SUGLI ANGELI E SUI DEMONI (nona parte – le Empuse)

In alcune aree dell’Italia meridionale, e segnatamente in Sicilia, l’orchessa-strega antropofaga, dotata di spiccati caratteri animaleschi, ha spesso il nome di “Mamma-Draga” (o “Mammadraga”), per quanto questo essere non sembri avere nulla del drago in senso proprio; ad essa è talvolta attribuito un compagno (“Mammo-Drago”), il quale tuttavia, anche quando compare nelle fiabe popolari, ha una rilevanza assai minore sia sul piano narrativo sia per il modesto impatto che esercita verso il/la protagonista della storia, poiché in effetti si mostra assai meno malvagio e pericoloso della “Mamma-Draga”.

Da quanto si può riscontrare nella tradizione fiabistica italiana quale è stata studiata ed esposta in diverse raccolte regionali, in particolare nelle “Fiabe siciliane” trascritte nella seconda metà dell’800 dall’insigne folklorista Giuseppe Pitrè, non viene mai fatta una descrizione completa della “Mamma-Draga”; al massimo se ne rileva qualche particolare animalesco, dal quale il protagonista comprende di avere a che fare con tale creatura, poiché, come molte delle streghe e lamie che abbiamo visto finora, ha la capacità di assumere un aspetto rassicurante e di mostrarsi benevola e umana per trarre in inganno le sue vittime potenziali. Ad esempio nella fiaba “Mastro Francesco mangia-e-siedi” (n. 127 nella raccolta del Pitrè e n. 168 nelle “Fiabe italiane” di Italo Calvino) la sua vera natura è tradita dalla lunga coda nera e pelosa che viene notata dal protagonista e che fa pensare a una coda di lupo; ed in effetti in genere essa, tanto per gli scarsi particolari fisici che le vengono attribuiti, quanto per il comportamento, appare assai più simile a un lupo -secondo gli stereotipi negativi che quest’ultimo presenta nella narrativa popolare-, che a un drago. La figura della Mamma-Draga potrebbe quindi riconnettersi o essere la continuazione della Mormolyke (la “lupa cattiva”) dell’antica Grecia; ma da d’altro canto ritroviamo in essa le valenze negative attribuite al lupo e il severo giudizio che veniva dato su di lui (e che talora persiste tuttora), specie dalle popolazioni che si dedicavano e che vivevano soprattutto di pastorizia, -perché attaccando le mandrie domestiche per sfamarsi era visto come un pericoloso concorrente e ladro (più che per amore degli ovini sue vittime)-.

Un descrizione accurata della Mamma-Draga ci è invece offerta dallo scrittore Luigi Capuana (1839-1915), il quale oltre che di numerosi romanzi e novelle, fu fecondo autore di diverse raccolte di fiabe, che, sebbene siano il frutto della sua personale inventiva, sono costruite con le trame, i personaggi e gli elementi propri della tradizione fiabistica popolare italiana, specie quelle siciliana e toscana, che egli dimostra di conoscere assai bene.

In una delle sua fiabe, intitolata appunto “La Mammadraga” (quarta de “Il Raccontafiabe”), lo scrittore fa un ritratto con dovizia di particolari di questo essere: “Invece della bella signora [come abbiamo detto sopra ella in un primo tempo si mostrava con un aspetto attraente alle sue vittime] (la bambina protagonista della fiaba) si vide innanzi una brutta megera, con naso ricurvo che toccava il mento, e per capelli tanti serpenti che si agitavano aggrovigliandosi, battendole sulle spalle, avvolgendolesi attorno al collo. Serpenti per braccialetti, serpentelli alle dita a mo’ di anelli: e non più la vesta di seta a ricami d’oro, ma di strane pelli di bestie selvagge”; l’autore aggiunge poi una suggestiva descrizione dell’ambiente dove vive la Mammadraga: un antro oscuro con le pareti affumicate, pieno di gatti neri, rospi, gufi e pipistrelli, in cui l’aria era ammorbata da un fetore di carne bruciacchiata, rappresentazione peraltro piuttosto convenzionale, -e quasi “disneyana”- dei covi delle creature malefiche. Invero le fiabe del Capuana, come in genere quelle d’autore, sotto questo aspetto si differenziano alquanto dalla narrativa popolare poiché quest’ultima è di norma povera di particolari descrittivi ed esornativi, e si concentra assai più sull’azione che sulla descrizione, facendo emergere il carattere e le qualità sia fisiche sia morali dei personaggi dai loro comportamenti; pur se in alcune aree, soprattutto in Toscana, in Campania e in Sicilia, i narratori interpellati dai folkloristi dell’800 e dei primi anni del 900 per esporre e studiare il materiale narrativo della tradizione popolare (o quanto ne rimaneva) mostrano, specie quelli di provenienza urbana, una maggior esuberanza e vivacità nel racconto, indulgendo talora a descrizioni abbastanza elaborate, nelle quali è possibile vedere una testimonianza di letteratura colta, discesa per qualche via nei ceti popolari.

