L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA-seconda parte (l’escatologia nel mondo greco-romano)

Nell’esaminare l’idea della sopravvivenza delle anime nella maggior parte delle antiche civiltà del Vicino Oriente (ad eccezione dell’Egitto, dove la condotta terrena era determinate nell’esito del giudizio davanti al tribunale di Osiride), abbiamo potuto osservare come alla concezione primitiva di un’esistenza umbratile e triste, allo stato di “ombre” che conservano solo una parvenza di sensibilità, di pensiero e di coscienza, -stato pressoché uguale per tutti i defunti, indipendentemente dalla loro condotta terrena-, subentra una concezione più avanzata in cui diviene determinante ai fini dello stato post mortem dell’individuo il suo comportamento e la sensibilità morale da lui dimostrata in vita.

All’inizio a differenziarsi dalla sorte dei comuni mortali sono solo alcuni individui che si possono considerare eccezionali e che si collocano agli estremi del genere umano: da un lato coloro che ebbero in dispregio qualsiasi legge umana e divina e si resero colpevoli delle azioni più nefande ed orribili -e dunque nei quali si era spento anche il minimo barlume di luce divina, ed anzi di umanità-; dall’altro i grandi benefattori, gli esseri superiori che seppero elevare il loro livello di coscienza fin quasi ad una vetta divina. I primi vengono destinati ad un luogo di pene atroci e senza fine, spesso inflitte secondo il principio del contrappasso; i secondi proseguono la loro nobile esistenza in un mondo di serena bellezza. La massa dell’umanità che non eccelse né nel bene, né nel male, e in cui la scintilla spirituale, pur non essendo spenta, non riuscì a prevalere sulle passioni sensuali, sugli impulsi aggressivi e sui meschini egoismi, continua ad essere inviata nello squallido e anonimo oltretomba.

Prato di Asfodeli.
Prato di Asfodeli.

Nella concezione post-omerica l’oltretomba dove affluiscono gli “ignavi” è il prato o prateria degli Asfodeli (considerato dai Greci il fiore dei morti) (1), nome che già Omero aveva citato per indicare il triste luogo ove dimoravano gli eroi incontrati, o visti, da Ulisse nella sua discesa agli Inferi (o per meglio dire il suo affacciarsi al regno di Ade, poiché a quanto dice Omero erano le anime dei morti che si erano appressate a lui, richiamate dal sangue degli animali sacrificati): dopo il suo colloquio con lui “d’Achille alle veloci piante/ Per li prati d’asfodelo vestiti/ L’alma da me sen giva a lunghi passi” narra Ulisse ad Alcinoo; e qui, tra molti famosi eroi, egli vide che il mitico cacciatore Orione traeva ancora alcun diletto continuando ad inseguire gli spettri degli animali che da vivo soleva uccidere nelle sue scorribande tra i monti. Ed in effetti anche l’etimologia del nome -“Aσφòδελoς”-, della quale sono note due differenti versioni-, sembra confermare il legame con l’oltretomba: secondo una di esse il nome deriverebbe da α- privativo + il verbo “sphallo,-ein” = cadere, inciampare- e pertanto significherebbe “che non cade, non vacilla”; seguendo l’altra, più complessa e forse meno probabile, sarebbe da interpretare come “valle di coloro che non sono stati ridotti in cenere” (da a- privativo + σπoδòς = cenere + ελoς = valle) ovvero le ombre dei defunti. Questa pianta (Asphodelus macrocarpus; A. ramosus; A. albus), -appartenente alla famiglia delle Liliacee, ordine delle Liliales (del gruppo delle piante Monocotiledoni-), dal fusto alto tra gli 80 e i 120 cm, e con belle infiorescenze a racemo terminale, era frequente nelle aree collinari circum-mediterranee: già Esiodo ne cita le virtù terapeutiche, delle quali trattano poi altri autori greci e latini come Teofrasto (Historia Plantarum, IV, 13, 3) e Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXI, 108-110; XXII, 67-72), i quali attestano che di tale è pianta era commestibile tanto il fusto quanto il bulbo.

Nel “prato degli Asfodeli” le anime dei defunti vagavano qua e là svolazzando come pipistrelli e lo stesso Omero nell’ultimo libro dell’Odissea (XXIV, ) ci mostra le anime dei Proci, rimasti vittime della vendetta del Laerziade, le quali sotto la guida di Hermes, il dio “psicopompo”, che aveva tra i suoi compiti quello di condurre le anime all’Ade, si dirigono in folto stuolo verso il prato degli Asfodeli, emettendo un tenue stridore come usano fare i nottivaghi Pipistrelli quando si riparano nelle grotte.

