STORIA MINIMA DELL’IDEA DI DIO NEL PRIMO MILLENNIO CRISTIANO -sesta parte (intermezzo: la fine del regno longobardo e la formazione dello stato pontificio)-

Sebbene non rientri in senso stretto nella storia dell’iconoclastìa, prima di proseguire nella narrazione di quest’ultima, credo sia opportuno accennare in sintesi agli sviluppi che si ebbero in Italia nelle burrascose relazioni tra Longobardi, Bizantini e Papato.

A Liutprando, dopo il brevissimo regno di Ildebrando e quello di Ratchis, nel 749 era succeduto Astolfo, fratello minore del secondo; egli, che non aveva le titubanze, gli scrupoli religiosi e le remore del suo predecessore, si mostrò subito determinato a conquistare in via definitiva tutti i territori ancora in mano bizantina della penisola e a ricondurre all’obbedienza i ducati meridionali, e a ricostituire quindi, -come era del tutto logico e auspicabile-, l’unità d’Italia. A tal fine egli tra il 750 e il 751 scatenò un’offensiva contro i possedimenti bizantini dell’Esarcato e della Pentapoli, che si concluse con la conquista di Ravenna, l’antica capitale dell’Impero Romano d’occidente e sede del più alto magistrato bizantino in Italia, dove egli stabilì la sua sede nel palazzo che era stato degli imperatori e degli esarchi: in tal modo Astolfo intendeva porsi come l’erede e il continuatore del potere imperiale romano, e dichiarare che la sua regalità era estesa a tutti gli Italiani, al “populus Romanorum, tràditus nobis a Domino”.

Ma questa prospettiva era oltremodo sgradita al papa Zaccaria, il quale sapeva che con la riunificazione dell’Italia e l’annessione di Roma al regno longobardo avrebbe perso il potere che il papato, -sia per la propria intrinseca natura di guida tanto spirituale, quanto mondana (vista l’interdipendenza delle due dimensioni, specie nella visione cattolica, che chiama l’ingerenza temporale del papa e del clero “missione universalistica della chiesa”), sia a causa delle contingenze storiche-, era riuscito a conquistare ed aumentare nel corso dei secoli; e questo proprio poco dopo che, grazie agli accordi con l’esarca Eutichio, con re Liutprando e pure con l’imperatore Costantino V, era riuscito ad affrancarsi “de iure”, oltre che “de facto”, dal controllo dell’esarca di Ravenna, ma in pratica anche dall’imperatore bizantino, il quale manteneva ormai su Roma un’autorità solo vaga e teorica (1).

La famosa “Chioccia con i pulcini”, che si trova nel tesoro del duomo di Monza e appartenuta alla regina Teodolinda. Si ritiene però che l’opera, di assai raffinata fattura, sia di provenienza bizantina, o addirittura ellenistica, e sarebbe stata donata alla regina dai Longobardi del ducato di Benevento.

Per questo, -cioè per liberarsi sia dei Bizantini, invero ormai in declino, sia, soprattutto dei Longobardi-, papa Zaccaria cominciò a volgersi ai Franchi, con cui i papi avevano già stabilito cordiali rapporti, i quali avevano costituito un forte regno tra la Gallia e la Germania, -sebbene ancora non unitario, ma diviso in entità minori (Neustria, Austrasia, Aquitania, Borgogna)-  e i cui interessi in Italia erano allora solo marginali, e dunque non entravano in contrasto con i piani del papa. Il sovrano legittimo dei Franchi era allora il debole Childerico III, il quale fu spodestato dall’energico Pipino, detto “il Breve”(2); il papa con machiavellica spregiudicatezza in cambio dell’intervento in Italia contro i Longobardi legittimò l’usurpatore, che nel 754 fu incoronato dal nuovo pontefice Stefano II (III)(3)(4), il quale, recatosi di persona in Francia, gli conferì pure la dignità di “patricius Romanorum” e di “defensor Urbis”.

