UCCELLI NEL MITO (quarta parte) -l’uccello Rukh-

Torniamo ora ad Aladino e alla sua lampada dalle virtù soprannaturali. Come abbiamo detto, non riassumerò qui tutta la storia poiché essa nella sua prima parte è universalmente conosciuta, ed andrò dunque alla parte finale della fiaba, -che di solito è omessa nelle versioni presenti nelle antologie delle “Mille e Una Notte” destinate al pubblico infantile-, che è quella riguardante il nostro discorso sul Rukh.

Dopo la definitiva sconfitta del mago maghrebino, che aveva tentato ed era riuscito con uno stratagemma ad entrare in possesso della lampada, entra in scena un fratello di costui, anch’egli mago, ed ancora più potente e pericoloso. Questi, attraverso un’operazione geomantica (1), viene a sapere che il suo congiunto è perito, nonché il luogo e le circostanze in cui egli aveva trovato la fine dei suoi giorni. Pertanto si affretta a partire per la Cina con l’intenzione di vendicare il fratello.

Per mettere in atto il suo piano scellerato il malvagio stregone decide di travestirsi assumendo le sembianze di una pia donna chiamata Fatima che viveva nei pressi della città -chiamata nel testo arabo “Al-Qalàs”-, dove risiedevano Aladino e Badr al-Budùr (che significa “Splendore della Luna piena”), la sua sposa figlia del sultano. Fatima abitava in una grotta alle pendici di una montagna, dedita alla preghiera e alla penitenza, donde non si allontanava che due volte al mese per scendere in città a dispensare la sua “bàraka” (2), attraverso la quale risanava i malati e operava molti miracoli. Lo stregone si reca nella dimora della donna e dopo averla indotta con minacce a darle le sue vesti, la uccide proditoriamente e si reca nei pressi della dimora di Aladino, dove viene accolto dalla principessa Badr al-Budur, da tempo desiderosa di conoscere la santa donna (3). Le offre anche di trattenersi nel palazzo dove continuare in una stanzetta appartata la sua vita contemplativa e le mostra il padiglione più splendido che in esso si trovava, chiedendole che ne pensasse. La finta santa le dice che per essere perfetto quel luogo manca di una sola cosa: un uovo di uccello Rukh appeso alla volta del padiglione.

Andatosene il mago travestito, Badr al-Budur rimase turbata dalla sua osservazione e al ritorno di Aladino gli riferì quanto le aveva detto la presunta santa. Egli la esorta a non affliggersi per questo, poiché non avrebbe avuto alcuna difficoltà a procurarle l’uovo per mezzo del servo della lampada. Ed infatti egli si premura subito di chiamare il genio strofinando la lampada onde esaudire il desiderio di Badr al-Budur. Ma una volta udita la richiesta, con grande meraviglia di Aladino, il servo della lampada si adira terribilmente e redarguisce con asprezza il suo “signore”: “Non ti basta che io e tutti i servi della lampada siamo al tuo servizio -gli urla-, ma vuoi pure che ti porti la nostra signora (4) per il tuo piacere, per sospenderla alla volta del tuo palazzo a diletto tuo e della tua sposa! Per Allah, meritereste, tu e lei, che vi incenerissi all’istante e vi seminassi al vento. Ma giacchè tanto tu che tua moglie siete ignari della cosa, e non sapete rendervene chiaro conto, vi userò indulgenza perché siete innocenti, e la colpa è solo di quel maledetto fratello del mago maghrebino che sta qui e si fa passare per la serva di Dio, Fatima” (traduzione di F. Gabrieli). Il genio spiega poi ad Aladino l’insidia tesagli dallo stregone il quale, insegnando a sua moglie ad esprimere la richiesta dell’uovo di Rukh, intendeva provocare le loro perdizione.

Aladino allora, fingendo di avere un mal di testa si fa condurre dalla finta Fatima; ella, ovvero il mago maghrebino, estrae da sotto gli abiti un pugnale per uccidere il giovane, ma questi è lesto a strapparglielo e a trafiggere con esso il malvagio stregone.