Nell’immagine della Mammadraga creata dal Capuana è più che evidente la memoria dell figura mitologiche dell’antichità, specie nella chioma serpentina che richiama immediatamente le anguicrinite Gorgoni, per cui è probabile che nell’attribuire questo aspetto alla demonessa egli si sia ispirato alla sua cultura classica più che agli scarsi elementi offerti dal folklore e dalla narrativa popolare, che sono di solito assai vaghi e generici; sebbene, come abbiamo sopra detto, questi scarsi elementi lascino presumere che la Mammadraga fosse immaginata come una donna-lupa. Tuttavia dobbiamo osservare che in codesta fiaba in effetti si riscontra un forte legame con la lupa, non tanto nelle pelli di bestie selvagge delle quali l’orchessa appare vestita, quanto nella trama stessa: infatti la protagonista della fiaba è una bambina maltrattata e perseguitata dalla matrigna (“topos”  tra i più frequenti nelle fiabe) che incappa nelle insidie della Mammadraga proprio per tentare di sfuggirle; ella riesce poi a sottrarsi alla triste fine preparatale dall’orchessa grazie alla protezione di una fata e dell’anellino da lei donatole. La matrigna cattiva però, in seguito a una maledizione, viene mutata in lupa, e diviene complice e “collaboratrice” della Mammadraga. In tal modo, come avviene pure in altre fiabe le due figure negative, quella della matrigna e quella della strega od orchessa, si intrecciano e si intersecano, tanto che si possono considerare come i due aspetti del medesimo archetipo: la strega nelle cui grinfie il/la protagonista (o i protagonisti) della fiaba vanno a finire appare come un “alter ego” della matrigna alle cui angherie volevano sfuggire, o dalla quale erano stati cacciati e abbandonati (come, per citare un esempio tra i più conosciuti, in “Hansel e Gretel”); ma talvolta le due figure possono anche coincidere nella stessa persona: si pensi ad esempio a “Fratellino e sorellina” o “Biancaneve”.

Anche il fatto che le streghe antropofaghe si mostrino all’inizio in forme attraenti e seduttive, abbigliate con ricche vesti -che simboleggiano finte virtù-, ovvero come rassicuranti vecchiette dai modi gentili e premurosi, fa suppore che esse siano una continuazione delle antiche Lamie. Secondo un’interpretazione psicanalitica, esse incarnano il “lato oscuro” della maternità, che si sostanzia sia in un’ostilità inconscia (ma talora preconscia, o addirittura consapevole) dei genitori verso la propria progenie, sia nel tentativo di “inglobare” i figli dentro sé stessi, quasi affinché tornino a ricongiungersi con la genitrice da cui si erano staccati: in questo senso “mangiare” i bambini starebbe a significare il reintrodurli nel grembo materno. La strega che rapisce o divora i figli delle altre donne, essendole stati sottratti i propri (come a Lilith e Lamia), agisce in tal modo per vendetta e per sfogare il suo dolore e rancore, ma anche per compensazione, poiché si vuole appropriare dei figli altrui per sostituire i propri che non ha più.