Fu in quell’occasione che l’astuto pontefice riuscì a estorcere a Pipino III il Breve la “Promissio Carisiaca”, -cosiddetta dalla città di Carisium (in età moderna Quierzy), ove il 14 aprile 754 veniva ratificato dalla dieta dei Franchi l’accordo già stipulato il 6 gennaio precedente tra il papa e Pipino-, in base alla quale il sovrano franco prometteva solennemente che avrebbe donato a S. Pietro apostolo -ossia al suo rappresentante terreno- le terre già bizantine dell’Esarcato, della Pentapoli e del Ducato romano, una volta che le avesse strappate ai Longobardi. Anzi secondo i termini del patto, alla sede apostolica romana avrebbero dovuto essere cedute tutte le terre a sud di una linea immaginaria che congiungeva la cittadina di Lunae (Luni, nei pressi di La Spezia), a Mons Silicis (Monselice in Veneto); ma in seguito di fatto nè Pipino, nè i suoi successori riconobbero mai tale ampio territorio come rientrante nella sovranità pontificia.

Sembra che il papa sia riuscito a persuadere Pipino che egli non voleva divenire un sovrano temporale a tutti gli effetti, ma soltanto acquisire il possesso di tale titolo in forza della “potestas Sancti Petri”, rappresentata in terra dai “vicari di Cristo”, e alla quale i fedeli avrebbero dovuto sottostare. In pratica Stefano II avrebbe proposto a Pipino di instaurare con lui un legame identico a quello che prima il papato aveva con l’imperatore bizantino, e che si era incrinato in seguito all’adesione dell’imperatore Costantino V all’eresia iconoclasta. Ma in effetti il rapporto tra il re franco e il pontefice romano nelle intenzioni di quest’ultimo si sarebbe dovuto attuare in termini ben diversi: infatti Stefano II rivendicava una sorta di diritto all'”extraterritorialità” e all’immunità da qualunque altra potestà umana e terrena, poiché riteneva l’autorità papale superiore ad esse.

La natura giuridica poco chiara (5) e l’ambiguità politica del patto, che di certo era percepito e inteso in modo diverso dalle due parti, come dimostrano i successivi sviluppi, rendevano tuttavia precaria questa alleanza e con tutta probabilità fu questa la ragione principale per cui venne apprestata, -o allora o in epoca di poco posteriore-, la celebre “Donazione di Costantino” (“Constitutum Constantini”)(5), con la quale l’imperatore avrebbe ceduto al papa Silvestro I, e ai suoi successori, la piena autorità non solo sull’Italia, ma addirittura su tutto l’occidente. Infatti, oltre che per confortare il sovrano franco nella sua intenzione di donare le terre alla sede apostolica con l’autorevole esempio di Costantino, per il papa codesto falso documento era necessario per avvalorare le sue pretese dimostrando che tale donazione non sarebbe stata altro che la restituzione di una piccola parte del dominio territoriale a cui aveva diritto (7); altrimenti essa avrebbe potuto apparire ed essere intesa da Pipino solo come una sorta di “infeudazione”, facilmente revocabile, e perpetuare una dipendenza del pontefice come prima dall’imperatore bizantino, ora dal re franco.

In ottemperanza a quanto concordato con il pontefice, Pipino discese in Italia in quello stesso anno e dopo aver cinto d’assedio Pavia, la capitale dei Longobardi, costrinse Astolfo a chiedere la pace, che gli fu concessa a patto che avesse ceduto al papa tutti i territori ex-bizantini da lui conquistati. Ma dopo che l’esercito di Pipino ebbe ripassato le Alpi tornando nel regno franco, il sovrano longobardo non mantenne la promessa di consegnare al papa i territori già bizantini, ed anzi si diresse con le sue truppe verso Roma a cui mise l’assedio. Questa mossa suscitò le ire del pontefice, il quale si affrettò a richiamare Pipino; il re dei Franchi non esitò a rispondere all’appello di Stefano II e ridiscese nella penisola italiana dove ben presto riuscì a sconfiggere di nuovo Astolfo, il quale, con la pace di Pavia, sottoscritta alla fine di giugno del 756, fu costretto ad accettare le condizioni che gli erano state imposte due anni prima, aggravate dal versamento di un oneroso tributo a Pipino.