Così si conclude definitivamente la fiaba: Aladino e Badr al-Budur, dopo aver corso tanti pericoli, possono infine vivere in serenità e prosperità. Dopo la morte del sultano, Aladino gli succede sul trono, governando con saggezza e giustizia, e vivendo felice con la bella Badr al-Budur fino al sopravvenire di “Colei che ogni piacere distrugge e ogni compagnia separa” (parole che spesso mettono il finale suggello a parecchie narrazioni delle “Mille e Una Notte”)(5).

Possiamo osservare che questa parte finale del fratello che cerca di portare a compimento quanto non era riuscito al mago maghrebino sembra un’aggiunta estrinseca, tutt’affatto estranea all’economia del racconto, una ridondanza (6), che, a mio giudizio, è stata introdotta proprio per chiarire, e confermare, il carattere mistico-allegorico del racconto, peraltro già abbastanza chiaro. E questa conferma deriva proprio dall’accenno all’uovo del Rukh in essa contenuto. In effetti il nome di questo uccello fantastico è quasi identico a “ruh”, in arabo spirito, -che corrisponde alla “ruah” ebraica e all'”akh” egizio. E’ improbabile che la quasi omofonia tra i due nomi derivi da una comune etimologia, e tanto meno da un’identità tra uno degli elementi sottili costitutivi dell’uomo, e del cosmo, e il mitico uccello. Nondimeno questo ha fatto sì che, come per la Fenice e il Simurgh, l’uno diventasse il simbolo dell’altro.Rukh

E quindi l’uovo del Rukh, che stoltamente i compagni di Sindibad nella loro somma ignoranza avevano frantumato, attirando così su di loro una meritata rovina, rappresenta l’Uovo Cosmico, quello da cui nasce Fanete nella cosmogonia orfica (7), e Prajapati in quella indù, la cui metà superiore è il Cielo e quella inferiore la Terra. Ma, come afferma Renè Guenon nel suo libro “Simboli della Scienza Sacra”, l’uovo è anche il simbolo della rinascita spirituale che avviene nel cuore, nella “caverna” dell’interiorità nella quale si scopre l’autentico “tesoro”, che dona all’uomo la vera ricchezza dei beni eterni e spirituali (8).

Nella breve descrizione del Rukh che lo stregone maghrebino, sotto le mentite spoglie di Fatima, fa a Badr al-Budur, egli precisa tra l’atro che di solito l’immane volatile dimora sul monte Qaf. Orbene, tale monte, o meglio catena di monti, che nella cosmologia islamica circonda tutte le terre emerse, così come l’Oceano nella cosmologia greco-romana, secondo il Corano si trova “al di là di una distesa oscura per attraversare la quale occorrerebbero almeno quattro mesi”: si tratta quindi di un luogo quasi irraggiungibile per l’uomo, l’estremo confine del mondo, simbolo dei limiti delle possibilità e delle conoscenze a lui concesse, il discrimine tra Cielo e Terra, tra mondo naturale e mondo soprannaturale. Questa catena montuosa, o quanto meno la sua sommità, sarebbe costituita di puro e scintillante smeraldo. Per altri tuttavia il suo colore sarebbe il blu cobalto: ad esempio il famoso storico persiano al-Tabari (9) sostiene che “Allah ha creato la montagna del Qaf tutto intorno alla Terra… Questo mondo si trova circondato dal Qaf così come un dito al centro di un anello. Nessun uomo può giungere ad essa. Sopra questo monte non splendono né Sole né Luna né stelle, ma è così blu che il colore azzurro del cielo è il riflesso della sua lucentezza. Tutte le montagne che si innalzano in questo mondo vengono dal Qaf”.

Il monte Elbrus, la più alta vetta della catena del Caucaso, probabile immagine terrena del "Qaf".
Il monte Elbrus, la più alta vetta della catena del Caucaso, probabile immagine terrena del “Qaf”.

