SPECIE IN PERICOLO (terza parte)

MAMMIFERI

La situazione dei Mammiferi in Italia offre all’osservatore superficiale un apparente paradosso. Infatti molte specie sembrano aver conosciuto negli ultimi decenni un deciso incremento numerico: le popolazione.di grandi Ungulati, come Cervo, Capriolo, Daino, Stambecco, Camoscio delle Alpi e d’Abruzzo, Cinghiale sono tutte aumentate e alcune stanno pure ampliando il loro areale di distribuzione; il Lupo è raddoppiato nel numero e ora appare insediato in maniera stabile nell’area delle Alpi occidentali e si muove alla volta delle Alpi centrali. L’Orso bruno si mostra in ripresa in Trentino, mentre in Abruzzo la consistenza della specie è stazionaria, peraltro su un numero troppo esiguo di esemplari per poterla dichiarare fuori pericolo.

Anche l’Istrice, -per citare un esempio di Fauna “minore” (ma non certo meno importante e significativa!)-, è in espansione geografica verso nord, come la Lontra che sta lentamente riconquistando una parte del suo antico areale nel centro-Italia. Questa inversione di tendenza è stata determinata principalmente dalla minor pressione venatoria e dagli interventi di ripopolamento, nonché dal frequente abbandono delle aree montane e collinari da parte dell’uomo, specie dagli anni 60 in poi.

L'Istrice (Histrix cristata), animale in ripresa negli ultimi anni.
L’Istrice (Histrix cristata), animale in ripresa negli ultimi anni.

Tuttavia questi apparenti successi non devono trarre in inganno: l’incremento numerico delle popolazioni di diverse specie di Mammiferi che da secoli erano in costante diminuzione, -tanto da essere prossime in alcuni casi all’estinzione-, ha il suo contraltare nello stato spesso disastroso degli habitat -salvo alcune eccezioni nei parchi e riserve protette-, che risentono in maniera pesante delle alterazioni indotte dall’urbanizzazione e  dall’industrializzazione, pur quando non ne siano direttamente interessate, e che, come abbiamo più volte ricordato, è forse l’elemento che influenza in modo più negativo le condizioni di vita e di sopravvivenza della maggior parte degli Animali. Inoltre le specie che hanno conosciuto un recupero sono quelle più adattabili, che hanno saputo adeguarsi con relativa facilità alle mutate condizioni di vita. Ma alla lunga, se non vi sarà un sostanziale cambiamento del rapporto con l’uomo con la Natura, una diminuzione degli insediamenti urbani e industriali, dell’inquinamento, un ampliamento delle aree protette, anche tale ripresa rischia di rivelarsi effimera e tutti gli sforzi finora fatti da associazioni ambientaliste e animaliste saranno vanificati.

Al contrario le specie di Mammiferi che hanno esigenze specifiche e che hanno bisogno di risorse particolari, sia ambientali sia trofiche, continuano a trovarsi in grosse difficoltà; questo problema riguarda soprattutto moltissime specie di Chirotteri (ovvero Pipistrelli) che risentono in maniera drammatica della contrazione dei loro habitat e delle loro fonti di alimentazione, rappresentate essenzialmente da Insetti, alquanto diminuiti per le ragioni indicate trattando degli Uccelli insettivori, investiti dalle medesime difficoltà (abuso degli insetticidi e dei pesticidi fatto da una agricoltura il più delle volte tutt’altro che “biologica”).

Un Rinòlofo minore (Rhinolophos hipposideros), Pipistrello in pericolo critico.
Un Rinòlofo minore (Rhinolophos hipposideros), Pipistrello in pericolo critico.

