SUGLI ANGELI E SUI DEMONI (decima parte -il “Testamento di Salomone”-)

Un demone femminile affine alle Empuse, e che quindi rientra nell’ambito dei vampiri “astrali” (ovvero entità o umane disincarnate o spiriti di grado inferiore) è “Onoskelis”, nome che significa “gamba d’asino” e che pertanto la qualifica sia per l’aspetto, sia per il comportamento come un’entità vampirica. Questo demone compare nel “Testamento di Salomone”, un testo apocrifo che, secondo le opinioni prevalenti degli studiosi, fu redatto in ambiente giudaico, riprendendo e fondendo varie tradizioni e leggende sulla figura dell’antico re ebraico, divenuto paradigma del sovrano “sapiente”, in lingua ebraica o aramaica, probabilmente nel I secolo, ma tradotto in greco e rielaborato nel III secolo da autori cristiani (1). Esso narra come il re Salomone riuscì a costruire il grande tempio di Gerusalemme servendosi dell’opera di demoni, che egli aveva il potere di soggiogare per mezzo di un anello magico donatogli dall’arcangelo Michele. Questo testo è molto interessante perché la figura dell’antico re ebraico vi appare già pienamente trasfigurata come quella di un potente mago che aveva la facoltà di sottomettere ai suoi voleri tutti gli spiriti e i demoni (elementali, cosmici, astrali e disincarnati) e di indurli ad obbedire ai suoi comandi. Codesta trasfigurazione del sovrano biblico, il quale peraltro già nell’AT è presentato come modello di sapienza e di saggezza, caratterizzerà poi tutta la tradizione medioevale, -cristiana, giudaica e islamica-, tanto che a Salomone saranno attribuiti innumerevoli trattati di magia, tra i quali la famosa “Clavicola di Salomone” (“clavicola” nel senso di piccola chiave -latino “clavicula”-, diminutivo di “clavis”, = “chiave”, chiave che consente di aprire le porte del mondo degli spiriti).

Ricostruzione moderna del tempio di Salomone a Gerusalemme (ricordiamo che le attuali rovine non sono quelle del tempio originario, completamente distrutto da Nabucodonosor nel 586 a. C. allorché il regno di Giuda fu conquistato dai Neobabilonesi, ma del “secondo tempio” edificato dopo il ritorno degli esuli nel V sec. a. C. e poi ampliato e restaurato da Erode.

Il “Testamento di Salomone” è importante anche perché nella narrazione alle credenze giudaiche del periodo post-esilico ed ellenistico, ove le dottrine su angeli e demoni avevano parte preponderante, si trovano mescolati elementi chiaramente derivati o influenzati dai miti e dalle tradizioni elleniche, tra i quali possiamo annoverare anche Onoskelis, -sebbene, come abbiamo precisato nelle parti precedenti, le Empuse, almeno nella forma più antica, presentino tratti che le fanno ritenere importate dall’ambiente palestinese-. Ella è descritta infatti come uno spirito notturno che abita abitualmente in grotte, caverne, strapiombi e altri luoghi oscuri e tenebrosi; che può assumere diverse forme, ma apparendo soprattutto come donna affascinante, per insidiare e sedurre gli uomini, soprattutto quelli di carnagione scura, per poi congiungersi con essi. Il suo vero aspetto è però quello di una donna di colorito chiaro, o azzurrognolo (non è dato sapere se da questo derivi la sua preferenza per gli uomini mori, ma sembrerebbe che tale preferenza sia dovuta al fatto che i mori siano più focosi e passionali), dalla chioma bronzea con le gambe d’asino.

Quanto alla sua nascita ella stessa afferma: “Fui generata da una voce inattesa, che è detta voce dell’eco del cielo nero, e risuona nella materia”. La sua origine farebbe dunque pensare a un’emanazione, come quelle delle cosmogonie gnostiche; o anche con maggiore probabilità a una sua generazione nel “Mondo delle Tenebre”, il mondo parallelo, contrapposto e coeterno al “Mondo della Luce” nella metafisica e nell’ontologia delle dottrine manichea e mandea.

Pensando di fare cosa gradita ai lettori (e in considerazione del fatto che tale opera non è facilmente reperibile) esporremo ora un breve riassunto del “Testamento di Salomone” (2).