Abbiamo visto come anche al Simurgh, il “Re degli Uccelli” nella tradizione persiana, protettore di eroi,  poi divenuto simbolo mistico nelle dottrine dei mistici dell’Islam, -i “Sufi”-, fosse attribuita come dimora questo mitico sistema montuoso (che alcuni vogliono identificare nel Caucaso, con il quale avrebbe in comune l’etimologia, almeno come origine di codesto potente simbolo cosmico-spirituale): abbiamo dunque la conferma che il Rukh arabo corrisponda al Simurgh persiano, sebbene il volatile delle narrazioni arabe appaia dotato di una più spiccata, -ma comunque giustificata- aggressività.

Sembra che l’arabo “Qaf”, inteso come nome di montagna, reale o mitica, sia derivato dal persiano “Gaph”, che dovrebbe significare “sconosciuto”; e la prima menzione di una montagna con tale nome pare sia in un’iscrizione del re sassanide Shapur I (241-272) in riferimento alla catena montuosa che corre tra il Mar Nero e il Mar Caspio, nella quale si cita il “Gaphkuh” (=”Montagna Sconosciuta”), da cui sarebbe derivato il greco “Caucasos” e poi l’arabo “Qafqaz”.  Plinio il Vecchio però (in “Naturalis Historia”, VI, 19) aveva proposto un’altra etimologia per il nome dell’imponente catena montuosa: a suo dire il greco “Càucasos” (e latino “Caucasus”) deriverebbe dalla lingua scitica e sarebbe la trasformazione delle parole “Krou Khasis” =”bianco di neve” (o “splendente di ghiaccio”), -“Caucasum montem Croucasim, hoc est nive candidum [appellavere]”-, etimologia che in effetti risulta più convincente, sebbene non sia affatto da escludere che la prima -cioè di “montagna sconosciuta”- si sia sovrapposta alla seconda.

Notiamo peraltro che “qaf” è anche la 21° lettera dell’alfabeto arabo, corrispondente al “qof” o “quof” degli alfabeti fenicio, ebraico ed aramaico, -nei quali occupa il 19° posto-. Nell’alfabeto fenicio, dal quale sono derivati, per via diretta o indiretta, la maggior parte degli alfabeti, ciascun segno grafico porta il nome del soggetto dal quale è derivato, -cioè di cui in pratica è una stilizzazione-. Del nome di tali soggetti, che sono 22, il segno grafico rappresenta il suono iniziale: e così la prima lettera “aleph” ha il nome del bue; la seconda “beth” è la casa; la terza “ghimel” il cammello, ecc. Nel caso del “qof” tuttavia il significato è incerto: per alcuni rappresenterebbe una scimmia, per altri la cruna di un ago, e per altri ancora una nuca (ovvero il lato posteriore del capo).

Alfabeto fenicio confrontato con i geroglifici egizi con valore fonetico.
Alfabeto fenicio confrontato con i geroglifici egizi con valore fonetico (la “qof” è ovviamente il segno che corrisponde alla “q”).

La prima di queste interpretazioni è la più dubbia: la seconda è quella che appare più calzante, poiché in effetti il disegno della lettera nella sua forma primitiva assomiglia a un ago con la cruna; la terza invece è avvalorata dal fatto che la “qof” precede la “resch” che significa testa  (in arabo “ras”), e spesso i segni sono collocati in modo che siano vicini i soggetti che presentano un legame logico o un’associazione di idee: infatti dopo la “resch” viene la “schin”, che significa “dente”; abbiamo la “daleth” (porta) che precede la “hé” (finestra); la “kaph” (palmo) che segue la “jod” (mano), e così via.