In generale, accanto a una modesta ripresa nelle aree collinari e montane degli Appennini fa riscontro un accentuato e desolante degrado delle pianure, soprattutto della pianura Padana, con la sua agricoltura intensiva, industriale, assolutamente distruttiva del suolo, dell’aria, dell’acqua e di ogni forma di vita estranea alle strutture artificiali che essa vuole imporre alla Natura, nonché la quasi totale scomparsa degli habitat costieri. A tutto questo si devono aggiungere le condizioni di vita sempre più precarie dei Mammiferi marini a causa del progressivo degradarsi del loro ambiente e della diminuzione delle loro fonti di sostentamento,

Le principale minacce alla conservazione sono dunque di rado attribuibili ad una precisa azione o comportamento umano, poiché sono dovute soprattutto alla distruzione generalizzata degli ambienti naturali e all’abuso delle risorse del territorio operato dall’uomo per sostenere il suo modo di vivere e di produrre, da almeno duecento anni sempre meno naturale, ma che ormai agli inizi del XXI secolo ha raggiunto un grado di manomissione quasi irreversibile.

Qualunque intervento volto a contrastare questo processo deve essere impostato pertanto con un’ampia articolazione, che prenda in considerazione svariate componenti ambientali, dalla riconversione dell’agricoltura in forme più rispettose della vita naturale, ad una limitazione del taglio delle foreste, che tenga conto delle esigenze delle specie boschive, in particolar modo Roditori e Chirotteri, all’auspicabile interruzione dell’immensa colata di cemento che da troppi anni sta investendo l’Italia, senza peraltro essere neppur giustificata dalle esigenze della popolazione umana (vedi il grande numero di abitazioni costruite e abbandonate prima ancora di essere finite).

Tuttavia una minaccia precisa e specifica viene da un comportamento assolutamente barbaro in Italia purtroppo assai diffuso, ancorché illegale e criminale: l’uso indiscriminato di veleni, di solito di origine agricola, distribuiti in esche attrattive per gran parte della Fauna.

Una famiglia di Orsi bruni marsicani, che nonostante una lieve ripresa sono ancora in pericolo critico
Una famiglia di Orsi bruni marsicani, che nonostante una lieve ripresa sono ancora in pericolo critico

Questa deplorevole costumanza ha la finalità di combattere i predatori: ma tale patica oltre che essere tassativamente proibita dalle vigenti leggi, ed essere malvagia e crudele,  è uno strumento di sterminio di tutta la Fauna, anche gli animali più rari e protetti, e pertanto deve essere stigmatizzata nel modo più forte.

Anche il triste fenomeno del randagismo, alimentato dai vergognosi abbondoni di animali domestici e dalla trascuratezza con cui essi vengono troppo spesso tenuti, ha una parte di responsabilità nelle difficili condizioni nelle quali versa la Fauna selvatica, poichè contribuisce a diffondere malattie -quali il cimurro e le affezioni da “Parvovirus”- che hanno sulle specie selvatiche effetti ancora più deleteri che su quelle domestiche; inoltre in certe aree, specie del centro-sud, avvengono ibridazioni incontrollate tra specie domestiche e specie selvatiche (in particolare tra Cane e Lupo). che alla lunga rischiano di compromettere la loro specificità genetica.

CONCLUSIONE

Abbiamo visto che in Italia, pur non mancando qualche barlume positivo, le condizioni di vita dei Vertebrati, e della Fauna in genere, sono piuttosto, per non dire molto, precarie e le prospettive per il futuro quanto mai incerte, poichè legate a un insieme di fattori interdipendenti a loro volta determinati dalle scelte e dalle azioni umane.

Per i Vertebrati terrestri e delle acque interne osserviamo che le principali minacce provengono non tanto dagli atti violenti direttamente rivolti contro di essi, quali la caccia, la pesca e le persecuzioni delle quali alcuni sono vittime, spesso per futili motivi, o a causa di idee false e sbagliate dovute all’ignoranza, ma da cause indirette tra le quali la più rilevante, come abbiamo più volte segnalato, è costituita dalla perdita o dal grave degrado degli ambienti naturali loro propri, della quale sono vittime oltre il 20% delle specie. Al secondo posto nella graduatoria troviamo l’inquinamento, di terra, acqua e aria-, che è fonte di particolare danno per il 15% delle specie.

