UCCELLI NEL MITO – sesta parte- l’uccello GARUDA

Dai deserti assolati dell’Arabia, o meglio dalle isole sperdute dei mari dell’Estremo Oriente trasfigurate dalla fantasia nelle narrazioni degli intrepidi navigatori e mercanti arabi, teatro delle gesta del Rukh, ci sposteremo ora nell’India misteriosa per conoscere un altro mitico volatile che riveste una notevole importanza nella religione, nella letteratura e nelle arti figurative degli Indù e di altre popolazioni influenzate dalla loro civiltà -come quelle dell’Indocina e dell’Indonesia-, il cui nome è Garuda.

Questo strano uccello divino è noto soprattutto per essere l’abituale cavalcatura (in sanscrito “Vahanam”) di Visnù ed è l’unico tra gli esseri di primario rilievo della mitologia indiana dotato di ali, che invece sono tra gli attributi che più spesso si riscontrano nelle creature mitiche presso altre civiltà e religioni.

Come spesso i volatili che compaiono nei miti,

Visnu che cavalca l'uccello Garuda.
Visnu che cavalca l’uccello Garuda.

Garuda è immaginato e raffigurato il più delle volta con caratteristiche ibride di uccello e mammifero, anzi nelle rappresentazioni più recenti tende ad assumere aspetto in gran parte umano. In linea di massima si può affermare che negli esemplari artistici più antichi egli ha un aspetto totalmente di uccello – a parte talvolta qualche particolare, come le orecchie umane nello “Stupa” di Sanchi, risalente al I secolo dell’era volgare)-; in seguito le sembianze di Garuda acquistano in prevalenza connotazioni antropoidi, mentre  i caratteri ornitomorfi tendono vieppiù a diminuire, fino a ridursi alle sole ali e ad un naso a forma di becco adunco negli esempi del periodo medioevale dal sec. XIII in poi (secondo la cronologia europea). Come Uccello, la sua immagine richiama senza dubbio quella del Pappagallo: egli è di solito descritto e rappresentato con piume di oro zecchino, ali rosse e testa bianca sormontata da una corona aurea. Poi, come si è detto la sua figura tende a trasformarsi: il capo diviene umano, -mantenendo però il becco-, alle ali si aggiungono le braccia, fino ad assumere una fisionomia quasi del tutto antropomorfa.

La storia della nascita di Garuda è narrata nel primo libro (“Adi Parva”, capp. 23 e seguenti) del Mahabharata, -il monumentale poema epico che compendia le antiche vicende e la saggezza dell’india antica-, dove si afferma che il divino pennuto era figlio del saggio Kasyapa e di Vinata. Essi ebbero due figli: Garuda e Aruna, l’auriga del Sole. La sorella di Vinata, chiamata Kadru, era invece divenuta madre dei Naga, esseri semidivini di aspetto serpentiforme legati alle acque, i quali, pur essendo suoi cugini, sono acerrimi nemici di Garuda. Secondo il mito, la causa di questa inimicizia derivava proprio da una rivalità tra le due sorelle: sembra infatti che Kadru avesse deposto ben 1000 uova, mentre la sorella solo due. Le uova di Kadru si schiusero dopo 500 anni e da esse sgusciarono i mille Naga. Vinata provò per questo una viva gelosia per la sorella che aveva procreato una così numerosa figliolanza, specie se posta in confronto con la propria, che le sembrava assai misera, e che oltretutto non era neppure venuta alla luce, perché le sue uova non si erano ancora schiuse. Per questo, stanca di aspettare la nascita dei figli, decise di rompere lei stessa il guscio di una delle uova.

Garuda in una statua del XIII secolo che lo ritrae con figura quasi completamente umana.
Garuda in una statua del XIII secolo che lo ritrae con figura quasi completamente umana.