Si narra che un giovane suddito del re Salomone, il quale sovrintendeva ai lavori di edificazione del tempio, cadde vittima della persecuzione di un demone, Ornias, che gli rubava metà della sua razione di cibo e del suo compenso; e non si accontentava di questo, ma tutte le notti si nutriva del suo sangue, che sgorgava copioso dal pollice (dunque anch’egli presentava caratteri vampireschi e di “incubus”, poiché gli sottraeva l’energia vitale). Un giorno il giovane non riuscendo più a sopportare questa infelice e incresciosa situazione, si recò dal re Salomone e gli svelò le angherie che doveva subire ad opera del demone (oppure in alcune versioni è il re stesso il quale, notando il dimagrimento del giovane, gliene chiede ragione e viene dunque a conoscenza del fatto). Sconvolto dal racconto del giovane, il re trascorse una intera notte nel tempio (che quindi sebbene ancora in costruzione, doveva essere già in buona parte compiuto) pregando Dio di conferirgli il potere di dominare i demoni. In risposta alle sue preghiere, comparve davanti a lui l’arcangelo Michele, che fece dono a Salomone di un piccolo anello di oro e rame, ornato da una pietra (che nel testo non viene specificata) incisa con l'”esagramma”, detto anche “esalfa”, -ossia due triangoli intrecciati, recanti al centro il “tetragrammaton”, il nome ebraico di Jahwè, dotato di potenti virtù apotropaiche (in grado di allontanare demoni, malefici e influssi negativi in genere): i due metalli di cui è costituito l’anello sono un evidente simbolo delle polarità cosmiche (maschile-femminile; luce-ombra; spirito-materia; attivo-passivo; ecc.), che sono opposte e complementari e di cui si sostanzia l’unità primordiale.

Salomone viene consacrato re d’Israele.

Quando il demone, inconsapevole del fatto che Salomone fosse venuto a conoscenza della sua prepotenza e della sua azione parassitica, si recò dal giovane per riscuotere il suo obolo, quella che era stata la sua vittima estrasse l’anello con il quale potè assoggettare il demone, che indi condusse al cospetto del re. Ornias, rispondendo ad una domanda di Salomone, gli manifestò di essere uno spirito zodiacale dell’Acquario e di potersi a trasformare a suo piacere sia in donna avvenente, nella cui forma sedurre gli uomini, sia in feroce leone, -oltre che apparire nel suo normale aspetto di genio alato-. Afferma altresì di essere figlio dell’arcangelo Uriel (e questo conferma come nell’angelologia e nella demonologia giudaica, come poi in quelle islamiche, la distinzione tra “angeli” e “demoni” non fosse così netta come nel cristianesimo). Davanti alla minaccia di Salomone di costringerlo a lavorare per lui all’edificazione del tempio, Ornias promette che se gli sarà fatta grazia condurrà alla presenza di lui tutti i demoni del Cielo e della Terra. Per mezzo della potenza dell’anello, che fu all’uopo prestato ad Ornias, tutti i demoni furono così costretti a presentarsi al cospetto del sovrano, il quale li indusse a svelare i loro più occulti segreti e soprattutto le formule per neutralizzare le loro opere.

Il primo ad essere condotto davanti a Salomone fu Beel-zeboul (Belzebù), il re dei demoni, colui che ha il potere di rendere visibili gli spiriti agli uomini. Egli spiegò al sovrano che tutti i demoni avevano uno specifico campo d’azione e un compito preciso. Salomone chiede se tra i demoni esistano anche entità femminili e Belzebù risponde in modo affermativo e quale rappresentante delle demonesse fa apparire Onoskelis (3), che abbiamo già descritto in precedenza; ella dichiara altresì di essere soggetta solo alla sapienza di Salomone, in quanto detentore dell’anello, e alla potenza dell’angelo Gioele.

Appare quindi Asmodeo, metà angelo e metà uomo (nel senso che è figlio di un angelo e di una donna umana), spesso furioso ed urlante; la sua sfera ‘azione e competenza specifica è quella di far naufragare i matrimoni, istigando gli sposi alla licenziosità e al tradimento, e di fomentare in generale la lussuria e la scostumatezza nel privato e nel pubblico. Soltanto l’intervento dell’arcangelo Raffaele, propiziato dalla fumigazione nell’aria di un incenso composto di noce di galla e del fegato del pesce “Glanos”, bruciato sul legno di tamarindo (o di tamerice) possono sconfiggerlo e annullare i perniciosi effetti della sua opera. Il pesce Glanos è identificato nel pesce gatto; nel testo si precisa che questo pesce si trova specialmente nei fiumi dell’Assiria, e pertanto i demoni non frequentano tale regione (4).