Poco dopo il valoroso Astolfo morì in seguito ad una caduta da cavallo; a lui succedette Desiderio con il benestare del monarca franco. Questi si sforzò di mantenere l’armonia sia con Pipino sia con il nuovo papa, Paolo I (fratello del predecessore), e per suggellare la ritrovata pace nel 770 fu combinato il matrimonio tra le due figlie di Desiderio, quella poi nota come Ermengarda (8) e Gerberga, rispettivamente con Carlo e Carlomanno, figli di Pipino, dei quali, dopo la morte di quest’ultimo nel 768, ciascuno aveva ricevuto metà del regno (9).

Ma fu ancora una volta un papa, Stefano III (IV), non meno nemico dei Longobardi del suo omonimo che aveva chiamato Pipino il Breve in Italia, a fomentare la discordia tra il sovrano franco e il suo omologo cisalpino: questi, deciso a liberarsi in tutti i modi della monarchia longobarda, non solo disapprovò il matrimonio tra i figli di Pipino e le figlie di Desiderio, ma impose loro di ripudiarle, nonostante non vi fosse alcun impedimento canonico che invalidasse le loro unioni. Carlo, detto poi “Magno” (non si sa con quanto fondamento, forse per l’abilità di guerriero, ma certo non per statura morale), obbedì all’ordine del papa rimandando in Italia Ermengarda, mentre Carlomanno non dovette compiere questo penoso passo poiché venne a morte dopo poco tempo, lasciando così Carlo unico sovrano.

Le tormentate vicende che portarono all’assunzione al trono di S. Pietro di Stefano III meritano però di essere brevemente narrate. Quando Paolo I non era ancora spirato, ma ormai in agonia, l’aristocrazia militare-terriera di Roma che contendeva il potere al clero nella città che era stata capitale di un impero, ma che oramai era divenuta solo un’ombra di sé stessa, -e i cui appetiti erano oltremodo aumentati dopo che il papa si era intitolato un vero e proprio stato terreno-, aveva fatto eleggere un papa che fosse espressione dei suoi interessi nella persona di Costantino, fratello di Totone, duca di Nepi, ancora laico (e per questo forse definito dal Moroni “neofito” nel “Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica”), e sperava che la scelta fosse confermata da Pipino, divenuto in pratica il garante dell’autorità temporale del pontefice. Ma l’elezione di Costantino II (considerato antipapa dalla chiesa cattolica) fu respinta dalla fazione avversa il cui capo, il primicerio Cristoforo (10), fuggì a Spoleto insieme al sacellario Sergio, suo figlio. Quivi giunto, nonostante la sua precedente militanza nel partito anti-longobardo, si mise in contatto con Desiderio, tramite il duca di Spoleto Teodicio. Il sovrano longobardo autorizzò una spedizione contro Roma guidata da Teodicio, a cui si unirono Cristoforo e Sergio, nonché un agente di Desiderio, il presbitero Waldiperto, il quale aveva il compito, una volta che Costantino fosse stato deposto, di influenzare l’elezione del papa in modo che fosse scelta una persona gradita al suo re.

La spedizione ebbe successo e Waldiperto tentò di far innalzare al soglio pontificio un certo Filippo, diacono di S.Vito all’Esquilino, ma incontrò la ferma opposizione di Cristoforo, che aveva già il suo candidato. Per tale ragione Filippo, ben sapendo la terribile sorte che gli sarebbe toccata ove, come era altamente probabile, i filo-longobardi non fossero riusciti a prevalere, con encomiabile saggezza rinunciò quasi subito al trono di Pietro. Infatti Cristoforo, presa in mano la situazione a Roma, patrocinò l’assunzione al pontificato del presbitero di S. Cecilia, Stefano; atroci furono i castighi (accecamento, taglio della lingua e altre amenità del genere) riservati a Waldiperto, ai fautori di Costantino e a quest’ultimo stesso, il quale, benché sopravvissuto, fu rinchiuso in un monastero fino alla fine dei suoi giorni.

L’icona “acheropita” di S. Giovanni in Laterano.