Apparve così Aruna, il quale però, essendo la sua nascita prematura, venne al mondo deforme, con il corpo sviluppato solo nella parte superiore; per questo egli lanciò una maledizione contro la madre per l’impazienza dimostrata e la condannò a rimanere schiava della sorella per 500 anni, finchè non si fosse schiuso il secondo uovo, ed aggiunse: “Trascorso il tempo prescritto, il pulcino in esso contenuto nascerà e con la sua immensa forza potrà liberarti dalla schiavitù!”. Dopo aver istruito la madre, Aruna spiccò il volo, andando incontro al suo destino di divenire auriga di Surya, il dio del Sole.  Allo scadere dei 500 anni, l’uovo finalmente si aprì e ne uscì Garuda.

Per spiegare cotesta strana generazione, dobbiamo precisare che in origine Kasyapa era il nome di un’antichissima divinità prevedica del Cielo, che aveva 13 spose, delle quali le più importanti erano Aditi (“il Giorno”) e Diti (“la Notte”); da Aditi aveva avuto i 12 “Aditya”, i dodici mesi dell’anno divinizzati, mentre da Diti erano nati Maia, -“l’Illusione”, legata al mondo materiale e fenomenico- e parecchi “Asura”, cioè “demoni” (1). Il nome Kasyapa significa “tartaruga” ed esprime dunque l’antica concezione cosmogonica che immagina l’Universo costruito sul carapace di una immensa testuggine; in seguito Kasyapa fu anche identificato con Prajapati, l’essere cosmogonico primordiale dell’induismo, e con Bhrama.

Vinata e Kadru erano invece figlie di Bhrama; quando Kasyapa le aveva prese come consorti, promise loro che avrebbe esaudito il loro più grande desiderio: Kadru volle mettere al mondo mille figli, tutti dotati di pari bellezza e virtù, Vinata a sua volta chiese solo due figli, i quali però superassero in avvenenza, forza e valore tutti i figli generati dalla sorella. Il marito esaudì i desideri espressi dalle due sorelle, raccomandando loro di accudire le uova che avrebbero deposto con la più premurosa cura, indi si allontanò e andò a vivere nella foresta, assorto nell’ascesi e nella meditazione.krish

All’apparire di quel possente volatile l’intero universo parve infiammarsi; non appena fu nato, Garuda cominciò a crescere con straordinaria rapidità e in pochi istanti il suo corpo divenne enorme, tanto che arrivò a toccare il cielo, mentre le montagne tremavano allorché sbatteva le ali. Gli Esseri Celesti, colti da spavento per l’improvvisa apparizione di quello strano e splendente animale che vedevano planare vorticosamente nei cieli, implorarono la protezione di Agni, il dio del Fuoco, il quale disse loro: “O persecutori dei demoni, non è come Voi immaginate! Quell’essere dotato di invincibile forza e che mi eguaglia in splendore è nato per dare letizia a Vinata! So che la vista della sua immensa luce Vi ha sconvolto, ma egli è il gande figlio di Kasyapa, il distruttore dei Naga, il punitore dei Datya e dei Rakshasa, Egli è colui che si prodigherà per la gloria degli dei. Non abbiate timore di lui! Venite e vedrete!”.

Gli dei, accompagnati dai saggi (“Rishi”) si recarono davanti a Garuda e gli prestarono il loro devoto omaggio. Così quello splendido uccello dalle bionde piume, dopo aver ricevuto la visita degli dei, accogliendo la loro preghiera, diminuì la sua grandezza e il suo fulgore. Indi si caricò sul dorso il fratello Aruna e insieme volarono verso l’eremo di Kasyapa. Terminata la visita al genitore, si recarono sull’altra sponda dell’Oceano, nel luogo dove dimorava Vinata, la loro madre, dopo di che Garuda condusse il fratello nelle estreme regioni orientali, dove sorgeva il Sole del quale Aruna era il cocchiere,

Secondo un altro mito, subito dopo la sua nascita, Garuda dimostrava di avere molta fame e Vinata, non sapendo come rifocillare suo figlio, gli consigliò di recarsi dal padre, Kasyapa. Questi gli indicò un luogo dove avrebbe potuto trovare di che sfamarsi, avvertendolo però di non divorare un bramino che ivi dimorava. Ma Garuda, vinto dalla voracità, inghiottì anche il bramino, il quale però gli rimase incastrato in gola.