A questo punto viene di nuovo convocato Belzebù, il quale afferma di governare su tutti coloro che abitano nel Tartaro, e che il suo ufficio è quello di sopprimere i regnanti, di arrecare distruzione mediante i tiranni, di suscitare peccati immondi ed azioni esecrabili nei sacerdoti e di portare nel mondo discordia, invidia, guerre e delitti. Solo la forza di un nome aveva il potere di dominare le sue forze e la sua volontà: EMMANUEL, rappresentato da una sequenza di numeri la cui somma è 644; egli spariva inoltre all’istante allorché venisse pronunciata la parola “eleeth”.

Belzebù rivela di avere un figlio che abitava sulle rive del mar Rosso, di vedere il quale Salomone manifesta il suo desiderio; ma il re dei demoni risponde che gli condurrà invece un altro spirito, chiamato Ephippas, anch’egli dimorante sul mar Rosso. Il re dei demoni insegna poi a Salomone un rituale per evocare i demoni che consiste nell’ardere insieme gomma (mastice di Chio?), incenso (probabilmente di Boswellia resinifera), “bulbi di mare”, -di incerta identificazione, ma che potrebbero essere piante come la Drima maritima o l’Urginea maritima-, nardo e zafferano. Indi accendere all’alba sette lampade in fila davanti al suo palazzo: in tal modo il re avrebbe potuto vedere i draghi celesti e come essi trainano il carro del Sole.

Si solleva poi un denso polverone che giunto al cospetto di Salomone assume forma umanoide e dichiara di essere Tephros (o Tephras), spirito delle ceneri e del vento impetuoso che soffia nel deserto. Egli porta oscurità agli uomini e provoca gli incendi nelle campagne, specie durante l’estate; afferma altresì di essere legato all’ultimo quarto di Luna e di potere guarire le febbri malariche (che evidentemente sono anch’esse uno degli effetti nocivi da lui provocati, sebbene questo non sia detto in modo esplicito) se invocato con tre parole magiche che sono: BULTALA, THALLAL e MELCHAL.

Il re Salomone continua ad evocare e interrogare molti demoni tra i quali Azael, il quale viene mandato da Salomone a rifornire di pietre gli operai che lavoravano alacremente alla costruzione del tempio.

Il tempio di Gerusalemme nell’aspetto che aveva al tempo di Erode il Grande.

Vengono convocate poi sette sorelle, che corrispondono alle Pleiadi di gradevole aspetto, le quali incarnano altrettante tentazioni di cui portano i nomi e che creano confusione e discordia (5); di esse la più nefasta di tutte è la settima, la quale aggiunge che ella e le sue sorelle, quando non vagano per il mondo a provocare sciagure, hanno dimora “a volte in Lidia, a volte sull’Olimpo e talora su un’alta montagna [non meglio precisata]”; esse sono però in qualche modo castigate o “contenute”, da sette angeli che incarnano le virtù contrapposte e ne attenuano gli effetti nocivi. Anche questi spiriti sono costretti da Salomone a lavorare per lui, scavando le fondamenta del tempio per una lunghezza di 250 cubiti -ossia più di 110 m-(6).

Si presenta poi un altro demone che ha l’aspetto di un uomo senza testa e che afferma di chiamarsi “Invidia”. Questi in risposta allo stupore di Salomone, che gli chiede come possa parlare e vedere essendo privo del capo, spiega che riesce a vedere con i sentimenti e a parlare per mezzo delle voci di molte persone che egli ha carpito allorché esse erano infanti, -prima della circoncisione-, e vagivano durante la notte (7).

Nella lunga sequela di demoni che compaiono al cospetto di Salomone citiamo poi un grande cane da caccia, il cui nome è Rabhdos (“Bacchetta”) il quale dichiara di essere stato in precedenza un uomo empio [e pertanto si evidenzia che nella credenza ebraica, come in quella greca e di molti altri popoli, demone poteva essere anche lo spirito disincarnato di una persona umana], in possesso però di svariate conoscenze e di eccezionali poteri. Costui dona al monarca israelita una misteriosa pietra verde con quale adornare il tempio.

Seguono un leone terribile che si impadronisce dei corpi degli uomini quando sono indeboliti da malattie e accidenti; e un dragone tricipite a cui si attribuisce la facoltà di procurare deformità e malattie nei bambini, specie se ancora nel grembo della madre e accidenti e l’epilessia negli adulti.