Hermes psicopompo in un affresco romano.
Hermes psicopompo in un affresco romano.

Il luogo a cui sono destinati i reprobi è il Tartaro concepito come un’entità primigenia venuta ad essere subito dopo, -o insieme a- Chaos (2) e Gaia (Terra) e immaginato a costituire la parte più oscura e profonda del cosmo. Secondo i miti cosmogonici più antichi in esso erano inviate le generazioni divine primeve spodestate e sconfitte da quelle seguenti: Urano vi rinchiuse i Ciclopi e gli Ecatònchiri, Crono i Titani suoi fratelli, e poi Zeus i Giganti e tutti gli esseri più o meno mostruosi che tentarono di abbattere il suo potere e l’ordine cosmico da lui instaurato (è questa la versione attestata in Omero, -si veda Iliade, VIII, 478 e seguenti). In seguito in esso vennero inviati tutti i semidei dalla natura titanica che si ribellarono a Zeus o in qualche modo cercarono di sottrarsi alla sua autorità e di infrangere le sue leggi (come Prometeo, Tàntalo, Issione, Sisifo). Infine fu considerato la parte dell’oltretomba al quale sono condannati tutti i reprobi, che in vita si macchiarono di colpe gravi, -e dunque vere e proprie trasgressioni dell’ordine umano e divino e non semplici atti di intemperanza (intesa come incapacità di controllare pulsioni naturali in sé non negative in assoluto, che trascinano l’uomo verso il basso, come disse Platone nel Fedro)-.

Dal poeta Esiodo sappiamo che il Tartaro è tanto lontano dalla Terra quanto quest’ultima lo è dal Cielo, e che un’incudine gettata verso di esso dalla superficie terrestre impiegherebbe nove giorni e nove notti per giungere al fondo; questo luogo tenebroso è circondato da una cinta di mura di bronzo e la Notte lo avvolge nelle sue spire con un triplice cerchio. In esso si trovano le radici della terra e del mare -e dunque sembra che abbia una funzione positiva, sia uno degli elementi in cui articola il trimundio-. In una interpretazione psicoanalitica, si potrebbe vedere in esso la sede delle pulsioni più primitive e violente dell’inconscio.

Nel Tartaro affondano le radici della Terra e del Mare (Ponto); e qui abita la figlia maggiore di Oceano e di Teti, la funerea Stige, in un palazzo sostenuto da argentee colonne, presso il quale scaturisce la sorgente che alimenta il fiume infernale omonimo, che con nove ampie circonvoluzioni recinge l’abisso tenebroso. Sull’acqua di tale sorgente prestano giuramento solenne gli dei, bevendone da una coppa d’oro portata sull’Olimpo da Iride, la divina messaggera, quando Zeus voglia accertarsi della loro sincerità. Se tale giuramento fosse fallace, il dio che l’avesse incautamente pronunciato rimane privo di sensi per un anno (ma questo lasso di tempo è da intendersi come un “grande anno”, cioè un ciclo cosmico intercorrente tra la congiunzione di tutti i luminari e pianeti) e in seguito è condannato a stare in esilio dall’Olimpo per nove anni. Nel Tartaro, hanno la loro dimora anche molte altre figure che sembrano più allegoriche che mitologiche in senso stretto e che incarnano tutti i mali e le sciagure che tormentano l’esistenza dei mortali (Fame, Malattia, Guerra, Vecchiaia, Dolore, Vendetta, Rimorso, ecc.), nonché divinità primordiali legate alla vendetta e alla punizione (le Eumènidi o Erinni), e i due gemelli Hypnos e Thanatos (il Sonno e la Morte) che sono tutti figli dell’Erebo (che è la personificazione del mondo sotterraneo in genere) e della Notte (come peraltro Hemera -il Giorno, che però in greco è femminile- ed Etere, la pura luminosità della parte superiore del cielo terrestre, ovvero lo spazio cosmico).