Ma Kasyapa, padre di Garuda, venne a sapere di quanto era accaduto, e presentatosi al figlio gli comandò di vomitare il bramino. Il pennuto però non si era ancora saziato e fu quindi mandato sulle rive dell’oceano. Quivi trovò un gigantesco elefante e un’enorme tartaruga che stavano combattendo: la tartaruga era larga 80 miglia e l’elefante lungo 160 miglia. Garuda sollevò entrambi gli animali con i suoi possenti artigli e li trasportò attraverso le aeree regioni.

Per ristorarsi dal lungo sforzo prima di divorarli, si posò su un ramo di un maestoso albero frondoso; ma il ramo cominciò a piegarsi e a scricchiolare per l’immane peso dell’uccello e delle sue vittime e Garuda si avvide con terrore che appesi al ramo pericolante si trovavano appeso 40.000 “Valakhilya”, dei minuscoli asceti, i quali, cadendo a terra, sarebbero rimasti schiacciati. Per evitare di compiere quell’eccidio, Garuda, con un ulteriore sforzo, sollevò tutto il ramo con l’elefante e la tartaruga, e si alzò in volo. Da questo episodio sarebbe derivato il nome “Garuda”, che, secondo un’etimologia, peraltro discutibile, dovrebbe significare “Colui che trasporta un grande peso”:

E’ più che evidente che sia le dimensioni, sia il carattere aggressivo, sia la voracità che lo induce a ghermire e divorare animali grandi come gli elefanti, che caratterizzano Garuda nella prima fase della sua vita, lo apparentano senza ombra di dubbio all’uccello Rukh. Se poi si pensa che pure nei VEDA  (i libri sacri indù), -dove il nome di Garuda non compare-, troviamo un uccello che avrebbe portato l'”amrita”, il nettare degli dei, dal Cielo sulla Terra, il cui nome è Syena, quasi identico a quello -Saena- del mitico uccello della tradizione persiana, -il quale poi, come abbiamo visto, assunse il nome di Simurgh-, è facile comprendere che i tre mitici volatili derivano quasi certamente da un’unica figura di dio-uccello, poi diversificatosi, -ma non moltissimo-, in Garuda, Simurgh e Rukh, nelle civiltà indiana, persiana e araba.

In un’altra versione del mito riportato sopra, sotto il ramo che minacciava di spezzarsi stavano pascolando molte mucche, per cui la caduta del ramo le avrebbe uccise e per di più si trovavano a passare di lì anche alcuni bramini. In quel mentre Visnù stava osservando la scena e chiese che cosa stesse succedendo. Garuda rispose che né albero né montagna sembravano in grado di sopportare il suo peso. Allora il dio misericordioso offrì il suo braccio come trespolo al grande uccello e non tremò quando egli vi si posò sopra. Dopo aver mangiato, Garuda avvertiva ancora i morsi della fame e così Visnù gli diede come cibo la carne delle sue braccia, senza che al dio ne rimanessero ferite. Il re degli Uccelli volse il capo verso quell’essere che gli aveva mostrato tanta bontà, e che non era rimasto per nulla menomato dalla generosa offerta delle sue carni per sfamarlo, e ne intuì la natura divina: fu così che da allora in poi ne divenne il fedele e inseparabile compagno.

Tuttavia per liberare la madre dalla schiavitù di Kadru, Garuda fu costretto a compiere una difficile impresa: sottrarre a Indra, -il re degli dei secondo I “Veda”, i libri sacri Indù-, l'”àmrita”, la bevanda sacra dell’immortalità, -che corrisponde al “nettare” della mitologia greca-, e recarla a Kadru, la quale intende somministrala ai suoi figli affinché divenissero partecipi dell’immortalità.

Garuda riesce a portare a termine con successo l’ardua impresa superando diversi cimenti. in questa narrazione mitica si trovano indubbie somiglianze con altri miti dei quali sono protagonisti, o in cui comunque compaiono, uccelli, come quello assiro di An-zu, che ruba le Tavole del Destino dalla dimora di Enlil, o quello di Etana cavalcando un’aquila, sperando di trovare l'”erba della vita”, -miti dei quali abbiamo già parlato in precedenza nella nostra trattazione-; ma anche Ganimede nel mito ellenico che viene trasportato in volo sull’Olimpo da un’aquila per divenire il dispensatore dell’ambrosia agli dei.