Non sarebbe azzardato ipotizzare anche un’analogia anche con le “maghe incantatrici” presenti nei poemi cavallereschi italiani, le quali sono l’incarnazione dell’inganno dei sensi, della seduzione perditrice, del fascino irresistibile che si rivela poi, quando l’eroe riacquista il dominio di sé stesso, la falsa copertura della lussuria divorante che abbassa gli uomini ad una condizione subumana e li priva della libertà. In particolare potremmo ricordare la maga Alcina, protagonista dei canti VI e VII dell'”Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto, la quale trasformava gli amanti dei quali si era stancata in piante. E’ evidente la stretta affinità di Alcina da un lato con l’oscura e inquietante Morgana del ciclo dei poemi bretoni -e della quale nel poema ariostesco è detta sorella (sebbene Alcina non appaia nel ciclo arturiano)-, dall’altro con Circe, anch’essa incantatrice per antonomasia, con la variante che mentre quest’ultima mutava gli uomini in quadrupedi, ella li trasforma in piante. Ed in pianta, e precisamente in mirto, era stato mutato Astolfo, che narra la sua triste storia a Ruggero, giunto sull’Ippogrifo nell’isola fatata dimora di Alcina e della sorella Morgana -nonché da una terza sorella, la quale, a differenza delle altre due, era buona e saggia, chiamata Logistilla-. Ma l’analogia sta soprattutto nel fatto che pure Alcina alla fine, quando l’effetto del suo incantesimo è annullato dal magico anello consegnato ad Astolfo da una maga benefica, Melissa (anello che naturalmente è il simbolo dell’intelletto che sa discernere la vera natura e l’autentico valore delle cose, -si ricordi l’anellino che protegge la bambina protagonista della fiaba del Capuana di cui abbiamo parlato prima-), e viene smascherata la sua reale natura, ella appare con l’aspetto di una vecchia e orrida -nonchè bassa- megera.

Ma quelle considerate le più pericolose e temute tra gli spiriti femminili tenebrosi del mondo classico erano le “Empuse”, alle quale abbiamo già alcuna volte accennato. A differenza delle entità demoniache viste in precedenza (lamie, mormolykai, ecc.), -con le quali venivano talora confuse-, non erano rapitrici e divoratrici di fanciulli, ma vere e proprie vampire, che per soddisfare le loro brame e la loro sete di sangue seducevano gli uomini giovani e forti (e in genere anche belli), ai quali sottraevano tutte le energie vitali. Esse avevano inoltre la deplorevole abitudine di spaventare i viandanti con le loro apparizioni improvvise; tuttavia per scacciarle bastava inveire contro di esse ricoprendole di insulti -sempre che i malcapitati avessero il sangue freddo necessario per reagire di fronte al loro aspetto e alle loro grida ben poco rassicuranti-. E’ quasi certo che le Empuse altro non siano che il “Lillim” palestinesi -i figli di Lilith-, trapiantati, -sebbene in forma solo femminile, che riproduceva nell’aspetto e nel comportamento quella della madre- in terra ellenica e poi in altri paesi, come quelli dell’area balcanica, dove la credenza nelle succhiatrici di sangue attecchì in modo particolare e si è perpetuata fino all’età moderna-. L’origine palestinese è confermata anche dall’aspetto loro attribuito, simile a quello dei citati Lillim (e della loro madre Lilith): chioma rossastra, colorito spesso bluastro e alcune parti del corpo asinine; talvolta erano immaginate con natiche di asina e calzate con sandali di bronzo; ma più di frequente con una gamba di asina e una di bronzo. Potevano peraltro assumere le sembianze di cagne, di asine, di mucche o di altri animali, ma soprattutto quelle di avvenenti fanciulle sotto le cui spoglie seducevano gli uomini o si introducevano nei loro giacigli durante la notte o la siesta pomeridiana per suggerne le forze vitali. A codesto comportamento è forse dovuto il loro nome, -un participio presente attivo-, di solito interpretato come “coloro che si intromettono “o si introducono-” (da “en” -in-, e “poieo, -ein” = porre, mettere).