Cartina delle aree protette in Italia.
Cartina delle aree protette in Italia.

Per quanto riguarda gli Uccelli, oltre al depauperamento ambientale e all’inquinamento, hanno un’incidenza maggiore la caccia e la mortalità accidentale dovuta a insatllazioni industriali, tralicci dell’alta tensione, aeroporti, ecc.

Ma è soprattutto per i Vertebrati marini (in particolare Condritti, Cheloni e Cetacei) che questi due fattori deleteri, -ovvero prelievo (=pesca) e mortalità accidentale-, rappresentano le minacce più perniciose. Soprattutto la mortalità accidentale, cioè quella causata in vario modo dal proliferare abnorme delle attività umane sia sulle coste sia nel mare aperto, -quali la navigazione, spesso con imbarcazioni veloci che provocano gravi incidenti a Pesci, Rettili e Mammiferi marini, e comunque arrecano loro un continuo disturbo-; l’impiego per la pesca di strumenti assolutamente deplorevoli e inaccettabili (come le spadare e le reti a strascico, che per catturare qualche pesce da sacrificare alla golosità umana distruggono un enorme numero di esseri viventi che non interessano ai pescatori); l’abbandono in mare di materiali e oggetti che per contatto o ingestione (quali grossi ami, involucri e buste di plastica, ecc) sono spesso causa di danni gravi e non di rado mortali per gli animali marini- risulta essere la prima causa di rarefazione dei Vertebrati marini.

Al secondo posto si colloca la pesca vera e propria, intesa come attività economica, della quale i danni derivano sia dall’eccessivo prelievo, sia dal fatto che i pescatori, vuoi per ignoranza, vuoi per delibarata tragressione e noncuranza delle norme in materia ambientale, non sia fanno scrupolo di catturare anche esemplari di specie rare e protette, in pericolo di estinzione.

In sintesi, possiamo dunque affermare che il deterioramento delle condizioni di vita dei Verterbati sia dovuto più che alla perdita di ambienti naturali in senso stretto, -quali la foresta di latifoglie nelle aree di pianura e di collina-, fenomeno che purtroppo in Italia è avvenuto già da secoli (a parte le zone di alta montagna, e le aree umide, che fino agli inizi del 900 erano ancora molto diffuse), al venir meno di quegli ambienti nei quali si era creato un significativo equilibrio tra le esigenze della Fauna e della Flora spontanee e quelle della popolazione umana, dove le attività antropiche, specialmente l’agricoltura, erano compatibili con il sussistere della vita naturale. Ma con il progressivo diffondersi nel corso del 900 di un urbanesimo sempre più invasivo, di una industrializzazione dissennata, di una agricoltura intensiva e predatoria, degli allevamenti di Animali “da reddito”, -i quali, oltre ad essere dei veri orrori, una della manifestazioni più aberranti dell’insensibilità umana, hanno un impatto ambientale negativo altissimo-, la situazione è radicalmente cambiata; a questo si aggiungano le profonde modifiche e alterazioni apportate al regime dei corsi d’acqua, l’inquinamento degli stessi, le opere di cementificazione, di canalizzazione, gli sbarramenti, che hanno reso impossibile la vita dei Pesci anàdromi e catàdromi e ne hanno decretato la fine consumata o imminente, il pauroso impoverimento della portata dei fiumi causato dall’imponente sottrazione di acqua per le esigenze di un agricoltura e di un allevamento devastanti a livello ecologico ed avremo un quadro quanto mai sconfortante, ma purtroppo realistico delle condizioni della Natura nel nostro paese (ma potremmo dire in gran parte del mondo).

