PETER PAN E PINOCCHIO (quinta parte)

D’altro canto è senza dubbio arduo stabilire che cosa debba intendersi per “letteratura per l’infanzia”, e darne una definizione univoca e soddisfacente, poichè i criteri secondo i quali un’opera può essere inserita in tale categoria, al di là del dichiarato intendimento dell’autore appaiono spesso piuttosto esteriori e formali; e se un libro sia da giudicare adatto per l’infanzia solo per contenuto, argomento e forma, o anche per un intento educativo, sebbene non conclamato come in un vero libro di testo, ma veicolato da una storia avvincente e da una forma accattivante, che sappiano carpire l’attenzione dei giovani lettori e parlare al loro cuore e dunque comunicare il loro insegnamento non con un approccio didascalico e moralistico, -che potrebbero sortire una reazione di rifiuto-, ma attraverso la simpatia, e l’empatia ispirate dai loro protagonisti.

In effetti non può certo dirsi che solo perchè un testo tratta di fate, draghi ed altri esseri fantastici sia automaticamente adatto all’infanzia, come poteva sembrare alla società borghese dell’800, che per tale ragione relegò nel limbo della letteratura “minore” per i fanciulli tutta la produzione fiabistica dei secoli precedenti, che in realtà non era stata concepita espressamente per i bambini, ma derivava da una rielaborazione di tematiche mitologiche, di cui si erano perduti i profondi e più o meno reconditi simbolismi, ma di cui rimaneva la meraviglia delle avventure e dei prodigi e il piacere della narrazione, spesso comunitaria. Ma non solo la fiaba, anche opere di carattere fantastico e grottesco o avventuroso, quali ad esempio “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift e “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe, che nelle intenzioni degli autori non erano certo destinate ad un pubblico infantile, -specie la prima, che, mostrando la relatività e la soggettività delle esperienze e dei giudizi umani, anticipava le intuizioni e le tesi espresse in opere quali “Micromega” e “Candido” di Voltaire-, vennero considerate tipiche opere adatte ad un pubblico di fanciulli e di adolescenti.

Un altro elemento da considerare sono i criteri estetici in base ai quali valutare i libri destinati all’infanzia: dovranno essere simili a quelli per la letteratura “adulta”, o avere una loro specifica peculiarità? E la letteratura infantile è “vera” letteratura? Ad onta di quanto scrisse Benedetto Croce, il quale nel suo celebre giudizio positivo su Pinocchio -sul quale torneremo poi-, afferma di apprezzare il romanzo collodiano proprio perchè si distacca dalla “speciale e ordinaria letteratura per l’infantile, congegnata e calcolata per bambini […] prodotto pedagogico […] privo di vita e pregio artistico”, a questa domanda si può e si deve dare certamente una risposta affermativa; non solo perchè in essa spesso, anche quando affiorino istanze educative, troviamo una autenticità artistica e una vivezza di espressione che la rendono degna della migliore tradizione letteraria, ma pure perchè spesso molte delle opere classificate come libri per bambini o ragazzi hanno molto da insegnare anche agli adulti.

La letteratura per l’infanzia senza dubbio deve essere prima di tutto “letteratura”, e quindi forma d’arte, che sappia esprimere un contenuto originale entro una forma che la renda veicolo di un aspetto universale dell’uomo e del mondo. Pertanto la differenza tra letteratura infantile e letteratura in generale (non impieghiamo il termine “letteratura per adulti” per chè tale espressione ha assunto un brutto significato e potrebbe inegenerare equivoci) è solo nei contenuti; ma è evidente d’altra parte che spesso qualificare un libro come opera per l’infanzia, o la giovinezza, è solo una questione di punti di vista: se consideriamo ad esempio i romanzi di J. Verne o di E. Salgari, e in generale il genere “avventuroso”, essi non furono concepiti espressamente per un pubblico giovanile, e tanto meno infantile, ma poichè un giudizio superficiale ha fatto considerare tali opere, soprattutto quelle del nostro Salgari, un genere di letteratura poco “impegnata” e quindi adatta ai ragazzi e non alle persone “mature” (pur se in realtà furono e sono tuttora giustamente apprezzate anche dagli adulti), essi sono stati classificati in questa categoria.