Una significativa testimonianza, -pur se in un contesto comico-, del timore che le Empuse dovevano incutere nel popolo la troviamo nella commedia “Le Rane” di Aristofane (vv. 288 e seguenti). Dioniso, in qualità di dio dell’arte drammatica, è disceso nell’Ade in compagnia del suo servo Xantia allo scopo di ricondurre sulla terra il tragediografo Euripide; i due, dopo aver attraversato l’Acheronte, si trovano nella zona infernale abitata dai mostri. Xantia ode dei rumori sospetti che lo fanno trasalire; intravvede poi una figura sconosciuta e inquietante, che cambia continuamente il suo aspetto, e la descrive a più riprese nei particolari a Dioniso: quando capiscono che si tratta di un’Empusa, i due visitatori dell’oltretomba, ad onta della baldanza iniziale, e della condizione divina di uno dei due, si mostrano terrorizzati e si allontanano da quel luogo il più velocemente possibile.

Ma l’Empusa più celebre della letteratura e della storia è quella che compare in un brano della “Vita di Apollonio di Tiana” di Flavio Filòstrato (detto anche Filostrato l’Ateniese). Apollonio di Tiana era un filosofo, asceta e taumaturgo di ispirazione pitagorica, vissuto tra il I e il II secolo, la cui figura fu spesso paragonata (talora contrapposta e talora affiancata) a quella di Cristo (1). La sua biografia fu scritta agli inizi del III secolo da Filostrato su invito di Gliulia Domna, consorte dell’imperatore Settimio Severo (regnante dal 193 al 211), la quale gli consegnò all’uopo il diario del discepolo prediletto del filosofo, Damide di Ninive, ove erano narrate le vicende, gli insegnamenti e i miracoli compiuti dal suo maestro, e del quale Damide stesso aveva fatto dono a un antenato dell’imperatrice; lo scritto di Damide fu la base della biografia di Filostrato, il quale però lo integrò con altre fonti minori.

Dipinto romano raffigurante Scilla e Cariddi.

In questo brano della biografia (IV, 25) si narra che Menippo, un discepolo di Demetrio di Corinto, a sua volta seguace di Apollonio di Tiana, giovane di 25 anni dall’aspetto aitante e attraente, il quale viveva a Corinto, incontrò un giorno una leggiadrissima fanciulla e se ne innamorò perdutamente. Dopo qualche tempo volle unirsi a lei in matrimonio; invano Apollonio mise in guardia il suo giovane amico dall’insidia che gli era stata tesa, ma egli insistette per sposare quella che credeva una devota innamorata. Ma poco prima che il rito fosse celebrato, Apollonio si presentò alla festa di nozze asserendo che tutte le preziose suppellettili che ornavano la sala nuziale erano solo illusorie apparenze e dichiarò che la futura sposa di Menippo altro non era che una empusa, la quale lo aveva circuito con le sue ingannevoli grazie per farne la sua vittima. Ella si adirò alle parole del filosofo cercò in ogni modo di zittirlo; ma all’improvviso scomparvero tutti gli ornamenti e le suppellettili d’oro e d’argento della sala, nonché i cuochi, i coppieri e i valletti presenti nella casa della donna. Alla fine l’empusa, smascherata, dovette confessare la sua autentica natura e mostrare il suo vero aspetto, dichiarando che “per nutrirsi ella sceglieva sempre giovani belli e forti, perché avevano il sangue assai fresco”.

E’ da osservare il fatto che nell’opera di Filostrato, – che si colloca agli inizi del III secolo-, le Empuse da un lato sono esplicitamente accomunate alle Lamie e alle Mormolike, così che tali termini vengono in pratica ad essere sinonimi, annullando le differenze che in origine distinguevano queste figure demoniache; dall’altro esse sono in modo altrettanto esplicito considerate dei fantasmi, ovvero degli spiriti di persone defunte, e non già come entità spiritiche con una specifica caratterizzazione quali erano nei tempi più antichi, e quindi appaiono in tutto e per tutto dei vampiri, dei “non morti”, che abbisognano del sangue umano per prolungare la propria esistenza mondana e per appagare le brame insoddisfatte nella vita terrena.In  questo episodio peraltro, tenendo conto del carattere dell’opera, l’empusa è da considerarsi soprattutto come simbolo delle tentazioni sensuali che insidiano anche coloro che intendano seguire la via della conoscenza e della filosofia.