In sostanza gli interventi di protezione e di conservazione dalla Fauna in Italia operati durante gli ultimi decenni sono consistite essenzialmente in programmi volti alla salvaguardia di di singole specie (come il Lupo e l’Orso bruno) e nell’istituzione di aree protette (parchi nazionali e regionali, oasi naturali, ecc.), Questi interventi hanno avuto in effetti discreti risultati perchè, come abbiamo detto sopra, si è verificata in generale una ripresa dei grandi Mammiferi che 40 anni fa erano quasi spariti, nonché la ricomparsa o la reintroduzione in Italia di specie assenti da lungo tempo (quali la ricordata Cicogna bianca e il Pollo Sultano -Porphyrio porphyrio- in Sicilia e in Sardegna), mentre circa il 12% del territorio nazionale è ora sottoposto a vincoli ambientali, -peraltro non sempre rigorosamente rispettati, sia per la carenza del personale incaricato di tutelare le aree protette, sia a causa dei “progetti di valorizzazione turistica” sempre in agguato dell’integrità dei parchi con tutte le brutture che comportano e spesso proposti da classi dirigenti, specie quelle locali, miopi e rapaci-.

Una veduta del Parco nazionale del Pollino. In primo piano un Pino Loricato, uno degli alberi più caratteristici di quest'area protetta.
Una veduta del Parco nazionale del Pollino. In primo piano un Pino Loricato (Pinus leucodermis), uno degli alberi più caratteristici di quest’area protetta.

A questi problemi si deve aggiungere la difficoltà o l’impossibilità che tali “isole” non risentano delle avverse condizioni in cui versano la maggior parte delle zone che le circondano, tanto più forti quanto meno ampie siano le aree protette; ed inoltre la sempre incombente piaga del bracconaggio, che si accanisce anche contro gli esemplari di specie in rare e in pericolo critico, ed è quindi una delle principali minacce per queste ultime.

L’attuale classificazione, stabilita con il Decreto Legislativo 27 aprile 2010, comprende 871 Aree Naturali Protette, suddivise in 24 Parchi Nazionali; 27 Aree Marine Protette; 147 Riserve Naturali Statali; 3 Aree Naturali Protette; 134 Parchi Naturali Regionali; 365 Riserve Naturali Regionali; 171 Altre Aree Protette Regionali per complessivi 3.163.590 ha di superficie terrestre, 2.853.033 ha di mare e 658 km di costa. Di questi territori il più ampio è il Parco Nazionale del Pollino, istituito nel 1993, che si estende tra Basilicata e Calabria su una superficie di 192.565 ha; al secondo posto si trova il Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, con un’estensione di 181.048 ha, in provincia di Salerno. Tra i Parchi istituiti per primi, il più vasto è il Parco dello Stelvio, con 130.728 ha, la cui istituzione riale al 1935. Il Parco Nazionale più piccolo è invece quello delle Cinque Terre in Liguria, il quale comprende solo 3.860 ha, peraltro di eccezionale interesse ambientale e naturalistico. L’ultimo parco istituito in Italia è il Parco Nazionale dell’Appennino Lucano-Val d’Agri.

Veduta del Parco Nazionale del Gran Sasso.
Veduta del Parco Nazionale del Gran Sasso.

Si potrebbe quindi pensare che nel nostro paese la condizione della Natura sia ben tutelata; ma come si è detto sopra questa idea rischia di essere fallace: in primo luogo quasi tutte queste aree  non sono integralmente “naturali”, ma in esse esistono insediamenti umani e centri abitati, con una notevole popolazione, vi si esercitano attività di vario tipo (talora addirittura sono presenti stabilimenti industriali), ed è facile comprendere che, per quanto si cerchi di limitare l’impatto della presenza umana sull’ambiente naturale, esso comporta comunque degli effetti più o meno negativi. Inoltre è inevitabile che queste aree, specie quelle di minore estensione, risentano di fattori e processi che agiscono su larga scala, come inquinamento dell’aria e dell’acqua, impoverimento dei corsi d’acqua, eccessiva antropizzazione dei territori al di fuori delle aree stesse, ecc. Emblematica in questo senso la situazione di molti parchi e riserve regionali nella Pianura Padana, come ad esempio il Parco del Delta del Po.

