nome di Krut, il mitico uccello ha le sembianze di un aquila con le ali terminanti in mani ed è l’emblema delle casa reale.Garuda

Garuda è venerato anche dai Buddisti, spesso con il nome di “Suparna”, che, come abbiamo visto significa “dalle belle piume”, ma può anche voler dire “dalle belle (o grandi) ali”; infatti nella credenza buddista le sue ali avrebbero enormi dimensioni tanto da poter oscurare il cielo e poter scatenare quando vengano agitate sbattute impetuosi venti, anzi tifoni, tali da scoperchiare le case. Questo particolare rimembra le analoghe qualità che nella mitologia persiana sono attribuite all’uccello Kamak (del quale abbiamo parlato nella prima parte della trattazione su Simurgh).

Tuttavia nella concezione buddista non esiste un solo Garuda, ma esisterebbero diverse migliaia di Garuda -secondo alcuni testi, come il “Saddharma Pundarika Sutra” (il “Testo del Loto della Buona Dottrina”), risalente ai primi secoli dell’era volgare, addirittura migliaia di miriadi di milardi, dei quali il Garuda “originale” che abbiamo descritto in precedenza sarebbe solo il principe e il capostipite. Si è dunque verificato un processo abbastanza frequente nelle mitologie e nelle religioni, per cui un essere individuale ben specifico e determinato, spesso con caratteristiche ferine, si moltiplica in una intera categoria o stirpe di spiriti o di entità semidivine: ne abbiamo numerosi esempi in Grecia dove dal Centauro unico, figlio di Issione e di Nèfele, discese la schiatta dei Centauri, da Tritone, rampollo di Poseidone ed Anfitrite i Tritoni, da Sileno i Sileni, ecc: anche nella mitologia indù non mancano parecchi esempi analoghi: da Ghandarva, come abbiamo già visto, ebbero origine i Ghandarva, spiriti dell’Aria, da Apsara, le Apsaras, ninfe dell’Acqua, ecc.

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L’Universo secondo Indù e Buddisti: Il monte Meru (o Sumeru) è quello giallo a metà della parte destra del disegno. IL “Trayastrimsa” è il cono azzurro soprastante.

Le dimensioni dei Garuda non sono precisate nei testi buddisti, ma in essi si afferma che l’apertura delle loro ali dovrebbe essere tale da estendersi per molti “yojiana” (9): si dice pure che quando essi agitano le loro possenti ali, mettono in moto venti vorticosi, simili a uragani, che possono scoperchiare le case. e che le loro dimensioni sono così gigantesche che un uomo potrebbe nascondersi in mezzo al loro folto piumaggio senza essere notato.

Nella concezione cosmologica buddistica, i Garuda hanno anche il compito di fare la guardia contro gli attacchi dei demoni al monte “Sumeru” (che corrisponde, anzi coincide con il monte Meru indù, con l’aggiunta del prefisso -su-, che significa “magnifico, meraviglioso”), che costituisce l’axis mundi”, il centro dell’Universo e unisce Cielo e Terra. Alla sommità di questo monte trovasi il “Trayastrimsa”, (letteralmente significa “trentatré”, poiché è la dimora dei 33 dei principali), che è l’ultimo dei cieli terrestri e il primo di quelli spirituali. Secondo una tradizione, il Buddha Sakyamuni sarebbe riuscito a concludere una pace temporanea tra i Garuda e i Naga.

Come abbiamo detto sopra, la figura di Garuda, nella forma che aveva assunto presso i buddisti, si diffuse in molte nazioni asiatiche dell’Estremo Oriente, innestandosi però su tradizioni mitiche locali.

In Tibet troviamo i “Khyung”, assai simili al Garuda indiano. Si differenziano da quest’ultimo nell’iconografia poiché hanno tre teste, di cui quella centrale è blu e munita di corna -mentre le altre due sono una bianca e una rossa-. La parte superiore del corpo è di solito blu o azzurra, mentre la parte inferiore è gialla o verdastra; nel becco e tra gli artigli delle zampe, il Khyung stringe sempre dei serpenti (o dei Naga, serpenti in parte antropomorfi), che come per il suo simile indiano sono gli eterni rivali. In effetti il Garuda indù e buddista si assimilò e si fuse con alcuni spirti ornitomorfi della religione Bon, -il culto autoctono dei nativi del Tibet, che si può ritenere una forma di sciamanesimo- (10), che si incarnavano in aquile, falchi, gufi e avvoltoi. Le corna delle quali i Khyung sono dotati nell’iconografia potrebbero essere in realtà, o comunque derivare, dalle creste di penne di cui molte specie di Uccelli hanno il capo ornato.

l'immagine di un Khyung tibetano.
l’immagine di un Khyung tibetano.

Queste corna, o presunte tali, hanno la virtù di combattere efficacemente gli influssi malefici e la potenza dei demoni, specie quelli legati alle acque (evidente richiamo alla credenza indiana della rivalità tra Garuda e Naga); esse erano per eccellenza il simbolo della regalità dei sovrani di Zhang Zhung. L’ immagine di un Khyung, posta spesso all’interno delle case, ha funzione apotropaica e propiziatoria.

Come Garuda fungono da cavalcatura per diverse divinità del buddismo tibetano e sono associati all’elemento Fuoco. Gli antichi sacerdoti della religione Bon usavano indossare copricapi e altri ornamenti fatti con piume di Khyung (o di Uccelli nei quali essi erano identificati). I tibetani asseriscono che i loro sciamani abbiano dei Khyung come spiriti-guida, che li assistono e li guidano durante i loro viaggi astrali e le visite nell’al di là; ma in generale i Khyung hanno la funzione di psicopompi, ovvero di accompagnatori elle anime dei defunti nel regno dell’oltretomba.