Questa concezione del mondo sotterraneo presenta una notevole somiglianza con la cosmologia germanica: infatti in quest’ultima l’albero cosmico (il frassino Yggdrasil), -intorno al cui fusto si collocano i nove mondi (dei quali il più alto è l’Asgard, la dimora degli dei e il più basso il Niflheim, il regno dei morti)-, ha le sue radici, che sono le radici della Terra e del Mare, nel mondo infero, il “Niflheim”, -la “Dimora delle Nebbie”-, corrispondente al Tartaro ellenico, -anch’esso definito da Esiodo “fosco di nebbie” (Teogonia, 736). Sotto le radici dell’albero si trovano le sorgenti di alcuni fiumi, tra le quali la sorgente di Urdhr, la dea del destino, le cui acque, come quelle di Stige, hanno virtù profetiche e rigeneranti.

Dal connubio tra Gaia e Tartaro nacque l’immane Tifone -o Tifeo-, che la Madre Terra generò appunto per vendicare i suoi diletti Titani, puniti da Zeus. Questo essere mostruoso alto come una montagna aveva cento teste di drago dalle cui bocche eruttava fiamme. Unitosi ad Echidna, un altro terribile mostro, dalle sembianze di donna nel tronco e di grosso serpente nella parte inferiore, feroce e antropofago, divenne il padre di una numerosa progenie di esseri mostruosi quali il cane tricipite Cerbero, guardiano degli Inferi, un altro cane a due teste chiamato Ortro, l’Idra di Lerna e la Chimera. Dal connubio incestuoso che Echidna ebbe con il proprio figlio Ortro, partorì la Sfinge e il Leone di Nemea.

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Ricostruzione dei percorsi di Ulisse e di Enea verso gli Inferi.

Tifone è colui che compie l’ultimo tentativo di contrastare il nuovo ordine cosmico incarnato da Zeus e dagli dei olimpici per restaurare il potere delle forze tenebrose primigenie che avevano dato vita all’Universo, ma in forma di un coacervo di energie incontrollate e violente. Egli in un primo tempo riesce a prevalere e a fare prigioniero lo stesso Zeus, mentre i dodici dei olimpici, con poca dignità fuggono in Egitto trasformandosi in animali (dal tale fatto secondo una tesi sostenuta da alcuni mitografi greci deriverebbero le sembianze animali degli dei egiziani); ma poi con l’aiuto determinante di Eracle essi riescono a vincere il mostro, che viene rinchiuso nelle viscere dell’Etna, donde continua a vomitare fiamme e lava incandescente.

Platone immagina (Fedone, LX-LXI) il Tartaro come una sorta di baratro imbutiforme che raccoglie le acque sotterranee che ora si raccolgono in esso ora vengono respinte verso l’alto con un moto simile ad una pulsazione regolare e intermittente da cui si generano numerosi fiumi dei quali alcuni vanno verso il basso ed altri verso l’alto. Di essi i principali sono quattro: l’Oceano, che innalzandosi giunge fino al Mediterraneo, che è il lago di cui è immissario; l’Acheronte, che segue un cammino in senso contrario e inabissandosi crea la palude Acherusiade, -la quale è il corrispondente infero del Mar Mediterraneo-; il terzo fiume è il Piriflegetonte, che nasce a metà tra i primi due e, -come dice il suo nome-, è un fiume di fango bollente e infuocato, cioè di lava; infine v’è lo Stige, che scorre in direzione contraria al Piriflegetonte, e dopo aver girato a spirale rientra nel Tartaro espandendosi nel lago Cocito (3).

Si noti inoltre che nella concezione cosmologica esposta da Socrate,- sempre nel “Fedone”-, il globo terrestre è immaginato costellato di cavità, ove si addensano gli strati più impuri e pesanti dell’aria. L’umanità abita in una di queste, in mezzo alla quale si estende il mar Mediterraneo, credendo di trovarsi alla superficie della Terra e ignorando l’esistenza degli abitatori delle altra cavità. La vera terra sovrasta immensa il nostro piccolo mondo ed è rivestita di plaghe luminose rifulgenti di splendidi colori che le donano alberi, fiori e soprattutto pietre levigate e trasparenti tutte della natura delle pietre preziose da noi conosciute e oltremodo rare nella cavità che riteniamo sia la Terra.