Ed è proprio quest’ultimo forse il principale limite di questi interventi conservativi che sono troppo settoriali per risultare davvero efficaci: infatti sarebbero necessarie azioni di ben altra portata che incidano in profondità su vasti territori e che operino in modo generalizzato, sebbene non dovunque nella stessa misura. Ma d’altra parte interventi davvero profondi e incisivi sarebbero considerati incompatibili con un sistema economico e una gestione delle risorse naturali ed energetiche che non sono per nulla ecologici; non solo, ma tali interventi e provvedimenti dovrebbero essere adottati su vasta o vastissima scala, e modificare un insieme di fattori: dalla fine del disboscamento, alla drastica riduzione delle emissioni inquinanti, al ritorno, almeno parziale dei corsi d’acqua al loro regime naturale.

Veduta della Riserva Naturale Orientata dello Zingaro in Sicilia.
Veduta della Riserva Naturale Orientata dello Zingaro in Sicilia.

Per salvare davvero la Natura, e il Pianeta sul quale viviamo  sarebbero indispensabili dei mutamenti sociali e culturali che purtroppo sono da ritenersi alquanto improbabili, per non dire impossibili. Infatti  da un lato occorrerebbe mettere fine allo sfrenato consumismo e al falso mito del benessere per tutti nei paesi economicamente sviluppati -mito nel quale cosiddetta “crisi economica” degli ultimi anni sta creando alcune crepe, ma che è ancora ben lungi dall’essere stato sfatato, perché si continua a cercare soluzioni entro i suoi assiomi e i suoi dogmi, dai più considerati indiscutibili, e non al di fuori di essi (vedi i reiterati e monotoni appelli alla “crescita”, a “far ripartire i consumi” ecc.)-; dall’altro evitare che la disastrosa esperienza dei paesi di antica industrializzazione si ripeta nei cosiddetti “paesi emergenti” (Russia, Cina, India, Brasile e altri minori), i quali ultimi però, anziché essere stati ammaestrati da tale esempio, e sforzarsi dunque di trovare e di percorrere una strada diversa per il loro sviluppo economico, con spudorata e miope incoscienza reclamano il “diritto” di fare scempio della straordinario patrimonio naturalistico e ambientale che hanno avuto il dono di possedere in nome del raggiungimento di un grossolano benessere materiale, che oltretutto finora è andato a beneficio solo di una ristretta minoranza delle loro popolazioni.

E’ per questo che l’emergenza ambientale in questi paesi sta diventando sempre più pesante e allarmante, tanto che fiumi come il Gange e lo Yang-tzè sono inquinati come, o forse, più del Reno o del Tamigi 60 anni fa, tanto che ora sono praticamente estinti i rarissimi Delfini di acqua dolce dai quali erano abitati; e negli ultimi anni essi sono assurti ai primi posti nella graduatoria degli inquinatori della Terra. A queste grette e per nulla lungimiranti politiche economico-ambientali di molti paesi un tempo definiti “Terzo Mondo”, si deve aggiungere la perniciosa influenza dei potentati economici e politici degli USA, che si oppongono tenacemente a qualsiasi riduzione nell’uso e abuso dei combustibili fossili -in primis il petrolio-, e a qualunque freno nella devastazione ambientale, -in specie delle foreste tropicali, che vengono distrutte per far posto a colture intensive e a insediamenti industriali (nei quali consiste il “vero” progresso…)-. A tal fine costoro si sforzano in tutti i modi, anche con il sostegno di certi ambienti scientifici, di negare la realtà degli sconvolgimenti climatici, o comunque che essi siano causati dalle opere e dai comportamenti umani.

Date queste premesse, è ovvio che le varie conferenze internazionali periodicamente indette per rimediare ad una situazione che si aggrava vieppiù sono e saranno sempre destinate ad essere dei solenni fallimenti, il cui unico scopo è far credere ad opinioni pubbliche superficiali e distratte che i governi abbiano a cuore il problema e che si sforzino di adottare dei provvedimenti adeguati per risolverlo e contrastare efficacemente il progressivo degrado in cui versa il Pianeta.