Con il nome di Qaf è designata pure la 50° sura del Corano, la quale peraltro non tratta del mitico monte, ma parla della resurrezione e del giudizio finale. Vi è forse una corrispondenza o un legame tra le lettera e la montagna? Anche nell’Islam, o per meglio dire in alcune correnti mistiche ed eterodosse, in prevalenza ismailite, si sviluppò una dottrina mistica dell’alfabeto e dei numeri corrispondenti alle lettere, e un’interpretazione numerologica del Corano, per molti aspetti analoga alla ben più nota “Qabbalah” ebraica, -poichè ai testi e alle scritture religiose in parecchie civiltà viene attribuito un carattere intrinsecamente sacro, pure nei segni grafici e nei suoni che ne compongono le parole-. In particolare nel “Rasa’il Ikhwan as-Safa”, “Enciclopedia dei Fratelli della Purezza” viene esposta una teoria onomantica e numerologica sulle lettere dell’alfabeto arabo (10). Questa dottrina riappare poi negli scritti del mistico persiano Fadallah al-Astarabadi (1339-1394) ed è il fondamento dell’interpretazione del Corano dei suoi seguaci, chiamati “Hurufi” (11).

Se guardiamo al significato del “qof” ebraico-aramaico (che corrisponde al “qaf” arabo) noteremo che tale lettera esprime un significato di splendore, di chiarezza, nonchè di acume e di intelligenza, ed  è legata al Sole e allo Spirito. Essa denota anche la capacità di scendere agli Inferi e di trarre insegnamenti da quella esperienza, e suggerisce che pure gli aspetti negativi del reale hanno una funzione e presentano anch’essi una scintilla di santità. Forse non è un caso che sia la prima lettera del sostantivo “Qabbalah”. Il suo valore numerico è 100 ( tale è pure il valore numerico del “qaf” per gli Ikhwan as-Safa e gli Hurufi) ed è associata al XIX “grande arcano” dei Tarocchi, ovvero il Sole.

Il monte Qaf nella sua valenza di simbolo delle vette dello spirito si riscontra innumerevoli volte nei racconti e nei poemi dei mistici musulmani. Il filosofo e mistico persiano Shihabab ad-Din Yahya Sohravardi (1155-1191) (12), autore di racconti visionari dotati di un fascino suggestivo, nei quali esprime le sue concezioni mistiche, parla del Qaf in particolare ne “L’Angelo Purpureo”: in esso il protagonista, che aspira a trascendere il mondo delle apparenze sensibili per trovare la via che conduce alla luce divina, incontra uno strana figura di sfolgorante bellezza, che è appunto l’angelo che dà il titolo al racconto, il quale gli dice di provenire da una regione ultramondana sita oltre il monte Qaf, nella quale anela a tornare. Il misterioso visitatore afferma che il Qaf è il luogo dove tutte le anime di tutti gli esseri viventi dimorano prima di doversi incarnare nei corpi terreni. “Il primo prodigio  è il monte Qaf, posto ai confini del mondo, a circondare tutte le terre. E’ una montagna formata da altre undici, e sarà lì che tu, quando avrai trovato il modo di sfuggire ai tuoi legami, ti recherai. Davvero, da là ti hanno condotto fin qui, e ogni realtà esistente alla fine torna a riunirsi con la sua forma originaria”.

Appare dunque evidente che la “lampada di Aladino” e i “servi” che si possono con essa invocare (infatti il genio afferma di non essere il solo: “Eccomi qui, al sevizio tuo e di chi ha in mano la lampada; e non io soltanto, ma tutti servi della lampada meravigliosa che hai in mano” proclama alla sua prima apparizione) provengono dal regno spirituale, o per meglio dire la lampada è il simbolo della luce spirituale (che proviene dal “Qaf”) della “conoscenza del Sé”, che una volta conseguita consente di dominare e di avere al proprio servizio le forze e le potenze fisiche, psichiche e mentali incarnate e simbolizzate dai “geni” -che dalle descrizione, seppure generica che ne viene fatta, appartengono alla categoria degli “Ifrìt”, come vedremo in seguito in modo più approfondito-.

Fin dal suo inizio si può vedere un questa fiaba il percorso dello spirito individuale per congiungersi al suo principio e riconoscere la sua vera essenza divina. Il mago maghrebino rappresenta la falsa scienza mondana, che può sì concepire e intravedere a livello intellettuale la Luce divina, ma non può comprenderne la vera essenza, né tanto meno partecipare di essa, e la persegue soltanto perché ritiene di poter fare di essa un uso sacrilego, profano e terreno.