In seguito nel 769 fu anche celebrato un sinodo a cui parteciparono 39 vescovi italiani (che certo non erano molti, se si tiene conto del cospicuo numero di diocesi presenti in Italia) e 13 presuli provenienti dalla ex-Gallia, -ormai franca-: in esso, oltre a celebrare un processo al povero Costantino, accecato e mal ridotto per le torture subite, di cui furono dichiarate nulle le ordinazioni e tutti gli atti (salvo i battesimi e le cresime), si stabilirono regole più precise per l’elezione del papa, che veniva riservata solo ai membri del clero romano (11) e fu ribadita la condanna delle dottrine iconoclastiche, proclamando che le immagini sacre potevano essere venerate al medesimo modo delle reliquie. Il sinodo si concluse con una solenne processione che sfilò per le vie di Roma dalla Basilica Lateranense (sede del patriarcato romano, dove si era riunita l’assemblea di prelati) alla basilica di S. Pietro in Vaticano, trasportando la venerata immagine “acheròpita” di Cristo conservata nel Laterano (12).

In seguito però Stefano III si riavvicinò a Desiderio, nonché al capo del partito filo-longobardo in Roma, il cubiculario Paolo Afiarta, anche per opporsi allo strapotere del primicerio Cristoforo, capo della fazione avversaria filo-franca, tanto che accolse il sovrano longobardo alle porte di Roma, suscitando la reazione di Cristoforo e di Sergio. Costoro in un primo tempo tentarono di opporsi alla nuova politica del pontefice rinserragliandosi in Roma, ma poi, resisi conto che non avrebbero potuto resistere alle preponderanti forze longobarde, -tanto più che molti dei loro ex-amici (tra i quali il duca di Roma Grazioso, genero di Cristoforo) erano passati dalla parte degli assedianti-, si arresero confidando nella clemenza del papa. Caduti però nelle mani di Paolo Afiarta, dovettero subire il medesimo crudele trattamento che tre anni prima avevano inflitto ai loro avversari: il cubiculario rimase così in pratica padrone di Roma.

Ma poco dopo morì il papa e come suo successore, nonostante le pressione di Afiarta, fu ancora una volta eletto un fiero anti-longobardo, Adriano I, il quale intendeva far valere le sue pretese al governo temporale e tornò a reclamare la completa restituzione delle terre dell’Esarcato e della Pentapoli. Egli spedì Paolo Afiarta in missione diplomatica a Pavia per negoziare con il monarca longobardo, ma sulla via del ritorno il cubiculario fu arrestato a Rimini, con l’accusa di aver provocato la morte di Sergio, il figlio di Cristoforo, e condotto dall’arcivescovo di Ravenna, Leone, il quale anziché consegnarlo al pontefice come aveva promesso, di sua iniziativa lo fece condannare alla pena capitale (13).

Invano Desiderio chiese giustizia ad Adriano I per i due figli di Carlomanno, -suoi nipoti in quanto figli di Gerberga-, i cui diritti al trono erano stati usurpati da Carlo: il papa non volle sentire ragioni e come Zaccaria aveva legittimato l’usurpazione di Pipino il Breve, così ora egli, per i meschini interessi suoi e del clero romano, legittimò quella di Carlo “Magno”: per tale motivo e per l’affronto dell’uccisione di Paolo Afiarta, Desiderio non ebbe altra scelta che quella di rioccupare le terre ex-bizantine, che il papa, accampando inesistenti diritti e con la complicità dei Franchi, gli aveva sottratto.

Adriano I furente e deciso a liberarsi una volta per tutte del regno longobardo per poter comandare a suo piacimento nel Ducato romano, nell’Esarcato, nella Pentapoli, -e magari poter ulteriormente allargare i suoi domini in altre zone dell’Italia centrale, secondo le clausole della “Promissio Carisiaca”-, si appellò a Carlo, da lui favorito in modo così sfrontato, il quale oltrepassò le Alpi al passo del Moncenisio e riportò su Adelchi, figlio di Desiderio, una prima vittoria alle chiuse di S. Michele che gli spalancò le porte dell’Italia. Desiderio si asserragliò a Pavia che veniva cinta d’assedio, mentre Adelchi si portò a Verona, conducendo seco i piccoli figli di Carlomanno,- che lui e suo padre avrebbero voluto vedere sul trono transalpino-, dove si concentrò l’attacco del re franco. La città, di fronte alle soverchianti forze nemiche, fu costretta a capitolare, mentre Adelchi prendeva la via dell’esilio, che lo condusse a Costantinopoli, nell’intento di convincere l’imperatore Costantino V ad aiutarlo a recuperare il regno.

Adelchi morente in una litografia dell’800 ispirata alla tragedia manzoniana.