Neppure si può considerare la letteratura per bambini e ragazzi un genere letterario specifico, come il giallo-poliziesco, il “romanzo rosa”, il “romanzo fantasy”, la fantascienza e altri generi reputati minori, o inferiori, e relegati per questo ai margini della produzione libraria “importante”, quella che entra nella storia della cultura, o nella storia “tout court”, di un paese o di un’epoca, poichè in questo “contenitore”, -per usare un’espressione comune ai dì nostri-, possono essere fatti rientrare molti generi che riproducono, pur se adattati alla misura dell’età dei giovani lettori, i paralleli generi della letteratura “adulta” (dalla poesia alla fiaba, all’avventura, alla fantascienza fino all'”horror” -si pensi alla fortunata serie dei “Piccoli Brividi” (“Goosebumps”) di Robert L. Stine-).

Nell’ambito della letteratura genericamente definita “per ragazzi” si devono poi distinguere i libri e i testi pensati per bambini (fino ai dieci anni circa), -e quindi “letteratura infantile” in senso stretto-, e le opere “per ragazzi” oltre i dieci anni, a cavallo tra l’infanzia e l’adolescenza (quell’età definita in modo un po’ ambiguo “preadolescenza”), opere che spesso mostrano e conservano validità ed interesse anche ben oltre l’età giovanile. A questo proposito sarà opportuno precisare che se l’infanzia è una fase ben definita dello sviluppo psico-fisico, nella quale poche differenze si riscontrano attribuibili all’influenza dell’ambiente e a circostanze storiche, l’adolescenza al contrario è sempre grandemente influenzata in tutte le sue manifestazioni, e pure nei suoi caratteri fondamentali, dall’ambiente familiare, culturale e sociale, oltre che dalle esperienze personali del soggetto, tanto che un adolescente europeo dei giorni nostri è assai diverso sia dall’adolescente di un secolo fa, sia dai suoi coetanei attuali che vivono in società meno avanzate sul piano economico e tecnologico o che addiritttura sono costretti ad affrontare emergenze tragiche quali guerre e carestie. La stessa durata di tale periodo è alquanto variabile poichè solo l’inizio, ossia la pubertà, -che è un momento ingressivo e non una vera “età della vita”-, può essere stabilito in modo oggettivo, mentre la fine sfuma in modo più o meno insensibile nell’età adulta, tanto che in casi limite può durare fino alla soglia della “terza età” (ed avremmo così i cosiddetti “Peter Pan”, gli “eterni fanciulli”, secondo un’etichetta che, come abbiamo già detto nell’introduzione della presente ricerca, a nostro parere, è largamente ingiustificata quando si conosca la vera natura del personaggio di J. M. Barrie): si potrebbe dire in modo paradossale, -ma solo fino a un certo punto-, che l'”adolescenza”, come fase di sviluppo psicologico con peculiari caratteristiche, è una particolarità o una prerogativa della specie umana (anzi, come si è detto forse solo delle società più complesse ed economicamente progredite), poichè di fatto negli altri animali essa è solo la prima parte della vita adulta.

Da questa constatazione deriva la conseguenza che, pur nel susseguirsi delle generazioni, poco cambia nei gusti e nelle preferenze dei bambini “piccoli”, in cui predominano i dinamismi fisici e psichici naturali e che sono molto meno influenzati dalla società esterna e dai suoi mutevoli idoli, dai suoi pregiudizi e dalle sue ossessioni, così che pure i testi più o meno datati (fiabe, favole, filastrocche,ecc.) mantengono a grandi linee la loro validità, ovvero testi più recenti possono ispirarsi a criteri simili a quelli del passato nei temi e nelle forme in cui sono trattati, e le innovazioni saranno più che altro nella lingua e nei riferimenti ad una realtà più familiare al bambino. Al contrario nell’età tra infanzia e adolescenza, fino alla giovinezza, molto più si fanno sentire i condizionamenti ambientali, e, specie ai nostri giorni, l’influenzabilità tipica di preadolescenti e adolescenti è sempre meno controllata da istituzioni quali la famiglia e la scuola, le quali non sono più in grado di esercitare una guida autorevole e di contrastare o filtrare le molteplici e disparate sirene dalle quali i ragazzi sono ammaliati. Per tale ragione il libro che si rivolge al “pre-adolescente”, o anche al bambino “grandicello”, non potrà non tenere conto di tale situazione generale, se vorrà farsi apprezzare e comunicare qualcosa a un “lettore” sempre più distratto, per non dire bombardato, da un’infinità di sollecitazioni, di informazioni, di stimoli, spesso contraddittori e discutibili, che anzichè contribuire alla sua crescita personale, come i cattivi compagni di Pinocchio e di Giannettino, rischiano di portarlo su strade infide e perigliose.