Il luogo destinato ai virtuosi è invece il meraviglioso giardino dei Campi Elisi, del quale abbiamo trattato nella parte precedente, e che seguendo la tesi di Platone si trova sulla “vera Terra”, della quale abbiamo detto poc’anzi. Infine le Isole dei Beati attendono coloro che dopo aver vissuto per tre volte sulla terra seguendo le vie della virtù e della giustizia, conforme all’idea sostenuta dalla dottrina di Orfeo. Infatti, -come abbiamo visto in altre trattazioni parlando della religione orfica-, nell’età classica si fa strada l’idea della trasmigrazione delle anime, -che sembra presso i greci sia stata sostenuta per primo da Ferecide di Siro, considerato il maestro di Pitagora-: attraverso una serie più o meno lunga di incarnazioni sulla terra (cioè la cavità che chiamiamo “terra” secondo Platone), rivestendo più volte un involucro corporeo, le anime, o almeno la maggior parte di esse, possono progredire nel loro cammino di evoluzione spirituale per un tempo assai più lungo di quanto non sia possibile in una singola vita, e giungere prima o poi alla salvezza, -alla quale ovviamente ben pochi potrebbero aspirare nel breve spazio di una esistenza terrena-. In questa prospettiva peraltro, in cui il corpo è considerato un limite e un fardello, la “tomba” dell’anima, la meta finale diventa il ricongiungimento con il principio divino dal quale era venuta.

Oltremodo significativa e interessante è la rappresentazione che Platone fa della sorte oltremondana delle anime nel Fedone -dialogo che, ricordiamo, è immaginato avvenire nell’imminenza della condanna a morte di Socrate-, in particolare negli ultimi capitoli (LVII-LXII), e che si può riassumere nel modo seguente: il filosofo distingue innanzitutto tra le anime di coloro che sulla terra vissero bene e santamente e quelle il cui operare fu contrario alla giustizia; anche tra i primi si può fare un’ulteriore distinzione: quelli che si segnalarono per virtù e coloro che seguirono la filosofia (che, come sappiamo, non era intesa come una semplice attività intellettuale, ma anche e soprattutto come un ideale di vita). Di costoro i primi vengono condotti nelle “Isole dei Beati”, dove potranno vivere in uno stato di felicità spirituale, che però non è definitivo, poiché prima o poi dovranno tornare sulla terra in forma di persone perbene o comunque di animali miti e mansueti come colombe, api o formiche; ai secondi invece, i “filosofi”, è destinata l’eterna dimora in una sorta di paradiso celeste tra le stelle (e questa concezione presenta dunque analogie con quella similare egizia).

Le anime dei “peccatori” sono a loro volta divise in tre categorie: quelli che commisero colpe non gravi; coloro che si resero colpevoli di peccati gravi ma che possono essere adeguatamente espiati (ad es. coloro che divennero omicidi in un impeto di collera e poi si pentirono del loro gesto); coloro che invece si macchiarono di colpe oltremodo infami o nefande, -o perché orribili in sé stesse per crudeltà o dispregio di ogni legge umana e divina, o perché scelsero un cammino di vita intrinsecamente malvagio (come potrebbero essere, per dirlo in termini moderni, mafiosi, terroristi, delinquenti professionisti, ecc.)-(4). Questi ultimi sono sprofondati nel Tartaro dove subiranno gli effetti di tutto il male che avevano arrecato ad altri in vita e donde non potranno più uscire (e quindi non si reincarnano); le anime delle prima categoria giunte sulle rive dell’Acheronte trovano delle barchette con le quali vengono trasferite nella palude Acherusia dove espiano i loro peccati per un tempo più o meno lungo dopo di che tornano sulla terra; i colpevoli di peccati gravi, ma sanabili vengono anch’essi mandati nel Tartaro, ma vi rimangono per un solo anno, dopo di che sono respinti dalle onde (poiché il Tartaro è immaginato come un baratro dove confluiscono tutti i fiumi infernali) nei fiumi infernali attraverso i quali convergono anch’essi nella palude Acherusiade. Qui arrivati, essi chiamano e supplicano coloro che uccisero, o offesero, o arrecarono comunque danno, onde impetrare il loro perdono: se riescono ad ottenerlo possono reincarnarsi; diversamente, sono destinati ad essere trascinati di nuovo nel Tartaro, donde trascorso un anno saranno riportati nella palude Acherusia e ripetere la stessa trafila finchè non saranno riusciti ad ottenere il perdono delle loro vittime (5).