Aladino vende uno dei piatti d'argento sui quali il genio aveva imbandito il pranzo a lui e a sua madre.
Aladino vende uno dei piatti d’argento sui quali il genio aveva imbandito il pranzo a lui e a sua madre.

Solo la purezza e la semplicità dell’animo possono consentire di giungere a comprendere i segreti e l’essenza del divino, e quindi di sé stessi, ed esse sono incarnate nella figura di Aladino: per questa ragione la porta della caverna dove si trova la lampada, il tesoro nascosto che concede un immenso potere a chi lo possieda si aprirà solo davanti a lui.

Ed anche la collocazione geografica e la provenienza dei protagonisti della storia ci illuminano sul significato e l’interpretazione che dobbiamo dare ad essa: Aladino è detto vivere in Cina, ovvero nell’Estremo Oriente, mentre il mago proviene dalle terre del Maghreb, ovvero l’Africa nord-occidentale, l’Estremo Occidente islamico. Fin dai tempi più antichi l’Oriente, il luogo dove sorge il Sole (ed in effetti “Oriens” significa appunto “che sorge” ed è ad esso sottinteso “Sol”), è stato visto come luogo ove nasce la luce, non solo in senso fisico, ma pure in senso spirituale. “Ex Oriente lux” si diceva nel mondo latino ( espressione alla quale talora nel ME, sfruttando l’opportuna allitterazione, si aggiungeva “ex Occidente lex”, parole con le quali si voleva alludere alla scienza giuridica romana); mentre l’Occidente, il punto del tramonto del Sole, era per antonomasia la “terra dei morti”, pur se talvolta ad esso era associato un luogo di beatitudine e di eterna felicità della quale godevano i giusti (come abbiamo visto allorché trattammo delle “Isole dei Beati” e del giardino delle Esperidi).

Nella “Storia dell’esilio occidentale” di Sohravardi, -del quale già abbiamo parlato sopra-, l’Oriente è descritto come il mondo della luce purissima in opposizione all’Occidente che appare come il regno dell’oscurità e della materia che involvono le menti e gli spiriti con una coltre di dolorosa ignoranza. Naturalmente questo “Oriente” e questo “Occidente” non sono certo nozioni geografiche, ma appartengono al regno dei simboli, e non di meno, pure i riferimenti e le determinazioni geografiche delle storie che propongono ammaestramenti morali e spirituali aiutano a decifrare e ad intendere l’arcano messaggio in esse contenuto.

Infatti la Cina nella quale vivono Aladino e sua madre non ha nulla dell’estremo Oriente: i nomi, la religione, le credenze, i costumi ai quali si fa riferimento nella fiaba sono in tutto e per tutto quelli del mondo arabo-islamico. E d’altro canto se Aladino fosse stato davvero cinese, ben difficilmente un nord-africano avrebbe potuto spacciarsi per suo zio.

Tra l’altro il Maghreb (nome che in arabo significa per l’appunto “occidente”) era una terra famosa per i suoi maghi, anzi era considerato per antonomasia il paese degli incantatori e degli stregoni, o più esattamente dei “marabutti” – chiamati anche con termine francesizzato “marabù”-.

Una "qubbah", la tomba di un "marabutto" in Africa settentrionale.
Una “qubbah”, la tomba di un “marabutto” in Africa settentrionale.

Costoro erano una sorta di eremiti e di santoni, venerati, ma talvolta pure temuti, dalla pietà popolare, che li riteneva dotati della “bàraka”, -della quale abbiamo parlato sopra-, l’energia spirituale che operava miracoli, ed in particolare poteva guarire dalle più svariate malattie, ma spesso guardati con sospetto dai custodi dell’ortodossia islamica. In origine il nome “murabit” (da cui l’italiano “marabutto”) indicava gli appartenenti ad una confraternita islamica viventi in un “ribàt”. -un convento fortificato-  (e tale è appunto il significato di “murabit” =che vive in un “ribat”), che si dedicavano alla guerra santa contro gli infedeli.