E tuttavia, pur dovendo necessariamente considerare il contesto culturale, nel complesso problematico, per non dire deteriore, in cui ci troviamo e l’estrema difficoltà, molto maggiore di quella di un tempo, per i motivi testè riportati, di instillare a fanciulli e ragazzi principi universalmente validi, non solo di carattere morale e civile, ma pure estetico, crediamo del tutto sbagliato abbandonare, o addirittura sconfessare, libri che fino a pochi decenni fa erano giudicati un’integrazione quasi indispensabile nell’istruzione e nell’educazione di un bambino, e non sono affatto “superati”, pur se debbono essere inquadrati nel periodo storico e nella temperie culturale in cui nacquero.

Se si ritiene “superato” ad es. il “Cuore” di De Amicis, per le medesime ragioni si dovrebbero ritenere “superati” anche “I Promessi Sposi”, “Le Mie Prigioni”, “Piccolo Mondo Antico” di A. Fogazzaro, e buona parte della letteratura dell’800, intrisa di “sentimentalismo” e di “moralismo”, e spesso anche di idealità patrottiche divenute ora oggetto di feroce scherno e accanita denigrazione da parte dei nemici del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, in nome di revisionismi che di “storico” hanno poco o nulla, e che sono funzionali solo a contigenti interessi politici. Allo stesso modo si dovrebbero considerare “superati” tutti i testi, anche i più venerandi, che per la lingua rivestita dell’augusta patina dall’arcaicità, per gli argomenti che trattano, per le idee che in essi sono esaltate o sono comunque presenti, siano ormai lontani dalla comune sensibilità (o insensibilità…) odierna; e allora si dovrebbe lasciar cadere nell’oblio la grandissima parte delle opere della letteratura italiana, e delle letterature classiche, alle quali sarebbe riconosciuto al massimo solo un valore di testimonianza storica, di documento dell’epoca in cui furono scritte, e rinnegare così la nostra storia e la nostra tradizione. Se si giudicano “superati”, e degni di attenzione tutt’al più quale documentazione storica, e non come fondamento della nostra cultura e della nostra educazione, tutti i libri non più rispondenti al gusto del lettore tipo moderno, si dovrebbero considerare tali quasi tutti i “classici”.

Ma che cosa si intende per “classico” (ovviamente riferito alla letteratura)? In senso stretto fin dall’antichità greco-romana è definito “classico” un testo letterario che per le sue qualità tanto intrinseche (contenuto), quanto estrinseche (lingua e stile) sia ritenuto degno di rientrare un canone di autori e/o di opere giudicati i migliori in senso assoluto, e quindi meritevole di essere studiato nelle scuole e di essere preso a modello ed esempio (1).