Un’altra empusa della letteratura greca è Philinnion, protagonista di una storia “nera” compresa nel Περì Θαυμασíων” (“Sui fatti mirabili”, detto anche “Libro delle Meraviglie”) di Flegonte di Tralles, erudito greco vissuto nella prima metà del II secolo, liberto dell’imperatore Adriano, libro che tratta di mostri, lupi mannari, fantasmi e vampiri. La storia di Philinnion, una fanciulla nubile morta prematuramente il cui spettro torna dall’al di là, avvenuta in Macedonia nel IV secolo a. C., al tempo del re Filippo (il padre di Alessandro Magno), è narrata nella prima parte di quest’opera; benché il libro di Flegonte di Tralles sia stato tramandato pressoché intatto, manca il principio della vicenda, la cui parte rimasta comincia dal momento in cui la nutrice della fanciulla defunta dopo aver varcato la soglia della camera di uno degli ospiti della locanda gestita dai genitori di Filinnio, ove dormiva un giovane di nome Machates, al tenue chiarore della lucerna scorge una fanciulla, in tutto simile a quella che era stata affidata alle sua cure, giacere a fianco dell’uomo. Sbigottita dal prodigio, la donna corre a chiamare i genitori di Filinnio, chiamati Carito e Demostrato, e intende condurli a vedere con i loro occhi l’incredibile fenomeno. Dapprima però Carito non volle credere a quanto andava dicendo la nutrice e la accusò di essere impazzita, comandandole di allontanarsi senza indugio. Ma poi, un po’ perché spinta dalla nutrice, un po’ perché voleva accertarsi con i suoi occhi di quanto fosse accaduto, si affacciò dalla soglia della camera degli ospiti. Distinse allora le vesti della figlia ed i suoi lineamenti nella figura umana che ivi giaceva. Tuttavia non volle andare oltre e stabilì che il mattino seguente avrebbe chiesto spiegazioni a Machates. Questi all’inizio apparve alquanto inquieto e reticente, ma alla fine ammise che si trattava proprio di Filinnio; e per corroborare le sue parole mostrò a Carito un anello d’oro e una fascia pettorale che la fanciulla gli aveva lasciato la notte precedente. Non appena vide e riconobbe quegli oggetti che confermavano il racconto di Machates, la madre si strappò le vesti e cadde a terra svenuta. L’ospite di fronte a tali manifestazioni di dolore, quasi Filinnio fosse appena morta, cercò di confortare Carito dicendole che se la figlia fosse tornata da lui, gliela avrebbe mostrata.

Scesa la notte, Filennio giunse all’ora in cui soleva far visita al suo amante; questi non riusciva a capacitarsi che colei con la quale aveva diviso il giaciglio, che aveva mangiato e bevuto con lui fosse davvero defunta e pensava che dei ladri avessero violato il sepolcro di Filinnio e avessero poi venduto gli abiti e il corredo funerario ivi trovato al padre della fanciulla. Volendo dunque accertarsi di questo, mandò alcuni suoi garzoni a chiamare Demostrato e Carito; una volta giunti nella stanza, essi vedendo dinanzi a loro la figlia, dapprima rimasero attoniti, ma poi con esclamazioni di letizia abbracciarono la figlia, la quale disse loro: “Madre, padre, che vi siete angustiati per il fatto che mi sia trattenuta col vostro ospite per tre giorni, pur senza aver causato alcun danno o fastidio, ora dovrete piangermi di nuovo a cagione della vostra curiosità! Ora devo tornare al luogo a me designato. Ma sappiate che venni qui per ottemperare alla divina volontà!”. Dette queste parole, cadde morta e il suo corpo fu deposto sul letto circondato dallo strazio dei familiari.

Si diffuse intanto nella città [Pella, capitale della Macedonia] la fama di tale singolare e ammirabile evento e nella tarda mattinata del dì seguente una grande folla si radunò nel teatro e si decise di andare a controllare se il cadavere della fanciulla si trovasse ancora nel sepolcro, ovvero se quest’ultimo fosse vuoto. Una volta entrati nella camera tombale, ove erano sepolti i defunti della sua famiglia (2), sul catafalco dove sei mesi prima era stato deposto il corpo di Filinnio si trovarono un anellino di ferro e una coppa indorata, che le erano stati donati da Machates il primo giorno della permanenza di costui nella sua casa. Allora gran parte dei presenti si recarono alla locanda di Demòstrato, ove si rinvenne il cadavere di Filinnio; dopo di che tutto il popolo si riunì in assemblea per deliberare circa il prodigioso evento che era avvenuto nella città. Si alzò allora un certo Hyllos, riconosciuto come un autorevole e veridico indovino, il quale propose di seppellire il corpo di Filinnio oltre le mura della città e di celebrare un sacrificio espiatorio in onore di Hermes Chtonio (Infero) e delle Erinni e poi riti di purificazione sia delle persone sia degli edifici. Quanto a Machates, sconvolto da quella triste vicenda, non resistette al dolore e si diede la morte.