Ma nonostante la benevola accoglienza non ottenne alcun aiuto concreto; solo diversi anni più tardi, grazie al sostegno dell’imperatrice Irene, tentò una spedizione per riavere il suo trono sbarcando in Calabria nel 787 (o 788), affiancato dal sacellario Giovanni e dal patrizio Teodoro, comandante delle truppe bizantine in Sicilia. Ma il tentativo non ebbe felice esito, anche a causa dell’opposizione del duca di Benevento Grimoaldo, il quale, pure essendogli nipote, -in quanto figlio di sua sorella Adelperga-, non solo non gli prestò il suo aiuto, ma lo combattè apertamente. Anzi, secondo una tradizione dubbia Adelchi sarebbe stato ucciso in battaglia da costui, mentre una versione ritenuta più attendibile afferma che sarebbe tornato a Costantinopoli, dove morì alcuni anni dopo (14)(15).

Carlo Magno per parte sua prima della capitolazione di Pavia per la Pasqua del 774 si recò a Roma, dove rinnovò al pontefice le promesse formulate da suo padre Pipino vent’anni prima a Stefano II. Dopo la visita -certo non di sola cortesia- al papa, il monarca franco tornò a Pavia che nel giugno 774, stremata dal terribile assedio, si arrese. Desiderio fu fatto prigioniero e mandato in Neustria (l’attuale Francia nord-occidentale) ove fu rinchiuso nell’abbazia di Corbia (non lontano da Carisium, dove con il patto stretto nel 754 tra Pipino il Breve e Stefano II era iniziata la fine del regno longobardo e il tramonto della prospettiva di un nuovo stato unitario italiano) e costretto a monacarsi, mentre Carlo Magno, assunto il titolo di “Rex Longobardorum et Patricius Romanorum” si fece porre sul capo la famosa “corona ferrea” con la quale venivano incoronati i monarchi longobardi almeno dal tempo di Agilulfo e della regina Teodolinda (16).

Così, a causa degli intrighi dei pretesi vicari di Cristo in terra e della loro avidità di potere mondano (17), ebbe termine dopo circa due secoli il regno dei Longobardi, che all’inizio era stato assai duro per gli Italiani, ma che poi aveva assorbito gli elementi della civiltà latina e aveva cercato di contrapporsi ai Bizantini per dar vita a una nuova sintesi territoriale, sociale e culturale italiana erede di quella romana: con esso tramontarono per molti secoli le speranze di ricostituire l’unità d’Italia, che proprio la loro invasione aveva infranto.

CONTINUA

Note

1) si potrebbe osservare che questo stato di cose, pur in contesto storico del tutto diverso, prefigurava per certi aspetti quello che si sarebbe ripetuto nel XIX secolo, -che per fortuna (o per meglio dire per ineluttabile necessità storica) ebbe esiti assai diversi-, quando il papato cercò di opporsi con ogni mezzo alla riunificazione dell’Italia. Ma nell’VIII secolo la potenza politica del papato era in ascesa, mentre nell’800 ormai essa era del tutto tramontata, e il capo della chiesa cattolica non poteva più sperare e pretendere di essere obbedito dai governi europei, nemmeno quelli cattolici; egli si ostinava però a difendere con meschino accanimento il potere inutilmente tirannico che esercitava in uno staterello ormai del tutto anacronistico. Come del resto anacronistici e meschini erano tutti gli staterelli fantoccio dell’Italia pre-unitaria, che dopo la caduta di Napoleone I erano stati mantenuti in vita artificialmente, per non rompere con la loro fine i precari equilibri tra le decrepite e fossilizzate monarchie europee.

2) Pipino era “maestro di palazzo”, -detto anche “maggiordomo”, “Maior [servus] domus”-, carica, divenuta ereditaria, il cui titolare deteneva ampi poteri a corte, poichè da amministratore del patrimonio regio era divenuto una sorta di primo ministro, dal quale gli ultimi sovrani della dinastia dei Merovingi erano stati di fatto esautorati.

3) sul motivo della doppia numerazione di papa Stefano II (III) e dei papi successivi che portarono tale nome si veda la nota n. 13 alla seconda parte de “IL DECLINO DELL’IMPERO ROMANO” del 13 giugno 2015 (ricerca attinente ai temi che stiamo ora trattando e che pertanto si consiglia di leggere).