Quest’ultimo rivela al sovrano che nelle vicinanze del tempio si trova un grande pilastro di porfido, che era stato trasportato dal mar Rosso dal demone Ephippas, che dovrebbe divenire la pietra angolare dell’edificio, ma potrà essere collocata al suo posto soltanto con l’aiuto del medesimo demone Ephippas. Aggiunge anche che sepolto nei pressi dell’entrata del tempio giaceva un inestimabile tesoro, che viene rinvenuto da un servitore di Salomone all’uopo mandato.

Sfilano indi davanti al re uno strano essere che ha l’aspetto di una testa spiccata dal corpo, con una lunga chioma scarmigliata (che, pur se non viene detto che abbia serpenti al posto dei capelli, è un evidente rimembranza della testa di Medusa recisa da Perseo), il cui nome è Obizuth; un demone simile a un dragone alato (definito infatti “Pterodrakon”, sostantivo a metà tra una definizione e un nome proprio), con viso, mani e piedi umani (e quindi di probabile ascendenza mesopotamica), anch’egli demone “incubus”, ispiratore di lussuria, ma pure legato al fuoco, che con il suo respiro arde una catasta di legna, che viene condannato a tagliare i marmi destinati al tempio; una figura femminile tricefala, di nome Enepsigos, che afferma di risiedere sulla Luna e di essere assai potente e di essere invocata dai maghi, nella quale non è difficile riconoscere la triplice Ecate. Enepsigos pronuncia un’inquietante profezia, affermando che il tempio e tutta Gerusalemme saranno distrutti da Caldei, Medi e Persiani, i recipienti in Salomone aveva rinchiuso e sigillato i demoni verranno aperti e frantumati così che essi torneranno a imperversare nel mondo fino all’avvento del “Figlio di Dio”, l'”Emmanuel” citato in precedenza, il cui numero è 644, ossia di Cristo (poiché come abbiamo detto sopra il Testamento” pur essendo di provenienza ebraica, fu poi ampiamente rimaneggiato in ambienti cristiani).da

Il prossimo demone che si presenta è una sorta di cavallo marino (essere con la parte anteriore di cavallo e con coda di pesce), il quale dice di provocare tempeste e naufragi, nonché la nausea che spesso affligge i naviganti, e che il suo nome è Kynospaston (8). Salomone comanda che tale spirito venga rinchiuso e sigillato in un recipiente con dieci brocche d’acqua, acqua che gli è indispensabile per mantenere le sue forze e le sue capacità profetiche.

A concludere la lunga sfilata di demoni, compaiono dinnanzi al monarca trentasei spiriti insieme, i quali hanno l’aspetto umano, ma con teste di animali, -di cani, di asini, di bovini, di ovini, di uccelli, per cui essi ricordano gli dei egizi-: essi sono i “cosmocratori” (9), coloro a cui è stato assegnato il dominio del mondo e che presiedono ai 36 decani dello zodiaco (le tre sezioni di dieci gradi in cui si suddivide ciascun segno) e di conseguenza alle influenze astrali alle quali sono soggetti gli individui. Essi affermano che Salomone non ha alcun potere su di loro, ma poiché Dio gli ha conferito autorità su tutti gli spiriti dell’aria, della terra e del mondo infero, pure essi si sono degnati di presentarsi al lui e di rispondere alle sue domande. Essi dicono i loro nomi ed espongono ciascuno i malanni che possono provocare, in particolare le malattie di cui sono portatori, ma anche i mezzi di protezione magica occorrenti sia per prevenire le loro azioni perniciose, sia per combatterli ed allontanarli quando già abbiano causato danni (10).

Dopo aver descritto la sequela di demoni che si inchinano davanti al re Salomone in forza dell’anello magico che egli possiede, e con il quale li costringe a cooperare all’edificazione del tempio a gloria di Dio, l’anonimo narratore riferisce un episodio in cui la figura del sorano israelita risalta nei panni di saggio amministratore della giustizia.

Il giudizio di Salomone, dipinto di scuola fiamminga di fine XVII secolo.

Si presenta a lui un vecchio operaio, il quale accusa suo figlio, anch’egli alle dipendenze di Salomone, di maltrattarlo e insolentirlo senza pietà. Il figlio viene convocato dal re, ma una volta giunto davanti a lui, nega di aver tenuto un comportamento tanto ingiurioso nei confronti dell’anziano genitore. Salomone cerca di riconciliare i due, ma in quel mentre vede il demone Ornias (che si presume fosse visibile a lui solo, sebbene questo non venga espressamente affermato), che ride in modo beffardo; il re si adira per quella che giudica essere una mancanza di rispetto, ma il demone ribatte che la sua risata non era rivolta a lui, ma dovuta al fatto che sapeva di lì a tre giorni il giovane figlio dell’operaio sarebbe morto a causa di un incidente, cosa che puntualmente si verifica. Allora il monarca chiede ragione a Ornias della preveggenza da lui dimostrata e questi gli spiega che i demoni vagano per gli spazi terreni e fra terra e cielo, e pure nella volta celeste ed ascoltano i discorsi degli angeli, ma non potendo a lungo trattenersi nei cieli, ne discendono in aspetto di stelle cadenti.