Dopo che Vinata è stata liberata dalla penosa schiavitù impostale dalla sorella, Garuda con un trucco riesce a distrarre Kudra, la quale stava per offrire ai suoi figli la coppa contenente l'”amrita”, consentendo in tal modo a Indra di riprendersi la bevanda magica, sottraendola ai serpenti che si apprestavano a berla. Tuttavia mentre Indra si riappropriava lentamente della coppa, alcune gocce di “amrita” si rovesciarono per terra e furono leccate da serpenti, che così divennero anch’essi immortali.

Visnù riposa sulle spire del serpente multicefalo Ananta.
Visnù riposa sulle spire del serpente multicefalo Ananta.

Da questo episodio deriverebbe l’ostilità e l’inimicizia esistente tra Garuda e i Naga, gli spirti delle acque con aspetto di serpente. Per tale regione, l’immagine del dio-uccello è usata in India quale amuleto contro il morso e il veleno dei serpenti.

Peraltro il conflitto tra Uccello e Serpente si riscontra nei miti di molte altre popolazioni, ed esprime le opposte valenze simboliche dei due animali: aereo, solare, legato al mondo uranico e superiore il primo; terreno o acquatico, immagine dell’oscurità degli Inferi e delle profondità cosmiche, ma pure della fertilità e della generazione, il secondo. Essi costituiscono quindi una coppia dialettica di elementi contrari, ma complementari che è fondamento di molte concezioni cosmogoniche.

Entrambi hanno inoltre un particolare legame con Visnù, il dio conservatore e protettore per eccellenza. Se Garuda è la cavalcatura e l’aiutante di Visnù (ma si potrebbe dire quasi il suo “alter ego”), quest’ultimo ha pure uno stretto rapporto con il serpente cosmico Ananta, il cui compito è anch’esso quello di sostenere la persona del dio: quando Visnù dorme è Ananta che gli fa da giaciglio, mentre quando è desto è Garuda il suo veicolo. Questa “coincidentia oppositorum” è resa manifesta anche in alcune raffigurazioni nelle quali Garuda appare adorno del tipico “cappuccio” proprio dei Naga (che è poi quello dei Cobra), che però gli fuoriesce non dalla testa ma dai fianchi.

Un altro mito narra che una volta Garuda afferrò la Luna e la nascose sotto le sue ali. Questo atto suscitò l’irrefrenabile collera di tutti gli dei del Cielo, i quali, sotto la guida di Indra, il re degli dei, attaccarono il possente volatile. Egli li sconfisse tutti, ma fu vinto a sua volta da Visnù; quando Garuda si arrese al dio, divenne immortale e Visnù gli conferì l’onore di diventare la sua cavalcatura.

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Gajendra, re degli Elefanti, ferito da un coccodrillo.

Garuda ha una notevole importanza e rilievo nella religione e nei miti indù soprattutto quale cavalcatura e fedele aiutante del dio Visnù, una delle divinità più importanti dell’induismo, la persona della Trimurti -costituita, oltre che da lui, da Bhrama (che rappresenta la creazione) e da Siva (il quale incarna la distruzione, considerata però nella luce positiva del rinnovamento della vita nell’Universo)- nella quale si esprime la conservazione, e che quindi incarna la compassione e la carità per tutti gli esseri. In tale veste interviene in alcuni importanti miti della religione indù, come ad esempio quello che ha come protagonista l’elefante Gajendra, il re degli Elefanti, che è narrato in un passo del “Bhagavata Purana” (8, 2-4) e del quale diamo ora un breve riassunto.

“Sulla montagna meravigliosa di Trikuta, circondata come un’isola dall’Oceano del latte, trovavansi alquante foreste piene di alberi fioriti, sui quali lieti cinguettavano gli uccellini, e ove molti animali trastullavansi in piena sicurezza, non minacciati da pericoli e insidie umane. In mezzo alla montagna si estendeva un ameno giardino chiamato “Ritumat”, -un luogo se possibile ancora più incantevole delle foreste che lo circondavano-, che comprendeva un placido lago tutto ricoperto da fiori di loto, sui cui fiori rosei le api ronzanti si posavano con diletto, onde reperire il prezioso nettare da cui avrebbero tratto miele soave, e sulla cui superficie i cigni navigavano con tranquilla eleganza.