In parallelo a questa nuova concezione del principio spirituale, dall’antico strato delle religioni arcaiche vengono evolvendosi le religioni salvifiche o misteriche (6), che si sovrappongono alle precedenti senza soppiantarle, ma integrandosi con esse e magari dandone una nuova interpretazione: dalla ricerca della “salvezza minore”, per cui si pregano gli dei per essere salvati dai pericoli o scampare da essi, guarire le malattie, propiziarsi copiosi raccolti, assicurarsi il successo personale, insomma per rendere l’esistenza terrena meno dura e penosa, evitando o attenuando i molti e gravi rischi che incombono su di essa, si passa all’anelito verso la “grande salvezza”, la “vita eterna”, pienezza e totalità dell’essere, in cui partecipare di una condizione simile o uguale a quella degli dei. Questo processo in tempi, modi e forme differenti -ma poi non tanto diversi- si presenta in tutte le religioni o civiltà “superiori” (ma in effetti pure in quelle primitive o etniche se ne vedono tracce): dalla salvezza nell'”al di qua”, ci si volge alla salvezza nell'”al di là”. In questa evoluzione il significato di molti miti e culti in origine legati alla terra, all’agricoltura e agli eventi naturali e cosmici che scandiscono e ai quali è intimamente legata la vita dell’uomo subisce una profonda trasformazione così che questi divengono simboli di redenzione: da qui la ricca simbologia legata al grano e ad altri cereali, al vino, ai frutti della terra in genere, così come i fenomeni legati all’alternanza delle stagioni: dalla “morte” nell’autunno-inverno alla rinascita in primavera.

Nel mondo ellenico questo anelito di salvezza si manifestò nella dottrina e nella spiritualità orfiche, -di cui abbiamo trattato nella rima parte della presente ricerca, nonché nella seconda parte di “Quel savio gentile che tutto seppe (Virgilio e Orfeo)” del 12 aprile 2013-, e nei Misteri di Eleusi. Su questi ultimi ci limitiamo ora solo ad alcuni accenni, ricordando che il mito ai quali si ispiravano e che proponevano come via salvifica era quello del rapimento di Persèfone, figlia di Demetra, ad opera di Plutone e delle affannose peregrinazioni della dea madre per ritrovare la fanciulla, che si concludono con un compromesso per il quale Persefone trascorre una parte dell’anno sulla terra con la madre e una parte agli Inferi con Plutone. Tale mito che nel suo significato più evidente adombra l’alternarsi delle stagioni e il ciclo vegetativo della Natura (ed è quindi affine a quello di Adone) diviene il simbolo e la metafora del destino dell’anima umana (e in questo senso si può dunque affiancare anche la mito di Amore e Psiche, magistralmente evocato da Apuleio nelle “Metamorfosi”)(7).

Dalle testimonianze lasciate dagli antichi autori, sebbene frammentarie e talora contraddittorie (anche perché com’è risaputo, gli iniziati erano tenuti al segreto sui riti ai quali avevano partecipato) si può inferire che lo scopo e l’effetto attribuito a tali celebrazioni psicagogiche fosse quello di vincere il timore della morte e della sorte ultraterrena e di fare esperienza della vita nell’al di là prima del decesso fisico. Si era convinti inoltre che gli iniziati ai Misteri Eleusini una volta giunti nell’Ade dopo la dipartita dal mondo terreno avrebbero potuto godervi di una condizione assai migliore di quella dei comuni mortali.

Tuttavia nella religione e nel pensiero ellenico la vera e propria idea di anima (ψυχη’), ben distinta dal corpo fisico e che è la vera essenza dall’uomo, appare formulata in modo compiuto solo a partire da Platone. Nella concezione espressa da Omero quanto rimane dei defunti e che permane nel regno dell’oltretomba non è che un “εiδωλoν”, un’immagine, uno spettro, un’ombra (e “idòla” sono quelle che Ulisse incontra nell’Ade); oppure può essere qualificato come “θυμòς”, vapore, fumo (termine quest’ultimo che, tramite il latino “fumus”, è l’equivalente etimologico di thimos, sebbene in greco tale termine abbia assunto il significato di “animo, sentimento, passione, ardore”). In effetti nei poemi omerici e negli autori seguenti compare anche il termine “psichè” ma esso indica essenzialmente il respiro, il “soffio vitale”, la cui presenza è rivelata negli esseri viventi dalla respirazione; esso esce definitivamente dal corpo al momento della morte dalla bocca, dalle narici o dalle ferite nel caso di una fine violenta come quella dei guerrieri caduti nella guerra di Troia (e che dunque si potrebbe paragonare al “prana” nel pensiero indiano).