A questo punto della storia Salomone riceve una lettera da Adares, re di Arabia, il quale invoca il suo intervento per combattere un pericoloso demone che soffiava dal mar Rosso provocando indicibili devastazioni nel suo regno. Salomone decide di mandare in Arabia a compiere la missione un suo giovane aiutante (non è chiaro se sia il medesimo con la cui disavventura si apre il “Testamento”), al quale per l’occorrenza viene consegnato l’anello magico; al giovane viene dato anche un otre con il quale dovrà imprigionare il demone: egli dovrà tenere l’otre aperto contro il vento tempestoso mettendo l’anello davanti ad esso, e quindi legare e chiudere ermeticamente il recipiente non appena il demone vi sia entrato. L’aiutante riesce a portare a termine con successo il compito affidatogli e, caricato l’otre contente il demone su un dromedario, torna a Gerusalemme dove lo strano carico viene trasportato nel tempio. Sebbene imprigionato, il demone riesca a muoversi all’interno dell’otre; Salomone gli chiede come si chiami ed egli risponde che il suo nome è Ephippas (quindi il demone del quale aveva parlato Belzebù durante il suo colloquio con il re israelita). Il sovrano gli ordina di sollevare l’enorme pilastro di porfido rivenuto in precedenza per porlo come chiave di volta all’entrata del santuario, ma Ephippas ribatte che potrà eseguire questa operazione soltanto con l’aiuto di un altro demone del mar Rosso. Viene allora convocato pure quest’altro spirito  ed i due demoni con il loro sforzo congiunto riescono alfine a collocare il pilastro nel punto prefissato. Il secondo demone dichiara di chiamarsi Abezithibod e di avere a suo tempo aiutato e sostenuto i maghi egiziani Iannes e Imabres nella disputa che essi ebbero con Mosè alla corte del faraone (11).

Segue un breve racconto su come Salomone, non facendo molto onore alla sua sapienza e saggezza, si accese di un disonesto amore per una donna shulamita e per compiacere ad essa, accettò di adorare le divinità in cui credeva costei. Infine il testo si conclude con un avvertimento all’umanità, -che potrebbe sembrare piuttosto contraddittorio con il rimanente dell’opera-, ad evitare di ricorrere all’aiuto dei demoni, o quanto meno di ricorrervi di rado e con molta prudenza e umiltà.

Possiamo osservare che molti dei demoni che appaiono nel “Testamento di Salomone” presentano notevoli affinità con i demoni della tradizione mesopotamica, -sia nell’aspetto, che mescola elementi umani e animali-, sia nelle azioni che compiono e negli effetti che provocano, in particolare quelli che sono apportatori di malattie e di catastrofi naturali, come quelli residenti sulle coste del mar Rosso che suscitano tempeste ed epidemie anche nell’interno della penisola arabica, e che ricordano i demoni delle credenze sumere e accadiche provenienti dal golfo Persico e apportatori di consimili sciagure nelle aree del delta del Tigri e dell’Eufrate.

Il dio Baal in una statuetta fenicia.

Osserviamo altresì che è proprio da narrazioni come quella esposta nel “Testamento di Salomone” (di cui come abbiamo detto in precedenza esista anche una redazione araba) che derivano le storie delle “Mille e Una Notte” in cui si parla di demoni rinchiusi da Salomone in anfore o boccali di rame o di altro metallo.

Dei numerosi demoni che si trovano nell’opera, -e che non tutti abbiamo citato nel nostro riassunto, per non appesantire troppo la narrazione-, ci limitiamo ora a prendere in considerazione solo alcuni, -oltre ad Onoskelis, -della quale abbiamo già parlato-, innanzitutto Belzebù.