Da essi derivò il nome della dinastia degli Almoravidi (cioè dal plurale di “murabit”, al-Muràbitin), che regnò in Marocco e poi anche in Spagna nell’XI e XII secolo. Ad essa appartenne Yusuf ibn-Tashfin, il fondatore della città di Marrakesh in Marocco. In seguito tale nome passò a indicare, come si è detto, un santone, le cui intenzioni e il cui operato oscillavano tra autentica spiritualità e volgare ciarlataneria. Di questa ambivalenza si ha eco nella novellistica araba, specie quella fiorita al di fuori delle terre ove vivevano abitualmente i marabutti, in cui spesso, -come nella storia di Aladino-, essi sono rappresentati come pericolosi stregoni e truffatori.

Talora in Europa il termine “marabutto” (o “marabù”) viene usato impropriamente anche per indicare i mausolei di detti personaggi, che riscuotono anch’essi una sorta di venerazione, e che sono assai frequenti nell’Africa settentrionale, dal Marocco alla Tripolitania, costituiti in genere da una costruzione cubica, sormontata da una cupola emisferica, o direttamente su di essa o con l’interposizione di un tamburo ottagonale. Il termine esatto per designare tali costruzioni è “Qubbah”.

Un "marabù" africano (Leptoptilos crumenifer).
Un “marabù” africano (Leptoptilos crumenifer).

Infine “Marabù” è il nome volgare che è stato attribuito agli Uccelli appartenenti al genere “Leptoptilos”, della famiglia dei Ciconidi. Tale denominazione fu loro data a motivo del loro aspetto meditabondo che, allorché sostavano lungo tempo appollaiati sui rami degli alberi, rammentava agli osservatori europei l’atteggiamento di pensosi eremiti.

CONTINUA NELLA QUINTA PARTE

1) la geomanzia è un’antica arte divinatoria (lett. “divinazione con la terra”) in cui per mezzo del lancio di sassolini (o, in versione moderna, con la stesura di punti o lineette a matita o penna su un foglio di carta) si ricavano quattro figure dal significato augurale più o meno positivo o negativo, -ma la positività o negatività della “lettura” è data dell’insieme del quadro-, da cui per “filiazione” se ne ricavano altre dodici, che costituiscono il cosiddetto “scudo geomantico”.

2) la “bàraka” (letteralmente “benedizione”) è l’energia spirituale che promana dai santi musulmani, -paragonabile o identificabile con il “prana” degli Indù-, che può operare guarigioni, far concepire le donne sterili, allontanare qualsiasi malattia.

3) si tenga presente che lo stregone aveva il viso quasi completamente coperto dal velo, come era usuale per le donne (a proposito del primo incontro di Aladino con la sua futura sposa, si afferma che egli non aveva mai visto alcuna donna a viso scoperto, ad eccezione di sua madre, ormai in là con gli anni).

4) in arabo “uovo” (“bajdha”) è un sostantivo di genere femminile.

5) in effetti lo schema entro il quale si sviluppa la storia di Aladino, -ossia: un oggetto fatato, grazie al quale tutti i desideri possono essere esauditi, del quale il protagonista si appropria in luogo di qualcuno (in genere un mago) che voleva -e doveva- servirsi di lui per impadronirsene; il tentativo fraudolento con cui il rivale lo sottrae al protagonista approfittando dell’ingenuità di una sua congiunta (che può essere la sposa, la figlia o la madre) alla quale propone uno scambio; il modo con cui il protagonista sconfigge il suo avversario con l’aiuto di uno, o più, alleati, grazie ai quali torna in possesso dell’oggetto-, si ritrova in molti altri racconti della novellistica popolare in Europa, Asia e Africa settentrionale. Nella tradizione italiana la fiaba senza dubbio più simile a quella di Aladino è “La lanterna magica”, contenuta nella raccolta “Fiabe bergamasche” dell’etnologo e linguista Antonio Tiraboschi (1838-1883).