4) in effetti Pipino III era già stato incoronato re dei Franchi nel 752 da Bonifacio, vescovo di Magonza, ma il pontefice volle ripetere la cerimonia per conferire ad essa maggiore solennità ed importanza e suggellare così l’alleanza che veniva stretta tra quelle che si stavano avviando a diventare i due principali protagonisti del mondo medioevale occidentale.

5) occorre precisare che nel diritto germanico la sfera privatistica e quella pubblicistica non erano così nettamente distinte come lo erano nel diritto romano; e d’altro canto già nel basso Impero Romano i grandi proprietari terrieri, anche in conseguenza dell’indebolirsi delle autorità politiche e amministrative istituzionali, spesso avevano assunto, “de facto” se non “de iure”, delle funzioni pubbliche.

6) in tale documento, che si può considerare una pubblica dichiarazione, Costantino narra le circostanze della sua conversione al cristianesimo, di come papa Silvestro l’avesse guarito dalla lebbra e di come per riconoscenza egli gli avrebbe concesso la piena sovranità sull’Italia e tutto l’occidente. Secondo la datazione apposta in calce, il documento sarebbe stato redatto il terzo giorno avanti le Kalende di Aprile (il 30 marzo), sotto il consolato di Costantino (per la quarta volta) e di Gallicano: tale datazione è incoerente poiché mentre il quarto consolato di Costantino corrisponde all’anno 315, Gallicano fu console nel 317. In ogni caso invero lo scritto risalirebbe ad un anno anteriore la rifondazione di Costantinopoli e la sua proclamazione a capitale d’oriente (avvenuta nel 330), dove, stando al “Constitutum”, Costantino si sarebbe trasferito proprio perché aveva lasciato la città di Roma alla sovranità del papa. Inoltre si fa riferimento ai “quattro patriarcati” di Alessandria, Antiochia, Costantinopoli e Gerusalemme,-ai quali il patriarcato di Roma viene dichiarato superiore in grado e autorità-, di cui gli ultimi due furono proclamati tali solo molti anni dopo la morte di Costantino -come abbiamo precisato nella nota n. 16 alla terza parte della presente trattazione del 10 agosto 2017-. Oltre a queste sono presenti nel documento molte altre incoerenze e imprecisioni storiche e lessicali, che ne rendono impossibile la redazione all’epoca di Costantino.

7) non è certa l’epoca precisa in cui il falso documento fu redatto ma la maggior parte degli storici lo attribuisce all’età di Pipino o di Carlo Magno, suo figlio, che è proprio il periodo in cui esso appariva opportuno, per non dire necessario, per dare un fondamento sia giuridico, sia “ideologico” al nascente stato pontificio e al nuovo impero romano ispirato e guidato dal papato. Tuttavia già prima che nel 1440 l’umanista Lorenzo Valla (1407-1457) ne dimostrasse inconfutabilmente la falsità, nel suo scritto “De falso credita et ementita Costantini donatione”, -con argomentazioni di carattere sia linguistico, sia storico-filologico, sia per così dire “psicologico”-, fin dal X sec. molte voci avevano espresso dubbi sull’autenticità della “Donazione” e diversi giuristi, pur non contestandone l’attribuzione a Costantino, ne avevano messo in dubbio la legittimità e il valore giuridico, poiché un imperatore non avrebbe potuto alienare legalmente la sovranità dell’impero e diminuirne l’integrità territoriale.Tale parere era condiviso da Dante, il quale nel “De Monarchia” osserva che come l’imperatore non aveva il diritto di alienare un bene non rientrante nella sua disponibilità, così il papa non avrebbe dovuto accettare un simile dono che era in patente contrasto con i principi evangelici di povertà e di separazione della missione spirituale dalla sovranità temporale. Tra coloro che respinsero o contestarono la validità della donazione vi fu anche l’imperatore Ottone III (996-1002), il quale, pur richiamandosi a Costantino, -così come Gerberto di Aurillac, già suo precettore, quando fu eletto papa intendeva ispirarsi a S. Silvestro (e per tale ragione scelse il nome pontificale di Silvestro II)-, era fermamente deciso a limitare lo strapotere della chiesa e del papato e a restaurare l’antico impero romano. Il “Constitutum Constantini”, per sottolineare la fondamentale importanza che gli era attribuita, venne inserito nelle “decretali dello pseudo-Isidoro”, una raccolta di falsi documenti papali redatta alla metà del IX secolo, e poi nel “Decretum Gratiani”, il primo codice organico di leggi ecclesiastiche, che entrò poi a far parte del “Corpus Iuris Canonici”.