Nel racconto di Flegonte la figura dell’empusa ha perso qualunque tratto orrorifico e non appare come uno spirito malefico che vuole saziarsi del sangue e delle energie vitale di giovani vivi onde perpetuare la propria umbratile esistenza, ma è spinta a tornare nel mondo dei vivi soltanto dalla pietà per i genitori e in accordo con la volontà divina. Si osserva dunque una sorta di evoluzione nella credenza delle Lamie-Empuse: da demoni non umani del mondo astrale che tormentano o terrorizzano i vivi, o ne divengono parassiti; a spiriti disincarnati di defunti, che vengono sulla terra per esercitare un’opera nociva; a fantasmi innocui, che appaiono ai vivi per  consolarli della loro dipartita e talora portare loro una sorta di “messaggio”.

La credenza nel “vampirismo”, cioè che entità spiritiche non umane, -demoni-, ovvero entità umane disincarnate, o anche in certi casi persone viventi dotate di un corpo fisico, possano, obbligatoriamente o in via facoltativa, assorbire le energie vitali di altri esseri, -energie simbolizzate nel sangue, fluido vitale per eccellenza-, è ampiamente diffusa presso svariate popolazioni, lontane nel tempo e nello spazio -dalla Cina all’America meridionale, ed anzi pressoché universale; tuttavia nella sua versione “classica”, resa nota soprattutto dalla letteratura “gotica” e dal cinema “horror”, il “vampiro” tipo è proprio delle culture balcaniche (ed infatti il termine “vampiro” deriva proprio dal serbo-croato). Che gli spiriti dei defunti possano in parte revivificarsi mediante il sangue di vittime sacrificali ed uscire quindi dalla loro condizione umbratile, riacquistando così una sorta di temporanea esistenza personale, era convinzione comune pure delle antiche genti elleniche, ed attestata in modo chiaro nell’XI libro dell’Odissea, ove Ulisse, sceso nell’Ade per consultare l’indovino Tiresia su quanto avesse per lui in serbo il destino, può ottenere il responso soltanto dopo aver offerto in sacrificio due vittime, -una pecora e un ariete, entrambi neri, come era indispensabile nei sacrifici celebrati per le divinità e gli spiriti inferi (delle quali l’ariete era specificamente destinato a Tiresia)-, alle ombre dei defunti, accorse in frotta per suggere con avida impazienza il sangue dei due animali sacrificati e trovare in tal modo un po’ di sollievo dalla desolato abbandono in cui versano (3).