Demetra (o forse Persefone) che tiene in mano i simboli dei Misteri di Eleusi, -nonché della morte e resurrezione-: le spighe, le capsule di papavero e i serpenti.

Codesta “anima-soffio-immagine”, essendo incorporea, sfugge al contatto fisico con i viventi come fumo od ombra; ma è pure un riflesso visibile, una sorta di “doppio eterico” del defunto che può manifestarsi ai vivi nel sogno. Oltremodo significativa in tal senso è la testimonianza di Omero allorché egli in Iliade, XXIII, 81-137 descrive l’apparizione della “psichè” di Patroclo ad Achille durante il sonno: “…Ed ecco/ comparirgli [ad Achille] del misero Patroclo/ in vision lo spettro, a lui del tutto/ ne’ begli occhi simile e nella voce,/ nella statura, nelle vesti, e tale/ sovra il capo gli stette…”. Patroclo si duole con l’amico che questi si sia dimenticato di lui e abbia lasciato le sue povere spoglie mortali abbandonate ed insepolte, impedendogli così di trovare la pace nell’Ade ove solo le anime di coloro che fossero stati inumati o cremati potevano essere accolte. Dopo aver promesso che avrebbe esaudito la sua richiesta, Achille tenta di abbracciare il suo diletto, ma invano, poiché rivelandosi solo ombra intangibile, la sua anima svanisce quale fumo risucchiato dalla terra.

Unita al corpo o da esso separata, la “psichè” non ha ancora alcuna analogia con l’idea di “spirito”, cioè di essenza (o di sostanza) dell’individuo, giacchè non le ineriscono ne la coscienza, né il “pensiero”, -cioè il “φρην”, propriamente il diaframma intestinale, che era considerato la sede di esso-; distaccatosi dal corpo, il “soffio”, ovvero la “psiche”, mantiene però in qualche modo una forma di esistenza umbratile, come immagine incorporea -le fattezze del corpo da cui è uscito e che ha la sua normale dimora nell’Ade, il regno dei defunti, simile dunque all'”arallu” mesopotamico e allo “sheol” ebraico. Un’offerta di sangue in un sacrificio per essi celebrato può ridonare loro l’energia vitale fisica (o eterica) di cui sono stati privati, richiamandoli così, ma solo per breve tempo, ad una parvenza di umanità e di coscienza, -come vediamo nel libro XI dell’Odissea, vv. 1-49, dove Ulisse, giunto alle soglie degli Inferi, evoca l’ombra dell’indovino Tiresia per poterla consultare e a tal fine seguendo i consigli di Circe, immola un ariete e una pecora neri, per bere il cui sangue sorgono un nugolo di anime anelanti a riprendere un barlume di vita-. Tuttavia vi era la credenza, -comune a moltissime culture e civiltà di ogni tempo e luogo- del “ritorno” delle anime o degli spettri dei defunti (“κηρες”) in alcuni periodi dell’anno e in particolare nei tre giorni in cui venivano celebrate le feste “Antesterìe” (l’11, 12 e 13 del mese di Anthesterion corrispondente all’incirca a febbraio-marzo), e pertanto essi venivano onorati e placati con l’offerta di zuppe di cereali e legumi nel terzo giorno di tale ciclo festivo, che per tale ragione era detto “il giorno delle pentole” (usanza da cui deriva quella tuttora conservatasi di dolci da consumarsi in occasione della commemorazione dei defunti -si veda al riguardo la prima e seconda parte della ricerca su “La Festa di Halloween e la Commemorazione dei Defunti”, del 12 e 29 ottobre 2014).