8) in realtà è ignoto il nome della figlia di Desiderio: fonti più tarde, del X secolo, la citano come “Desiderata”; il nome di Ermengarda con la quale è nota le fu attribuito dal Manzoni nella sua famosa tragedia “Adelchi” (figlio di Desiderio) di cui ella è uno dei personaggi più significativi e poeticamente intensi, e da allora in Italia è stato comunemente usato anche dagli storici.

9) secondo alcune fonti sarebbe anche avvenuto il fidanzamento tra Adelchi, figlio di Desiderio, e la sorella di Carlo, Gisella, che sarebbe poi stato rotto quando i rapporti tra i due sovrani si guastarono, ma lo notizia non è certa.

10) a Roma dal IV secolo era chiamato “primicerius” (che significava in origine colui il cui nome era scritto per primo su una tavoletta cerata nella quale era riportato l’elenco delle cariche di corte) il capo dei notai pontifici che aveva compiti di cancelliere e che durante i periodi di assenza del papa o di vacanza pontificia era in partica la più alta autorità civile. Di solito era investito solo degli ordini minori e poteva sposarsi, tanto che spesso la carica si trasmetteva di padre in figlio. “Primicerio” inoltre era chiamato -e talvolta è tuttora chiamato- il chierico più alto in dignità nel capitolo di chiese cattedrali o collegiate; nonché il titolo attribuito ad un presule preposto ad una chiesa importante (di solito una basilica minore) sottratta alla giurisdizione dell’ordinario del luogo e quindi con dignità pari a quella di vescovo (pur non avendo l’ordine e le funzioni episcopali). Il “primicerius” romano aveva ai suoi ordini diversi funzionari minori, tra cui il “sacellarius”, che era una sorta di tesoriere, il quale si occupava dell’amministrazione ordinaria della casa pontificia (pagare i soldati, distribuire i salari agli operai e ai servitori del papa, dispensare le elemosine , ecc.); il nome deriva da “sacellus” (da non confondere con “sacellum” = edicola, cappella), diminutivo di “saccus”, nel senso di borsa, sporta. Il “chartularius” era un funzionario addetto all’amministrazione dell’erario, mentre il “cubicularius” (da “cubiculum” = camera da letto) era in origine un cameriere addetto al servizio personale del “dominus”, il quale nelle corte imperiale romana e poi pontificia assunse l’incarico di segretario particolare (essi erano però sempre più di uno, in genere quattro). “Spatarii” erano ufficiali militari alle dirette dipendenze dell’esarca e dei duchi bizantini. Per gli uffici e le dignità nella curia romana si vedano anche le voci ad essa relative nel “Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro fino ai giorni nostri” di Gaetano Moroni, Venezia 1844 (opera in ben 139 volumi).

11) in particolare i vescovi delle sette diocesi suburbicarie -i quali avevano poi il compito di consacrare l’eletto-, i venticinque presbiteri e i sette diaconi della città di Roma, quelli che saranno poi chiamati “cardinali”, e “tituli” le chiese loro sedi; il numero dei “cardinales” (così chiamati perché venivano “incardinati” in una parrocchia o in una diaconia di Roma) subì diverse variazioni nel corso dei secoli: i cardinali-vescovi furono ridotti a sei nel 1150 poichè Eugenio III (1145-1153) unì stabilmente la diocesi suburbicaria di Velletri a quella di Ostia; i cardinali-preti e i cardinali-diaconi furono portati rispettivamente a 50 e 14 da Sisto V (Felice Peretti) nel 1586, e tale numero rimase invariato fino al XX secolo, quando Giovanni XXIII lo aumentò a 90. Infine dopo il concilio Vaticano II vi fu una continua proliferazione dei titoli. Quanto alle modalità di elezione del papa, altre importanti riforme furono introdotte da Nicolò II nel 1059 (elezione riservata ai cardinali vescovi, che però doveva successivamente essere confermata dagli altri cardinali) e nel 1179 da Alessandro III (Rolando Bandinelli), con il quale furono adottate le norme tuttora vigenti (nelle grandi linee) -votazione espressa dai cardinali dei tre ordini con maggioranza dei due terzi-.