Un giorno in questo lago idilliaco si recò a fare il bagno Gajendra, seguito da tutto il suo branco. Mentre Gajendra e tutti gli altri elefanti si baloccavano lietamente nelle acque del lago, un enorme coccodrillo azzannò una gamba del re degli Elefanti, provocandogli un dolore terribile e cercando di trascinarlo verso il fondo. Gajendra era assai forte e tentava in ogni modo di resistere all’attacco del coccodrillo, ma quest’ultimo non mollava la presa e così la lotta si protrasse per un tempo interminabile, arrecando una sofferenza sempre più insopportabile al povero elefante.

Visnù su Garuda interviene in soccorso di Gajendra.
Visnù su Garuda interviene in soccorso di Gajendra.

Allora Gajendra rivolse una fervente preghiera al “Dio Supremo”, senza tuttavia chiamarLo con alcun nome specifico.

Al termine dell’invocazione, nell’alto del cielo apparve all’improvviso Visnù, a cavallo del suo fedele compagno Garuda; davanti alla divina apparizione, Gajendra, dimentico di qualunque necessità, quasi sommerso dalle acque in cui lo stava trascinando il coccodrillo e gravemente ferito, impiegò le sue ultime forze per afferrare con la proboscide un fiore di loto e offrirlo al Dio.

Visnù lanciò allora il disco “Sudàrsana” in soccorso dell’elefante liberandolo così dalla morsa del coccodrillo. Tutti gli esseri celesti cominciarono allora a glorificare il gesto misericordioso del dio Supremo e sparsero fiori dal cielo mentre una musica divina risonava nella foresta fiorita.

Le parole pronunciate dal re degli Elefanti in quel tragico frangente costituiscono la preghiera conosciuta appunto come “Gajendrta Stotram” (la preghiera di Gajendra), che è entrata a far parte della liturgia indù. E’ una preghiera per chiedre aiuto a Dio in una situazione di grave difficoltà e sofferenza, che sottolinea come possa bastare solo un fiore ovvero un gesto o un pensiero minimo, per ottenere la benevolenza e il soccorso della divinità.

Ma in quel momento non soltanto Gajendra fu salvato dal sommo pericolo nel quale si trovava, ma pure il coccodrillo grazie al divino intervento fu liberato dalla penosa condizione in cui versava. Infatti egli era in realtà Huhu, il re dei Gandharva (2), ed era stato mutato in coccodrillo da una maledizione pronunciata contro di lui da Devala Muni (3), e riprese allora le aggraziate sembianze di un Gandharva. Poiché aveva compreso che doveva la sua redenzione al Signore Trascendente, cominciò anch’egli a cantare lodi al Dio Supremo. Dopo di che girò intorno a Visnù in segno di rispetto, indi se ne tornò nel regno dei Gandharva (il “Gandharvaloka”), redento non solo dallo stato ferino infertogli dalla maledizione, ma anche redento da tutti i peccati (4).

Nella sua vita precedente Gajendra era stato il sovrano del regno di Pandaya nell’India meridionale (ovvero il Deccan) con il nome di Indradyumna. Dopo aver governato per lungo tempo, il re si era ritirato a vita eremitica sulla collina di Malaya, ove abitava in una modesta capanna conducendo un’esistenza di privazioni e austerità. Una volta mentre osservava il voto del silenzio ed era assorto in profonda meditazione, ricevette la visita del grande saggio Agastya Muni con i suoi discepoli. Allorché questi vide che il maharaja Indradyumna rimaneva in silenzio, né si degnava di farlo accedere alla sua umile dimora, trascurando il dovere dell’ospitalità, fu preso da irrefrenabile collera e maledisse l’eremita con queste parole: “Il re Indradyumna non è affatto gentile, è privo di educazione ed ha offeso un bramino: che entri dunque nelle tenebre e sia rivestito dal pesante corpo di un elefante”. Dopo aver pronunciato questa condanna, Agastya Muni tornò al suo convento con i discepoli. Poiché era un vero devoto, il monarca accettò di buon grado la punizione, considerandola voluta da Dio stesso.