Nella testimonianza data da Esiodo però, -come abbiano già visto sopra-, la concezione dell’oltretomba appare già profondamente modificata, poiché la sorte ultraterrena delle anime si diversifica secondo il comportamento da esse tenuto in vita e le virtù e i vizi di cui hanno dato prova. Ma secondo l’arcaico poeta greco il destino delle anime umane dopo la dipartita da questo modo variò anche nel volgere delle cinque età del mondo da lui descritte in “Le Opere i Giorni” (109-201): gli umani dell'”Età dell’Oro” al termine della loro esistenza venivano colti da un sonno simile a quello che scende sull’uomo stanco per lungo oprare ed erano trasformati per decreto di Zeus in “daimones”, cioè in spiriti superiori intermedi tra uomini e dei; gli umani vissuti nell'”Età dell’Argento”, avendo provocato la collera degli dei sono trasformati in “demoni sotterranei”; la sede ultraterrena assegnata invece a coloro che vissero nell'”Età del Bronzo”, a cagione della loro violenza ed empietà, è invece l’Ade, il regno delle ombre alle quali sono ridotti gli umani -ovvero la condizione che in Omero attende tutti i mortali-; migliore è invece lo “status” oltremondano dei rappresentanti della quarta razza, quella degli Eroi dei quali alcuni sono morti per sempre mentre altri, i più nobili e ardimentosi, sono stati destinati da Zeus a godere dell’eterna felicità nelle “Isole dei Beati” (8)(9). Nell’attuale “Età del Ferro” invece la sorte “post mortem” delle anime è quella che abbiamo descritto in precedenza.

Osserviamo che i termini considerati (“psichè”, “thymòs”, “phren”), così come il latino “animus” e “anima” -connessi al greco “ànemos” = vento- (che si differenziano tra di essi poiché mentre il primo indica un principio intelligente di volontà, il secondo esprime la forza vegetativa, l’energia vitale), sono tutti legati all’idea di soffio, respiro, alito, che era percepito come l’elemento immateriale dell’uomo e degli animali (o quali sono così chiamati proprio dall’avere un’anima). Ugualmente riferiti a tale ambito semantico sono il latino “spiritus” e il greco “πνευμα”; quest’ultima espressione che già era stata impiegata dal presocratico Anassimene di Mileto per indicare l’aria, da lui considerata “archè”, il principio dell’universo in quanto soffio che anima gli esseri viventi, e poi dagli Stoici; ma ebbe particolare fortuna nel pensiero cristiano a partire da S. Paolo, il quale ipotizza una tripartizione dell’uomo in corpo (soma), anima (psichè) e spirito (pneuma) ( I Tessalonicesi, V, 23), da cui la classificazione introdotta dagli Gnostici tra gli umani in “iliaci” (da “hyle” materia), discesi dalla “materia negativa”, creatasi dalla passione di Sophia Achamoth, irrimediabilmente trascinati dalle passioni più sensuali e deplorevoli, che non possono aspirare alla salvezza; “psichici”, fatti a somiglianza del Demiurgo (identificato con il dio dell’AT), che saranno salvati alla fine dei tempi dopo che, secondo alcune scuole, si saranno purificati al termine di una serie di incarnazioni: per essi, dotati di libero arbitrio, è venuto il Cristo sulla terra a portare la salvezza; infine gli “pneumatici”, gli spirituali, gli illuminati, gli gnostici per eccellenza che custodiscono in sé i semi spirituali di Sophia Achamoth all’insaputa del Demiurgo. Si potrebbe paragonare questa tripartizione alla descrizione che abbiamo visto nel Fedone platonico riguardo alla sorte ultraterrena delle anime guidate alla loro dimora dal “demone” che avevano seguito in vita, ma con l’importante differenza che mentre per Platone la massa dell’umanità si trova nelle categorie intermedie, -che possono farsi corrispondere agli “psichici”, mentre gli scellerati e i filosofi corrispondono rispettivamente agli “iliaci” e agli “pneumatici”-, secondo gli Gnostici la maggioranza degli uomini appartiene alla prima categoria, agli iliaci, i reprobi senza speranza; molto minore è il numero degli psichici; ristrettissimo quello degli penumatici (10).

Con “psiche”-“anima” e “pneuma”-“spiritus” si possono identificare, ma in modo approssimativo, i concetti di “nefesh” e “ruah” degli Ebrei e di “ba” e “ka” degli Egizi, che abbiamo più volte citato nelle nostre trattazioni.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

NB: la terza parte è stata ripubblicata in data 24 novembre 2017.

Note

1)in effetti il nome esatto dovrebbe essere “prato Asfodelo” (Aσφoδελoν Λεiμων).