Nei tempi moderni la nozione di “classico” e di ” classicità” (al di fuori ovviamente dell’impiego di tali termini in senso oggettivo per designare le opere sia letterarie sia di arte figurativa dell’antichità greco-romana o ad essa ispirate) ha assunto una connotazione assai più vaga ed elastica, prestandosi così a molteplici interpretazioni e definizioni: un classico è un testo a cui si riconosca un valore e una validità “universali”, ben al di là dell’epoca e dell’ambiente in cui fu concepito (e che dunque “parla” a chiunque lo legga, senza limiti di tempo e di luogo); ma si può anche designare in tal modo uno scritto che esprima e interpreti in modo artisticamente originale le tendenze e i caratteri di un’epoca e di un ambiente e ne rappresenti ed esemplifichi in modo “paradigmatico” lo “spirito” -e dunque intendere questo aggettivo in senso storicistico-. Un “classico” è anche semplicemente un libro di cui una lunga tradizione, specie scolastica, abbia consacrato l'”auctoritas”; o addirittura che solo per la sua antichità venga inserito nelle collane di “classici”, italiani, latini, greci, ecc., anche quando privo di eccezionale pregio letterario. Il concetto e la stessa definizione di “classico”, -al di fuori del suo impiego per designare in senso oggettivo gli autori e le opere delle letterature greca e latina antiche, che sono i “classici” per antonomasia-, sono quanto mai problematici ai giorni nostri poichè in un’epoca dominata dall’effimero e dal transeunte, in cui gli strumenti e le tecnologie della comunicazione sono più importanti della comunicazione stessa e dei suoi contenuti, è diventato quasi impossibile stabilire una gerarchia di valori e di merito, ancorchè parziale e non assoluta. Secondo altre possibili definizioni “classico” è il testo che si sente il bisogno di rileggere, anche più volte, scoprendone a ogni lettura nuovi aspetti e nuove rivelazioni; che offre illuminazioni, ma nel contempo dove si trovano analogie con il proprio pensiero e con la propria sensibilità, sentendosi così in consonanza con l’autore.

In un articolo apparso il 28 giugno 1981, -“Italiani, vi esorto a leggere i classici”- (2), Italo Calvino propone un serie di possibili definizioni di “classico”, -che non si escludono, ma si completano reciprocamente-, per l’esattezza 14, tra le quali, a mio giudizio, la più calzante ed esaustiva, e nello stesso tempo la più sintetica, è la seguente: “Un classico è un libro che non ha mai finito da dire quello che ha da dire”, che riassume invero anche alcune delle altre definizioni, quali: “di un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”, poichè è un testo che ci rivela a ciascuna lettura aspetti, riflessioni, idee, che nella precedente non avevamo notato, e si lascia scoprire da angolazioni differenti e sotto una nuova luce, specie quando lo si rilegga ad età diverse e con mutato grado di esperienza e di cultura; e “è classico ciò che persiste come rumore [io però avrei scelto il termine “suono” e non rumore, che ha di solito connotazione negativa] di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona”: il “classico” si sottrae quindi non solo alle mode effimere, ma pure al clamore di “dibattiti” culturali (o politico-culturali), quasi sempre, almeno ai giorni nostri, penosamente futili e ispirati o provocati da interessi del tutto contingenti.

Si potrebbe concludere che l’unica vera qualità che contraddistingue il “classico” è che esso ci mette in comunicazione e ci fa comprendere il passato, per comprendere noi stessi e il mondo attuale, e che nel medesimo tempo è lontano dall’effimero e dal transeunte, dal turbinare vorticoso, ma in fondo insulso dell’attualità.

In tal senso la stessa cultura umanistica si può considerare ai giorni nostri in grave crisi, non già perchè manchino coloro che la coltivino più o meno seriamente, ma perchè, -nonostante in Italia gli studi classici continuino ad essere contemplati, pur se impoveriti, nei programmi dei licei-, l’interesse per la cultura umanistica è dettato ormai quasi solo da un  mero interesse personale e non dal ritenerla il fondamento e il principio unificante della cultura e dell’educazione (anche per coloro che si dedichino ad attività tecnico-scientifiche).

Ma dopo questo intermezzo, peraltro non certo inutile e fuori luogo ai fini della ricerca che stiamo conducendo, torniamo ora ai nostri Pinocchio e Peter Pan, e al confronto tra di essi, per esaminarne affinità e differenze, e per far questo cominceremo dalla fine delle storie di cui sono protagonisti

Il romanzo di Collodi si conclude con la metamorfosi di Pinocchio in un “bambino vero”: rinsavito dopo aver ritrovato il suo babbo nel ventre del “Pescecane”, egli diviene il sostegno del suo malandato genitore, che mantiene con il suo lavoro; non solo, ma nel poco tempo libero si esercita a leggere e scrivere, e una mattina, dopo aver sognato la Fata Turchina che loda la la bontà e l’abnegazione da lui finalmente conquistate, si ridesta trasformato in “un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una Pasqua di rose [la Pentecoste]”. Ma in effetti la metamorfosi operata dalla Fata non è altro che il segno esteriore, la manifestazione visibile del mutamento interiore che ha trasformato Pinocchio da scavezzacollo in “ragazzino per bene”, o per meglio dire ha fatto definitivamente prevalere la sua parte buona, lo slancio verso la virtù che già era dentro di lui, e ha fatto passare dalla “potenza” all'”atto” la sua fondamentale rettitudine (poichè come diceva il signor Boccadoro “i ragazzi che hanno la fortuna di fare il viso rosso sui propri mancamenti, o prima o poi finiscono col ravvedersi e col pigliare la buona strada”). “Com’ero buffo quand’ero un BURATTINO! e come ora son contento di essere diventato un RAGAZZINO PER BENE!”, esclama Pinocchio guardando il suo vecchio sè stesso riverso accanto a una sedia.