CONTINUA NELL’OTTAVA PARTE

Note

1) secondo un altro mito invece il prodigioso elefante sarebbe emerso durante il cosiddetto “frullamento dell’Oceano”, con il quale i “Deva” (dei) e gli “Asura” (demoni), che si contendevano il dominio del mondo, intendevano produrre il miracoloso nettare, Come abbiamo detto in una nota precedente, la contrapposizione Deva-Asura non va interpretata come una irriducibile dicotomia bene-male,  con uno schema rigido di tipo giudaico-cristiano: si può affermare che essi sono due categorie di esseri superiori, che hanno stretti rapporti tra di loro, -come si deduce anche dal fatto che sono spesso imparentati-.

2) del monte Kailash abbiamo parlato nella seconda parte dell’articolo “I CONTINENTI SCOMPARSI TRA SCIENZA E MITO”.

3) per fare un esempio celebre, basti pensare alla vicenda di Edipo: per impedire l’avverarsi dell’oracolo che aveva preannunciato la morte del padre per mano sua, egli viene esposto neonato sul monte Citerone; ma proprio l’allontanamento diventa lo strumento attraverso cui il fato, che non si lascia ingannare, porta a compimento la profezia.

4) nel Macrocosmo, il “dharma” è il principio dell’armonia universale. Entro certi limiti, si potrebbe affermare che “karma” e “dharma” coincidono: il primo corrisponde all’azione, all’elemento dinamico che concorre a rompere l’equilibrio,cosmico o individuale, ma che tende poi a ricreare un nuovo equilibrio (che si presume più avanzato del precedente) -che è appunto il “dharma”-, il quale a sua volta sarà invariabilmente destinato a venire meno, in un incessante processo dialettico entro il quale si sviluppa il divenire cosmico e umano.

5) altri vedono nell’Acquario la figura di Deucalione, il sopravvissuto al Diluvio.

6) Sita viene poi salvata da Rama con l’aiuto di Sugriva, re delle Scimmie, -o più esattamente di una stirpe di uomini-scimmia chiamata “Vanara”-.

7) in effetti queste figure semidivine non sono da intendersi come veri e propri animali, ma, -un po’ come gli dei egizi-, il loro aspetto vuole sottolineare le loro caratteristiche simili a quelle dell’animale del quale hanno sembianza, D’altra parte nella concezione panteistica indù e della altre religioni e filosofie dell’Oriente non vi è la lontananza, il distacco, e talora il disprezzo per gli altri esseri viventi che contraddistingue le religioni “monoteistiche”, per le quali, -a parte che in certe loro forme mistiche e gnostiche, peraltro considerate “eretiche” o addirittura “pagane”-, gli animali hanno un valore solo in quanto servono all’uomo: al contrario essi considerati fratelli dell’uomo, nei quali gli spiriti individuali possono incarnarsi in alternativa all’uomo (e dunque è un’idea simile a quella del pitagorismo e dell’orfismo del mondo classico). Tuttavia sbaglierebbe chi pensasse che in India e nell’estremo oriente non esistano maltrattamento e sfruttamento degli animali che purtroppo esistono anche colà (anzi, negli ultimi decenni, con l’attenuarsi dell’influenza della religione e il diffondersi delle abitudini di vita “occidentali”, si è avuto un peggioramento delle condizioni degli animali in quel paese).  Si potrebbe dire che, pure in un contesto del tutto diverso, questi animali ricordano quelli che agiscono nel “Libro della Giungla” di Rudyard Kipling, il quale forse, almeno in parte, si ispirò agli esempi dell’antica letteratura indiana.

8) in questo “carro volante”, ed altri veicoli aerei citati nei poemi indiani, alcuni hanno voluto identificare un “UFO”. Molti “ufologi” sostengono che gli dei e gli eroi citati nelle antiche mitologie siano in realtà creature aliene venute da altri pianeti e che sarebbero stati considerati divinità dagli umani, che vivevano ad un livello di sviluppo assai inferiore, ed avrebbero da essi tratto i fondamenti della civiltà.

9) lo “yojana” è una misura di lunghezza indiana equivalente a un tratto oscillante, a seconda delle epoche e dei luoghi, tra gli 8 e i 13 metri.

10) alla religione Bon si aggiunse poi il buddismo “Mahayana” (“del grande veicolo”) -la forma di buddismo in cui furono elaborate le più complesse dottrine filosofiche e mistiche-, che si espanse nel Tibet tra il 650 e il 1000 circa, senza però soppiantare gli antichi culti, che spesso anzi vennero integrati nella nuova religione. Infatti come abbiamo detto più volte, le religioni “orientali” non sono dogmatiche ed esclusivistiche, poiché si propongono solo come “vie” per raggiungere l’autoconoscenza, l’armonia con il Cosmo e con la Natura e l’illuminazione nelle quali consiste la redenzione dello spirito: le dottrine e le pratiche rituali hanno un valore, per così dire, soltanto “strumentale”.  Quindi esse, lungi dall’escludersi a vicenda, possono benissimo coesistere ed anzi integrarsi tra di loro, e con altri percorsi di realizzazione interiore filosofici e psicologici, sia perché vedono nelle altre concezioni metafisiche degli aspetti simili ai propri insegnamenti, sebbene espressi in modi e forme o immagini diverse, o dei diversi punti di vista di una medesima verità, -che si trova non nelle formulazioni dogmatiche, ma nei penetrali interiori-, sia perché ciascun seguace di esse può senza contraddizione alcuna essere seguace anche di altre.

 

 

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Una risposta a “UCCELLI NEL MITO -settima parte- l’uccello Garuda”

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