Pertanto Gajendra, pur essendo un elefante, grazie al servizio di devozione compiuto nella sue vita precedente, ricordava come si deve adorare ed elevare preghiere al Signore nel modo più acconcio.

Così alla fine del suo misericordioso intervento, Visnù, la Persona Suprema, rivolse la sua benedizione a Gajendra; e, dopo aver liberato il re degli Elefanti dalla morsa del coccodrillo, -che è la rappresentazione sensibile ed efficace della pletora dei desideri terreni che ottenebrano la mente e attanagliano lo spirito-, tornò alla sua dimora celeste sul dorso di Garuda, conducendo seco Gajendra, che entrò così nel regno della beaitudine.

Questo commovente episodio è stato spesso rappresentato nell’arte indiana, specie nella miniatura.

A motivo dello stretto legame che Garuda intrattiene con Visnù, alla cui cerchia appartiene, il mitico uccello (o uomo-uccello) può considerarsi un’ipostasi dello stesso dio, pur non essendo annoverato tra le dieci incarnazioni che secondo gli Indù questi assunse nella sua veste terrena, -i cosiddetti “avatar”. Infatti nel “Bhagavad Gita” (“Canto del Beato”) (5), -uno dei testi più importanti che espongono la dottrina e la spiritualità della corrente “visnuita” (6) dell’induismo (quella che riconosce in Visnù l’autentica manifestazione dell’Assoluto)-, Krishna, -che a sua volta è l’ottava incarnazione di Visnù-, dichiara espressamente di essere. oltre a vari altri dei, semidei e animali, anche Garuda (in effetti però questa dichiarazione vuole proclamare che Visnù comprende tutti gli esseri e tutte le cose, e quindi coincide con il Tutto).

CONTINUA NELLA SETTIMA PARTE

Note

1) si tenga presente che un po’ come per i “Ginn” dei quali abbiamo parlato in precedenza, ed anzi in maggior misura di quanto non sia nella cultura islamica, la “negatività” o la “malignità” dei demoni va intesa in senso relativo, specie considerando il carattere panteistico della religione Indu: i “demoni” incarnano quegli elementi di disordine, di incoscienza, di ignoranza, di non controllo che agiscono nel mondo fenomenico e nello spirito individuale ed ostacolano l’uomo sulla via della realizzazione spirituale,-un po’ come i mostri della mitologia greca-, ma non sono un “male” assoluto: sono delle energie che se l’uomo impara a dominare possono divenire strumenti di ascesa e di evoluzione interiore. Inoltre il termine “Asura” che in India designa entità demoniache, corrisponde agli “Ahura” del mondo iranico, i quali al contrario sono gli dei, o gli “spiriti” protettori e benefici, che personificano le virtù e le doti dell’uomo e della natura, dopo la riforma enoteistica di Zarathustra. Inversamente i “deva” indiani e i “devi” iranici, termini connessi al radicale indo-europeo “div-” che esprime la luminosità celeste ( e dal quale deriva anche il latino “deus”, -nonché “dies”= giorno, inteso come periodo illuminato dalla luce solare-) in India sono appunto gli dei, mentre in Persia sono decaduti al rango di “demoni”, cioè di entità considerate nemiche e malvage.

2) i Gandharva sono geni o divinità minori della mitologia indiana. Nei Veda si cita un singolo Gandharva; ma poi, come non di rado succede nelle tradizioni mitologiche, la figura dell’antico Gandharva unico si moltiplicò in una intera classe o popolazione di esseri semidivini (fatto che come vedremo si è verificato anche con Garuda). Sono considerati spiriti della Natura e dell’Aria in particolare; in origine, in analogia alle forze naturali che personificavano, erano dotati di carattere irruente e selvaggio, di aspetto in parte ferino (in particolare di cavallo) -qualità che li assimilano certamente ai Satiri ed ai Sileni greci- e si credeva che amassero giocare brutti scherzi agli umani. Poi la loro indole e loro sembianze si ingentilirono; si immaginava che abitassero in splendidi palazzi aerei (“castello di Gandharva” è l’espressione indiana per indicare il miraggio), spesso in compagnia delle Apasaras, le leggiadre ninfe delle acque che erano loro attribuite come compagne, e che fossero abilissimi come musici.