Pinocchio divenuto fanciullo “vero” contempla insieme a Geppetto il suo vecchio “sè stesso”.

E con queste parole, che sintentizzano in modo mirabile il significato e il fine della storia, terminano le avventure di Pinocchio: il protagonista non è più un “burattino”, un essere inconsapevole di sè stesso, trascinato dai suoi impulsi deteriori, che lo rendono vittima e schiavo del destino e degli uomini, è divenuto un “uomo”, cosciente del suo vero “IO”, -della sua realtà divina in termini spiritualistici-, è l'”uomo nuovo”, che, redento dalla “grazia”, può guardare al suo vecchio e falso Io come fosse una farfalla uscita dalla crisalide. Come avremo modo di precisare più avanti, alla storia di Pinocchio sono state date delle continuazioni, -ora del tutto cadute nell’oblio-, ma è ovvio che il significato e la “lezione” offerta dalle vicende tragicomiche del burattino di legno divenuto bambino non richiede e non ammette alcuna prosecuzione, come il “vissero felici e contenti” delle fiabe tradizionali, poichè indica e mostra una realizzazione di sè su un piano profondo, che lo si voglia vedere in una dimensione puramente umana e psicologica, o anche in una spirituale, religiosa o addirittura “mistica”; e dunque anche le eventuali scelte future del Pinocchio-umano prospettate in certi “sequel”, come si direbbe oggi (scegliere una professione, sposarsi, ecc.), hanno poco senso: Pinocchio con la sua metamorfosi finale ha raggiunto il suo “telos”, -il suo compimento, in termini aristotelici-: da semplice pezzo di legno, ancorchè vivo è divenuto, una persona (3). Ma, oltre alla metamorfosi di Pinocchio, anche Geppetto che si trovava in assai malfermo stato di salute torna in buona salute, e la stessa capanna ove si erano stabiliti dopo essere riusciti a evadere dalla pancia del Pescecane, era diventata “una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante”, perchè, come spiega Geppetto, “quando i ragazzi da cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente  anche all’interno delle loro famiglie”.

Quanto a Peter Pan, dopo aver sconfitto definitivamente Capitan Uncino, egli accompagna alla loro casa Wendy, Gianni e Michele, a cui si uniscono i bambini dell'”Isola che non c’è”, i quali, nonostante l’amicizia della loro guida e il fascino del mondo avventuroso in cui avevano vissuto fino ad allora, sentono la nostalgia del calore di una famiglia, e pertanto vengono adottati dai Darling, i genitori di Wendy e dei suoi fratelli. Ma Peter Pan rifiuta di essere adottato: egli non vuole diventare “uomo” e paventa di veder spuntare la barba sul suo viso fanciullesco, barba che ha anche un evidente significato metaforico, quale segno esteriore della seriosità, della monotonia, della noia da lui associate alla condizione adulta; ma con un’interpretazione più sottile si potrebbe vedere in questo rifiuto della “barba”, il voler permanere non solo in una condizione infantile, ma in uno stato quasi androgino, il che confermerebbe il carattere “archetipico” del personaggio, il suo essere una sorta di asessuato Mercurio alchemico; egli è un simbolo che incarna una componente insita nello spirito umano: l’aspirazione a trascendere i limiti imposti dalla cruda realtà, per immergersi nell’infinita libertà del mito: se egli diventasse “uomo adulto”, se si integrasse nella società umana adeguandosi agli schemi, giudizi e pregiudizi di essa, si spegnerebbe proprio quell’energia vitale che aiuta i fanciulli a diventare “grandi”, si inaridirebbe la sorgente dalla quale sgorgano non solo la fantasia e lo spirito di avventura, ma pure i grandi ideali, lo slancio verso le nobili imprese e per tutto quanto eleva la vita al di sopra del piano dell’esistenza materiale e della sua banalità. Non rappresenta certo l’anelito spirituale o la tensione mistica, e neppure lo stimolo alla conoscenza di sè stessi, ma il “cuore”, ovvero i sentimenti superiori, l’istinto come forma di intelligenza per l’appunto del “cuore”, la creatività non tanto in senso artistico o estetico, ma soprattutto quella che si esprime nella vita quotidiana, e che consente di affrontare nuove situazioni senza lasciarsi condizionare dalle esperienze passate, spesso negative e frustranti. In altre parole Peter Pan, dopo aver compiuto la sua missione di aiutare a crescere Wendy e i suoi fratelli, -cosa in apparenza paradossale per chi ha scelto di rimanere eterno fanciullo-, torna nella dimensione astratta e atemporale propria di un archetipo; ma nel medesimo tempo continua a vivere nell’anima dei fratelli Darling (così come in modo più o meno consapevole in quella di tutti gli umani), contribuendo a farli diventare adulti migliori e a orientare le loro scelte con la forza della fantasia e con lo slancio creativo dell’infanzia.