2) si tenga presente che la parola “Chaos” non aveva il significato attuale, -improprio- di disordine, insieme incoerente di cose eterogenee; ma, conforme all’etimologia del nome, -connessa con χαυ, -νoς, = vuoto; χαiνo = aprirsi, l’aggettivo χυνoς = poroso, ecc., e con il latino “caelum” (indicante qualcosa di vuoto, di cavo) nonché con il verbo hio, -are, = tenere la bocca spalancata-, quello di cavità, abisso, vortice dal quale escono degli enti incoordinati, che tuttavia nella primitiva concezione espressa da Esiodo è anch’esso personificato poiché gli è attribuita una progenie, l’Erebo e la Notte. In una proiezione metafisica il Chaos è l’essenza immanifesta, il “vivaio del Cosmo”; per Anassagora e Platone (nel Timeo) è il serbatoio della materia indifferenziata dalla quale il Logos o il Demiurgo attingono per la creazione del mondo armonicamente ordinato. Da questo termine greco è derivato il nome del “gas”, termine che fu coniato nel 1630 dal chimico J. B. van Helmont per designare la materia aerifome distinta dall’aria, dal vapore acqueo e dal fuoco: “Ad huc spiritum incognitum Gas voco” scrisse nella sua opera “Physica” (“Questo ancora sconosciuto spirito chiamo Gas”).

3) è degno di nota che il Tartaro è citato anche nei testi canonici del NT: nella II lettera di Pietro (II, 4) si afferma che Dio precipitò nel Tartaro gli angeli ribelli che avevano peccato in attesa del giudizio finale.

4) istituendo un confronto con la “Commedia” di Dante, potremmo dire che le anime della prima categoria (ignavi o colpevoli di peccati lievi) corrispondo a coloro che errarono “per troppo di vigore”, ovvero per eccesso di trasporto per beni transeunti e imperfetti (lussuriosi, golosi, avari), o per “poco di vigore” verso il sommo bene (ignavi, accidiosi); quelle della seconda e terza ai peccatori “per malo obietto”, perché la loro volontà fu tesa al male (si veda Purg. XVII, 85-139).

5) osserviamo che il carattere acquatico del Tartaro lo avvicina all'”arallu” ( o “kigallu”) babilonese e allo “scèol” ebraico. D’altro canto, pur essendo molto meno complessa, e a volte imprecisa e incoerente, la struttura dell’Ade di Platone presenta significative analogie con quella dell’Inferno di Dante.

6) mistero (mysterium) deriva, o è comunque connesso con il verbo “μυo, -ειν”,  = stare zitti, tacere ed esprime quindi l’imperativo del “silenzio” e del “segreto” che caratterizzava, almeno in origine, queste credenze e riti religiosi. Peraltro è incerto se il silenzio a cui si fa appello e riferimento sia quello da osservare durante la celebrazione dei riti, ovvero la segretezza a cui erano tenuti gli adepti sulle dottrine alle quali erano stati iniziati, o entrambe.

7) sul mito di Demetra, Persefone e Bacco si veda anche la nota n.12 alla prima parte delle “Osservazioni sulla nascita del cristianesimo” del 6 settembre 2016.

8) in effetti l'”Età degli Eroi” è probabilmente un’inserzione del poeta allo schema più antico del susseguirsi di un ciclo cosmico comprendente quattro età del modo, che doveva far parte del patrimonio religioso originario degli Indo-Europei e che si ritrova nella forma più elaborata e coerente presso gli Indù, ove le quattro età sono chiamate rispettivamente Satya Yuga, Treta Yuga, Dvapara Yuga e Kali Yuga, terminata la quale si ha una palingenesi cosmica dopo la quale il ciclo ricomincia. Ciascun ciclo di quattro yuga costituisce un “Mahayuga”, un “grande yuga” avente la durata di 4 milioni e 320mila anni; mille “Mahayuga” costituiscono a loro volta un kalpa, un “giorno di Bhrama. Un simile successione si ritrova anche nella mitologia germanica, dove pure si contempla la progressiva decadenza del genere umano e l'”invecchiamento” del cosmo, che si conclude al “Ragnarok”, la conflagrazione cosmica seguita dalla rinascita e dal ritorno dell’età dell’oro.

9) delle “Isole dei Beati” o “Isole Fortunate” abbiamo già parlato sia nella prima parrte della presente ricerca, sia nella terza parte di “Le Amazzoni ad Atlantide” del 22 ottobre 2013.

10) dobbiamo peraltro rilevare che anche Plutarco di Cheronea nel “Perì tou Sòcratous Daimoniou” teorizza una tripartizione dell’uomo in tre entità: corpo (soma); anima (psichè); mente (nous), pur se quest’ultima, -il nous-, non ha alcun rapporto con l’idea di “spirazione”, ma è legata alla “psichè” durante la vita terrena.

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