12) questa immagine è citata per la prima volta nel “Liber Pontificalis”, dove si riferisce che Stefano II la portò in processione nel 753 per scongiurare il pericolo di un assedio longobardo e da allora godette di particolare venerazione da parte del popolo romano, venerazione tributata specialmente durante la settimana santa e la vigilia della festa dell’Assunzione di Maria, quando veniva portata in processione dal Laterano a S. Maria Maggiore, passando attraverso il Foro Romano. Narra la leggenda che dopo l’ascensione di GC, la Vergine Maria e gli apostoli chiesero a S. Luca, il quale, oltre che medico, era anche pittore, di dipingere su una tavola il ritratto di Cristo. Ma mentre si apprestava a dare inizio all’opera, il santo scoprì che la tavola era già stata dipinta (secondo la tradizione dagli angeli). In seguito l’immagine sarebbe giunta a Costantinopoli, dove si trovava allorché furono decisi i primi provvedimenti iconoclastici nel 726. Il patriarca Germano, -del quale abbiamo parlato nella parte precedente della nostra ricerca-, per salvare l’icona dalla requisizione e dalla possibile successiva distruzione pensò di affidarla alle onde; galleggiando sul mare, essa arrivò alla foce del Tevere, dove papa Gregorio II, avvertito da un sogno, si era opportunamente recato, trovando così l’icona, che si sarebbe sollevata dalle acque per volare nelle mani del pontefice. Il rivestimento d’argento che ricopre attualmente buona parte della tavola, che nel corso dei secoli si era alquanto deteriorata, fu fatto apporre da papa Innocenzo III (1198-1216). Delle immagine “acheròpite”, che non sarebbero opera umana, ma soprannaturale, -da “a + cheir (mano) + poiete (fatta)” = “non prodotta da mano (umana)”-, che cominciarono ad apparire proprio nel periodo dell’iconoclastia, tratteremo in modo specifico in un prossimo articolo.

13) sembra che l’arcivescovo Leone, -legittimamente dal suo punto di vista, dato l’esempio che veniva da Roma-, mirasse a costituire in proprio uno stato indipendente nell’ex-esarcato di Ravenna.

14) il Manzoni invece, -invero con poco rispetto della storia-, nella tragedia omonima fa morire Adelchi davanti a Carlo Magno, dal quale era stato catturato, dopo aver cercato di consolare il padre della sua disgrazia.

15) in effetti l’imperatrice Irene aveva tentato in un primo tempo una politica di riconciliazione con il papato e con Carlo Magno, per rafforzare la sua posizione contro gli iconoclasti all’interno e contro gli Arabi e le popolazioni slave all’esterno; a tal fine nel 782 aveva proposto il matrimonio di suo figlio Costantino con una figlia di Carlo Magno, Rotrude, che avrebbe dovuto suggellare l’alleanza tra i due stati. Ma il fallimento del suo progetto matrimoniale dopo sei anni di inutili tentativi la indusse a lasciar perdere l’intesa con i Franchi: questo spiega il tardivo aiuto concesso ad Adelchi, che avrebbe dovuto restaurare in Italia un regno longobardo, ma soggetto alla potenza bizantina.

16) un modesto tentativo di restaurare il regno longobardo e di opporsi alla potenza (e prepotenza) di Carlo Magno fu la ribellione di Rotgaudo, duca del Friuli, che insieme a Gaido, duca di Vicenza, e Stabilinio, duca di Treviso, diede battaglia al nuovo sovrano, venendo sconfitto nel 776.

17) la giustificazione ufficiale del potere temporale era quella della libertà e dell’indipendenza della chiesa, alla quale sarebbe necessario un dominio territoriale per esercitarsi. Di codesta tesi però non vi è alcuna traccia negli scrittori ecclesiastici del primi secoli e tanto meno nel NT,-dove anzi si proclama la netta separazione tra autorità spirituale e dominio terreno-, nè è mai stata accampata da alcuna altra confessione al di fuori della cattolica.

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