Quelli che erano stati i membri della “banda” dei bambini smarriti capeggiata da Peter Pan, lasciata la “Neverland”, -che torna quindi ad essere per loro una dimensione interiore-, cominciano una nuova vita, in cui devono frequentare la scuola, -pure se anch’essi all’inizio, un po’ come Pinocchi, si mostrano pentiti di avere lasciato l’isola della fantasia, in cui la loro esistenza, pur se più pericolosa, era assai più libera e stimolante-, diventano grandi e alla fine trovano impieghi molto seri e rispettabili, cosi come Gianni e Michele; e anche Wendy si sposa e diviene una solerte e amabile madre di famiglia. Ma alla sua piccola figlia, Jane, ella parla sempre di Peter Pan, delle avventure da lei vissute in sua compagnia e dell’affetto che prova per lui; fino a che una notte l’eterno bambino compare nella camera da letto ove dormono Wendy e Jane e chiede a colei che considera ancora la sua mamma di tornare da lui. Wendy non può accettare la sua proposta di Peter e gli ricorda che non è più una bambina, che ormai è una donna, a sua volta madre, suscitando in lui delusione e dolore;  ma Jane, svegliata dai singhiozzi di lui, decide di seguirlo e senza sforzo si libra nell’aria per raggiungere il fanciullo volante. “Ora anche Jane è una donna qualunque, con una figlia che si chiama Margherita, e ogni primavera, -meno quando se ne dimentica-, Peter viene a prendere Margherita per condurla al “Paese che non c’è”, dove lei gli racconta ciò che sa di lui, e lui ascolta seriamente. Quando Margherita crescerà avrà una figlia, che sarà a sua volta la mamma di Peter, e così via, per sempre, fin che i ragazzi saranno allegri, innocenti e senza cuore” (traduzione di Milly Dandolo): e così si rinnova in un ciclo eterno la missione di Peter Pan, l’eterno fanciullo che insegna ai bambini ad essere adulti e agli adulti ricorda che sono stati bambini.

Wendy e Peter Pan sorpresi dalla signora Darling mentre si apprestano a volare dalla finestra per recarsi all’Isola che non c’è.