In Grecia e poi a Roma le Empuse furono associate ad Ecate, la misteriosa dea protettrice di quanto è oscuro e tenebroso, che dall’età classica fu ritenuta patrona degli incantesimi e guida delle schiere di spiriti infernali che aggirano per le plaghe celesti nelle notti di novilunio -e che quindi presentano indubbie analogie con la “caccia selvaggia” delle saghe nordiche (4)-; in effetti però nelle epoche più antiche aveva una valenza più positiva e nella “Teogonia” (vv.411-452) di Esiodo, che le dedica un ammirato inno di lode, appare come una divinità cosmica, figlia dei titanidi Perse ed Asteria, la quale esercita la sua benefica influenza nei tre regni -del Cielo, della Terra e degli Inferi- di cui è costituito il cosmo, ma in seguito prevalse l’ultima di queste attribuzioni e Ecate divenne per eccellenza una dea della notte e dei morti. Forse per tale ragione ella fu sempre vista in stretta relazione con Selene la Luna piena, così da essere considerata la personificazione della Luna nuova (o della Luna nera); e come Selene era legata ad Artemide (e a Diana per i Romani) a sua volta anche Ecate divenne un “alter ego” di quest’ultima; d’altro canto indubbia appariva anche la sua affinità con Persefone-Proserpina, la regina degli Inferi, sposa di Plutone: in tale modo Ecate, Selene e Persefone furono concepite come tre aspetti di un’unica entità divina, e pertanto molto spesso Ecate fu definita “triplice” o “triforme”: mentre ai tempi di Esiodo tale qualifica metteva in risalto il suo dominio nel trimundio, in età ellenistico-romana sottolineava invece la complementarietà, se non l’identificazione delle tre dee summenzionate. Per questo nell’iconografia era quasi sempre rappresentata con tre teste, e talora anche tre corpi; le teste poi non di rado, specie in età tarda, quando la sua figura fu investita dalle speculazioni misteriosofiche, divennero di leonessa, di cavalla e di cagna. A motivo della sua triplice natura fu venerata anche come dea dei trivi, dove spesso erano posto un simulacro triforme o un palo sormontato da tre maschere, e dove venivano lasciate offerte di cibo (che venivano poi consumate dai poveri).

Era dunque naturale che le Empuse entrassero a far parte delle schiere infere che accompagnavano Ecate nelle sue scorribande notturne, salutate dagli ululati dei cani, animali che le erano particolarmente cari, e talora fossero persino considerate sue figlie, sebbene secondo la maggior parte degli autori la misteriosa dea fosse vergine e pertanto priva di prole (5).

CONTINUA NELLA DECIMA PARTE

Note

1) di Apollonio di Tiana abbiamo parlato o accennato diverse volte nelle nostre ricerche.

2) la storia si immagina narrata da un testimone del fatto che in una lettera ne fa un racconto ad un suo amico.

3) tale credenza è stata in parte suffragata dalla scienza, quanto meno quella “alternativa”, che ha ammesso il fatto esistano scambi di energie tra esseri viventi (bilaterali o unilaterali), e che quindi alcuni, o molti, di essi siano in grado, in modo volontario o involontario, cosciente o inconsapevole, di assorbire una parte della forza vitale di altri tramite un contatto fisico più o meno stretto e frequente.

4) in effetti Ecate presenta indubbie analogie con divinità dell’Europa settentrionale, come la Hel germanica e scandinava e soprattutto la “triplice Morrigan” irlandese, dea -o trinità divina- del destino, della guerra e della vendetta, con la qual presenta molti punti di contatto. Solo in età tarda è possibile che abbia acquisito alcune caratteristiche delle dee semitiche Anat ed Ereshkigal, oltre che di Lilith, con le quali però in origine non aveva alcuna affinità, né genetica, né analogica.

5) Da Apollonio Rodio, -in Argonautiche, IV, 827-, Ecate è detta madre di Scilla, che avrebbe avuto dal dio marino Forco, o Forchis, mentre secondo Diodoro Siculo (Bibl. Historica, IV, 25, 1) sarebbe stata genitrice di Medea, Circe (famose maghe e incantatrici) ed Egialeo. Ma secondo la tradizione più comune, -si veda ad es. l’Epitome alla Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro, 7- Circe era ritenuta figlia di Helios e di Perse, mentre Medea aveva come genitori Eeta, fratello di Circe, ed Asterodia (o di Idia); quanto ad Egialeo, era figlio di Inaco e di Melia (da non confondere con l’omonimo figlio di Adrasto, che partecipò alla seconda guerra contro Tebe).

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2 Risposte a “SUGLI ANGELI E SUI DEMONI (nona parte – le Empuse)”

  1. Sto facendo delle ricerche su Giuseppe Pitrè e le sue fiabe siciliane.
    Ho trovato molto interessanti i riferimenti alle Mamme -draghe e i paralleli con altre figure mostruose delle fiabe, leggende e miti di vari paesi.

    Vorrei saperne di più
    Grazie
    Anna Maria de Majo

    1. Grazie per l’apprezzamento. Negli ultimi tempi, a causa di impegni pressanti, non ho potuto pubblicare nuovi articoli, ma spero quanto prima di poter proporre altre ricerche sugli argomenti che La interessano.

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