3) “Muni” è un appellativo e un titolo dato ai maestri spirituali dell’antica India: Anche Siddharta Gautama, il “Buddha” per eccellenza, è detto “Sakya Muni”, ovvero “il maestro della stirpe dei Sakya”.

4) nella redenzione del coccodrillo, osserviamo come a nessun essere sia negata la possibilità del riscatto e della salvezza, e che pure quello che sembra negativo abbia una funzione nell’economia dell’eterna evoluzione dell’Universo e di tutti gli esseri attraverso il susseguirsi di infiniti cicli, Tuttavia, sebbene nelle religioni “orientali”, così come in certe tradizioni “occidentali” (quali l’orfismo e il pitagorismo, le correnti gnostiche, neoplatoniche ed ermetiche, la Qabbalah ebraica, le dottrine teosofiche e antroposofiche moderne, ecc.), non sia presente l’idea della “dannazione eterna”, sarebbe sbagliato pensare per questo che “prima o poi” tutti arrivino alla meta senza troppi sforzi: a parte il fatto che le esistenze che uno spirito può vivere possono essere assai numerose -per gli Indù anche milioni-, se queste trascorrono senza che vi sia un significativo miglioramento, avviene una sorta di regressione o involuzione, che complica alquanto il processo di ritorno alla divina unità.

5) il “Bhagavad Gita” è un esposizione in forma poetica dell’insegnamento mistico-filosofico che Krisna fa ad Arjuna, uno dei “Pandava”, nell’imminenza di una battaglia, Esso è compreso nel Vi libro del “Mahabharata”, il monumentale poema epico che riassume tutta la cultura religiosa indiana, e che consta di 110.000 distici contenuti in 18 libri. La storia narrata nel poema si incentra sulla rivalità e sulle lotte tra i cinque figli di re Pandu, -chiamati appunto “Pandava”-, e i loro cugini Kurava. nella storia principale sono inseriti però numerosi episodi minori e digressioni filosofiche che fanno del poema una sorta di enciclopedia della cultura indiana. Sia per l’argomento, sia per la funzione ideale e pedagogica che esercitò in passato e in parte esercita tuttora, questo poema si può paragonare all’Iliade greca.

6) la religione induista, -o, per meglio dire, il complesso religioso indù-,  non avendo dogmi e strutture dottrinali e organizzative rigide e definite, comprende una notevole varietà di espressioni e di sette, sia di carattere filosofico-mistico, sia di carattere propriamente religioso e rituale. La maggior parte di tali dottrine e dei fedeli che le professano si possono raggruppare in due grandi correnti che fanno capo rispettivamente a Visnù e a Siva, che sono da esse considerati la più alta incarnazione dell’Assoluto, -mentre Bhrama, il dio creatore, nonché gli dei vedici Indra, Mitra, Varuna, ecc. sono stati messi in secondo piano nell’induismo moderno-.  I seguaci di Visnù accentuano soprattutto l’aspetto della compassione, della misericordia e della carità come essenza e manifestazione della divinità, ed hanno un rapporto di devozione filiale verso Dio. Anche l'”aimsha”, l’ideale della non-violenza e del rispetto per tutti gli esseri viventi, è peculiare della dottrina visnuita, -oltre che di quelle giainista e buddista-, mentre alcune delle sette sivaite praticano tuttora sacrifici animali. Non a caso le forme di Induismo che si sono diffuse in Europa e in America in anni recenti sono sempre di derivazione visnuita, poiché le scuole visnuite sono le uniche propense al proselitismo e a diffondere i propri insegnamenti al di fuori delle aree di cultura tradizionalmente induista, oltre che quelle meno legate al sistema castale.

 

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