Al contrario di Pinocchio, che trova nella metamorfosi finale il senso della sua esistenza, Peter Pan proprio nel suo essere eternamente sè stesso ha la sua ragione di esistere, sia sul piano artistico e letterario, sia per quello che è il messaggio che vuole trasmettere. Pertanto si potrebbe affermare che mentre il primo è un personaggio dinamico, un individuo che cambia ed evolve, pur rimanendo sè stesso, Peter Pan appare di primo acchito quale una figura statica, ferma nell’immutabile perfezione di una divinità o di un eroe che gode dell’eterna giovinezza, come un Hermes, un Eros, o lo stesso Pan di cui porta il nome (pur non avendo certo i caratteri primitivi e rustici di questa creatura mitologica), che, potremmo quasi dire, incarna una categoria dello spirito, se tale definizione non sembrasse forse un po’ troppo pomposa e eccessiva applicata al piccolo eroe di Barrie. Eppure anche Peter Pan ha una sua definita psicologia, è un personaggio vivo e vero, un bambino reale, con la sua indole, non una maschera o un bozzetto, pur se attraverso di lui si esprime un archetipo universale e rimane ancorato al mondo ideale a cui appartiene; e a una più attenta riflessione non si potrà fare a meno di osservare che in realtà dall’incontro con Wendy e i di lei fratelli e dalle avventure vissute con essi anche lui è uscito cambiato, è stato reso più “saggio”, più consapevole della propria intelligenza emotiva: nella ragazzina londinese, oltre ad avere trovato una “madre”, -così come Pinocchio l’aveva trovata nella “bambina dai capelli turchini”-, Peter Pan ha incontrato la sua controparte femminile, quella che in termini junghiani è l'”Anima”.

Sia la Fata dai capelli turchini sia Wendy sono entrambe “figure materne”, -ma nel medesimo tempo sorelle maggiori- tanto per le loro intrinseche caratteristiche, quanto per il loro comportamento e per la funzione che svolgono nelle vicende di cui sono coprotagoniste, sono il punto di riferimento dei loro “figli”, che hanno trovato in loro uno stimolo, un aiuto indispensabile per comprendere la loro vita. Ma d’altro canto si potrebbe anche instituire una correlazione inversa in cui la Fata corrisponde a Peter Pan e Pinocchio a Wendy: infatti la Fata collodiana è colei che ha fatto crescere Pinocchio, l’ha fatto diventare un “ragazzino per bene”, è stata se non la “causa efficiente”, il catalizzatore della trasmutazione del burattino di legno in una creatura spirituale, e si può verosimilmente ipotizzare che nel cuore dell’ex-burattino la sua figura continui a inabitare, infondendogli quella comprensione e quella dolcezza che ella aveva sempre manifestato verso di lui e grazie alla quale Pinocchio si è salvato da innumeri pericoli e ha potuto giungere alla meta finale, e che ora il “ragazzo per bene” potrà a sua volta dispensare agli altri (4); così come Peter Pan, il bambino al quale è mancato l’affetto di una vera madre, -e per questa ragione non ha potuto “crescere”, comprendendo, accettando e “metabolizzando” il suo lato emotivo-, insegna senza volerlo a Wendy a vivere nel modo più autentico la propria femminilità, a riflettere sui suoi sentimenti e a comprendere che significa essere madre. E così di madre in figlia, di generazione in generazione, ogni bambina riceve la visita di Peter Pan, il quale intrattenendosi con lei e conducendola nel suo regno che non è solo della fantasia, ma anche dei sentimenti e dell’interiorità, l’aiuta a diventare donna.

Una funzione in parte complementare e in parte antitetica a quella della Fata dai capelli turchini riveste il Grillo Parlante: in effetti la figura di questo saggio insetto, che riceve sempre dal burattino un trattamento assai duro, sembra incarnare, più che la voce della coscienza, il rigore moralistico di una certa pedagogia fondata su principi morali astratti e incapace di adeguarsi alle situazioni concrete, -pur essendo i suoi rimproveri assolutamente validi-. Egli in effetti non sa adattare la sua opera educativa alla psicologia e all’indole di Pinocchio, combattendone le pulsioni istintive attraverso consigli e considerazioni che il burattino non riesce a comprendere e ad accettare, anzichè cercare di incanalarle e guidarle verso un fine positivo, e ottiene pertanto continui insuccessi, suscitando spesso anche la risentita insofferenza del burattino, e talora la sua rezione collerica. Il Grillo Parlante commette l’errore di voler contrastare con il ragionamento le emozioni da cui derivano gli errori di Pinocchio, come di qualunque bambino (e non solo bambino), poichè le emozioni e i sentimenti, specie quelli negativi, sono impermeabili al ragionamento e si possono scalzare solo con altri sentimenti più elevati e costruttivi, ma nello stesso tempo più forti. Per questo solo alla fine del romanzo, quando è finalmente rinsavito, quando è diventato “adulto”, Pinocchio può capire gli argomenti del Grillo e apprezzare la sua saggezza e quindi riconciliarsi con lui, anzi con quella che è una parte di sè stesso che prima rifiutava.