Questi, -propriamente Beel-Zebub-, era in origine una divinità adorata nella città filistea di Ekron (o Accaron), dove aveva sede anche un famoso oracolo, che, secondo la Bibbia (2Re, I, 1-16) fu consultato, tramite messaggeri da lui inviati, da Acazia (o Ocozia, re di Israele nell’853-852 a. C., per avere lumi su come guarire da una ferita, e che pertanto fu aspramente redarguito dal profeta Elia il Tisbita (12). La prima parte del nome, come risulta evidente, non è altro che una variante del dio cananeo Baal, nome che può avere il significato generico “Signore”, e attribuibile quindi come appellativo a diverse divinità maschili; ma che, senza particolari determinazioni, indica un dio definito, uno dei principali del pantheon cananaico-palestinese, quello che personifica il cielo atmosferico, sede dei fenomeni meteorologici, e pertanto ambivalente, apportatore di piogge benefiche come di rovinose tempeste e alluvioni, contrapposto a El, il dio creatore del Cielo superiore e metafisico, che aveva sempre carattere beenvolo. Baal aveva peraltro numerose ipostasi locali: Baal-Shamen, Signore del Cielo, identificato in Siria con Hadad, venerato a Tiro, a Palmyra e in altri luoghi; Baal-Addir, il “Signore Possente” a Byblos; Baal-Hammon, protettore principale di Cartagine; Baal-Peor, che godeva di culto presso i Moabiti e che fu anch’esso trasformato in demone dagli Ebrei con il nome di Belfagor; Baal-Zephon, signore del monte Zephon, denominato Kasios in età ellenistica, per cui da Greci, Romani ed ellenizzati fu designato come Zeus Kasios (odierno Jebel Aqra, al confine tra Siria e Turchia), già citato già nei testi di Ugarit come dio della fertilità (13); ma “Baal” era impiegato anche per designare il nume proprio di una determinata località della quale era il “Genius loci”, soprattutto sulle montagne, sede per eccellenza degli dei, ovvero patrono di specifici enti o categorie astratte o concrete.

Beel-Zebub è stato interpretato come “Signore delle Mosche”, sulla scorta della “Bibbia dei LXX”, in cui tale teonimo è tradotto “Bααλ μυīαν” (appunto “signore delle mosche”); ma in realtà studi più recenti ritengono questa etimologia poco probabile, o per meglio dire dovuta ad una deformazione spregiativa e sarcastica operata dagli Ebrei. Per quanto in effetti la devozione ad una divinità per combattere insetti o altri animali infestanti non fosse infrequente nell’antichità: abbiamo infatti testimonianze di un culto a “Zeus Apomyos” (“che allontana le mosche”), invocato contro gli insetti che insidiavano le carni offerte nei sacrifici religiosi -si veda ad es. Pausania (Periegesi della Grecia, V, 14, 1-2), il quale afferma godesse particolare venerazione ad Olimpia-, o di Apollo Sminteo, invocato contro i topi. Il medesimo autore ricorda poi come in funzione di scacciamosche fosse invocato dagli Elei pure un semidio, o eroe divinizzato, chiamato Miyagros (Per., VIII, 26, 7). A questa figura semidivina fa cenno anche Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, X, 40 e XXIX, 34), il quale assicura che dopo l’immolazione ad esso di un toro all’apertura dei giochi olimpici le mosche si dileguavano (14)(15).

Da una tavoletta d’argilla rinvenuta a Tell-Amarna, dove fu portato alla luce un importantissimo archivio reale, nel luogo ove si ergeva Aketaton, la capitale del faraone “eretico” Akenathon (Amenofi IV), apprendiamo che esisteva anche una città palestinese chiamata “Zebub”, -che peraltro non è stata finora scoperta o identificata con certezza-, per cui è possibile che Beel-Zebub fosse semplicemente il protettore di quella località (secondo quanto si è detto sopra).

Satana e Belzebù in una stampa dell’800.

Nel giudaismo dell’età ellenistica il nome “Beel-zeboul” è impiegato per designare il “principe dei demoni” -“Archon ton daimonon”- e in tale veste è più volte citato anche nel N.T. (in Matteo, X, 25 e XII, 24 e 27; Marco, III, 22; Luca, XI, 15, 18, 19), talora affiancato a Satana, -per cui si direbbe che i due siano figure differenti, e non nomi diversi della medesima entità spirituale-; in tali passi si riporta che a detta dei suoi avversari Gesù di Nazareth avrebbe compiuto miracoli e soprattutto comandato ai demoni proprio poiché operava in nome e grazie all’assistenza di Beelzeboul. E’ incerto se tale forma sia una variante di Beel-zebub, o derivi da un supposto “Baal-zebul” (“Signore della dimora” -l’al di là?-), e in tal caso sarebbe l’appellativo di una divinità infera non altrimenti attestata, e rifletterebbe quindi una natura ipoctonia più in linea con la trasformazione in demone di tale divinità. Un’altra ipotesi riconnette invece il teonimo Beel-Zeboul a una radice trilittera semitica “ZBL”, che si ritrova nel siriaco “zebla” = “sterco” e nell’arabo “zibl” = “letamaio”, così che ne verrebbe fuori un poco gratificante appellativo di “signore dello sterco”, che a sua volta si potrebbe essere sovrapposto o essere attribuito al dio di Ekron sia per l’assonanza con “Beel-zebub”, sia per la contiguità etologica tra le mosche e gli escrementi.