6) sebbene la prosecuzione di storie di per sè già concluse, -una sorta di “sequel”- non sia affatto rara nella narrativa fiabesca: basti pensare per al seguito, -anch’esso di solito omesso-, della celebre “La bella addormentata nel bosco” di Charles Perrault, dove la suocera della principessa si rivela essere una terribile orchessa che vorrebbe uccidere e divorare i nipotini, chiamati Sole e Aurora, -nomi che sembrano significare un contenuto allegorico della narrazione (le tenebre -l’orchessa- che cercano di sopraffare la luce-.

7) si veda quanto abbiamo detto in proposito nell’articolo su Virgilio, “savio gentil che tutto seppe”.

8) e questa è la caverna, peraltro all’interno luogo di luce e di delizia, nella quale Aladino ha trovato la lampada magica, nella quale Ali Baba  e altri eroi delle “Mille e Una Notte ” rinvengono i tesori che cambieranno la loro vita, -peraltro non sempre usandone con saggezza-; ma anche quella in cui Sara, moglie di Abramo, o Alessandro Magno, o Apollonio di Tiana, o altri illustri personaggi, a seconda delle versioni, scoprirono la “Tabula Smargdina”, il testo fondamentale dell’Alchimia tardo-antica e medioevale; il sepolcro di Neferkptah, ove il principe Setna cerca tra i molti oggetti preziosi il “Libro della Saggezza” di Thot; ecc.

9) Abu Jafar Muhammad ibn Jarir al-Tabari (839-923) eminente storico persiano e autore di un celebrato commento (“Tafsir”) del Corano.

10) gli “Ikhwan as-Safa” (“Fratelli della Purezza”) erano una società semisegreta di filosofi e di dotti fiorita a Bàssora, nell’Iraq meridionale, intorno al IX-X secolo. Essi compilarono un’opera enciclopedica costituita di 52 epistole delle quali le prime 14 trattano di matematica e astronomia; le 17 seguenti di scienze naturali, alle quali fanno seguito 10 lettere che trattano di metafisica e psicologia e 11, -le ultime- di contenuto teologico (nelle quali sono esposte le dottrine numerologiche di cui si è detto). L’orientamento filosofico espresso in tale opera mostra un carattere eclettico, con larghe influenze della filosofia greca, principalmente di quella neoplatonica nella metafisica e nella teologia . Gli Ismailiti rivendicano l’appartenenza, o quanto meno una stretta vicinanza dei “Fratelli” alla loro setta, ma questo non è affatto dimostrato, anzi improbabile, -nonostante l’indubbia affinità delle concezioni emanatistiche di questo circolo filosofico con quelle ismailite (comuni d’altra parte a moltissime dottrine mistiche)-. Per i “Fratelli della Purezza”, “il numero, che rappresenta molteplicità ed unità, è ad un tempo il principio immanente che anima ed ispira la creazione e il simbolo che aiuta a comprenderla”.

11) Fadlallah al-Astarabadi, era un ismailita originario, come dice il nome della città di Astarabad in Iran, -ora chiamata Gurgan-, nella regione del Mazandaran che si affaccia sulla costa meridionale del Mar Caspio. Abbracciate le dottrine dei “Sufi”, i mistici musulmani di tendenze gnostiche e panteistiche, fondò poi una sua scuola, -quella appunto degli “Hurufi”-, e nella sua identificazione mistica di Dio, Mondo e Uomo, arrivò a proclamare sé stesso una entità divina con il nome di “Rabb al-Alamin” (“Signore dei Mondi”). Morì giustiziato per ordine del sultano Miranshah, figlio di Tamerlano, non si sa se per eresia o per ragioni politiche (o forse per entrambe le ragioni).

12) Sohravardi nelle sue opere, -quali “La teosofia dell’illuminazione”, “Il libro dei confronti”, la “Storia dell’esilio occidentale”-, rivalutò anche gli insegnamenti dell’antica religione mazdaica, che cercò di conciliare con l’Islam in un sistema di tipo gnostico-neoplatonico nel quale ha particolare rilevanza il tema della “luce” che si identifica con l’Uno e con lo Spirito. Per queste idee, considerate eretiche, egli venne in sospetto delle autorità religiose, subì persecuzioni e probabilmente fu condannato a morte.

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