Al contrario la Fata sa avvalersi di una consumata perizia psicologica e riesce a conquistare il cuore del suo protetto sia con allettanti promesse di futuri premi se si sforzerà di essere buono, sia ,soprattutto, esternando il dolore che egli le procura con le sue reiterate disubbidienze; per cui Pinocchio, al quale, pur essendo scarso di cervello, ad onta del suo essere di legno, non manca certo di un grande cuore, come dimostra in più occasioni nel corso della storia, non può non lasciarsi commuovere da tale sofferenza. Anche se poi la sua natura indisciplinata, la sua debolezza e la mancanza di forza di volontà tornano a prevalere, così che non gli riesce di mettere in atto i lodevoli proponimenti e a mantenere le promesse fatte a colei che mostra di essere a un tempo una madre e una sorella maggiore.

CONTINUA NELLA SESTA PARTE

Note

1) l’aggettivo “classicus” riferito a una categoria di scrittori, oratori e poeti autorevoli si trova citato per la prima volta nelle “Noctes Atticae” (XIX, 8, 15) di Aulo Gellio, dove però viene impiegato in senso analogico, -per cui non si può dire che fosse già un uso corrente al tempo dello scrittore latino nel II secolo-. Tra i canoni elaborati dagli antichi furono famosi soprattutto quelli dei grammatici alessandrini, quali Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samo, non giunti fino a noi ma esplicitamente citati tra gli altri da Quintiliano nel decimo libro dell'”Institutio Oratoria” (X, 1, 54 e 59), dedicato alla critica lettararia e agli autori più indicati per i futuri oratori.

2) sviluppato poi in una raccolta di saggi pubblicata postuma nel 1991 con il titolo “Perchè leggere i classici”.

3) in effetti, come abbiamo osservato nella parte precedente, è probabile, pur se non certo, che nell’Alfredo amico dello scimiottino Pipì, protagonista di una delle “Storie allegre” sia da identificare il Pinocchio redento.

4) come abbiamo detto nella nota precedente, questa ipotesi sarebbe dimostrata se si identifica Pinocchio non più burattino con Alfredo. Dobbiamo però ricordare che, dato il grandissimo successo del romanzo collodiano, sulla scia di esso nella prima metà del 900 furono pubblicati un gran numero di romanzi concepiti come un seguito o una integrazione del testo orginale, ma che spesso hanno ben poco a che fare quest’ultimo, in cui il celebre burattino diviene protagonista di situazioni e avventure alquanto improbabili, – “La promessa sposa di Pinocchio”; “Pinocchio nell’altro mondo”; “P. sulla Luna”; “P. guerriero”; “P. poliziotto”; “P. reporter”; ecc.-, in cui compaiono fratelli, cugini e figli di Pinocchio; la creatura collodiana fu anche fatta partecipare alla prima guerra mondiale, divenne fascista, balilla, e via dicendo. Tutte queste storie, -ora completamente dimenticate-, sono state designate con il termine ironico di “pinocchiate”, e talora riguardanoa anche altri personaggi collodiani, come ad esempio Lucignolo (“Lucignolo, l’amico di Pinocchio” di Alberto Cioci, a cui l’autore fece poi seguire “Mòccolo, l’amico di Lucignolo”). Tra i migliori, -ma certo non paragonabili al capolavoro collodiano-, ricordiamo “Il cuore di Pinocchio – Nuove avventure di un celebre burattino”, di Paolo Lorenzini (1876-1958), nipote di Collodi, in quanto figlio del fratello di lui Ippolito, noto con il nome di”Collodi nipote”, fecondo autore di libri per l’infanzia. In questo romanzo Pinocchio divenuto umano vorrebbe arruolarsi per partecipare anch’egli alla “grande guerra”, e si intrufola su un treno che parte per il fronte; lì è protagonista di un episodio che risente dell’esempio della celebre “vedetta lombarda” del “Cuore” di De Amicis; viene infine gravemente mutilato e ferito, per cui gli vengono applicate numerose protesi artificiali, così che si ritrova ad essere una sorta di “cyborg”: da burattino di legno, dopo la metamorfosi umana, finisce per diventare una specie di robot.

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