CONTINUA NELL’UNDICESIMA PARTE

Note

1) del “Testamento” esistono diverse recensioni, tra cui una, più succinta, in lingua araba che si distacca in diversi punti dalla versione greca originale. Il testo nelle varie recensioni, specie in quella greca, è spesso oscuro, con alcuni termini che sono “hapax legomenon” (ossia attestati un’unica volta), e costellato di lezioni corrotte e di lacune per cui risulta talora di difficile comprensione. Per la stesura del riassunto mi sono avvalso della traduzione inglese di Frederick C. Conybeare (1856-1924).

2) il termine italiano “testamento” (e latino “testamentum”) rende il greco “διαθηκη”, che ha il duplice significato di “disposizioni testamentarie” e di “trattato”, “alleanza” (contenendo in entrambi l’edea semantica di “testo accuratamente ponderato”). Tale ambiguità semantica si ritrova nelle espressioni “Antico T.” e “Nuovo T.”, in cui il sostantivo “testamentum” rende in modo inesatto il greco “diateke”. Nel “Testamento di Salomone”, -così come in altre opere apocrife intitolate “Testamento”-, l’idea del “patto” è stata vista probabilmente nella concessione fatta da Dio a Salomone di poter comandare agli spiriti.

3) nella versione araba del “Testamento” Onoskelis è chiamata Kuzwa Teodora al-Ardamis.

4) riporta quindi quanto è detto nel libro “deuterocanonico” di Tobia, sui metodi per esorcizzare il demone Asmodeo (si veda al riguardo la terza parte della presente trattazione del 17 luglio 2016).

5) codesti sette demoni femminili, aventi come controparte altrettante entità angeliche benefiche ricordano e si possono confrontare con le due analoghe eptadi presenti nel mazdesimo (si veda al riguardo la terza parte della presente trattazione del 17 luglio 2016).

6) in effetti con scarsa coerenza il tempio di Gerusalemme appare talvolta quasi completato, o comunque a buon punto nella costruzione, mentre talora, come in questo caso, sembra che i lavori siano solo all’inizio.

7) anche codesto demone dunque si comporta come un “incubus” che sottrae le energie ai bambini, così come aveva minacciato di fare Lilith; il suo essere acefalo ricorda poi senza dubbio alcuni analoghi demoni della tradizione mesopotamica dall’aspetto più o meno deforme e mostruoso, quali Alu e Rabisu (sui quali si veda la terza parte della presente ricerca del 17 luglio 2016).

8) tale nome significa letteralmente “rovo canino”: si veda Plinio il Vecchio, Nat. Hist., XXIV, 74: “Cynosbaton, alii Cynospaston, alii Neurospaston vocant, folium habet vestigio hominis simile. Fert et uvam nigram, in cui acino nervum habet, unde Neurospastos dicitur” (“Alcuni chiamano [questa pianta] Cinosbaton, altri Cynospaston, altri Neurospaston, le cui foglie sono simili a impronte umane. Produce un grappolo nero, con una nervatura, e per tale ragione è detta Neurospaston”. Questa pianta, alla quale Plinio attribuisce virtù terapeutiche per le affezioni della milza, nonché per mantenere sani i denti e per purificare l’alito se venga masticata insieme al mastice di Chio, è da indentificare con il Ribes nero. Non è chiaro quale legame abbia con i cavalli marini, -gli “Hippocampi”-, secondo l’autore del “Testamento”.

9) in altre fonti ermetiche e astrologiche, come ad es. nel “Calendario Tebaico”, gli spiriti dei decani sono detti anche “cronocratori” (“signori del tempo”).