Ma sarebbe del tutto sbagliato addebitare questa drammatica situazione e la mancanza o l’insufficienza di un’azione efficace a favore dell’ambiente e della biodiversità solo all’inerzia dei governi e delle classi dirigenti o alla loro connivenza con le grandi consorterie economico-politiche, che spesso sono le dirette responsabili degli immensi danni arrecati alla nostra Madre Terra. Una non minore responsabilità ricade anche sulle popolazioni, delle quali i governi sono sempre la fedele espressione: quelle dei paesi “sviluppati”, -pur se a parole le opinioni pubbliche sembrano sensibili a tale gravissimo problema- non sono disposte ad accollarsi il benché minimo sacrificio per riparare almeno in parte ai disastri causati all’ambiente dallo “sviluppo industriale” e dal benessere al quale sono abituate e che considerano irrinunciabile; quelle dei paesi “emergenti” o “in via di sviluppo” anelano a conquistare tale benessere a loro volta e sono bramosi di assidersi al banchetto mondiale dal quale si sono sentiti finora esclusi, e per questo non intendono privarsi di uno “sviluppo”, col quale credono di poter raggiungere le loro mete e porre fine ad una sudditanza economico-finanziaria retaggio del mondo coloniale e post-coloniale.

Nella “Conferenza sulla Biodiversità” tenutasi a Nagoya in Giappone il 29 ottobre 2010 sono stati fissati 20 “obiettivi strategici” per combattere la costante diminuzione della biodiversità sulla Terra che dovrebbero essere vincolanti per gli Stati che li hanno sottoscritti e che dovrebbero essere conseguiti entro il 2020. Tali obiettivi sono sati suddivisi in 5 gruppi, che sono i seguenti:

1) approfondire le cause della progressiva perdita della biodiversità, cercando di aumentare l’importanza di tale tema azll’interno dei programmi di governo e nell’attenzione delle società civili (in pratica sensibilizzare governi e popolazioni al problema);

2) ridurre le cause di distruzione della biodiversità e promuovere un uso sostenibile delle risorse e delle fonti energetiche;

3) migliorare lo stato della bodiversità con la salvaguardia degli ecosistemi, delle specie e rischio e della diversità genetica (cioè aumentare le aree protette e favorire i programmi di conservazione per le specie minacciate);

4) avvalersi dei benfici derivanti dalla biodiversità e dalla varietà degli ecosistemi (ovvero incentivare l’impiego di fonti energetiche alternative e l’agricoltura biologica);

5) promuovere l’attuazione di tali programmi atraverso la partecipazione pianificata e la gestione delle conoscenze relative all’ambito della biodiversità (il che significa favorire gli studi in materia ecologica e incrementare i gli investimenti finanziari atti a conseguire gli scopi stabiliti dalla conferenza).

Ma sarà ben difficile che anche solo alcuni di tali obiettivi possano essere conseguiti entro il termine prefissato, o entro un termine più lungo, per le ragioni che abbiamo elencato in precedenza. Potremmo dire, con espressione eufemistica, che la situazione è destinata a rimanere assai incerta; per cui possiamo tristemente concludere questa ricerca ipotizzando che, se non interverrà qualche evento nuovo, da cui derivino conseguenze profonde su tutto il sistema economico-produttivo del Pianeta (come potrebbe essere l’esaurimento delle riserve di petrolio), o che abbia un fortissimo impatto emotivo (come potrebbe essere un disastro ecologico apocalittico, con milioni di vittime umane), e che costringa quindi l’umanità a cambiare strada, entro non moltissimi anni le alterazioni e distruzioni provocate dalle opere umane sul pianeta Terra condurranno davvero una catastrofe, nella quale anche l’uomo soccomberà.

 

 

 

 

 

 

 

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