10) nel “Calendario Tebaico”, così come in altre fonti ermetiche, i loro nomi sono diversi da quelli loro attribuiti nel “Testamento”: ad es., il primo decano dell’Ariete, sotto il dominio di Marte, nel “Testamento” è chiamato Ruax, nei “Matheseos libri VIII” di Firmico Materno, trattato di astrologia che riprende la tradizione ermetica egiziana, Senator, nel “Liber Hermetis Trismegisti”, -testo di astrologia (che non rientra nel “Corpus Hermeticum”, raccolta di scritti di carattere essenzialmente filosofico, ma tra le numerose opere di alchimia, astrologia e magia attribuite a Ermete Trismegisto)-, Aulathmas; il secondo dello Scorpione, sotto il dominio del Sole, rispettivamente Nefhtada, Tepisen e Turmantis; il primo decano del Capricorno, dominato da Giove, Arpax nel “Testamento”, Themeso in Firmico e Renpsois nel “Liber Hermetis”; il terzo decano dell’Acquario, dominato dalla Luna, rispettivamente Agchonion, Tepis e Crauxes; e così via. Inoltre nella tradizione ermetica greco-egizia i “cosmocratori” esercitano un’azione sia positiva, sia negativa e rappresentano quindi le influenze zodiacali che agiscono sull’individuo, ma che quest’ultimo con il suo libero arbitrio e secondo il suo grado di evoluzione spirituale può utilizzare tanto in modo costruttivo, quanto distruttivo, per operare il bene come per operare il male.

11) l’episodio è narrato in Esodo, VII, 11-12; nel testo biblico non sono citati i nomi dei due maghi, ma essi (Iannes, o Iamnes, e Iambres) sono stati tramandati da una consolidata tradizione testimoniata in ambito ebraico dal perduto “Libro di Iamnes e Iambres” (in cui forse si narrava della loro presunta conversione all’ebraismo) e dai commenti tragumimici e midrasici ai libri del Pentateuco, nonché dalla menzione che ne fa S. Paolo nella II lettera a Timoteo (III; 8-9). Sono citati inoltre dal filosofo neopitagorico Numenio di Apamea (II secolo), -delle cui opere rimangono solo citazioni e frammenti in altri autori, quali Porfirio di Tiro, Origene, Clemente di Alessandria e soprattutto Eusebio di Cesarea-, mentre il solo Iamnes, significativamente accostato al nome di Mosè, appare in Plinio il Vecchio (Nat. Hist., XXX, 2, 6), in un passo dove il naturalista latino espone con accenti critici una storia della magia, e in Apuleio di Madaura (De magia, XC), in un elenco di maghi famosi, con tutta probabilità derivato da quello analogo dato da Plinio poichè esso comprende i medesimi nomi, e nel medesimo ordine , di quello di Plinio. Numenio di Apamea, filosofo greco-siriaco, seguace delle dottrine filosofiche di Filone di Alessandria che conciliavano filosofia greca (specie platonica) ed ebraismo, fu un ammiratore di Mosè, da lui giudicato un “Platone che parlava in ebraico”.

12) come abbiamo già altre volte osservato nelle nostre ricerche, fino alla caduta dei regni di Israele (nel 721 a. C.) e di Giuda (nel 587 a. C.), -ad opera rispettivamente degli Assiri e dei Neobabilonesi-, e della deportazione di parte degli abitanti in Mesopotamia, l’ebraismo era in sostanza un culto di stato, che si estrinsecava in una dimensione nazionale e collettiva, non individuale, per cui i singoli per le loro necessità personali rivolgevano le loro preghiere e i loro atti di culto alle divinità palestinesi e cananee, senza che tale comportamento fosse avvertito in contraddizione con la fede jahvistica. Le aspre e sdegnate reprimende dei profeti contenute nei libri dei Re e delle Cronache, scritti in età assai posteriore agli avvenimenti narrati, -nei quali la maggior parte dei sovrani, tanto di Israele quanto di Giuda, sono dipinti come infedeli ed idolatri-, non sono che la proiezione in quell’epoca della dottrina rigidamente monoteistica propria del giudaismo post-esilico.

13) di Zeus Kasios, nel cui santuario si poteva vedere una venerata pietra sacra (chiara testimonianza dell’origine semitica di tale culto), abbiamo parlato nella seconda parte di “Le Amazzoni, guerriere della Luna” del 6 settembre 2015.

14) si osservi peraltro che il naturalista latino si riferisce a Myagros con due altri nomi, -rispettivamente Myacor e Myodes nei due passi citati-: tale discrepanza deriva probabilmente dal fatto che l’autore riporta i nomi diversi da lui trovati nelle sue fonti.

15) Claudio Eliano (De Natura Animalium, V, 17) riferisce anch’egli che le mosche si allontanavano dalle are dei sacrifici a Olimpia, ma senza citare l’intervento di una divinità e attribuendo il fatto all’intelligenza e alla “pietà” di quegli insetti.

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